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Impressioni d'aprile: Note sulla situazione politica italiana
- Subject: Impressioni d'aprile: Note sulla situazione politica italiana
- From: "associazione culturale punto rosso" <puntorosso at puntorosso.it>
- Date: Fri, 25 Apr 2003 00:32:28 +0200
Mimmo Porcaro I m p r e s s i o n i d' a p r i l e Note sulla situazione politica italiana 0. Pur non potendo partecipare alla prossima riunione del Comitato politico nazionale del partito, intendo comunque fornire, in questo momento assai delicato, un mio contributo alla discussione dei compagni e delle compagne di Rifondazione e del movimento. Propongo quindi le seguenti riflessioni, consapevole del fatto che si tratta di pensieri azzardati. Ma credo che qualche generoso errore, in un momento di profondi e costanti mutamenti degli equilibri, possa essere più fecondo dell'elaborazione di qualche ponderosa verità, consegnata alle biblioteche in una fase di silenzio sociale. Attendo quindi con serenità severe critiche. 1. Se non ricordo male, fu Giovanni Guareschi, scrittore e polemista di destra molto attivo nei tardi anni '50, a dire che i comunisti hanno tre narici: per significare così la loro diversità - che essi rivendicavano e lui condannava - rispetto agli altri raggruppamenti politici. Da ciò un termine ancora usato da qualcuno: "trinariciuti". Mezzo secolo dopo, gli eredi di quei comunisti hanno vissuto, si sa, una mutazione genetica. Hanno perso una narice, ma in compenso hanno acquisito un terzo occhio. Solo così si spiega come, col voto bipartisan sull'ennesima missione umanitaria dell'eroico esercito patrio, la maggioranza dei DS e dell'Ulivo - con buona pace dell'opposizione interna - abbia potuto strizzare un'occhio agli americani, uno a Berlusconi ed un altro (il terzo) alla parte peggiore delle ONG (quella dell'umanitarismo paramilitare). Fuor di ironia (ma si tratta di amarezza più che di ironia), questo voto e la mancata reazione popolare ad esso, ci costringono a qualche mutamento di analisi e di indicazione tattica. Prima di tutto si deve considerare che la vittoria USA, per quanto gravida di nuovi problemi, rafforzerà, per un certo periodo, tutte le ipotesi di centrismo moderato. Sia chiaro: io penso che gli sviluppi dell'iniziativa USA siano anche forieri di una crisi del progetto di dominio, e che la guerra non possa essere impunemente condotta entro un certo raggio. Ma di questo parlerò in altra sede. Resta il fatto che, nel breve periodo, l'effetto della campagna in Iraq è il rafforzamento di tutte le componenti moderate, vista anche la momentanea ritirata delle opposizioni statuali a quella campagna (Francia e Germania, soprattutto, chè il ruolo della Russia mi è parso assai più ambiguo). Componenti moderate che oggi non a caso invitano la sinistra DS alla scissione, pensando che questa non possa aver luogo, o non possa aver luogo con successo. Miopia tattica? Forse. Effettivamente la linea centrista dell'Ulivo non sembra avere un grande spazio strutturale davanti a sé. Verrà certamente perseguita, ma potrebbe comportare un ulteriore indebolimento della coalizione o una sua più marcata connotazione bipartisan. Potrebbe comportare, insomma, una ulteriore perdita di ruolo "autonomo" della coalizione, visto anche che l'offerta politica che maggiormente differenziava l'Ulivo dal Polo, ossia quella del consenso sindacale al liberismo cosiddetto temperato, o non interessa più i padroni oppure è ormai è fornita dallo stesso Berlusconi, nella forma del Patto per l'Italia. Inoltre, l'ulteriore sterzata centrista dell'Ulivo non sembra avere molte prospettive nemmeno dal punto di vista, per così dire, politologico. Secondo alcuni opinionisti il limite strutturale dell'Ulivo rispetto al Polo starebbe nel fatto che, mentre nel Polo il partito dominante è un partito di centro, nell'Ulivo il partito dominante è un partito di sinistra. Da ciò la scarsa caratterizzazione centrista dell'Ulivo medesimo: un handicap decisivo in un sistema politico-elettorale che premia le posizioni di centro. La soluzione starebbe o nel sorpasso dei DS da parte della Margherita, o nella creazione del Grande Ulivo, o nella trasformazione dei DS in partito decisamente moderato. Quest'ultima è la linea scelta da D'Alema e dalla maggioranza del gruppo dirigente DS. Il ragionamento che ho appena esposto è infondato: presuppone l'esistenza di due blocchi relativamente coesi e presuppone che gli elettori fluttuanti, ossia gli indecisi, siano tutti elettori di centro. Ma le cose, almeno per il centro-sinistra, non stanno così. Infatti il problema fondamentale del centro-sinistra è proprio quello della coesione del blocco principale: il problema sta nell'individuazione degli elettori "fedeli" e non nella conquista degli elettori fluttuanti, o, meglio, le fluttuazioni rilevanti non avvengono al centro, ma alle estreme. Potenziali elettori di centro-sinistra votano per la destra; altri, numerosi, si astengono. Un altro gruppo importante di elettori vota per Rifondazione. In termini politologici sarebbe dunque più corretto dire che il problema dell'Ulivo è semplicemente quello delle alleanze a sinistra: con simili alleanze l'esito delle ultime elezioni sarebbe stato diverso. Ma un semplice e banale ragionamento del genere è inaccessibile al gruppo dirigente DS. Strato sociale da tempo autonomizzatosi dalla sua originaria base di riferimento, composto non semplicemente dal ceto politico tradizionale (burocratico e parlamentare), ma in buona misura da strati che traggono beneficio dalla privatizzazione e dalla precarizzazione del lavoro (amministratori di imprese privatizzate, consulenti, mediatori del mercato del lavoro, "formatori" di vario genere, ecc.) il gruppo dirigente centrale e periferico dei DS sembra inevitabilmente votato ad una politica moderata. Aiutato, in ciò, dai cascami della