intervento in aula di E. Deiana-guerra in Iraq



Resoconto stenografico dell'Assemblea

Seduta n. 283 del 19/3/2003

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Deiana. Ne ha facoltà.

 ELETTRA DEIANA. Signor Presidente, onorevoli colleghi, questa guerra, come
hanno già ricordato altri colleghi, non ha nulla a che vedere con le
ragioni che sono state accampate da Bush per giustificarla e che il Governo
Berlusconi ripete pedissequamente contro ogni logica ed evidenza. Non
c'entrano le armi di distruzione di massa, che forse ci sono o, molto
probabilmente, non ci sono. Non c'entra l'efferatezza del regime, che
sicuramente c'è. Non c'entra nulla comunque! Non c'entra nulla il
terrorismo internazionale.
L'idea neocoloniale e sopraffattrice di mettere ordine nel mondo, di
esportare la democrazia sulla punta delle baionette moderne all'uranio
impoverito rappresenta, in realtà, l'involucro ideologico di un piano
politico-militare molto preciso: l'Iraq deve diventare un protettorato
americano, lo ha ripetuto anche ieri il portavoce della Casa Bianca,
Fleischer, dicendo ai giornalisti che, se anche il raìs se ne andasse in
esilio, le truppe americane dovrebbero ugualmente intervenire in Iraq per
rimettere in ordine le cose e garantire la pace e la sicurezza.
Siamo di fronte ad una gigantesca operazione di penetrazione statunitense
nel continente asiatico, ad un processo di destabilizzazione e
disgregazione degli assetti statuali dell'Asia centrale, che è il vero
grande tema di politica internazionale attorno al quale dovremmo discutere.
Si discute, invece, delle fandonie di Bush e delle fandonie di Berlusconi,
dimenticando di fare i conti con quanto è già successo in quell'area del
mondo, a cominciare dall'Afghanistan, prima tappa di questo processo che ha
permesso di mettere sotto occupazione militare statunitense larga parte
dell'Asia centrale. Questa guerra va ben oltre la stessa questione -
peraltro non irrilevante - dei pozzi petroliferi: mira al dominio
unilaterale del mondo attraverso la superiorità militare assoluta di cui
godono gli Stati Uniti d'America.

