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Ça iraq. Tre
- Subject: Ça iraq. Tre
- From: lanfranco caminiti <lanfranco at apolis.com>
- Date: Thu, 20 Feb 2003 14:46:21 +0100
Ça iraq. Tre lanfranco caminiti [www.lanfranco.org] Di tutte le manifestazioni nel mondo il 15 febbraio per dire "no alla guerra", quella che mi ha più impressionato è stata quella che si è svolta a New York. Faceva meno sette gradi, il prodromo della tempesta di neve che in questi giorni sta battendo la costa orientale degli Stati uniti. La manifestazione era stata vietata per "motivi di sicurezza", ma questo non ha impedito a migliaia di persone di partecipare a un sit-in che si è raccolto e poi snodato tra le strade e i parchi della città. Non erano milioni come a Roma o Londra, e neanche centinaia di migliaia come a Parigi o Giakarta, forse solo trenta o quarantamila [gli organizzatori ne aspettavano centomila], un numero che ormai non si tiene neppure in conto quando si snocciolano le cifre dei grandi eventi sociali, e questa magnitudine sarà pure un effetto della connessione globale del mondo d'adesso ma forse anche l'avvertenza di un momento cruciale: per tutto il novecento quando milioni di persone sono scesi in piazza - qui o là - è accaduto che fosse a ridosso di tempi drammatici, un'insurrezione, una rivoluzione, un putsch, una dittatura, una guerra. Per paura o entusiasmo, per appoggiare o dissentire. Sarà stato anche per il freddo polare, per la paura di dover correre inseguiti dai cavalli e dai poliziotti nelle loro palandrane e scivolare sulla patina di ghiaccio che ricopriva le strade, ma di newyorkesi non ce n'erano poi tantissimi. Sarà stato perché non dev'essere facile manifestare oggi negli Stati uniti opponendosi alla guerra. Questa cosa a me fa impressione. Non riesco a immaginare il percorso di crescita di una opposizione mondiale alla guerra che non abbia a suo cuore il movimento americano, così come non riesco a immaginare il percorso di un movimento globale contro il nuovo ordine mondiale, l'impero e le forme assunte dal mercato e dalla produzione che non abbia a suo cuore il movimento americano. Se devo dire la verità, pronuncio l'espressione "vecchia Europa" con una carica di dispregio ancora maggiore di mister Rumsfeld. Credo che la cosa più straordinaria e preziosa di questi ultimi anni, di quel filo che per comodità espositiva identifichiamo da Seattle a Porto Alegre, sia stata proprio la contemporaneità e il dialogo e l'intreccio fra i sem terra e le associazioni di San Francisco, fra gli zapatisti di Marcos e i gruppi europei o di Washington, fra i brasiliani di Lula, gli italiani, gli inglesi, gli argentini e le strutture militanti di Chicago o Des Moines. Ora, pur non vivendo direttamente le cose, si può immaginare che non deve essere facile in questo momento negli Stati uniti non dico opporsi ma neppure dissentire garbatamente dalla politica dell'amministrazione Bush: ci sono anchorman e opinionisti delle grandi testate americane e dei network televisivi che parlano apertamente di pressioni e di forme di autocensura, ci sono leggi e leggine che stanno riducendo gli spazi alla libertà di opinione e di movimento e di parola, c'è un clima generale di mobilitazione, di allerta, di paura e in questo clima la cosa peggiore che puoi sentirti dire è di essere un traditore - un'accusa spiccia e grossolana ma terribilmente efficace. Forse non sarà un caso che coloro che si muovono più apertamente sono i cattolici, perché si trascinano dietro un senso della colpa originaria e una disponibilità al perdono che sono l'ultima cosa in questo momento che possa appartenere a un americano, se mai è appartenuto alla loro cultura. Ma il fatto è che i cattolici lì sono proprio scarsi, nel senso proprio, e a nessuno dei padri della costituzione americana sarebbe mai venuto in mente di mettere fra i fondamenti della comune cittadinanza un