cultura del PCI: centralità dello sviluppo delle forze produttive (oggi: centralità dell'impresa, "sfida" della globalizzazione ecc.); priorità della politica (oggi più che mai: mediazione lobbistico-istituzionale); diffidenza verso la società civile. Di più: se il centro è, in linea astratta, quel luogo dello schieramento politico che meglio riflette il punto di equilibrio dei rapporti tra le classi (ossia il punto più favorevole alle classi dominanti), oggi quel punto di equilibrio è nettamente spostato a destra: il progetto di estensione del dominio sul lavoro non conosce vere mediazioni, conosce solo alternative sui tempi. Il centrismo di oggi coincide più di ieri con l'estremismo del capitale (al massimo, può rieditare qualche apparente coinvolgimento del sindacato, a parte che quest'ultimo si comporti di fatto come CISL e UIL). Insomma: la scelta centrista dei DS e del centro-sinistra appare poco fondata, sia socialmente che politicamente. Socialmente devastante non sembra nemmeno in grado di pagare dal punto di vista elettorale. E appare quindi, di fronte alle contraddizioni che questa scelta apre nell'Ulivo, del tutto ragionevole la nostra ipotesi di disarticolazione del centro-sinistra. EppureŠ 2. Eppure è difficile sfuggire alla sensazione che il centrismo possa ancora intorbidare le acque e mantenere un certo credito (soprattutto in forza delle linee oggi prevalenti nello scenario mondiale e nella stessa Unione Europea), e che alla prossima scadenza elettorale si giunga senza che sia stata fatta la necessaria chiarezza: di modo che la caduta di Berlusconi possa di nuovo apparire come un risultato sufficiente, al quale sacrificare qualunque richiesta di mutamento strutturale di linea politica. Una situazione, questa, che ci vedrebbe impaniati nel solito dilemma. Io credo che questa situazione non dipenda semplicemente dalle nostre palesi deficienze, dalla difficoltà di articolare una linea che pure è sensata, dall'incapacità - soprattutto in periferia - di cogliere appieno le opportunità aperte dalla non conclusa fase di destrutturazione del precedente schieramento ulivista. C'è di più. C'è, da un lato, la forza oggettiva dei gruppi capitalisti nostrani che al centrismo tengono. E, dall'altro c'è, io temo, un'adesione inerziale al moderatismo di centro sinistra da parte di gruppi sociali e componenti culturali che pure pagano alti prezzi al neoliberismo e/o si radicalizzano costantemente nel crogiolo del movimento; un'adesione che spiega in parte la mancata reazione del movimento per la pace al voto bipartisan di aprile. Per capire le ragioni di questa adesione inerziale (che può sicuramente essere un fenomeno in declino e che però per me è ancora sussistente) bisogna riflettere sul livello profondo della dinamica sociale italiana e cioè sulle diverse classi che compongono il potenziale schieramento alternativo nonché sulle diverse forme sociali dei movimenti. E proprio l'abbozzo di una riflessione del genere voglio proporre qui di seguito, dicendo subito che il mio ragionamento è frutto di una brutale semplificazione. 3. Ragionerò prima di tutto sulle tre classi (o coalizioni tra frazioni di classe) che stanno alla base dei tre diversi movimenti che hanno mutato la scena politica italiana (il movimento antiliberista, il movimento operaio, i girotondi), nonché sulle diverse forme sociali che i movimenti assumono. Per classi o frazioni di classe intenderò, molto tradizionalmente, gruppi di individui definiti dal loro ruolo nel processo di produzione e riproduzione; per forma sociale del movimento intenderò il modo in cui individui delle diverse classi si associano (magari assieme ad individui provenienti da altre classi o frazioni) per dar vita a specifici movimenti, creando a volte tipi parzialmente nuovi di rapporti sociali che si aggiungono a quelli di classe, modificandoli, rinforzandoli, o entrando in conflitto con essi. 3.1. Si può dire che il movimento antiliberista è formato da gruppi di lavoratori tradizionali radicalizzati (quelli raccolti nei sindacati extraconfederali - non a caso più forti nel pubblico impiego a causa della combinazione tra un forte processo di ristrutturazione e la permanenza di alcune garanzie che consentono la mobilitazione - e nella FIOM), da strati rilevanti di nuovo proletariato intellettuale e precario a volte aggregati in maniera più o meno saltuaria in imprese autonome di produzione culturale (penso all'area della disobbedienza, ai centri sociali, ecc.), ma soprattutto da numerose associazioni di società civile, in gran parte composte da volontari, ma anche da lavoratori retribuiti da cooperative dei più diversi tipi. Quest'ultima frazione (in parte, ma solo in parte, identificabile con le ONG) è la frazione più importante tra le componenti del movimento, sia in termini quantitativi che qualitativi. Essa rappresenta ormai una componente strutturale, permanente ed ineliminabile dei processi di produzione e riproduzione sociale, nasce dall'incontro tra l'esigenza oggettiva di una gestione non puramente statalistica della riproduzione e l'esigenza capitalistico-statuale di esternalizzare i servizi in funzione dell'incremento della quota di capitale da riservare alle imprese. La radicalizzazione di questa frazione nasce anche dal fatto che lo stato ed il capitale, mentre da un lato hanno favorito economicamente ed ideologicamente l'espansione del terzo settore, dall'altro lo hanno frustrato con dure restrizioni nei finanziamenti e con una politica fortemente contraddittoria rispetto agli scopi propri delle associazioni. L'insieme delle classi coalizzate nel movimento antiliberista ha dato vita ad aggregazioni politiche molto originali, sulle quali abbiamo molto spesso ragionato. Qui mi preme sottolineare due caratteristiche relative alla forma sociale del movimento. a) Il movimento produce tendenzialmente una figura