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Il supporto delle basi italiane alle guerre Usa
- Subject: Il supporto delle basi italiane alle guerre Usa
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- Date: Wed, 1 Oct 2003 19:00:26 +0200
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Il supporto delle basi italiane alle guerre Usa di Elettra Deiana In anteprima da "Guerre & Pace" di settembre, un articolo sul ruolo del territorio italiano nelle prossime guerre degli Stati uniti e nelle strategie dell'amministrazione Bush. Uno spazio sottratto alla sovranità nazionale con la complicità del governo Berlusconi, ma anche di quelli che l'hanno preceduto. da http://www.nuovimondimedia.it - Fonte Guerre & Pace Il territorio italiano, ai tempi della guerra fredda e secondo il dispositivo strategico-militare messo a punto dall’Alleanza atlantica, avrebbe dovuto fungere soprattutto da punto di forza per ritardare l’ avanzata di un’eventuale offensiva sovietica. Oggi invece è diventato una vera e propria nicchia d’eccellenza, una risorsa bellica di primaria importanza, indispensabile nei e per i nuovi scenari di guerra che nel mondo si sono aperti dopo l’11 settembre e che richiedono per la Casa bianca in armi un invasivo e articolato controllo del territorio planetario. LA PORTAEREI ITALIA Ovviamente una tale importanza non è una scoperta delle ultime ore né si è resa evidente esclusivamente in ragione della strategia della lotta al terrorismo e agli “Stati canaglia” così cara a Gorge W. Bush junior. Che il nostro paese costituisca con tutta evidenza una vera e propria portaerei protesa nel Mediterraneo quanto mai idonea ai nuovi scenari bellici è stato dimostrato efficacemente, in tempi assai recenti, dalla guerra della Nato contro la Serbia. Guerra, questa, in cui si è manifestata e saggiata la strategia statunitense tesa a ridimensionare e depotenziare il ruolo dell’ Onu e quindi quanto mai connessa a quella contro l’Iraq, nonostante le apparenti differenze su cui insiste, infelicemente ma non a caso, una parte importante del centro-sinistra che quella guerra sostenne e fece sua. Va sottolineato per altro che proprio sulla qualità del ridimensionamento dell’ Onu si misura anche la limitata qualità della differenza tra gli schieramenti politici che si contendono la leadership negli Usa: i democratici volendo salvaguardare nei rapporti internazionali una finzione o un velame di legalità, i neoconservatori essendo invece dichiaratamente propensi a sbarazzarsi dei “lacci e lacciuoli” del diritto internazionale, come la vicenda irachena sta a dimostrare in maniera emblematica oltre che esemplare. LA GUERRA NEI BALCANI La guerra nei Balcani dimostra anche in quale direzione si muovano oggi le coordinate geostrategiche del controllo militare del territorio e quanto l’ Italia sia parte in causa. La guerra nei Balcani è stata possibile in grandissima misura, come ebbe a confessare l’allora segretario alla Difesa degli Stati uniti William S. Cohen, proprio grazie ai porti e alle basi italiane. Basti pensare che in quei giorni dannati un numero spropositato di missioni aeree - ben 37.000 - furono possibili grazie alla 12 basi messe a disposizione dall’allora governo di centro-sinistra. E a disposizione fu messo veramente tutto, innanzitutto i porti per le oltre venti navi alleate impegnate nelle operazioni di guerra. Non diversamente da come è successo per la guerra preventiva contro l’Iraq. Soltanto che in quest’ultimo caso la messa a disposizione non è passata per l’intermediazione bellica dell’ Alleanza atlantica, divisa, come sappiamo, al suo interno. Ha funzionato invece la diretta concessione di favori operata dal governo italiano nei confronti dell’amico americano. LE BASI E L’ONU Se dal punto di vista del costituzionale ripudio della guerra, dei vincoli imposti dalla Carta delle Nazioni unite, della salvaguardia del ruolo dell’ Onu, del principio irrinunciabile della convivenza pacifica e del primato insostituibile degli strumenti della diplomazia per risolvere i conflitti tra i popoli e anche, last but not least, delle intenzioni statunitensi, occorre mettere ben in risalto come tra tutte le guerre avvicendatesi nella fase successiva alla caduta dell’impero sovietico gli elementi di contiguità siano assai numerosi, tuttavia non si possono sottacere gli elementi di differenza che sono intervenuti con la guerra in Iraq. Essi riguardano infatti proprio il punto nodale della rimappatura e ridefinizione degli assetti di potere su scala internazionale, al livello