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Come stiamo pagando i costi della guerra
- Subject: Come stiamo pagando i costi della guerra
- From: "disobbedientimolise\@libero\.it" <disobbedientimolise at libero.it>
- Date: Mon, 15 Dec 2003 22:21:11 +0100
COME STIAMO PAGANDO I COSTI DELLA GUERRA I tagli fiscali e la guerra George W. Bush come Ronald Reagan. Le ultime dall’economia globale dicono che le politiche di tagli fiscali per centinaia di miliardi di dollari cominciano a fare il loro effetto sulla crescita economica degli Stati Uniti d’America. La previsione della crescita del Pil effettuata sulla base dei risultati del terzo trimestre 2003 è del 7,2% annuo. Non si tratta di un risultato acquisito, ma di una proiezione, ossia il dato è valido solo nel caso in cui si verifichi lo stesso ritmo di crescita nel periodo rimanente dell’anno. I guru dell’establishment sono unanimi nella cautela. Paul Krugman dichiara che la ripresa non annuncia un nuovo boom, ma indica soltanto che il “meglio è già passato”. La ripresa americana è fragile, perché gravata dal cumulo dei debiti: dei consumatori, del bilancio pubblico, dei conti con l’estero. Incominciando già prima dell’11 settembre, Bush ha dato il via ad una politica di riduzione delle tasse per un ammontare di circa 500 miliardi di dollari (il 60% dei quali favorivano l’1% dei contribuenti), ha deciso l’esenzione totale della tassazione per i dividendi di Borsa, e, successivamente, dopo l’attacco alle torri gemelle, ha rilanciato la spesa pubblica in sistemi di armamento. Il combinato di tagli fiscali e aumento delle spese militari è la soluzione messa a punto dall’amministrazione repubblicana per uscire dalla crisi della new economy, iniziata nel 2001 e aggravatasi con il clima di insicurezza prodotto dalla guerra. Dal punto di vista delle politiche economiche, rappresenta lo stesso modello di “supple-side economy” (o politica dell’offerta), che costituì, negli anni ’80, la base delle politica reganiana: favorire l’accumulazione di capitale delle classi ricche sulla base del presupposto che più i già ricchi accumulano capitale, più i loro spiriti animali saranno eccitati all’idea di investire. Il neoliberismo, allora, si presentò come affatto diverso dalla ritirata dello stato dalla scena dell’economia di mercato: infatti, mentre i tagli fiscali aprivano un buco nel bilancio federale, la spesa pubblica, trainata dal settore degli armamenti, conobbe un forte incremento. Ne conseguì un ciclo di crescita economica correlata ad un peggioramento nella distribuzione dei redditi interni, esauritasi con la recessione del 1990 (che costò la mancata rielezione a Bush padre). L’esperienza reaganiana fu la dimostrazione evidente delle argomentazioni di economisti come Joan Robinson (l’allieva di Keynes) sul rapporto tra crescita economica e distribuzione dei redditi: si tratta di due variabili indipendenti, di due fenomeni non necessariamente correlati. Non a caso, quasi contemporaneamente alla notizia della ripresa al 7,2%, giunge l’altra notizia che nel 2002 i cittadini statunitensi che vivono sotto la soglia di povertà erano 34,6 milioni, con un incremento di 1,7 milioni rispetto al 2001 (fonte: Census Bureau). I debiti gemelli I minori introiti delle tasse stanno aggravando il deficit del bilancio pubblico, che è giunto alla cifra di 500 miliardi annui. A questo si aggiunge l’incremento del deficit verso l’estero, cioè della bilancia dei pagamenti, che diviene comprensibile solo analizzando la relazione tra le politiche fiscali e di spesa dell’amministrazione Bush e la politica monetaria della Federal Reserve. Lo squilibrio dell’economia USA è quindi duplice, verso l’interno e verso l’estero, e non a caso nel linguaggio giornalistico si sta affermando l’espressione “debiti gemelli”. Il governatore della FED, Greenspan, sembra piuttosto in sintonia con l’obiettivo di favorire la rielezione di Bush nel 2004. Fissando il tasso di interesse ai minimi storici, Greenspan ha creato un’abbondanza di liquidità che