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PACEM IN TERRIS-LA PACE PREVENTIVA DI GIOVANNI XXIII
- Subject: PACEM IN TERRIS-LA PACE PREVENTIVA DI GIOVANNI XXIII
- From: "DOMENICO MANARESI" <bon4084 at iperbole.bologna.it>
- Date: Sun, 13 Apr 2003 21:58:59 +0200
Bologna, domenica 13 aprile 2003 Leggo su "il manifesto" di venerdì 11 Aprile 2003 (a pag. 15) l'articolo di G. SANTOMASSIMO (vedi qui di seguito E ANCHE IN ALLEGATO) che ricorda l'enciclica "Pacem in terris" nel 40° anniversario della sua pubblicazione. Mi sembra un'analisi molto completa e anche molto ben fatta: è l'enciclica del ripudio assoluto della guerra. (N.B. le sottolineature sono mie) Ma allora sorge un dubbio. Mi chiedo e vi chiedo: come è possibile che (molti anni dopo questo "ripudio assoluto della guerra") Papa Wojtyla abbia firmato il "Catechismo della Chiesa Cattolica" (CCC - promulgato appunto dall'attuale pontefice Giovanni Paolo II l'11 ottobre 1992) ove si legge al PARAGRAFO 2309 (guerra giusta) 2309 - Si devono considerare con rigore le strette condizioni che giustificano una legittima difesa con la forza militare. Tale decisione, per la sua gravità, è sottomessa a rigorose condizioni di legittimità morale. Occorre contemporaneamente: - Che il danno causato dall'aggressore alla nazione o alla comunità delle nazioni sia durevole, grave e certo. - Che tutti gli altri mezzi per porvi fine si siano rivelati impraticabili o inefficaci. - Che ci siano fondate condizioni di successo. - Che il ricorso alle armi non provochi mali e disordini più gravi del male da eliminare. Nella valutazione di questa condizione ha un grandissimo peso la potenza dei moderni mezzi di distruzione. Questi sono gli elementi tradizionali elencati nella dottrina detta della «guerra giusta ». La valutazione di tali condizioni di legittimità morale spetta al giudizio prudente di coloro che hanno la responsabilità del bene comune. Altro dubbio: non è un po' piratesco affermare che "ŠLa valutazione di tali condizioni di legittimità morale spetta al giudizio prudente di coloro che hanno la responsabilità del bene comuneŠ" Chi sono, mi domando "coloro che hanno la responsabilità del bene comune"? Forse (vedi paragrafo 2266) i detentori della cosiddetta "legittima autorità pubblica"? Ma chi sono costoro? Forse nel passato si chiamavano Mussolini, Hitler.. e ora Saddam? Oppure oggi è solo Bush? Ringrazio fin d'ora chi cercherà di chiarire tutti questi miei dubbi! Shalom-salaam a tutti, ma proprio a tutti, anche e soprattutto a chi crede che le controversie internazionali si possano risolvere con le guerre, specie quelle "preventive" Domenico Manaresi (tentativamente cristiano, senza ulteriori aggettivi) Mitt. Domenico Manaresi - e-mail: bon4084 at iperbole.bologna.it LA PACE PREVENTIVA DI GIOVANNI XXIII GIANPASQUALE SANTOMASSIMO La pace preventiva di Giovanni XXIII-11 aprile 1963, «Pacem in terris». L'enciclica del ripudio assoluto della guerra: «Alienum est a ratione, bellum». Aperta al mondo, centrata sulle condizioni della pace, oggi appare come una delle grandi Carte dei diritti dell'«altro `900» fatto non solo di massacri ma di tentativi collettivi per una pace possibile Alienum est a ratione, bellum... E' il ripudio più radicale e assoluto della guerra, mai espresso in termini simili prima di quell'11 aprile del 1963 in cui venne diffuso il testo della Pacem in terris. Per scoprire però questa definizione dobbiamo cercarla all'interno del testo latino, come bisognerebbe sempre leggere le Encicliche, ma come nessuno fa, tranne gli specialisti e i teologi. Nel testo si dice che in una età come la nostra, quae vi atomica gloriatur, alienum est a ratione, bellum iam aptum esse ad violata iura sarcienda. Ma la traduzione italiana edulcora molto il senso dell'affermazione: riesce quasi impossibile pensare che nell'era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia. C'è un «quasi» che è del tutto privo di senso e non si capisce perché e da chi sia stato inserito, e il ragionamento viene dirottato sul piano del «pensare» e della «potenzialità», anziché della constatazione inequivoca di un dato di fatto. Torna ad aleggiare, nella forma adottata, l'eco lontana della «guerra giusta», tradizionale nella dottrina, e che in realtà l'Enciclica nel testo autentico e nello spirito vuol lasciarsi alle spalle. Sulla traduzione italiana si modellano quasi tutte le altre versioni, da quella francese per cui è «umanamente impossibile pensare che la guerra sia un mezzo adeguato...», a quella inglese che edulcora ulteriormente affermando che non ha senso pensare che la guerra sia a fit (adatto, idoneo, conveniente) instrument. Leggermente più fedele al testo la versione spagnola, per cui resulta un absurdo pensar que la guerra sea un medio apto para restaurar el derecho violado. Ma nessuna versione restituisce pienamente il senso della alienità, della estraneità totale, che alla guerra viene attribuita in nome della ragione umana e divina. Pur con tutte le prudenze e le cautele interpretative il senso della Pacem in terris venne colto pienamente nel suo significato. Angelo Roncalli aveva voluto firmare pubblicamente l'Enciclica - cosa mai avvenuta in precedenza - sotto gli occhi delle telecamere, quasi a voler rimarcare importanza e universalità di un testo che per la prima volta si rivolgeva al di là della cerchia dei fedeli, indirizzata com'era nell'intestazione e nella chiusa «a tutti gli uomini di buona volontà». Vi fu anche per questo chi parlò di laicità dell'Enciclica. Che non voleva essere notazione irriverente, ma la constatazione di una novità di metodo e di linguaggio. Il metodo era (come già prima nella Mater et magistra) induttivo e non deduttivo, descriveva la realtà e ne traeva indicazioni, non deduceva come in passato dalla dottrina precetti e indirizzi. Il linguaggio era semplice e piano, quello dei discorsi di Roncalli così diversi nel tono dal suo predecessore. Che pure era comprensibilmente e con senso di continuità la fonte più citata nell'Enciclica. Ma era un Pacelli molto particolare, soprattutto quello dei Radiomessaggi, e tra essi quelli del tempo di guerra, che molto avevano colpito i contemporanei, e tra cui si trova l'unica frase (Nulla è perduto con la pace. Tutto può essere perduto con la guerra, del 24 agosto 1939) che sia sopravvissuta nella memoria popolare all'arida oratoria del personaggio. E il nuovo Papa pensava probabilmente al lascito di Pio XII quando notava nel Diario dell'anima, il 13 agosto 1961, che «comunemente si crede e si approva che il linguaggio... del Papa sappia di mistero e di terrore circospetto» laddove invece era più conforme all'insegnamento di Gesù «la semplicità più attraente» («La semplicità può suscitare, non dico disprezzo, ma minore considerazione presso i saccenti. Poco importa dei saccenti...»). Ma a quarant'anni di distanza, se comprendiamo in tutto il loro rilievo i motivi che all'epoca fecero scalpore, ne scopriamo altri che vanno molto al di là della congiuntura epocale in cui testo venne letto o percepito e che attribuiscono alla Pacem in terris una vitalità, un senso del futuro, che parla direttamente a noi. Cerchiamo di distinguere, quindi, fra i due ordini di problemi, ma in primo luogo accenniamo al personaggio e, appunto, alla sua complessa e problematica semplicità. Chiariamo subito che Angelo Roncalli non era, né voleva essere, un «rivoluzionario». Don Giuseppe De Luca, il massimo animatore della storia della pietà nell'Italia del Novecento - e intermediario del Papa attraverso Togliatti con Kruscev -, definì il suo pontificato, forse guardando anche a se stesso e intrecciando i ricordi di una povera chiesa lucana e di una altrettanto povera chiesa bergamasca, nei termini di una restaurazione, di una restitutio in integrum della Chiesa, «che risuscita dal fondo remoto degli anni». Una Chiesa antica, descritta bene da Roncalli nell'immagine ricorrente della «fontana del villaggio», e che doveva tornare ad essere (o doveva finalmente diventare) «Chiesa di tutti e in particolare Chiesa dei poveri». Ma forse con qualcosa di ancora più antico, che derivava dall'unica grande passione che l'uomo coltivò accanto alla missione pastorale. Angelo Roncalli aveva un grande senso della storia - e dell'erudizione storica - e fu studioso per tutta la vita del Concilio di Trento, di Carlo Borromeo e di Cesare Baronio. Il tempo storico era quello che la cultura laica definì Controriforma, ma che fu in realtà l'unica grande autoriforma cattolica prima del Concilio Vaticano II, tesa a confrontarsi in profondità con i tempi nuovi e a impostare su basi più solide identità e ruolo della Chiesa. Restaurare o meglio ripensare in forma nuova il profilo di quella Chiesa finiva per essere di per sé un fatto rivoluzionario nel mondo dei primi anni Sessanta. Pensiamo al punto di partenza: la visione corrusca che la Chiesa aveva del mondo nel 1958. Una Chiesa apparentemente trionfante, ma che si sentiva assediata da insidie, nemici e peccatori, «parte» di un mondo in lotta contro altri. Ora il Papa cessava di essere il Cappellano dell'Occidente e si apriva al mondo: del resto le uniche doti che Roncalli si attribuiva, nel presentarsi da Patriarca ai veneziani nel 