sociale nuova, che trova origine nelle classi "di partenza" ma che è anche diversa da esse: è la figura del lavoratore sociale cooperativo, ovvero del lavoratore la cui attività ha per oggetto direttamente i rapporti sociali, nonché la connessione tra i diversi luoghi in cui si svolge questa attività. Questa figura potenziale non pertiene solo al famoso volontariato, ma si trova diffusa in quasi tutto il lavoro, che spesso è oggi orientato, prima che alla produzione di beni e servizi, alla produzione di rapporti sociali. Bisogna precisare che prima del movimento la figura del lavoratore sociale cooperativo non esiste: o, meglio, gli elementi di cooperazione che si danno spontaneamente nelle singole strutture di partenza sono strettamente commisti alle logiche di riproduzione dei rapporti capitalistici. Nel movimento invece, e soprattutto nelle istituzioni che del movimento sono la nervatura, questi elementi cooperativi vengono esaltati (senza per questo creare un lavoro cooperativo puro, del tutto esente da pratiche di tipo capitalistico ed esente da nuovi, specifici problemi). I lavoratori sociali del terzo settore e del no-profit sono indotti a ragionare sulla struttura interna del loro lavoro, sono spinti a connettersi con altri analoghi lavoratori, nonché ad affrontare problemi politici generali. I lavoratori più tradizionali sono spinti ad esaltare l'aspetto sociale del loro lavoro, ad uscire da logiche puramente rivendicative, a pensare ad una autonoma economia politica. Questa trasformazione delle figure sociali di partenza è il segno dell'efficacia del movimento come luogo di potenziamento delle classi subalterne, come luogo di possibile trasformazione delle classi subalterne in classi dominanti, o comunque capaci di iniziativa politico-sociale autonoma. b) Questa trasformazione (che, lo dico subito, per ora non si registra negli altri movimenti) non avviene grazie ad un partito, ma grazie all'insieme delle istituzioni di movimento (tra cui anche il nostro partito). Lo spostamento che la politica di queste istituzioni attua non è uno spostamento "in avanti" o "in alto", ma è prima di tutto uno spostamento laterale: accanto alle pratiche ed al lavoro usuale si condensano altre pratiche ed altro lavoro. Gli stessi individui che esistono come lavoratori sociali settoriali, legati ancora a logiche di riproduzione di sistema, funzionano anche come lavoratori sociali in senso tendenzialmente pieno, a volte modificando dall'interno il proprio lavoro, in parte affiancando al lavoro usuale altre e nuove pratiche. Ciò comporta che nel movimento non si crea, per ora, un gruppo sociale autonomo avente interessi sociali differenti ed a volte opposti a quelli delle classi di origine, votati esclusivamente alla mediazione politico-istituzionale. Questo non significa che non si formi un ceto politico distinto, che non vi sia un gruppo relativamente stabile ed identificabile di dirigenti più o meno informali: significa solo che moltissime delle funzioni politiche sono svolte da militanti non specializzati, e che la legittimazione, il finanziamento ed i valori dei militanti maggiormente specializzati si radicano ancora nel gruppo sociale di riferimento. Non è un destino, non c'è nessuna garanzia che tutto ciò continui, ma è pur sempre un fatto che accresce, in questa fase, la tendenza all'autonomia culturale e politica delle classi che stanno alla base del movimento antiliberista. Non è un caso, quindi, che questo movimento sia oggi la punta più radicale del complesso dei movimenti popolari italiani e che esso sia l'unico a produrre almeno il tentativo di delineare un'alternativa anche sul terreno decisivo delle scelte economiche. Questa tendenziale autonomia deriva: i) dalla collocazione strutturale dei lavoratori del terzo settore (forza portante del movimento), che sono necessari al funzionamento del sistema, quindi necessari al funzionamento del capitalismo, ma nello stesso tempo non lavorano alle dirette dipendenze del capitale e dello stato e quindi non risentono degli effetti del ciclo economico nello stesso modo in cui ne risentono altri; ii) dalla mancanza di un ceto politico autonomizzato, e quindi dalla possibilità di elaborare una strategia senza dover dipendere da un gruppo sociale "altro", avente interessi propri. Vi sono peraltro due importanti fattori che possono minare la tendenziale autonomia del movimento: i) la presenza di logiche di impresa all'interno del terzo settore, e dunque la presenza di strati sociali interessati alla redditività del capitale ed alla riproduzione di ruoli manageriali o comunque direttivi, e quindi maggiormente propensi a ricercare compromessi con le classi dominanti; ii) la tendenza, che peraltro è anche uno dei motivi della forza del movimento, ad enfatizzare l'azione hic et nunc a scapito del tentativo di individuare forme d'azione politica capaci di incidere sui centri decisionali, senza per questo ricadere nei meccanismi usuali della rappresentanza. Ma su questo punto ritornerò alla fine. 3.2. Il grosso del movimento dei lavoratori di tipo più tradizionale non si è ancora veramente connesso al movimento antiliberista. Esso è ancora legato allo strato di funzionari, esperti, mediatori di vario genere che si è aggregato nelle strutture sindacali e che ne determina le linee fondamentali, in assenza di vere ed efficaci forme di controllo da parte dei lavoratori stessi. E la linea fondamentale di questo strato è sostanzialmente quella dell'accettazione della logica economica nonché della logica istituzionale corrente, accettazione che garantisce un ruolo al sindacato anche a prescindere dalla sua effettiva attitudine ed efficacia vertenziale. Le recenti iniziative del governo, però, (lesione dell'articolo 18, "patto per l'Italia") hanno creato un eccesso di indebolimento e di dipendenza del sindacato, tale da minarne in prospettiva