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- From: "Giorgio Cadoni" <giorgio.cadoni at uniroma1.it>
- Date: Fri, 21 Mar 2003 18:19:05 +0100
- Importance: Normal
No alla guerra, no alla globalizzazione imperialista Da che cosa dipende l'ostinazione di Bush nel voler fare una guerra invisa a tutto il mondo, che ha già avuto prezzi politici, e non solo, molto alti per gli stessi Stati Uniti? Perché altre grandi potenze si oppongono tanto strenuamente alla guerra anche a costo di uno strappo che non sarà certo indolore? La risposta dovrebbe soddisfare due condizioni: 1) collocare la guerra all'Iraq nel contesto di cui fa parte e interpretarla come parte del tutto; 2) spiegare contemporaneamente l'ostinazione di entrambi i contendenti, USA e Gran Bretagna da un lato e resto d’Europa (Italia e Spagna sono solo dei servi sciocchi) e Cina dall’altro. E cominciamo dagli USA, che percepiscono chiaramente il pericolo creato dall’irrimediabile instabilità dell'iniquo assetto internazionale esasperato dalla globalizzazione, condotta sotto il segno di un estremismo neoliberista spesso a senso unico, e si illudono di poter "stabilizzare" tale assetto e i vantaggi che ne traggono estendendo con la violenza il loro controllo su ogni angolo del pianeta, ma innanzi tutto sulle aree strategicamente più significative. Questa politica non è certo una novità, ma ha preso un nuovo aspetto dopo che il crollo dell’URSS ha eliminato il principale antagonista e fatto degli Stati Uniti l’unica superpotenza. Per risalire alle origini senza inzeppare il testo di citazioni, ricordiamo solo due documenti: un’ intervista rilasciata da Zbigniew Brzezinski nel gennaio 1998 (ma meglio sarebbe leggere The Great Chessboard: American primacy and its Geostrategic Imperatives) e gli estratti del Defense Policy Guidance pubblicati nel 1992 da The New York Times (o, in italiano, http://www.equilibri.net/americhe/usa6-dottrina-bush.htm) da cui discende la recente definizione della National Security Strategy of the United States of America (traduzione italiana a http://www.assopace.org/bush1.htm oppure http://www.arci.it/bin/up1945.doc). Queste direttrici hanno ispirato le radicali modificazioni - un vero e proprio stravolgimento - degli scopi della Nato sancite, nel 1999, dall’aggiornamento del "nuovo concetto strategico" (traduzione italiana a http://web.tiscali.it:80/outis-wolit/nuovoconcettonato.htm), formalizzato dalla Washington Declaration, sciaguratamente accettata dal governo D'Alema prima di aver ottenuto l’approvazione del parlamento, e i documenti che hanno condotto alla 2002 Istanbul Declaration on NATO Transformation che consentirà di applicare finalmente La dottrina Bush, alla quale è affidato il compito di aprire l’alba radiosa del New American Century(*), la cui descrizione ben illustra, necessarie ipocrisie a parte,. l'opzione fondamentalmente militare mediante la quale gli Stati Uniti intendono sventare la minaccia dell’instabilità e difendere uno stile di vita stupidamente privilegiato mediante una politica che non sanno e non vogliono immaginare se non come dominio, poiché ogni altra via esigerebbe mutamenti profondi che contraddirebbero gli interessi di coloro che esercitano realmente il potere in quella nazione. La concreta realizzazione di un simile progetto ? iniziata con la campagna irachena del 1991, e proseguita con l’aggressione contro la Jugoslavia e l’Afghanistan, e ora nuovamente contro l’Iraq, avvenimenti di cui, insieme con l’irriducibile specificità di ciascuno, occorre saper cogliere il nesso ? prepara un futuro di ininterrotte guerre, che “ottimisticamente” l’amministrazione statunitense prevede di durata trentennale, ma al quale non si può assegnare alcun termine, tenuto conto del fatto che ogni guerra, per le inevitabili reazioni che essa susciterà, aprirà la via a molte altre. Non ha torto chi dice che la guerra illegale, e perciò criminale agli occhi del diritto internazionale, che gli USA hanno mosso all'Iraq, nonostante l’ostilità dei popoli e di molti governi, è una guerra per il petrolio. Ma sarebbe ingenuo pensare che tanta ostinazione dipenda da pura e incontrollata avidità: si tratta di assicurasi, e prima ancora di sottrarre agli altri stati, il controllo di un’area geopolitica che condiziona all’accesso alle fonti energetiche necessarie per sostenere una struttura economica fondata sul devastante consumismo dei privilegiati, perseverando nella strategia di lunga durata già praticata fin dalla guerra del Golfo, strumentalizzando "crisi umanitarie" e "attentati terroristici". Una simile strategia geopolitica esige che le leve di comando dell’apparato di controllo che dovrebbe porre rimedio all’instabilità di un mondo disuguale siano saldamente tenute da una sola mano, pena la perdita del controllo. Sennonché si tratta di un’esigenza astrattamente intellettualistica, e, in sostanza, non solo megalomane e utopica, ma, ciò che è peggio, catastrofica, catastrofica per tutti, cioè per gli stessi Stati Uniti, per i loro satelliti e per i paesi che si illudono di sfuggire al disastro evitando di condividere la politica imperiale, affidata unicamente alla sua indubbia supremazia militare, con cui l’unica superpotenza intende stabilire un’indiscussa supremazia