1953, erano quelle di essere stato tratto dalla Provvidenza a «percorrere le vie del mondo in oriente e in occidente, accostandomi a gente di religione e di ideologie diverse... conservandomi sempre la calma dell'equilibrio e dell'apprezzamento». Stava proprio qui l'impatto più immediato dell'Enciclica: la Chiesa si lasciava alle spalle la cultura del nemico e la mentalità di crociata (il termine era stato subito bandito anche nei suoi aspetti metaforici e sostanzialmente innocui: crociata eucaristica, missionaria, ecc.). Ora la Chiesa non solo non considerava più alcun uomo nemico, ma riconosceva che i movimenti reali degli uomini, da qualunque dottrina fossero nati, agivano «sulle situazioni storiche» che si evolvevano e da queste erano condizionati in direzione di «mutamenti anche profondi». E qui si poneva l'interrogativo più nuovo e «scandaloso» per la mentalità corrente: «chi può negare che in quei movimenti, nella misura in cui sono conformi ai dettami della retta ragione e si fanno interpreti delle giuste aspirazioni della persona umana, vi siano elementi positivi e meritevoli di approvazione?». Per cautela si aggiungeva che solo «la virtù della prudenza» poteva decidere quando «avvicinamento e incontro di ordine pratico» potevano oggi o domani verificarsi. Quella famosa distinzione fra l'errore e l'errante, su cui tanto si discusse, oggi la leggiamo in termini molto più ampi, che vanno al di là della congiuntura: non solo di mondo socialista si voleva parlare, in realtà, e la volontà di un dialogo andava ben oltre quello che sarebbe diventato in quegli anni «il» dialogo per eccellenza, tra cattolici e comunisti. I due Giovanni e pace un po' alla buona... riassumeva quindici anni dopo una canzone dedicata a quanti avevano portato un eskimo innocente. L'altro Giovanni era John Fitzgerald Kennedy, il più sopravvalutato presidente degli Stati Uniti e divenuto, malgré soi, un'icona pacifista. Ed è davvero probabile che la percezione di Giovanni XXIII sia divenuta nel tempo quella di un tassello di un generico sentimento di pace dei primi anni Sessanta. Ma tutto si può dire della Pacem in terris tranne che sia documento di un pacifismo «generico». Le affermazioni su guerra e pace sono pressappoco un decimo del testo, che è dedicato in realtà alle «condizioni» della pace. Queste si ottengono in primo luogo rispettando e promovendo diritti che sono universali, inviolabili, inalienabili. Diritti «all'esistenza, all'integrità fisica, ai mezzi indispensabili e sufficienti per un dignitoso tenore di vita, specialmente per quanto riguarda l'alimentazione, il vestiario, l'abitazione, il riposo, le cure mediche, i servizi sociali necessari... diritto alla sicurezza in caso di malattia, di invalidità, di vedovanza, di vecchiaia, di disoccupazione, e in ogni altro caso di perdita dei mezzi di sussistenza...». Colpisce oggi che uno dei primi diritti enunciati sia il Diritto di emigrazione e di immigrazione che è dovuto ad ogni essere umano in qualità di «cittadino della comunità mondiale». Che si collega all'ampia sezione dedicata, nella parte finale, ai diritti dei «profughi politici», ancora più meritevoli di considerazione per le «innumerevoli e acutissime sofferenze» che provano. Il diritto alla proprietà privata è riconosciuto solo in quanto ad essa «è intrinsecamente inerente una funzione sociale». Ma sono i Segni dei tempi, capoverso ricorrente e che testimonia appunto del metodo induttivo già ricordato, che descrivono il quadro nuovo in cui operare. Tre fenomeni caratterizzano l'epoca moderna, si afferma: «anzitutto l'ascesa economico-sociale delle classi lavoratrici», che nel tempo hanno rivendicato diritti prima economici, poi politici, infine culturali, e che oggi chiedono di essere considerati «soggetti o persone in tutti i settori della convivenza», dotati «di intelligenza e di libertà», mai «in balia dell'altrui arbitrio». Poi l'ingresso della donna nella vita pubblica con una coscienza «sempre più chiara e operante della propria dignità», che «sa di non poter permettere di essere considerata e trattata come strumento». Infine la conformazione stessa della «famiglia umana», che non può più vedere «popoli dominatori e popoli dominati». «In moltissimi esseri umani si va... dissolvendo il complesso di inferiorità protrattosi per secoli e millenni; mentre in altri si attenua e tende a scomparire il rispettivo complesso di superiorità, derivante dal privilegio economico-sociale o dal sesso o dalla posizione politica. Al contrario è diffusa assai largamente la convinzione che tutti gli uomini sono uguali per dignità naturale. Per cui