ogni ruolo rilevante. Da ciò l'iniziativa della CGIL, il sindacato che per tradizione, cultura ed ambizioni generali è più propenso a difendere un proprio ruolo autonomo, foss'anche quello che gli consente di scegliere autonomamente di subordinarsi alla logica del mercato. L'iniziativa sull'articolo 18 ha avuto un enorme successo di massa, superiore a quello generalmente ipotizzabile anche per le più grandi manifestazioni "operaie", soprattutto perché la CGIL è stata vista come la protagonista di uno scatto d'iniziativa della sinistra tutta: è stata assunta, di fatto, come l'unica vera organizzazione di massa della sinistra, l'unico partito socialdemocratico italiano realmente esistente. Questo è tra l'altro il motivo, sia detto per inciso, della debolezza dell'ipotesi del "partito del lavoro": appena si esce da una nozione banale di partito, appena si capisce che in determinate epoche vi possono essere strutture non partitiche che svolgono di fatto una funzione (almeno parziale) di partito, appare evidente che il "partito del lavoro" c'è già, ed è la CGIL (o, meglio, la CGIL connessa a parti del gruppo parlamentare DS). Ogni tentativo di crearne un altro non può che condurre ad una pallida imitazione dell'originale. Ciò, almeno, nelle condizioni attuali. Detto questo, si deve aggiungere che la rottura operata dalla CGIL rispetto al precedente quadro di relazioni (rottura dal valore politico indubbio) riguarda"solo" la battaglia per i diritti (e nei termini relativamente prudenti che sappiamo) e per la rivendicazione di un ruolo autonomo del sindacato (ossia della possibilità di scegliere autonomamente la via della concertazione). Dal punto di vista delle piattaforme contrattuali, della loro gestione e delle proposte di politica economica, non vi è invece nessuna rottura con le pratiche e le concezioni precedenti (con la parziale eccezione della FIOM). Nonostante le insistenze di Rossanda, non si riesce a far cambiare idea a Cofferati sulla valutazione della globalizzazione, del neoliberismo, delle scelte economiche dell' Unione Europea. 3.2.1. Il fatto che la più grande organizzazione "operaia", anche quando radicalizza le proprie posizioni politiche, non riesca ad operare una vera rottura con l'ideologia e le pratiche dominanti dovrebbe indurci ad amare riflessioni. La cosa è spiegabile solo accettando l'idea che la classe operaia italiana ha stabilito da tempo, suo malgrado, un'alleanza con il padronato e non riesce ad uscire da questa prospettiva nemmeno quando è il padronato stesso a rompere l'alleanza o a renderla sempre più onerosa. Se questa tesi appare troppo ardita o indelicata, vediamo di formularla in un altro modo: i sindacati, ovvero quello specifico strato sociale costituito dai funzionari sindacali, dai consulenti, "formatori" ecc. legati ai sindacati, si è da tempo alleato al padronato offrendo moderazione contrattuale e condivisione ideologica in cambio della garanzia d'una legittimazione sociale che non era più assicurata dal riferimento al lavoro dipendente, dato il notevole indebolimento di quest'ultimo. La maggioranza della classe operaia e dei lavoratori del settore pubblico ha accettato, spesso obtorto collo, una simile alleanza senza saper proporre alcuna alternativa. Cerchiamo di non ingannarci con la solita canzoncina del tradimento dei "vertici" contro la "base": questi vertici sono per ora legittimati dall'appoggio sostanziale (anche se contradittorio, precario, ambiguo) della base. Certo: la cosa ha molte spiegazioni. La classe operaia dipende materialmente dalla sua controparte, è esposta ai ricatti del ciclo economico, della disoccupazione, della flessibilità. In assenza di una visibile alternativa ha barattato la moderazione salariale (e non solo) con la speranza di conservare il posto di lavoro e facendo mostra di credere alle favole sulla creazione di nuova occupazione. E certamente la cosa non è definita una volta per tutte, la situazione è in continuo mutamento, la radicalizzazione politica può avere effetti più generali. Ma il fatto resta: oggi il lavoro dipendente, se in parte produce una critica degli aspetti politico-giuridici dell'iniziativa padronale, resta per altri ed importanti aspetti subalterno alla logica neoliberista, incapace di pensare una radicale critica della politica economica italiana ed europea, incapace di pensare ad alternative nell'organizzazione giuridica e "tecnica" dei rapporti di lavoro. Ripeto, è un fatto. Non è un destino, non riguarda tutta la classe operaia di tutto il pianeta, ma certamente riguarda la classe operaia italiana ed europea. Non si può da questo semplice fatto dedurre una teoria generale del tramonto della classe operaia come soggetto rivoluzionario: ma è necessario dedurne la consapevolezza che, in questo momento, il movimento operaio (italiano ed europeo) non è affatto la punta di lancia dei movimenti popolari (si vedano le difficoltà a varare una giornata continentale di lotta contro la guerra), e che il mutamento di questo atteggiamento è difficile proprio in quanto comporterebbe la rottura di un'alleanza decennale con la controparte, nonché la produzione di un gruppo dirigente nuovo, selezionato da procedure realmente democratiche di decisione. E questo è il punto più dolente, l'indice più chiaro della difficoltà, per la classe operaia, di produrre una politica propria: la quasi completa incapacità di dar vita a strutture democratiche autonome, a procedure decisionali consiliari o para-consiliari (anche nei luoghi in cui la "deterritorializzazione" fisico-giuridica del lavoro non si è pienamente compiuta), a forme di aggregazione territoriale adeguate alla nuova frammentazione dell'impresaŠ La ripresa di iniziativa sindacale e politica, quando avviene, avviene spesso nella forma della delega. La radicalizzazione di molti lavoratori a contatto del movimento antiliberista è radicalizzazione di individui e non di lavoratori: individui che finita l'assemblea di movimento o la manifestazione, tornano a lavorare senza riuscire a trovare, per ora, un vero nesso tra l'una e l'altra forma della loro esperienza. Insomma: l'attuale incapacità del lavoro dipendente a produrre autoorganizzazione, a trasformarsi in qualcos'altro nel corso della mobilitazione politica, è l'indice più serio della sua incapacità di porsi all'altezza dei problemi individuati dal movimento antiliberista. Per converso, è l'indice della difficoltà che il movimento antiliberista incontra nell'esportare il suo modello d'azione (e quindi i suoi contenuti) ad altri decisivi settori della società. 