Diario di torture di una monaca tibetana





Ngawang Sangdrol è il simbolo della forza
interiore per molti pacifisti nel mondo. Entra
nella stanza di un circolo milanese a piccoli
passi trascinati sotto la lunga gonna color
porpora di tessuto pesante. Il maglione tibetano,
con ricami naif, crea un leggero contrasto. Ha un
corpo e un viso di bambina. Ci guarda con gli
occhi neri senza accennare un sorriso: quello che
sta per raccontare è un dolore che non può essere
compreso. La storia di un'adolescenza interrotta.
Il diario di torture subite per anni. Arrestata
per la prima volta dalla polizia cinese quando
era solo tredicenne, la giovane monaca tibetana
(oggi 28enne) è rimasta in carcere dal 1990 al
1991 e dal 1992 al 2002.

"I miei genitori mi parlavano spesso delle
violenze compiute dagli invasori cinesi contro i
tibetani a partire dagli anni '50. Fino a quando
le ho viste con i miei occhi. Nel 1990 io e altre
tredici monache abbiamo gridato in piazza gli
slogan "Lunga vita al Dalai Lama" e "Tibet
Libero". I poliziotti cinesi per questo ci hanno
picchiate e arrestate. Una volta entrate nel
carcere, ci hanno legato le mani e messo una
corda al collo. Altre persone intorno a noi
venivano impiccate. Ci hanno percosso con catene,
tubi e bastoni elettrici di varie misure sulle
mani, sulla bocca e sul petto. Siccome ero
piccola, mi hanno capovolta come un giocattolo e
fatto sbattere la testa a terra. Mentre mi
facevano dondolare, fischiavano e lanciavano
insulti". Sangdrol viene rilasciata dopo nove
mesi perché è troppo giovane per essere
processata, ma le viene impedito di rientrare in
monastero. Nel 1992 ritorna dietro le sbarre per
aver partecipato a una manifestazione
indipendentista a Lhasa, ex capitale del Tibet.

La storia di Sangdrol. "In prigione - continua la
monaca - non potevamo pregare. Arrotolavamo
palline con il poco pane che ci davano per farne
un rosario. Se ci scoprivano recitare il mantra
(preghiere tibetane, Ndr.) ci davano pugni sulla
bocca. Poi ci lasciavano per ore fuori al freddo,
sulla neve. Oppure ci facevano correre a piedi
scalzi sui sassi. Ogni giorno marciavamo. Oltre
sessanta detenuti dovevano battere i piedi in
modo simultaneo per produrre un unico suono. In
estate, quando il sole del Tibet è cocente,
dovevamo stare eretti con un libro sulla testa o
dei giornali sotto le ascelle. Mentre cercavamo
di mantenere l'equilibrio, le guardie ci tiravano
i piedi e le mani. Se cadeva qualcosa, arrivavano
le botte. Molti prigionieri avevano una salute
precaria e se si accasciavano a terra non potevo
aiutarli a rialzarsi, perché sarei stata punita".

Nel 1993 la ragazza incide di nascosto con altre
detenute un'audiocassetta con canzoni e poesie
indipendentiste. Il nastro, fatto uscire
segretamente dal carcere, circola in centinaia di
copie in tutto il Tibet. "Quando ci scoprirono -
spiega Sangdrol - aumentarono la nostra condanna.
Ma continuammo a protestare. Nel '96 rifiutai di
alzarmi in segno di rispetto durante la visita di
alcuni funzionari cinesi. Mi misero in cella di
isolamento e aumentarono ulteriormente la
condanna. La stanza era piccola, buia e fredda.
Ci davano da mangiare solo un pezzo di pane di
mattina. Ovunque c'erano insetti e topi. Rimasi
lì dentro sei mesi. Nel 1998 issarono la bandiera
cinese in carcere e ci fu una grande rivolta dei
prigionieri. Le guardie spararono contro alcuni
di noi e ne picchiarono altri. Il cortile era
tutto ricoperto di sangue. Quel giorno ho preso
talmente tante botte sul capo, che ho pensato di
morire. Una ragazza però si è lanciata su di me
ricevendo i colpi al mio posto. Mi ha salvato la
vita".

"Facevamo diversi lavori. Curavamo le piante
nelle serre a temperature alte e senza alcuna
protezione dagli insetticidi. Per fertilizzare la
terra ci obbligavano a usare le feci umane. Poi
dovevamo lavorare a maglia. Spesso ci
sanguinavano le dita, ma non potevamo medicarci.
I medici della prigione non soccorrevano nessuno.
Ho visto tre persone morire di fame. A pranzo ci
davano una zuppa con terra e insetti e da bere
solo una tazza di tè nero al giorno. Quando ci
vedevano assetati, aprivano i rubinetti e
lasciavano scorrere l'acqua davanti a noi. La
domenica era giorno di digiuno forzato. Eravamo
sempre affamati".

Fonte:
http://www.peacereporter.net/dettaglio_articolo.php?idpa=&idc=7&ida=&idt=&id
art=1456