Comunicato 11 settembre '04 GlobalBeach



Comunicato sabato 11 settembre 2004


Ci rivolgiamo a voi tutti riuniti a Roma, nel tentativo di sciogliere
alcuni nodi della matassa, drammatica e complessa, che ci viene consegnata
dai fatti di Beslan e dal rapimento delle due attiviste di "un Ponte per",
con l'esigenza, chiaramente, di parlare del movimento e della fase che sta
attraversando.

Partiamo intanto col dirvi perché non siamo a Roma e dove ci troviamo in
questo momento. Da più di 10 giorni abbiamo occupato una spiaggia del lido
di Venezia, uno spazio balneare della Polizia dello Stato abbandonato da
nove anni, dando vita ad una TAZ (Zona Temporaneamente Autonoma) in
occasione della Mostra del Cinema di Venezia: Global Beach. Qui, raggiunti
da tante e tanti precari, intermittenti francesi, mediattivisti, registi e
attivisti del giornalismo globale, attori e scrittori, abbiamo costruito un
laboratorio politico inedito. Abbiamo attraversato la Mostra del Cinema con
azioni, "benedette" da San Precario, sulla precarietà e sui diritti dei
migranti, abbiamo prodotto un evento culturale e politico che ha avuto
(grazie alla presenza di Naomi Klein e di Tim Robbins, oltre alle centinaia
di persone accorse per ascoltarli!) la guerra e le forme di resistenza
possibili al centro della discussione.

Global Beach ha tentato di posizionarsi su un terreno nuovo di
sperimentazione. Il terreno dell'esemplarità e della ricerca, esodante
rispetto al deja vu della linea politica o dello scontro delle linee
politiche dentro uno spazio relazionale statico. È per questo anche che
abbiamo deciso di non essere a Roma, perché nulla nella presentazione dei
lavori alludeva a questo desiderio di nuova ricerca, all'assunzione dei
limiti e dell'esaurimento ormai inaggirabile di un ciclo di movimento, così
come l'avevamo conosciuto a Seattle, a Genova e nei due anni successivi in
Italia.

Il movimento è una cosa viva, e non statica, cristallizzata, eterna e
sempre uguale. Agisce e si esprime in termini biopolitici, e non politici.
E non si può, secondo noi, pensare al movimento come alla fotografia delle
sue vecchie dinamiche di rappresentanza. Bisogna definire conclusa
l'esperienza e soprattutto la finzione del "gruppo di continuità", dei
portavoce e del GSF. Dobbiamo oggi ripensare al movimento, al nuovo ciclo
di lotte e progetti che ci si apre davanti, come ad uno spazio biopolitico
globale in costruzione. Portiamo con noi l'accumulo di esperienze, gioie e
dolori, tragedie e vittorie del ciclo precedente. Abbiamo imparato,
dall'Argentina all'Europa, che ciò che serve non è una "linea politica", ma
un flusso di esemplarità, di esperienze da mettere in rete, un flusso di
produzione di significato, di senso, che scriva collettivamente una nuova
storia. Ma è anche necessario per noi definire lo spazio pubblico e
biopolitico che il movimento di moltitudine e progetti si può conquistare:
uno spazio determinato dal suo essere in conflitto, radicale e netto, con
l'Impero, con la guerra globale permanente, con le forme nuove e terribili
di sfruttamento imposte sull'uomo e sul pianeta.

Va da sè che esprimere esemplarità significa farlo a partire da
orientamenti aperti ma nello stesso tempo situati dentro contesti,
esperienze e storie politiche. Orientamento per noi significa accumulo e in
questo abbiamo imparato quanto fa male ai movimenti costruire spazi
politici statici o affidarsi alle linee di partito. Quanto accaduto negli
ultimi mesi, fino all'intervista di Bertinotti su La Repubblica dell'altro
ieri, ne sono la testimonianza più significativa. Mai come adesso la
questione dell'autonomia dei movimenti si fa questione ineludibile, meglio,
lo era già un po' di tempo fa, ad esempio dopo il 4 ottobre, data di inizio
della campagna di Rifondazione sulla "violenza-nonviolenza" che ha tentato
di introdurre pericolosissimi ed artificiosi steccati culturali e politici
all'autonomia del movimento. In quella occasione però fummo tra i pochi a
dirlo e a ripeterlo con forza. Quello che accade oggi è la conseguenza di
quella strada intrapresa allora da questi signori. E' anche frutto delle
ingenuità di noi tutti, che al tempo di Genova non abbiamo compreso quanto
fosse importante definire lo spazio di movimento come "spazio libero dai
partiti". Abbiamo lasciato che Rifondazione giocasse con facilità la carta,
falsa, del "partito-movimento", ed il risultato si vede. E si è visto anche
durante le elezioni.