3.3. Quanto ai "girotondi" si deve dire che qui abbiamo a che fare con un movimento che, almeno ad una prima osservazione, risulta avere una base di massa definibile per via essenzialmente politica: si tratta in prevalenza di elettori di centro sinistra frustrati (e come potrebbero non esserlo?) dall'attuale conduzione della coalizione, elettori che chiedono un ricambio della "classe dirigente" del centro sinistra, una radicalizzazione e più netta demarcazione dell' Ulivo rispetto al Polo sui temi della giustizia e dell'informazione, una più coerente difesa dei diritti elementari dei lavoratori. Ma poco o nulla sembrano avere da dire, questi elettori, sugli indirizzi generali di politica economica (se non, in alcuni casi, una riproposizione oggi abbastanza improbabile d'una via clintoniana allo sviluppo democratico e sostenibile del capitalismo). Se la base di massa del movimento è difficilmente definibile - se non facendo ricorso superficialmente alla nozione di "ceto medio riflessivo" - meno difficile mi pare l'identificazione della provenienza sociale dei gruppi dirigenti del movimento. Si tratta in generale di lavoratori intellettuali di alta o medio-alta qualificazione (magistrati, giornalisti, artisti, docenti) la cui relativa autonomia è minacciata dalla politica governativa in materia di giustizia, istruzione, informazione, e che iniziano a chiedersi quanto dei processi politici "implementati" - come si dice oggi - dal centro-destra non sia stato concepito o iniziato dal centro-sinistra. Due sono gli aspetti rilevanti di questo particolare gruppo dirigente di movimento. Prima di tutto va considerato che quasi nessuno dei suoi componenti aspira a diventare parte organica del ceto politico "classico": essi intendono svolgere una funzione politica sulla base del loro status professionale, senza mutarlo, ponendosi a presidio della "società civile" come esponenti di rilievo di una nuova "opinione pubblica di massa". Al rifiuto della trasformazione in ceto politico (motivato sia da nobili intenti sia dal fatto che il prestigio del politico di professione è oggi in netto declino) si accompagna però anche un rifiuto o comunque una scarsa attitudine alla considerazione critica del proprio ruolo sia come produttori di sapere che come organizzatori di lavoro. Nulla - nella cultura e nelle intenzioni politiche del movimento dei girotondi - impedisce, ad esempio, ad un magistrato ultrademocratico, fortemente impegnato nella sacrosanta battaglia in difesa del principio di legalità, di comportarsi, nella veste di dirigente d'un ufficio giudiziario, come il più decisionista dei managers , capace di imporre le proprie esigenze di produttività (e quindi di carriera) - non sempre coincidenti col miglioramento del sevizio pubblico - sulla testa dei lavoratori e delle pur moderate organizzazioni sindacali. Gli intellettuali girotondini, insomma, non sembrano portati a quella che una volta veniva chiamata "critica del ruolo" (ossia alla valutazione ed alla messa in discussione della propria posizione nella divisione del sapere e del lavoro), che invece è almeno tendenzialmente presente nello stile di lavoro di buona parte del movimento antiliberista. Ciò concorre a spiegare il secondo aspetto che voglio evidenziare, ossia il carattere parziale e limitato del rapporto dei girotondi con gli altri movimenti. In parole povere: quando i girotondi si connettono, ad esempio, alla CGIL, non lo fanno percependosi in qualche modo come lavoratori che si uniscono ad altri lavoratori. Lo fanno soprattutto per un motivo di difesa generale dei diritti e perché riconoscono oggi alla CGIL il ruolo di supplenza politica di fronte al penoso spettacolo della dirigenza DS. 4. Movimento antiliberista, movimento operaio e girotondi sono confluiti nel grande movimento per la pace, che certamente assomma molte delle caratteristiche delle precedenti mobilitazioni (carattere di massa, organizzazione generalmente extrapartitica e reticolare, capacità di connessione di impostazioni anche divergenti), ma ne presenta un'altra, qualitativamente nuova. Oltre a tutte le considerazioni che si possono fare su questo movimento vorrei attirare l'attenzione sul fatto che esso è stato possibile - nelle sue inattese dimensioni - grazie alla scesa in campo della grande maggioranza del mondo cattolico, nelle sue diverse sfumature culturali ed organizzative. Certo, i cattolici italiani sono stati trasversalmente presenti in tutte le esperienze di cui ho parlato prima, ma mi pare che negli ultimi tempi si sia verificato un fenomeno nuovo, per ampiezza e qualità. Infatti, data la generale secolarizzazione dell'esperienza politica, la partecipazione dei cattolici, per esempio, al movimento operaio, pur se vissuta come "testimonianza", non implica necessariamente una mobilitazione di tutti gli aspetti della propria identità di credenti. Come direbbe un sociopsicologo: le risorse valoriali del movimento operaio possono essere sufficienti, in questo caso, a definire il senso dell'azione. Ma nel movimento per la pace vengono interpellate e mobilitate immediatamente le risorse dell'identità religiosa in quanto tale. E nel movimento quella stessa identità