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ricevo e giro (Zinn è davvero un grande)
- Subject: ricevo e giro (Zinn è davvero un grande)
- From: "Daniele Barbieri" <pkdick at fastmail.it>
- Date: Thu, 19 Feb 2004 19:29:10 +0100
Carissimi/e, vi allego una recensione su "Una storia popolare degli USA", un libro dello storico H. Zinn...ma di pelle nera. Leggere per credere. Il libro sta aprendo gli occhi a un milione di acquirenti negli USA. E questo è una buona notizia. Pace eBene, Gigi ________________________________________________ PER UNA STORIA POPOLARE DEGLI STATI UNITI Il lato oscuro dell'America Howard Zinn Alla fine degli anni '70, quando ho deciso di lanciarmi in questo progetto (scrivere Una storia popolare degli Stati uniti), insegnavo storia da vent'anni. Ero professore allo Spellan College, università di ragazze nere ad Atlanta. Inizialmente avevo partecipato al movimento per i diritti civili nel sud degli Stati uniti, poi ci furono dieci anni di lotta contro la guerra del Vietnam. Sono esperienze che, quanto a «neutralità», danno ben poco a uno storico, insegnante o scrittore che sia. Tuttavia, il mio senso critico era stato coltivato molto tempo prima, dato che ero cresciuto in una famiglia di immigrati della classe operaia di New York, poi avevo lavorato tre anni in un cantiere navale, e infine, durante la seconda guerra mondiale, avevo prestato servizio a bordo di un bombardiere dell'aeronautica militare che decollava dall'Inghilterra per sganciare bombe in Europa, e in particolare sulla costa atlantica della Francia. All'indomani della guerra, ho frequentato la scuola superiore gratuita che era stata concessa a milioni di ex combattenti, fra cui tutti i figli di operai che mai avrebbero potuto pagarsi gli studi <http://www.ilmanifesto.it/MondeDiplo/LeMonde-archivio/ultimo/0401lm21.01.html#1>(1). Ho ottenuto il mio dottorato di storia alla Columbia University, ma grazie alle mie esperienze di vita sapevo che quanto avevo imparato all'università lasciava da parte numerosi elementi cruciali della storia degli Stati uniti. Quando ho cominciato a insegnare e a scrivere, non nutrivo illusioni su cosa fosse «l'obiettività»: evitare di esprimere un certo punto di vista. Sapevo infatti che uno storico (o un giornalista, o chiunque racconti una storia) è costretto a scegliere, in un numero infinito di fatti, quelli che è necessario presentare e quelli che è opportuno omettere. E che tale scelta riflette così, in maniera cosciente o incosciente, i suoi interessi. Alcuni insegnanti e politici che decidono negli Stati uniti ripetono con insistenza che gli allievi o gli studenti devono «imparare i fatti». Questo mi riporta alla mente il pedante Gradgrind, personaggio dei Tempi difficili di Dickens, che rimprovera un giovane insegnante: «Non insegni altro che i fatti, i fatti, i fatti». Ma dietro ogni «fatto» presentato da un insegnante, uno scrittore, o chiunque altro, si trova un giudizio, che consiste nel dire che quel fatto è importante, e che gli altri saranno lasciati da parte. Nella storia ufficiale che domina la cultura americana, vi sono argomenti di un'importanza per me fondamentale e che non trovo da nessuna parte. Queste omissioni ci danno un'immagine deformata del passato, ma - cosa ancora più grave - , ci inducono in errore riguardo al presente. Prendiamo, per esempio, il concetto di classe sociale. La cultura dominante (che si ritrova nella scuola, nella vita politica o sui mass media) sostiene che la nostra società sarebbe priva di classi e che noi abbiamo tutti un solo interesse, l'interesse comune. Nel preambolo della Costituzione degli Stati uniti si legge: «We the people» (Noi, il popolo). È una espressione ingannevole. Nel 1787, infatti, la Costituzione fu scritta da 55 uomini, tutti bianchi e tutti ricchi padroni di schiavi o commercianti, decisi a istituire un'autorità in grado difendere gli interessi della loro classe. Questo sistema di governo al servizio dei bisogni dei ricchi e dei potenti si è perpetuato nell'arco della storia degli Stati uniti. Fino ai nostri giorni. Il linguaggio utilizzato correntemente lascia pensare che tutti (ricchi, poveri e ceti medi) abbiano un interesse comune. Pertanto, quando si parla della nazione si utilizzano termini universali. Quando, con un sorriso smagliante, il presidente dichiara che la nostra economia «va bene», non tiene conto dei 50 milioni di persone