le discriminazioni razziali non trovano più alcuna giustificazione». L'autorità non può più essere «forza incontrollata», deve muoversi «secondo ragione», senza fondarsi «sulla minaccia o sul timore di pene o sulla promessa e attrattiva di premi», non conforme alla «dignità di persone, e cioè di esseri ragionevoli e liberi». L'autorità dovrebbe essere soprattutto «forza morale» e nessuno «può obbligare gli altri interiormente». E' dovere dei poteri pubblici favorire l'eliminazione degli «squilibri economici, sociali e culturali tra gli esseri umani» che «tendono, soprattutto nell'epoca nostra, ad accentuarsi; di conseguenza i fondamentali diritti della persona rischiano di rimanere privi di contenuto». Non è possibile «stabilire, una volta per sempre, qual è la struttura migliore secondo cui devono organizzarsi i poteri pubblici», giacché struttura e funzionamento di essi «non possono non essere in relazione con le situazioni storiche delle rispettive comunità politiche... che variano nello spazio e mutano nel tempo». Ma è rispondente ad esigenze «insite nella stessa natura degli uomini» una organizzazione «fondata su una conveniente divisione dei poteri». Non esistono «comunità politiche superiori per natura e comunità politiche inferiori per natura: tutte... sono uguali per dignità naturale»; e, si aggiunge, non va dimenticato «che i popoli, a ragione, sono sensibilissimi in materia di dignità e di onore». Non è lecito alle comunità politiche «sviluppare se stesse comprimendo od opprimendo le altre». E' solo a questo punto che si introduce il tema vero e proprio della pace, preceduto da un'ampia sezione dedicata al disarmo. Gli armamenti giganteschi «si sogliono giustificare adducendo il motivo che se una pace oggi è possibile, non può essere che la pace fondata sull'equilibrio delle forze». In conseguenza gli esseri umani «vivono sotto l'incubo di un uragano che potrebbe scatenarsi ad ogni istante con una travolgenza inimmaginabile». Ma «giustizia, saggezza ed umanità domandano che venga arrestata la corsa agli armamenti... si mettano al bando le armi nucleari; e si pervenga finalmente al disarmo integrato da controlli efficaci». La vera pace si può costruire soltanto nella «vicendevole fiducia», obiettivo «reclamato dalla retta ragione... desideratissimo... della più alta utilità». L'appello ai politici è quello di «imprimere alle cose un corso ragionevole ed umano», istituendo rapporti «regolati nella libertà». Il che significa che nessuna comunità «ha il diritto di esercitare un'azione oppressiva sulle altre o di indebita ingerenza». Le eventuali controversie tra i popoli debbono essere risolte attraverso il negoziato. E qui si cita l'unico documento extraecclesiale, la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo approvata dall'Onu il 10 dicembre 1948, che segna «un passo importante nel cammino verso l'organizzazione della comunità mondiale». In esso infatti «viene riconosciuta, nella forma più solenne, la dignità di persona a tutti gli esseri umani; e viene di conseguenza proclamato come loro fondamentale diritto quello di muoversi liberamente nella ricerca del vero, nell'attuazione del bene morale e della giustizia; e il diritto a una vita dignitosa». Proprio su questo terreno, e attraverso questo richiamo esplicito, comprendiamo meglio il senso che assume oggi ai nostri occhi la Pacem in terris: quello di una delle grandi Carte dei Diritti del Novecento. Parte autorevole e solenne dell'«altro Novecento», secolo non fatto solo di guerre e di massacri, ma di tentativi collettivi di costruzione di una pace possibile. Della ricerca e della delineazione di una pace preventiva, se è lecito rovesciare i termini della orrenda dottrina che oggi domina il mondo. Di quanti sacrifici umani avrà bisogno il dio primitivo dell'11 settembre prima di sentirsi placato? Gli uomini di buona volontà a cui la Pacem in terris era rivolta hanno nel tempo acquisito pienamente il senso di quel messaggio, che è divenuto parte abituale del loro senso comune, e sono oggi la grande maggioranza nel mondo. Invertendo il senso delle ultime parole di un martire laico del Novecento, Salvador Allende, possiamo dire che essi hanno la ragione, ma non hanno la forza. In un mondo che torna ad essere dominato dalla «forza incontrollata» che nel 1963 si riteneva appartenesse ormai al passato. Dove, nelle parole dell'ultimo Pontefice, il silenzio di Dio non significa accettazione della «vittoria dei perversi», ma «la terra è diventata un cimitero, un grande pianeta di tombe». GIANPASQUALE SANTOMASSIMO
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