può essere indotta a scoprire il rapporto tra guerra e capitalismo (o quantomeno tra guerra e neoliberismo), e quindi a porsi altre e più generali domande. Insomma, ripeto che ho l'impressione che col movimento per la pace l'apporto dei cattolici italiani al movimento in generale abbia registrato un salto di qualità. La cosa è di grande importanza, a prescindere dai suoi effetti politici visibili ed immediati. Infatti: i) il tendenziale spostamento del mondo cattolico sposterebbe l'intero baricentro della politica italiana e soprattutto ii) potrebbero aumentare in maniera significativa le forze che (confusamente, come tutti noi) si muovono nella prospettiva della costruzione di un'alternativa generale al capitalismo. E' certamente giusto nutrire scetticismo nei confronti di quanto ho appena detto, avanzare motivate riserve sui moventi che hanno indotto la Chiesa ad opporsi alla guerra in Iraq e non a quella contro la Serbia, denunciare le posizioni dominanti all'interno della gerarchia cattolica, ecc. . Lo scettico dovrebbe anche considerare, però, che l'ultimo grande spostamento "a sinistra" conosciuto dalla società italiana (quello iniziato alla fine degli anni '60) è stato preceduto da un lento ma sicuro spostamento del mondo cattolico ai suoi più diversi livelli (dal Concilio Vaticano II all'azione delle comunità di base, ecc.) e che il successivo spostamento "a destra" è stato a sua volta preceduto da analogo movimento dei cattolici (dal fiorire di CL al papato Wojitila, netta sterzata rispetto all'eredità del papato Roncalli ed allo stesso, pur moderato, magistero Montini). E dovrebbe anche considerare che la componente cattolica del movimento di classe ha dato vita ad alcune delle più importanti esperienze di critica complessiva dell'ordinamento capitalistico (penso, ad esempio, alla FIM-CISL degli anni '70); e che, nel gelo degli anni '80, quando gran parte degli ultrasovversivi di origine left-communist del (recentissimo) passato trovava ospitale ricetto tra le braccia delle istituzioni dominanti, molti dei quadri di derivazione cattolica, pur moderando notevolmente la loro politica, restavano eticamente ed antropologicamente fedeli ai valori ed ai comportamenti ormai ritenuti "obsoleti". Insomma, un buon materialista non può che valutare con estrema attenzione e favore questo tendenziale nuovo spostamento del mondo cattolico e cercare di interpretarne il senso ed influenzarne, per quanto possibile, l'evoluzione. 5. Il movimento per la pace, nonostante il suo grande rilievo e l'importante segnale politico-culturale offerto dall'iniziativa dei cattolici, non è però riuscito almeno per ora né a superare o modificare le differenze e le interne dinamiche dei singoli movimenti che lo compongono, né ad agire come soggetto pienamente efficace proprio sul terreno della guerra. Non si può certamente imputare al movimento per la pace il non essere riuscito a fermare la guerra. Dati gli attuali rapporti di forza, ciò non era possibile: e sarei molto prudente nell'associarmi alle litanie sulla "seconda potenza mondiale", non a caso intonate da quotidiani di parte avversa. Proprio perché sono convinto che sia molto più realistico, in questa fase, puntare sulla forza del movimento piuttosto che sui conflitti fra gli stati, altrettanto sono convinto che questa forza debba crescere ancora, e molto, prima di poter raggiungere i suoi scopi. Non "fermare la guerra", dunque, ma almeno trarre le giuste lezioni dalla conclusione della guerra e dal rapido riallineamento di gran parte del fronte che poco prima la contrastava o la criticava: capire che è necessario attrezzarsi a modificare le decisioni politico-statuali che (mi sembra di poterlo direŠ) ancora contano, eccome. 5.1. Credo , però, che la consapevolezza di quanto sopra sia scarsamente diffusa nel movimento, e che tutto ciò configuri una situazione che potrei chiamare di radicalismo dimezzato, situazione che alimenta l'adesione inerziale al moderatismo di centro-sinistra di cui parlavo all'inizio. Il movimento operaio tenta di rompere gli equilibri politici, mantenendo però un atteggiamento a dir poco prudente in materia economico-contrattuale. I lavoratori manifestano sovente insoddisfazione per le "chiusure" contrattuali, ma si limitano a delegare al sindacalismo radicale (quando c'è) la gestione di difficili quando non improbabili riaperture di trattativa. Il movimento dei lavoratori intellettuali "classici" rivendica la difesa della propria autonomia, la difesa dell'idea stessa di giurisdizione, di scuola pubblica ecc., fa fuoco e fiamme contro l'attuale dirigenza ulivista, ma non sa proporre altro che l'amletica figura di Cofferati ed una qualche riedizione del capitalismo ben temperato di prodiana ascendenza. Il movimento per la pace riempie le coscienze e le piazze ma non riesce a fare l'unica cosa sensata da farsi dopo il voto bipartisan sulla gestione della fase post-bellica in Iraq: una pacifica, civile, garbata occupazione delle sedi dei partiti già "pacifisti" ed ora vilmente ed ipocritamente belligeranti. Insomma, c'è una grande agitazione, un gran fermento: idee, riunioni, reti, movimenti, scioperi, manifestazioni di bellezza esaltante, mutamenti di coscienza, radicalizzazioni, progetti di società alternativaŠma tutto si arresta alle soglie della produzione di capitale e del potere politico. Nessuna alternativa di politica economica (se si esclude il movimento antiliberista, che almeno prova a definirne i tratti), nessuna concreta alternativa di governo oppure di opposizione sociale realmente efficace sul piano delle decisioni politiche. E' la bellezza dell'esodo, si dirà: via dai riti e dalle fatiche del lavoro e della politica, il movimento è nomade, è sempre altrove, non accetta il terreno dello scontro che il capitale e lo stato vogliono imporgliŠ 5.2. Ma io credo che l'esito della guerra e la sua