Veniamo ai fatti e  alle prese di posizione degli ultimissimi giorni. Che
due integralismi fossero a confronto, a partire dall'11 settembre, non
l'abbiamo mai negato. Due integralismi che hanno costituito e costituiscono
lo scenario drammatico della guerra globale permanente. Si tratta, però,
non tanto di un "uguale" contrapposto a un "contrario", ma di un "uguale"
soltanto. È il dispositivo della guerra globale e ordinativa, del "golpe
nell'impero" di Bush che non può che produrre coincidentemente barbarie e
orrore. Parafrasando uno slogan famoso: guerra o barbarie! Esercizio del
controllo, limitazioni delle libertà, produzione di paura, orrore sono le
forme che riguardano entrambe. Quando ci siamo opposti, noi e molti altri
nel mondo, all'uso del binomio "guerra-terrorismo", l'abbiamo fatto per
questo. Il detournamento, operato con forza dalla sinistra specialmente
"comunista" (che ne dite del parallelo di Ingrao tra il rapimento Moro e
quello in Iraq? Che ne dite del Barenghi-pensiero su tagliatori di teste e
marines?) delle caratteristiche nuove e potenti della guerra globale
permanente, che non è la riedizione della guerra imperialista nella
dimensione degli stati-nazione, porta ad una sola cosa: la resa alla
guerra. L'accettazione di un unico mondo possibile, quello ordinato e
controllato dalla guerra globale. Un mondo dove pure è previsto che via sia
un "senato democratico", si chiami Onu o altro, dove la finzione della
condivisione delle scelte e la macchina ad essa connessa della produzione
di opinione e consenso, possa girare a pieno ritmo nonostante le sempre più
evidenti inaccettabili ingiustizie. Dire oggi "siamo contro la guerra e il
terrorismo" apre la strada alla collaborazione con le dinamiche imperiale e
chiude quella delle possibili, e necessarie forme di resistenza alla
guerra. "L'unità nazionale" è una cosa vergognosa e inaccettabile, a
partire dalle convinzioni profonde anche delle due attiviste rapite. Ma
questo gioco lo conduce la sinistra, quella che vuole il "senato
democratico" per andare al governo, e che è terrorizzata dalle forme
radicali di movimento, che la mettono peraltro in discussione. Sta a noi
scegliere da che parte stare, non tra guerra e terrorismo, ma tra il
diritto di resistenza e "collaborazionismo". E come la guerra produce
barbarie, il diritto di resistenza afferma umanità e nuova democrazia, con
ogni mezzo necessario.

I rapimenti delle due attiviste italiane e di due irakeni, assieme a loro,
parlano con la stessa drammaticità dei ventidue milioni di ostaggi irakeni
della guerra, delle migliaia di donne irakene imprigionate e maltrattate
nelle carceri dell'esercito di occupazione. Ci segnalano inoltre il fatto
che target diviene ogni cosa, anche il lento lavoro di tessitura e di
relazione portato avanti da Simona e Simona, lavoro che tentava di rendere
praticabile qualche forma di diplomazia dal basso in Iraq. Ma nella
complessità dello scenario irakeno lo stesso intervento delle Ong, (che
peraltro non sono tutte uguali ) al pari di quello dell'informazione, non
può che essere embedded e quando non lo è viene messo a rischio, senza
differenze, per la stretta coincidenza tra guerra di occupazione e
intervento umanitario.

A tutto questo riteniamo sia gravissimo rispondere con l'opportunistica e
strumentale dismissione dei panni anti-war. Quando due a attiviste anti-war
vengono rapite perché assimilate allo stato italiano in guerra bisogna fare
del tutto per rendere evidente e irriducibile questa radicale differenza
piuttosto che favorire processi noti di "unità nazionale". L'unica via
d'uscita da questa situazione, a nostro avviso, rimane il conflitto e il
sabotaggio materiale della guerra. Non c'è altro spazio politico possibile
per il movimento se non la diserzione attiva dal dispositivo di guerra e di
controllo, l'affermazione "bio-politica" dei diritti e di forme di
democrazia radicale. È evidente che per far questo e per uscire da una
rigida logica di opinione e di testimonianza bisogna mettere al centro del
proprio agire politico il desiderio e non il calcolo. Questa è l'unica
virtù irrinunciabile per un movimento che ritiene di dover affrontare una
nuova fase dentro la velocità sanguinaria della guerra globale, il resto
sono chiacchiere e non discorso, paralisi dell'azione e non conflitto.



GlobalBeach
11.09.04



...  ore 12:50 Tutti in passarella: i ribelli alla guerra, sotto i leoni
della mostra...

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