asseconda l’espansione economica, traducendosi da un lato nel sostegno ai valori dei titoli in Borsa, dall’altro nella crescita del mercato immobiliare (grazie al basso costo dell’interesse sui mutui, il fenomeno dell’aumento dei prezzi degli immobili è di carattere globale). A differenza di momenti storici passati, anche la FED sembra essere di fede repubblicana. Il tasso di interesse non salirà fino alle elezioni presidenziali – dice il capo economista del Credit Suisse, intervistato da Affari e Finanza. Sia le politiche di Bush che quelle di Greenspan seguono una linea espansiva assolutamente indifferente all’accumulazione del deficit. Gli Stati Uniti, a differenza dell Europa, non devono fare i conti solo con un buco nel bilancio statale, ma presentano un doppio deficit, dei conti con l’estero e del bilancio pubblico. Il doppio deficit ammonta, per quest’anno, a 450 miliardi di dollari per quanto riguarda la bilancia dei pagamenti, e a 550 miliardi di dollari in riferimento al budget dello stato federale. Entrambi sono circa al 5% del PIL, una percentuale che non verrebbe mai accettata secondo i criteri in vigore attualmente in Europa. In passato, e precisamente nell’epoca reganiana, tra l’amministrazione repubblicana e la Federal Reserve si realizzava un gioco delle parti. Politiche opposte ma complementari per quanto riguarda la spesa: mentre il governo repubblicano apriva i cordoni della borsa per far correre la spesa militare e i profitti, la FED teneva alto il tasso di interesse per attrarre capitali dall’estero che andavano a “coprire” il buco della bilancia dei pagamenti. Il risultato complessivo consisteva in un grosso buco di bilancio ma anche in un dollaro forte (perché l’afflusso di capitale in America equivale a una forte domanda di dollari). Oggi, invece, alla stessa politica dell’amministrazione corrisponde un basso tasso di interesse, e, quindi, un dollaro debole. In qualunque altro sistema economico, una moneta debole richiederebbe una diminuzione delle importazioni, e un corrispondente aumento delle esportazioni (le merci estere costano di più, mentre quelle interne sono più competitive). Negli Stati Uniti, centro dell’economia imperiale, invece, moneta debole significa, in sostanza, crescita del debito con l’estero, cioè una maggiore spesa per importazioni (circa il 60% di cui sono acquisti da multinazionali americane che producono all’estero). Chi perde da tutto ciò sono le economie europee, le cui esportazioni perdono competitività per effetto del rafforzamento dell’euro. L’Europa ipotecata Il punto è che non è solamente la società americana a pagare i tagli fiscali al capitale di Bush. Mentre negli Stati Uniti si manifesta una ripresa economica (per quanto precaria), “drogata” dal deficit, in Europa si è in piena recessione. Se ci si sofferma sul commercio internazionale, le cose non dovrebbero andare così. Infatti, se c’è ripresa economica nel mercato dominante, questo significa anche aumento della domanda di prodotti esteri, quindi della produzione nelle zone dipendenti dal mercato statunitense. Ma avviene esattamente il contrario. Senza dubbio, le politiche protezionistiche di Bush (i dazi sull’acciaio e sui prodotti tessili asiatici), condotte in totale disprezzo delle stesse regole del WTO, hanno la loro parte di responsabilità nella crisi dell’economia europea. Ma non spiegano tutto, infatti il fattore più importante dello squilibrio economico tra America ed Europa, è di natura finanziaria: l’attuale cronicizzazione dell’indebitamento americano danneggia l’Europa, e per ragioni che attengono ai movimenti internazionali di capitale, e a politiche globali del tutto subalterne alle indicazioni dei circuiti finanziari internazionali. Negli ultimi tempi, in corrispondenza con il dibattito sulla riforma delle pensioni del governo Berlusconi, si è assistito ad un forte attivismo del FMI (che tutti sappiamo essere non casualmente dislocato a Washington), che richiamava l’Europa alla necessità di contenere i costi dei sistemi previdenziali. In