conclusione dimostrino ancora una volta che l'esodo non basta. L'esodo, per carità, è un momento decisivo di ogni processo di emancipazione. E' il momento in cui si definisce l'identità dei soggetti che danno o daranno vita ad un processo rivoluzionario, ed implica quindi uno spostamento rispetto ai luoghi in cui si esercita il potere che si vuole contrastare: può essere uno spostamento geografico, o istituzionale, o sociale, o puramente mentale, ma deve essere comunque la costruzione di un altrove. Ma questo altrove non può essere sempre e comunque un punto di fuga verso un territorio completamente diverso da quello in cui si vive. Nella realtà attuale è impossibile (se non per pochi, e momentaneamente) sfuggire alle logiche del capitale e della politica di stato ( del piccolo o del grande stato, dell'entità politica sovra statuale o sub statuale, eccŠ). Si possono e si devono definire i propri valori, la propria identità, la propria scienza fuori da queste logiche, costruendo istituzioni di movimento che siano in qualche misura produttrici di novità: e questo è l'esodo. Poi c'è il ritorno: il soggetto costituitosi al di fuori delle logiche dominanti deve confrontarsi ora con queste logiche che comunque decidono ed attuano guerre, politiche economiche socialmente devastanti, dissoluzioni del diritto, innalzamenti di confini magari fittizi, ma comunque difesi con armi e sanzioni giuridico-disciplinari. L'esodo è permanente, nel senso che sempre e comunque la natura del movimento è definita dalle sue autonome istituzioni; ma anche il ritorno è permanente, nel senso che la forza accumulata nell'esodo e costruita secondo modelli diversi da quelli statuali, non può farse a meno di confrontarsi con un avversario che esiste, e decide anche per noi. Non è quindi l'idea di esodo che va contrastata, ma l'idea di esito senza ritorno. L'idea che, una volta fuggito, il soggetto abbia fatto tutto ciò che doveva fare per essere libero, come se stato e capitale non decidessero comunque più sulla sua vita. Ma dietro l'immagine dell'esodo senza ritorno c'è un'immagine di autosufficienza del "sociale" che è davvero difficile contrastare perché è molto vicina ai punti di forza del movimento, alla giusta critica della politica, alla giusta scelta dell'azione concreta. E questa idea si incontra con (ed in parte si genera da) l'esperienza dell'azione sociale cattolica: un'esperienza nutrita di un misto di diffidenza verso la politica e di opportunismo, che sceglie o sceglieva ciò che meglio può garantire una relativa autonomia di pratica sociale quotidiana. Quest'idea di autosufficienza del sociale, spesso rivenduta come dernier cri al mercato delle svolte epocali, come ultimo frutto della globalizzazione, è in realtà legata all'immagine di una società ricca ed "affluente", di un'economia dinamica ed in costante crescita nella quale, qualunque sia la decisione politica, essa non intacca i fondamenti di ricchezza che ci consentono comunque di continuare ad espandere la nostra sfera sociale d'azione. E' dunque connessa ad un'epoca che non esiste più. Oggi, quasi in ogni decisione politica è in gioco la sopravvivenza di decine di migliaia di individui. E' in gioco la persistenza delle condizioni materiali minime di sussistenza, senza le quali non si dà nemmeno vera autoorganizzazione sociale. L'indifferenza in materia di politica non è quindi più concessa. L'opportunismo o non paga, o è complice. L'iniziativa del movimento, proprio perché non vuole essere eterodiretta da decisioni politiche, proprio perché deve essere autonoma, deve estendere il raggio della propria autonomia fino alla sfera della decisione politica. Altrimenti si ripeterà una scena più volte vista e rivista: forti movimenti sociali che si proclamano indifferenti alla politica, che poi di fatto appoggiano questa o quella politica elaborata da altri, e che alla fine cadono nelle trappole che la politica - anche nelle situazioni attuali - sa sempre magistralmente approntare: militarizzazione, o corruzione, o cooptazione subalterna, o tutto ciò assieme. Solo che oggi, a differenza del vecchio adagio marxiano, la storia non si ripeterebbe in farsa ma in tragedia: proprio perché è notevolmente indebolita (e indebolita, ahimè, non dalla crescita illimitata della moltitudine, ma in primis dalla crescita del potere del capitale) la politica è costretta ad usare le sue armi in maniera più diretta ed immediata: ed ai movimenti non sarebbe concesso molto facilmente di vivacchiare negli interstizi del sistema e forse nemmeno di immergersi carsicamente. 6. Fuor di filosofia, e passando ad indicazioni più pratiche, tutto questo che cosa significa? Io credo che il radicalismo dimezzato abbia due volti. Il primo è l'inesistenza di una vera, trasversale ed efficace alleanza del lavoro sociale, capace di unire in una piattaforma di rivendicazioni elementari i lavoratori dei settori tradizionali e tutti gli altri. E quindi capace di costruire un blocco che sia in grado di avere una più forte influenza nel conflitto di classe e sulle decisioni pubbliche. Il secondo è l'inesistenza di una piattaforma politica che sappia tradurre le richieste più avanzate del movimento in una decina di punti (in materia di pace, diritti, politica economica, immigrazione, welfare, reddito di cittadinanzaŠ) che abbiano l'efficacia chiarificatoria del referendum sull'articolo 18, permettano di far capire chi è con noi e chi è contro di noi, costringano altre forze a schierarsi, consentano di negoziare un programma di governo o di impostare una più efficace opposizione. E permettano al movimento stesso di meglio capire e definire i propri valori ed i propri scopi. Il tutto nella consapevolezza che la "ragione sociale" del movimento è appunto il "lavoro sociale cooperativo", che l'intervento nei meccanismi statuali è strumentale a questa "ragione sociale", che il movimento non si limita a formulare generiche domande, ma fornisce linee guida di soluzioni pratiche, che gli eventuali "rappresentanti" del movimento a livello istituzionale saranno soggetti il più possibile a revoca, rotazione, controllo costante. 