del potere decisionale e dell’autorità morale e giuridica atta a legittimare la guerra. Per quello che riguarda l’Italia c’è a questo proposito un intreccio di problematiche quanto mai complesse che ruotano intorno alle nuove strategie e tecniche militari degli Usa da una parte, alle affinità politiche tra l’ amministrazione Bush e il governo Berlusconi dall’altra. LE NUOVE STRATEGIE USA Molto è stato scritto dagli esperti di cose militari - e qualcosa si è anche potuto verificare empiricamente, seguendo attraverso i media la guerra anglo-statunitense contro l’Iraq - circa il cambiamento di strategia bellica degli Stati uniti. Si è parlato di radicale innovazione e da molte parti, compresi alcuni settori non irrilevanti delle gerarchie militari statunitensi, è stato contemporaneamente sottolineato l’alto rischio che una simile innovazione comporterebbe. Le armate Usa si alleggeriscono, diventano agili e flessibili, attraversano fulmineamente il territorio predestinato senza il carico di retroguardie ingombranti, senza l’eccesso di mezzi pesanti. Occupano velocemente alcuni punti strategici del territorio nemico ma senza avere avuto il tempo - per scelta - di consolidare la presenza e il controllo sui punti di avanzata, sulle zone attraversate. Il dopo guerra in Iraq è, da questo punto di vista, esemplare ma la guerra lampo del generale Franks - questo il rischio paventato dai generali del Pentagono più legati alla tradizione - si è trasformata in un’occupazione di trincea di lunga durata in un territorio sconosciuto che con grande difficoltà si può tenere tutto sotto controllo e che diventa ogni giorno più ostile all’occupazione straniera. L’ESPERIENZA IRACHENA Salta all’occhio allora la differenza tra la fatale prima guerra nel Golfo, quella denominata Desert Storm, e l’attuale: la prima costruita su un compatto e massiccio schieramento di forze convenzionali, approntato nei lunghi mesi che precedettero la scatenamento della guerra; la seconda basata sulla drastica riduzione dei mezzi pesanti, sulla velocità dell’azione e la virulenza della martellante aggressione aerea. Spariscono per questo, nel nuovo contesto, le grandi unità complesse, cioè i comandi di corpi d’armata, ridotti a due nella seconda guerra contro l’Iraq a fronte dei cinque della prima, mentre predomina a dismisura la dimensione tecnologica e si afferma la capacità di sorvegliare elettronicamente il campo di battaglia, di stanare fin nei minimi dettagli le mosse del nemico. Il modello di warfare tradizionale, fondato sulla potenza di ferro e fuoco, è diventato in altri termini obsoleto anche se, a ben guardare, del paese aggredito, nella fattispecie l’Iraq, tutto si può dire men che non sia stato martellato e perforato dal ferro e dal fuoco. E anche si può dire che l’occhio elettronico tanto vantato dai nuovi strateghi del Pentagono è potente fino a un certo punto, in grado di esercitare un controllo più virtuale che reale quando entrano in gioco strategie ravvicinate di guerriglia o forme di resistenza molecolari a piccolo raggio. Nello stesso tempo, mentre rimodellano modi, tattiche, tecnologie militari, gli Usa ridefiniscono anche i profili strategici delle alleanze. Ma forse sarà meglio dire che, nella nuova stagione dell’unilateralismo a oltranza, della guerra preventiva e dello smantellamento delle regole e delle istituzioni internazionali, gli Stati uniti soprattutto saggiano l’affidabilità, l’utilità, l’ indispensabilità delle alleanze, secondo quella strategia a geometria variabile inaugurata con Enduring Freedom, che rimane la madre di tutte le nuove guerre globali nonché il laboratorio della nuova concezione militare e bellica del Pentagono. IL “CHERRY PICKING” John Hulsman, analista della Heritage Foundation, ha illustrato le caratteristiche salienti di una tale strategia in termini di trionfo del “cherry picking” - letteralmente scelta delle ciliegie - ossia dell’abilità statunitense di saper cogliere oculatamente le opportunità e le risorse che il mondo offre alle sue imprese militari e alle concezioni teoriche che le sorreggono. Le risorse, spiega sempre Hulsman, possono essere le più diverse - una brigata britannica, una firma polacca, una coalizione di volenterosi, una concessione di attraversamento del territorio amico per arrivare in quello nemico - ma hanno tutte in comune la finalità di costruire la strumentazione necessaria a portare a buon fine l’impresa. Il controllo del territorio, in misura estensiva e nei modi più articolati possibile, fa ovviamente parte di tutto