sostanza, a politiche di rigore finanziario che pesano sulle spalle degli attuali lavoratori e futuri pensionati. Gli ultimi allarmi del FMI non hanno a che vedere solamente con la consueta aggressività neoliberista nei confronti del welfare, ma anche, e molto, con l’indebitamento di guerra prodotto dall’amminstrazione Bush con il consenso della FED. Nell’attuale sistema di mobilità globale del capitale – fermo restando i rapporti di forza politici – lo squilibrio tra Europa ed America costituisce il miglior equilibrio per gli attori del capitale finanziario. La comunità finanziaria globale ha orrore di un solo pericolo, che il capitale vada ad inflazionarsi. L’aumento dell’indebitamento USA, che è la condizione della risalita delle Borse, manifesta anche lo spettro della svalutazione dei capitali, di nuovi crolli finanziari. In qualche modo, e da qualche parte, occorre creare dei saldi attivi che garantiscano il debito generato dall’unilateralismo di Bush. Una politica europea di rigore finanziario, ispirata al rigoroso rispetto dei parametri di Maastricht, è quanto viene richiesto a garanzia della licenza di indebitarsi del bilancio federale e dei conti con l’estero degli Stati Uniti d’America. Il mercato azionario mondiale ha così prodotto una performance al rialzo del 30% a cavallo della guerra irachena, guardando da un lato ai debiti di guerra di Bush, dall’altro alla sorveglianza dei parametri di Maastricht della Banca e della Commissione europee. L’Europa sta già pagando la guerra irachena. Non tanto attraverso l’invio di truppe o con tasse di guerra, ma lasciando in pegno i redditi delle pensioni e dei salari come assicurazione della montagna di debiti bellici ed elettorali dell’amministrazione repubblicana. L’euro forte, giunto fino a valere 1,20 dollari (due anni fa era all’incirca a 0,80 dollari), porta con sé questo insieme di significati negativi: assenza di redistribuzione e di investimenti sociali in nome dell’equilibrio finanziario. Qualcuno potebbe pensare che il rigore, ossia la difesa ortodossa dei parametri di Maastricht (ribadita in questi giorni da Romano Prodi), rappresenti una strategia difensiva dell’Europa nei confronti dell’aggressività – altrettanto bellica che finanziaria – dell’amministrazione Bush. Costituisce, in realtà, l’equivalente di un fondo di garanzia per il dispiegarsi dell’iniqua e guerresca ripresa dell’economia americana. Un’euro effettivamente “forte” nascerebbe nel momento in cui divenisse pressoché l’equivalente del dollaro negli scambi del commercio internazionale. Tuttavia questa funzione dell’euro – moneta di riserva, cioè detenuta in cassa da tutte le banche indipendentemente dalla nazione - si renderebbe possibile solo se l’Europa decidesse di indebitarsi in nome dello sviluppo, poiché solo l’indebitamento accrescerebbe la circolazione mondiale dell’euro (cfr. Marazzi, L’arma del deficit contro il deficit delle armi, Global, 02, maggio 2003). Oggi, la gabbia che l’Europa si è costruita attorno, con i parametri di Maastricht, sta implodendo: i parametri di Maastricht, che vincolano gli stati a non superare il rapporto del 3% tra deficit pubblico e PIL, da un lato deprimono i consumi interni, dall’altro favoriscono la corsa dell’euro, danneggiando le esportazioni e l’economia. E il paradosso è che i rappresentanti istituzionali della sinistra europea, come Romano Prodi, sono i più fervidi sostenitori del mantenimento dello status quo, difensori a oltranza della stabilità finanziaria a spese dell’occupazione e dello sviluppo. Mentre si costituisce un’alleanza trasversale, tra i paesi in difficoltà finanziaria, come Francia e Germania, l’uno retto da un governo di destra l’altro di centrosinistra, per il superamento dei parametri di Maastricht, l’ortodossia economica dei campioni della sinistra europea ne fa, obiettivamente, i migliori alleati nella corsa verso la riconferma alla Casa Bianca di George Bush. dicembre 2003 Movimento delle/i DISOBBEDIENTI
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