6.1. Per costruire l'alleanza del lavoro sociale è necessario prima di tutto (parlando dei nostri compiti) che vi sia un'azione coordinata fra tutti i compagni del partito che lavorano in tutti i sindacati. Mi sembra veramente ridicolo dover star qui a parlare di questa che per un partito, non dico per un partito comunista, dovrebbe essere cosa ovvia. Eppure cosa ovvia non è, visto che raramente riusciamo a farla, e visto che spesso riesce ostica anche ai compagni che più degli altri insistono sull'autonomia del partito, sul suo necessario ruolo dirigente, ecc.. Ma soprattutto è necessario che si sblocchi la situazione di sostanziale passività di gran parte dei lavoratori, e questo non può essere solo il frutto di una azione di partito, per quanto intelligente e coordinata, né di un favorevole mutamento del ciclo economico (peraltro abbastanza improbabile). E' necessario un lavoro di contaminazione culturale che aumenti la consapevolezza dei militanti del movimento antiliberista d'essere una parte d'uno schieramento di lavoratori, e consenta ai lavoratori tradizionali di capire davvero che la lotta del movimento parla direttamente dei loro problemi, e che possono portare anche nel luogo (o non-luogoŠ) di lavoro il linguaggio ed i desideri eventualmente immagazzinati nella partecipazione ad azioni di movimento. Si deve fare in modo che ad ogni assemblea operaia partecipino rappresentanti del movimento antiliberista, e viceversa. Bisogna incrementare i punti di contatto. Bisogna valutare e diffondere, ad esempio, l'esperienza fatta dai disobbedienti a Torino e a Termini Imerese in occasione della crisi FIAT. E, ogni volta che si riesce a farlo, bisogna formulare proposte ed obiettivi in materia di lavoro che inizino ad interpellare anche una parte del movimento dei girotondi, vista appunto come parte composta da lavoratori potenzialmente in grado di ridiscutere il loro eventuale ruolo direttivo nel processo di lavoro, o comunque interessati a ragionare su come ricomporre o attenuare la scissione fra i diversi settori della produzione sociale, oggi favorita e inasprita dalle tendenze dell'accumulazione capitalistica. 6.2. La costruzione di una piattaforma politica del movimento è cosa che da sola richiede riflessioni più ampie di quelle svolte in queste pagine. Richiede il mantenimento della natura specifica del movimento, che è quella della priorità dell'azione sociale, ma anche il superamento della ideologia dell'autosufficienza del "sociale". Richiede la concentrazione di esperienze e teorie per enuclearne i punti più qualificanti e maggiormente realistici. Richiede di rispettare il criterio decisionale fondamentale, che è quello del consenso, ma anche di riflettere sui limiti di questo criterio. E richiede, infine, di individuare con sufficiente precisione, ma anche con sufficiente elasticità, quali siano i soggetti di questa operazione, quali ne siano gli interlocutori esterni, ecc. . Per adesso io mi limito ad una riflessione su questo ultimissimo punto: a chi viene rivolto l'invito alla costruzione di una piattaforma politica? Bene: io credo che noi sbaglieremmo davvero se limitassimo questo invito (per scelta o per inerzia) a quella che abbiamo chiamato la "sinistra di alternativa". E questo perché la sinistra d'alternativa potrebbe essere un ambito troppo ristretto rispetto al complesso del movimento, potrebbe essere vista, con qualche ragione, come l'adunata di un ceto politico abbastanza facilmente identificabile, legato ad esperienze datate e non completamente rielaborate. So bene che, almeno nelle intenzioni, non è così, e so anche che la proposta della sinistra d'alternativa è solo uno dei passi, dei tasselli di un'azione politica più ampia. Ma mi chiedo se questa proposta intermedia non possa essere da subito formulata in maniera più coinvolgente. Per dirla tutta: credo che la proposta in esame sia probabilmente invecchiata rispetto agli sviluppi ed alle potenzialità della situazione. La disarticolazione dell'Ulivo e della "sinistra moderata" è ancora all'ordine del giorno: ma questa non è il frutto dello scontro fra due attori "singolari" (la sinistra d'alternativa contro la sinistra moderata), bensì il frutto dell'interazione conflittuale fra due diversi sistemi di attori sociali, ciascuno composto da forze eterogenee. A cavallo di questi due sistemi sta la nuova, importante stagione di attivismo del mondo cattolico, ed una proposta intermedia che non sapesse da subito rivolgersi a questa forza la consegnerebbe immediatamente alla sinistra moderata, o meglio a qualche ipotesi neoriformista (asse Prodi-Cofferati) che poi la condurrebbe, pur se tortuosamente, tra le braccia di D'Alema. Invece di disarticolare l'Ulivo, l'idea della sinistra d'alternativa rischia dunque di apportargli nuova linfa, precludendo da subito l'ingresso di forze che spesso hanno anche difficoltà a definirsi propriamente di sinistra (e, francamente, non mi sembra si possa dar loro torto sul puntoŠ) e che pure hanno mostrato comportamenti e valori che divergono oggettivamente, almeno su questioni essenziali, dalla linea dominante dell'Ulivo. Ecco, questo è, a mio avviso, uno dei più importanti problemi tattici che abbiamo di fronte. Un problema da affrontarsi con delicatezza, sapendo che l'insieme di relazioni che riusciamo a definire oggi, in questo momento creativo e germinale di nuove identità politiche, ci accompagnerà per una lunga fase. Quello che acquisteremo oggi lo terremo con noi per lungo tempo. Quello che perderemo oggi sarà perduto forse per sempre. Torino, 23 aprile 2003.
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