questo, anzi forse ne costituisce un punto di prima e primaria importanza. Per questo l’Italia, per la sua collocazione geografica, la sua strumentazione tecnologico-militare, le sue basi disseminate in punti nevralgici, costituisce magna pars di quel patrimonio di risorse sul territorio su cui gli Stati uniti vogliono oggi esercitare il più assoluto controllo, liberandosi dei lacci e laccioli che ostacolano la loro strategia e la loro libertà di azione. Il ventilato spostamento di alcune basi della Nato o il loro depotenziamento, comprese alcune italiane, a vantaggio di quelle installate o da installare nei paesi dell’Europa orientale, di recente acquisizione all’Alleanza - in primis la Polonia - da zone dell’Europa fino a ieri ritenute di fondamentale e primaria importanza, costituisce oggi un asse di questa strategia americana, la conferma di un disegno di audace e spietata riarticolazione degli strumenti militari e politici del dominio imperiale a stelle e strisce. GUERRA PERMANENTE L’esperto di questioni strategiche Alain Joxe lo chiama “impero del caos”, individuando nella guerra permanente, nella conseguente disarticolazione delle strutture statali e dei distretti territoriali, nella cancellazione del diritto internazionale la chiave di volta del nuovo ordine mondiale in costruzione. Le basi Usa in Italia, soprattutto quelle più importanti, come Aviano e Sigonella, sono in via di espansione e consolidamento anche attraverso grossi finanziamenti statunitensi. Non è un caso, ovviamente che questo avvenga mentre si dislocano altrove quelle della Nato: perché il territorio italiano ha l’importanza che ha per il diretto controllo statunitense e perché il governo Berlusconi offre le coperture e le complicità che sappiamo. Sarà allora il caso di aprire un capitolo nuovo in tutta questa storia, specificamente dedicato proprio alla basi a stelle e strisce. Queste ultime sono rese legittime, in sede storico-giuridica, dall’ esistenza del Trattato dell’Alleanza atlantica del 1949 e dalla conformità del trattato, attraverso gli articoli 5 e 6, alla Carta delle Nazioni unite. Tali articoli definiscono da una parte la legittimità del ricorso all’uso delle forza esclusivamente a scopi difensivi, dall’altra la necessità dell’ autorizzazione per questo delle Nazioni unite. Il trattato garantisce anche la legittimità di accordi bilaterali tra stati membri dell’Alleanza, il cui ruolo, in linea di principio, dovrebbe essere quello di assolvere i compiti inerenti alle finalità dell’Alleanza. In realtà le cose non sono andate proprio così: basti pensare alle basi navali di Gaeta e Napoli e all’ ospitalità qui fornita alla VI Flotta americana, impiegata in Mediterraneo per fini connessi alle particolari strategie degli Usa. Oggi queste strategie, come abbiamo visto, sono in netta rottura e aperta rotta di collisione con regole, equilibri, convenienze in qualche modo garantite fino a ieri dall’esistenza delle Nazioni unite. Inoltre l’accordo bilaterale tra l’Italia e gli Usa, del 1954, che ha reso possibile l’installazione e la proliferazione di basi Usa nel nostro paese, è ancora spudoratamente “secretato” - anomalia tutta italiana - così come “riservati” sono i protocolli aggiuntivi di cui è costellata la storia degli accordi bilaterali dell’Italia con gli Usa. CHI CONTROLLA GLI ACCORDI? In un contesto di relazioni internazionali così radicalmente in cambiamento, al punto che la stessa Nato è attraversata da tensioni e malumori fino a ieri impensabili nel rapporto tra gli stati membri, in mano di chi deve essere l’interpretazione e l’applicazione degli accordi bilaterali tra Italia e Stati uniti? E, soprattutto, in che direzione deve andare tale interpretazione? Non c’è forse un gravissimo vacuum legis che sottrae al controllo democratico del parlamento e delle istituzioni locali le scelte che vengono fatte in relazione all’utilizzazione delle basistatunitensi? Siamo ormai nell’epoca della guerra globale che agli strumenti dello stesso diritto bellico moderno, delle convenzioni e dei trattati tra gli stati sostituisce la logica della faida e della fedeltà tra amici, cioè la privatizzazione delle regole di guerra. Bush, Blair, Berlusconi, Aznar insegnano. Rimettere in discussione gli accordi bilaterali con gli Stati uniti significa mettere sotto accusa e sotto critica la guerra preventiva anche da questo fondamentale punto di vista, oltre che da tutti quelli che già hanno circolazione nel grande movimento pacifista del nostro paese.
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