È il progetto americano del nuovo ordine mondiale, lungamente dibattuto in
tutte le salse negli ambienti militari statunitensi, che oggi si manifesta
in tutta la sua portata e violenza. Un progetto incubato lungamente negli
anni novanta, interpretato diversamente a seconda di chi occupasse la Casa
Bianca. Le guerre del decennio degli anni novanta sono figlie di questa
incubazione. Oggi, Bush ha reso radicale e inequivocabile quel progetto e,
come tutti i personaggi animati da forte vocazione fondamentalistica, come
è lui, lo ha esplicitato, sottraendogli l'involucro di ogni ipocrisia,
appalesandolo in tutta la sua devastante violenza.
Con la guerra di Bush contro l'Iraq è diventato evidente che l'idea della
guerra preventiva e duratura, della supremazia militare permanente, del
potere di decisione unilaterale costituisce la bussola strategica della
politica estera statunitense del nuovo secolo. Gli interessi immediati
della superpotenza, il controllo diretto delle risorse energetiche e quelli
di lunga durata - appunto il nuovo ordine mondiale - sono stati posti al
mondo con brutale evidenza.
È per questa ragione che l'Europa è andata in crisi, perché qualcuno, in
Europa, ha cominciato a preoccuparsi di una dinamica politica che, se non
verrà contrastata, ridurrà l'Europa al ruolo di giullare dell'imperatore, a
quel ruolo che già oggi Blair, Aznar e Berlusconi in vario modo hanno
giocato sulla scena pubblica. Così si spiega la crisi della stessa NATO e
dell'ONU e si spiegano le resistenze di governi di paesi con grandi
difficoltà economiche che, tuttavia, non si sono voluti piegare all'indegna
«campagna di acquisti» organizzata da Bush per assicurarsi la maggioranza
nel Consiglio di Sicurezza.
L'ONU, la NATO, l'Europa entrano in fibrillazione perché la pretesa degli
Stati Uniti di dettare legge, di fare ordine, di giudicare e punire mette
in allarme il mondo. Ed è per questa ragione che si è registrata una così
vasta insorgenza dell'opinione pubblica contraria alla guerra e si sono
mescolati movimenti, soggetti, culture, storie diverse di donne e di uomini
accomunati da un «no» alla guerra che non ha precedenti nella storia per
vastità, ostinazione, intensità. Che cosa desta preoccupazione, che cosa
inquieta le coscienze oggi? I bombardamenti sulle città irachene? I
terribili cosiddetti effetti collaterali? La sofferenza degli inermi?
Certamente tutto questo, ma anche lo scombussolamento di ogni riferimento
internazionale, la percezione del rischio che un baratro si è aperto di
fronte a noi. Questa guerra, infatti, per la sua intrinseca natura di
laboratorio della nuova dottrina militare americana, di prova generale
della guerra preventiva di lunga durata che l'Amministrazione Bush ha
promesso al mondo per i prossimi trent'anni, comporta la deflagrazione e
l'azzeramento di quell'ordine internazionale faticosamente costruito dopo
la catastrofe della seconda guerra mondiale.
Ordine certamente imperfetto, deficitario, contraddittorio quanto vogliamo,
ma ancorato ad un'idea grande che la guerra fosse un disastro da non
ripetere più, che la costruzione del diritto internazionale fosse un bene
da difendere ed irrobustire, che l'ONU fosse uno strumento di mediazione
essenziale e necessaria per garantire la convivenza tra i popoli del mondo.
Tutto questo, oggi, costituisce, invece, per l'amministrazione Bush, un
inutile ingombro, lacci e lacciuoli da spezzare, come sta facendo George W.
Bush. Guerra criminale, dunque, questa, cari signori del Governo, come
giustamente l'ha definita addirittura il Papa, guerra criminale perché
massacra i corpi inermi di donne e uomini, uccide ogni legalità e mina alle
radici la convivenza tra i popoli; un aspetto che non è stato sottolineato
sufficientemente. Essa, infatti, rischia di aprire un solco enorme tra
l'occidente ed il mondo islamico, di fomentare quella terribile dinamica di
scontro tra civiltà che sta diventando o rischia di diventare sempre più
l'elemento sovraordinatore del contesto internazionale.
Voi, signori del Governo, avete certamente i numeri per assicurarvi, in
questa sede, l'appoggio al vostro sì alla guerra, al vostro sì al
coinvolgimento diretto dell'Italia in questa infame avventura
internazionale, all'assenza all'uso delle basi e dei cieli da parte degli
Stati Uniti. D'altra parte, lo avete già fatto mettendo a disposizione
l'intero nostro paese per i traffici di morte degli Stati Uniti d'America.
Ma sarà un voto di cui noi non riconosceremo la legittimità, perché non
basta la maggioranza per prendere questo tipo di decisioni. Bisogna stare
alla Costituzione che conferisce legittimazione ad ogni decisione che parli
della pace e della guerra!
La violazione dell'articolo 11 non potrebbe essere più evidente di fronte
ad una relazione come quella del Presidente del Consiglio. E più evidente
non potrebbe essere la pretestuosità del richiamo alla volontà popolare di
cui si nutre tradizionalmente la propaganda mediatica del Presidente del
Consiglio. Non è forse di dominio pubblico, confermato dai sondaggi, dalle
mobilitazioni costanti, da due milioni e mezzo di bandiere per la pace che
sventolano in ogni dove, che la stragrande maggioranza della popolazione di
questo paese, la guerra proprio non la vuole? Volontà popolare e spirito
costituzionale vanno, su questo punto, insieme, in maniera straordinaria, e
forse al premier Berlusconi, questo, fa proprio paura, e della volontà
popolare ha deciso di infischiarsene o di ingannarla grottescamente,
continuando a raccontare...

PRESIDENTE. Onorevole Deiana...

ELETTRA DEIANA. Sto per concludere, signor Presidente... la favola del suo
impegno per la pace, mentre il Segretario di Stato americano rende pubblica
la lista dei volenterosi e gli Stati Uniti d'America ci annoverano tra i
paesi amici.
Per questo, continueremo a chiedere conto di ogni vostra azione di guerra,
di ogni vostro atto di guerra e a batterci in Parlamento e nel paese contro
la vostra cortigianeria bellicistica che coinvolge l'Italia in un'avventura
moralmente indegna e politicamente squalificata (Applausi dei deputati dei
gruppi di Rifondazione comunista e dei Democratici di sinistra-l'Ulivo).