sull’Europa, accentuare la subordinazione della Russia e gettare le basi di un completo accerchiamento della Cina. Ed è, probabilmente, la percezione o il presentimento della catastrofe verso cui inevitabilmente conduce una politica che produrrà effetti opposti a quelli che si prefigge, mutando in indifferenza la simpatia verso gli States, e l’indifferenza in odio, un odio duraturo che avrà conseguenze multiformi e incalcolabili ? è, probabilmente, questo, più ancora che il rifiuto di diventare un socio di minoranza dell’ impresa statunitense, che ha indotto Francia, Germania, Russia e Cina a operare una frattura le cui conseguenze si estenderanno nel tempo. La necessità di sottrarsi al mortale abbraccio di una potenza accecata dall’ enorme potere di cui dispone richiederebbe tuttavia la capacità di svolgere una politica degna di questo nome. Si può dubitare che gli uomini che hanno respinto il diktat americano siano in grado di farlo e, dunque, si può temere che scelgano piuttosto il tentativo di ricucire in qualche modo lo strappo. Magari sotto il pretesto di rivitalizzare l’ONU. Intenzione nobile, senza dubbio, ma vana, che avrebbe la sola conseguenza di rilegittimare uno stato pronto a sottrarsi al diritto internazionale in nome del “manifesto destino” che si attribuisce. Qualcosa di nuovo e di grave è ormai avvenuto. Nell'ultimo decennio gli USA avevano esercitato una sorta di potere dolce, un soft-power, tendente ad ottenere il consenso internazionale per le loro imprese. A questo scopo, avevano mobilitato la diplomazia e i grandi mezzi di comunicazione di massa, del resto pronti ad accettare tutte le distorsioni dell'informazione suggerite direttamente dal potere centrale in nome del supremo interesse della patria. Certo, questo soft-power aveva un nocciolo hard, come hanno imparato a loro spese i popoli della Jugoslavia e dell'Afghanistan. Un nocciolo che ne costituiva la verità profonda, ma era occultato dalla sollecita approvazione del "mondo libero" e dei paesi considerati "democratici" o "moderati" in quanto alleati degli Stati Uniti. Questa volta le cose sono andate diversamente. In occasione della nuova guerra contro l'Iraq, nonostante il decuplicato sforzo di manipolare l'opinione pubblica mondiale compiuto dall'amministrazione Bush, il 15 febbraio i popoli di tutto il mondo hanno detto forte e chiaro: "No alla guerra!". e la Nato, l'Europa e l'ONU si sono mostrati irrimediabilmente divise. Di fronte a una situazione che avrebbe richiesto estrema prudenza, l'amministrazione statunitense ha risfoderato the big stick, esibito un illimitato disprezzo per gli alleati, trattato l'ONU come un dipendente insubordinato e dichiarato che non le rimaneva che sbrigarsi a ratificare le decisioni già prese a Washington. Ciò non ostante i governi ostili a quelle decisioni non si sono piegati, e appena gli USA le hanno poste in atto i popoli di tutto il mondo hanno espresso una condanna senza appello. Può apparire paradossale, ma, sebbene non sia riuscito a evitare il massacro, il movimento pacifista ha conseguito una straordinaria vittoria, di cui sarebbe delittuoso disperdere i frutti nella miope ricerca di un qualsiasi compromesso che consentisse di celare la frattura, davvero epocale, finalmente emersa. Non si vuol dire, con ciò, che occorra interrompere il dialogo, rinunciare a trattare con gli Stati Uniti e i loro vassalli sulle mille questioni aperte con la necessaria pazienza e la massima disponibilità alla mediazione, in primo luogo per risolvere il problema della tragedia palestinese. Ma anche a questo proposito sarà necessario che le potenze europee sappiano prendere autonome iniziative e pretendano di discutere in posizione di parità. Più in generale, se è vero che la nuova strategia americana non lascia intravedere altro esito che la comune rovina, è necessario isolare politicamente e ostacolare concretamente ogni iniziativa attraverso cui quella strategia sarà messa in atto. Uscire dalla Nato e rifiutare ospitalità alle basi americane è un’alternativa da prendere in seria considerazione, ma sarebbe sterile se la coalizione che si è venuta formando tra le maggiori potenze dell’Europa continentale e la Cina si mostrasse incapace di stringere con i popoli del terzo mondo relazioni atte ridurre progressivamente le stridenti disuguaglianze odierne, in maniera da rimuovere le cause profonde dell'instabilità prodotta dalla globalizzazione neoliberista e offrire un modello di stabilità non fondata sul dominio. Ciò implica una revisione profonda dell’orientamento del sistema economico e della struttura dei consumi che gli assicurano un rovinoso sviluppo, oggi per altro entrato in una crisi di cui nulla lascia intravedere il superamento. È un cammino aspro e insidioso. Ma è un cammino che i popoli hanno da tempo indicato e, in qualche modo, già cominciato a percorrere, verso una globalizzazione dal volto umano e uno sviluppo compatibile. L’ oscena fretta di “ricucire lo strappo” che si è prodotto con gli Stati Uniti e all’interno della stessa Europa mediante qualche compromesso di basso livello non lo aiuta. Va anzi in senso opposto. GIORGIO CADONI (*) Utile la consultazione di The Changing Face of Strategy.
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