Quante bugie sull'islam italiano



il manifesto - 08 Giugno 2003 ARTICOLO pagina 18
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Quante bugie sull'islam italiano
di ANGELA LANO


Quante bugie sull'islam italiano
E invece esiste un interessante movimento di riforma che in Italia e in
Europa sta investendo le comunità islamiche. Purtroppo ignorato
Per la stampa italiana tra i frequentatori delle moschee e i terroristi c'è
continuità. Così finiamo col ritrovarci con qualche migliaio di potenziali
kamikaze
ANGELA LANO
Sull'islam italiano, in questi giorni, il cerchio si è già chiuso: moschee
- Ucoii (Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia) -
Fratelli musulmani - integralismo - terrorismo - moschee. Ciò che rimane
aperto è il circolo vizioso delle reazioni: paura, insicurezza, razzismo,
repressione. Il tutto, azione e reazione, scatenate spesso dalle
semplificazioni mediatiche strumentali a qualcosa di ancora non ben chiaro.
Tuttavia, qualunque serio studioso dei fondamentalismi (o integralismi, o
radicalismi) islamici sa che le cose non stanno così: innanzitutto
l'organizzazione dei Fratelli musulmani, nata in Egitto nel 1928, è una
galassia di gruppi, movimenti che, pur avendo una base comune, si
differenziano tra loro per strategie e modalità. Troveremo quindi sia
gruppi che fanno della lotta armata un mezzo per difendere la Dar al-Islam,
la Casa dell'islam, dalle minacce esterne, sia gruppi terroristici (che
attaccano, cioè, aree sia interne sia esterne al mondo arabo-islamico), sia
associazioni totalmente pacifiche e nonviolente. La definizione, riportata
in questi giorni da alcuni mezzi di informazione, che indica i Fratelli
musulmani come una «centrale integralista internazionale» è dunque
riduttiva e semplicistica. Come, in questi termini, lo è il definire
l'Ucoii (che rappresenta l'80% dei centri islamici italiani) una sua
emanazione gettando l'ombra del dubbio sulle centinaia di luoghi di culto e
moschee italiane ad essa affiliate. Il complesso e difficile discorso sul
fondamentalismo islamico (sarebbe più corretto usare il plurale, proprio a
causa della grande diversità tra un movimento e l'altro) spetterebbe agli
islamologi di rilievo presenti in Italia.

Certamente uno degli obiettivi dei Fratelli è la re-islamizzazione delle
società islamiche, o dei musulmani residenti all'estero - piuttosto che di
quelle occidentali. Gridare al pericolo di una islamizzazione dell'Europa o
dell'Italia significa solo creare inutile panico e conseguente intolleranza
fra i popoli.

Anche il parallelismo tra islam radicale e terrorismo è improprio. Il
terrorismo è la strategia di alcuni gruppi integralisti, non di tutti. E'
come dire che i movimenti integralisti cattolici (da cui il termine usato
per l'islam è stato mutuato) presenti in Italia siano in diretto contatto
con i terroristi dell'Ira. «Integralismo» è un'interpretazione «integrale»
della religione in tutti gli aspetti della vita quotidiana; è la ricerca di
una «verità» (condivisibile o meno), non il cappello sotto cui si
raccolgono tutti i fanatici bombaroli di matrice islamica. Nella prefazione
di Andrea Pacini a I Fratelli musulmani e il dibattito sull'islam politico
(Edizioni della Fondazione Agnelli), si legge: «I Fratelli musulmani
partecipano, laddove è loro possibile, alla vita politica istituzionale
prendendo parte alle competizioni elettorali. Da questo punto di vista oggi
i Fratelli musulmani prendono chiare distanze dall'uso della violenza, e
condannano gli atti violenti dei movimenti islamici radicali come al-Jihad
e al-Jama'a al-Islamiyya; nel passato invece il loro rapporto con la
violenza ha avuto una certa ambivalenza».

Quanto alle cifre esatte dei mujaheddin italiani, più volte citati in
questi ultimi mesi dai quotidiani, poco si sa. I numeri enormi - 300, 600,
2.000, spesso lanciati nelle prime pagine - non sono assolutamente
verificabili. Le uniche fonti sembrano essere i tanto discussi Abdel -Qader
Fall Mamour di Carmagnola, e Adel Smith, personaggi poco rappresentativi
dell'islam italiano.

Stimolare dubbi e analisi critiche su quanto si sente e si legge
attualmente non significa, ovviamente, ritenere che non vi siano individui
che dall'Italia si sono recati, o si recano tuttora, a combattere in
Bosnia, in Afghanistan, in Iraq o in Palestina, o che appartengono ad
organizzazioni terroristiche di fanatici pronti a immolarsi. Ma anche in
questi casi, molto differenti tra loro, bisogna distinguere tra le lotte di
liberazione nazionale e il terrorismo fine a se stesso.