che si arrabattono per sopravvivere, mentre la classe media non se la passa troppo male e l'1% della popolazione, che possiede il 40% delle ricchezze della nazione, invece, scoppia di salute. L'interesse di classe dei governanti è sempre stato dissimulato dietro un velo denominato «l'interesse nazionale». La mia esperienza personale della guerra - così come la storia di tutti gli interventi militari americani - , ridestano il mio scetticismo ogni volta che sento gli alti responsabili parlare di «interesse nazionale» o di «sicurezza nazionale» per giustificare la loro politica. Adducendo giustificazioni di questo tenore,tanto per dire, Harry Truman nel 1950 lanciò quella che definì una «azione di polizia» in Corea, azione che fece parecchi milioni di vittime, e poi Lyndon Johnson e Richard Nixon condussero in Indocina una guerra altrettanto sanguinosa e Ronald Reagan invase Granada nel 1993, e il padre dell'attuale presidente attaccò Panama nel 1989 e poi l'Iraq due anni dopo, e Bill Clinton bombardò a sua volta l'Iraq a partire dal 1993. Il «nuovo Bush» ci ha spiegato a sua volta che doveva invadere e bombardare l'Iraq perché lo esigeva l'interesse nazionale. Per quanto assurda, una simile proposta è stata accettata negli Stati uniti soltanto perché una cappa di menzogne a livello governativo e mediatico aveva avvolto tutto il paese. Menzogne che riguardano le «armi di distruzione di massa», menzogne sui legami dell'Iraq e con al Qaeda. Un numero crescente di americani che comincia a rendersi conto dell'ampiezza delle falsificazioni; il che spiega l'attuale calo di popolarità di George Bush. E questo nonostante la stretta collaborazione del governo con i grandi media - collaborazione che, in generale, caratterizza uno stato totalitario ben più che una democrazia. L'espansione «benevola» verso il West La prospettiva di una guerra breve e indolore è ben presto svanita. Molte centinaia di soldati americani sono morti; più di mille, forse duemila, sono feriti. Su una piccola rete di televisione via cavo (un grande network non trasmetterebbe mai notizie di questo genere), l'attrice Cher ha raccontato quello che aveva visto lei stessa, andando in un ospedale di Washington: combattenti che avevano perduto chi le braccia, chi le gambe, uomini giovanissimi mutilati per sempre. E Cher si è chiesta quali fossero i motivi della guerra. Noi tentiamo di informare gli americani su tutto ciò su cui è calato il silenzio dei media. Come, ad esempio, quei 10.000, forse 30.000, civili iracheni che sono stati uccisi nel corso di operazioni brevi ma sanguinose. Grazie a Internet e a stazioni radio progressiste, tentiamo anche di spiegare le modalità di occupazione dell'Iraq: le irruzioni violente fra gli abitanti, l'arresto di persone innocenti, senza nessuna distinzione di età, le bombe da 250 o 500 chili sganciate sui quartieri residenziali. Allorché ho deciso di scrivere Una storia popolare degli Stati uniti, ho scelto di raccontare la storia delle guerre della nazione, viste non attraverso gli occhi dei generali o dei leader politici, bensì dei giovani operai che hanno indossato l'uniforme dei marines, dei loro genitori e delle loro spose che un brutto giorno ricevevano un telegramma listato a lutto. Volevo raccontare la storia delle guerre americane, ma dal punto di vista dei «nemici»: i messicani il cui paese è stato invaso, i cubani il cui territorio fu conquistato nel 1898, i filippini che subirono una abominevole guerra di devastazione all'inizio del XX secolo, durante la quale morirono 600.000 persone che si opponevano agli Stati uniti, allora decisi a conquistare il loro paese. C'è un fenomeno che mi ha colpito all'inizio dei miei studi di storia, e adesso tento di spiegarlo nei miei libri. È il modo in cui l'ardore nazionalista (che ci viene inculcato fin dall'infanzia imponendoci il giuramento di fedeltà alla bandiera [2], la venerazione dell'inno nazionale e una retorica «patriottica» molto schierata) impregna il sistema scolastico di tutti i paesi. Mi chiedo che cosa sarebbe la politica estera degli Stati uniti se si cancellassero, almeno nella nostra mente, tutte le frontiere del mondo per considerare ogni bambino nostro figlio, ovunque si trovi. Allora sarebbe impensabile sganciare una bomba atomica su Hiroshima, il napalm sul Vietnam, sull'Afghanistan o sull'Iraq. Quando ho iniziato a scrivere il mio libro, ero influenzato da