E' l'allarmismo irrazionale, il passaggio dal particolare al generale, il
semplicismo, l'estremizzazione, la manipolazione dei dati, ad essere
ingiustificabile e dannoso alla civile convivenza e al dialogo fra le
culture. La classificazione, al limite del manicheismo, tra moderati
(coloro che non vanno in moschea, non pregano) e integralisti a rischio di
strumentalizzazione terroristica (tutti coloro che frequentano le centinaia
di luoghi di culto islamici) è fuorviante: dobbiamo ricordare che il
venerdì e durante le principali feste ('id al-Fitr, `id al -Adha), le
moschee italiane si riempiono di migliaia e migliaia di fedeli, tra cui
numerose donne e bambini. A Torino, ad esempio, in queste occasioni, il
Palavela ospita dalle 6 alle 8 mila persone, prevalentemente maghrebini (un
quarto circa dei soggiornanti), molti dei quali hanno rapporti continuativi
o saltuari con gli istituti islamici cittadini.

Significa allora che tutti costoro rappresentano una minaccia terroristica?
Che quelle signore con l'hijab sul capo che, sedute dietro agli uomini, si
prosternano in preghiera in direzione della Mecca, sono pronte ad
imbottirsi di tritolo e a farsi saltare in aria in uno dei nostri
supermercati? O forse che lo sono i loro mariti, che in questi mesi hanno
pianto di dolore per la sorte degli iracheni uccisi dalle bombe
intelligenti americane, o dei palestinesi massacrati dagli aerei
israeliani? Certo, nessuno nega che, nella massa, si possano nascondere
alcuni personaggi discutibili o addirittura pericolosi. Ma ciò non
significa avere il diritto di screditare tutti i musulmani in preghiera.

In questi mesi non si fa che parlare della disponibilità dello stato a
dialogare con l'islam moderato, ma allora, come mai non si accenna
all'interessante movimento di riforma che in Italia e nel resto dell'Europa
sta investendo le comunità islamiche?

Nel nostro Paese è proprio l'Ucoii, attraverso il suo segretario, Hamza
Roberto Piccardo, e molti altri intellettuali, ad impegnarsi in una
coraggiosa opera di riapertura dell'ijtihad, interpretazione, di rilettura
in chiave moderna della legge e del diritto musulmani (si veda l'intervista
pubblicata sul numero di aprile di Mondo e Missione e l'articolo sulla
pagina torinese di Repubblica del 20 aprile). Attraverso conferenze,
dibattiti, lezioni, pubblicazioni il gruppo di intellettuali sta svolgendo
attività di sensibilizzazione proprio nelle 400 moschee, e centri
culturali, accusate dai media di essere potenziali rischi per la sicurezza
dello stato. Durante la recente guerra contro l'Iraq, in una riunione
organizzata a Bologna dall'Ucoii, la maggioranza degli istituti islamici
italiani lì rappresentati ha approvato, per la prima volta nella storia
dell'islam nazionale, un documento piuttosto innovativo: in sette punti i
rappresentanti dell'organizzazione chiedevano a tutti i fedeli di assumere
atteggiamenti e comportamenti di reazione nonviolenta e pacifica alla
guerra, e a non interpretarla nei termini dello «scontro fra civiltà». Era
il 23 marzo. Da quel momento in poi molti balconi di famiglie e singoli
musulmani si sono riempiti di bandiere della pace, e molti cortei pacifisti
hanno accolto le comunità musulmane che esprimevano le loro paure e la loro
sofferenza.

Allora, «a chi giova il terrorismo? - si chiedeva qualche giorno fa padre
Giulio Albanese, direttore dell'agenzia stampa missionaria Misna
nell'editoriale on-line `Il terrorismo è la guerra del Terzo Millennio' -
(...) eppure, a pensarci bene, qualcosa non quadra. Perché mai questi
vigliacchi sono tornati a colpire proprio ora che la guerra contro Saddam
Hussein è finita? La raffica di attentati a Riad, Casablanca ed Ankara
sembra scattata in ritardo rispetto al presunto orgoglio dell'estremismo
arabo. Come mai quando le bombe cadevano a grandine su Baghdad questi
dementi sono rimasti in letargo?». E concludeva: «Certamente l'attacco
dell'11 settembre 2001 non è servito un granché ai popoli oppressi del sud
del mondo; direi piuttosto che ha fatto bene all'industria bellica
statunitense che ha finanziato (non è un mistero per nessuno!) l'elezione
di George W. Bush alla Casa Bianca. Anche bin Laden, che nei misteriosi
video fatti arrivare alla televisione in lingua araba al-Jazeera si
proclamava difensore dei musulmani, tutto sommato sta sempre più mettendo
nei guai l'intero mondo arabo. Una cosa è certa: questo terrorismo ha già
vinto a modo suo. Se infatti per combatterlo usiamo le armi all'uranio
impoverito o i B52 - quando per inciso il kamikaze di turno potrebbe essere
nascosto dietro l'angolo del portone di casa nostra - e soprattutto le
democrazie rinunciano alle garanzie proclamate dalle loro costituzioni o
dal diritto internazionale, `il serpente - recita un proverbio africano -
ha già posto le sue uova nel nido delle aquile'».