quello che avevo vissuto fino allora: crescendo con i miei genitori in una comunità nera del sud, e poi insegnando in una università di ragazze nere, e militando contro la segregazione razionale. Mi sono reso conto che la storia così come ci era stata insegnata relegava sempre in secondo piano, o ancora più indietro, tutti coloro che non hanno la pelle bianca. È palese che gli indiani sono semplici comprimari ben presto dimenticati e i neri fanno la loro comparsa come schiavi, poi come uomini «liberati». Ma, ogni volta, è l'uomo bianco che la fa da protagonista. Dalla scuola elementare al liceo, nessuno mi ha mai fatto capire che l'arrivo di Cristoforo Colombo nel nuovo mondo era stato sinonimo di un genocidio che annientò la popolazione indigena di Hispaniola <http://www.ilmanifesto.it/MondeDiplo/LeMonde-archivio/ultimo/0401lm21.01.html#3>(3). Nessuno mi ha mai spiegato che si trattava della prima tappa dell'espansione «benevola» di un nuovo paese, ma che tale espansione significava in realtà la cacciata violenta degli indiani da tutto il continente, e che sarebbe stata contrassegnata da atrocità inenarrabili, il cui epilogo sarebbe stato il parcheggio dei superstiti nelle riserve. Tutti gli studenti americani studiano che il massacro di Boston si verificò alla vigilia della guerra di indipendenza contro la corona di Sua Maestà britannica. Cinque americani vennero uccisi dai soldati britannici nel 1770. Ma quanti studenti sanno che 600 fra uomini, donne e bambini della tribù dei Pequot, nel New England, erano stati massacrati nel 1637? O che centinaia di famiglie indiane furono decimate, in piena guerra di Secessione, nel Colorado, per mano dei soldati americani? Durante i miei studi di storia non ho mai sentito parlare dei tanti massacri di neri, commessi nell'assordante silenzio di un governo che si ammantava del suo orgoglio di possedere una Costituzione che garantiva l'eguaglianza dei diritti. Ad esempio, nel 1917, a East St. Louis è scoppiata una delle numerose rivolte razziali di quelle che i nostri libri di storia (di bianchi) definiscono «l'Era progressista». Alcuni operai bianchi, irritati dall'arrivo di operai neri, assassinarono circa 200 persone. Un nero americano, W. E. B. Du Bois , scrisse in merito un celebre articolo, «Il massacro di East St. Louis». Josephine Baker dichiarò all'epoca: «L'idea stessa dell'America mi fa venire i brividi». Scrivendo Una storia popolare degli Stati uniti, speravo di provocare una presa di coscienza dei conflitti di classe, dell'ingiustizia razziale, dell'ineguaglianza dei sessi e dell'arroganza americana. Ma volevo anche porre in luce la resistenza al potere dell'establishment, il rifiuto degli indiani di morire e di scomparire, la ribellione dei neri contro la schiavitù e poi contro la segregazione, gli scioperi organizzati dalla classe operaia. Perché omettere questi atti di resistenza, queste vittorie anche limitate del «popolino americano» equivarrebbe a far credere che il potere risiede esclusivamente fra le mani di chi detiene armi da fuoco, di chi possiede la ricchezza. Io ho desiderato ricordare che la gente che sembra non averlo (operai, persone di colore, donne) non appena si organizza e protesta su scala nazionale, si dà un potere che nessun governo può reprimere facilmente. Non voglio inventare vittorie popolari là dove non ce ne sono. Ma pensare che scrivere le pagine di storia dovrebbe limitarsi a tracciare una litania di sconfitte equivale a fare degli storici i collaboratori di una spirale regressiva apparentemente inesorabile. Se la storia vuole essere creativa, se vuole anticipare un futuro possibile, senza peraltro rinnegare il passato, a me sembra che occorra valorizzare possibilità nuove e rivelare tutti quegli episodi immersi nell'ombra, episodi in cui la gente ha mostrato la propria capacità di resistere, anche se per brevissimo tempo, di serrare le fila - e a volte di vincere. Parto dal postulato, o forse dalla speranza, che il nostro futuro risieda più nei momenti di solidarietà racchiusi nel nostro passato, che non nei secoli di guerra così saldamente radicati nella nostra memoria. note: * Storico, autore tra l'altro di Disobbedienza e democrazia e Non in nostro nome, entrambi pubblicati da Il Saggiatore nel 2003. Tratto da "Le Monde Diplomatique", gennaio 2004 _________________________________________
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