riferimento a Cristo, come invece si dibatte qui, nella "vecchia Europa". Uno dei cartelli portato dai manifestanti di New York recitava "I'm patriot and I'm dissent - Sono un patriota e mi oppongo", una frase semplice semplice dove mi pare si condensi tutta la difficoltà e la fierezza dell'opposizione civile americana. Non sembri una battuta governativa, però mi sarebbe piaciuto che anche a Bagdad, dove si è manifestato contro la guerra, ci fosse un cartello così, invece dei fucili mitragliatori imbracciati dai riservisti irakeni panciuti, come tutti i riservisti del mondo, e baffuti, quelli che sono sopravvissuti probabilmente alla guerra contro l'Iran e alla guerra del Golfo del '91 e che l'ultima cosa al mondo che potrebbero volere è un'altra guerra. E' un po' grottesca questa cosa che a Bagdad il regime faciliti e mobiliti a una manifestazione di massa contro la guerra, mentre a New York si dichiari l'impedimento per "motivi di sicurezza". Il patriottismo irakeno si dichiara adesso nella disponibilità verso il regime - e a nessuno a Tikrit o a Bagdad piacerebbe sentirsi dare del traditore. Neanche lì. Così, non deve essere facile dissentire sfilando e protestando accanto i ragazzi che in tuta mimetica partono per la guerra da Fort Bragg o da qualunque altro posto in Carolina o altrove mentre l'esercito ha già ordinato centomila sacchi neri per i morti: fa tanto Vietnam e il Vietnam è una ferita che ancora non si è rimarginata, per certi aspetti è stata una "guerra civile" anche se non armata. E così non deve essere facile dissentire neppure quando sei assediato da anni dall'embargo internazionale che ti uccide giorno dopo giorno e quando tutto il mondo si sta coalizzando contro di te e fra poco ti invaderà. Immagino che qualunque irakeno farebbe propria e isserebbe su un cartello la frase di Arthur Miller, che Sandro Veronesi ha messo a mo' di dedica del suo "Superalbo": "I accept - Mi sta bene così." Deve prodursi una qualche vertigine nel sapere che la più grande potenza dell'umanità vuole fare il culo proprio a te e che tutto il mondo, ma proprio tutto, sta parlando di te e di come farti il culo. Si può entrare nella storia anche dalla parte del culo. Io penso che l'amministrazione Bush si senta isolata e circondata, dai mangiarane e dai crucchi, dai maccaroni e dai maricones, oltre che, certo, da milioni di fanatici integralisti. Nonostante le buone intenzioni di de Bortoli, io però non me la sento adesso di dirmi americano neppure per tutto l'oro del mondo. Ma l'amministrazione Bush può fare a meno di tutti e fare da sola. Il movimento americano non può fare da solo. E neanche noi qui, nella "vecchia Europa", possiamo fare da soli. E i sem terra, gli zapatisti di Marcos, gli argentini, gli indiani, neanche loro possono fare da soli. Non possiamo fare a meno di quella difficile e fiera opposizione civile americana. Le star americane, quelle che qui sono accolte come neanche un capo di Stato - e li si porta a spasso per i Fori e ci si affaccia con loro dal Gianicolo o dal Campidoglio per una foto ricordo da mostrare orgoglioso alle proprie figlie o nipoti adolescenti [beh, è vero, Brad Pitt viene meglio di Tarek Aziz] - vengono a Roma, per i loro tour di promozione, e dichiarano la propria perplessità verso la politica dell'amministrazione Bush e la guerra. Così, George Clooney, così Spike Lee, così Scorsese e Di Caprio, con varie gradazioni e intensità. Non credo sia per glamour, quella cosa insomma per cui i beniamini del pubblico possono essere cattivi solo sullo schermo ma poi sono proprio dei teneroni, o comunque per farci capire che hanno una testa per pensare di proprio conto, sono mica di celluloide. Ma le star americane appartengono ai cittadini internazionali, prendono oggi l'aereo per Parigi e domani per Tokio, fanno le locations per i loro film in Romania o Ungheria dove la manodopera costa meno, i loro spettatori sono anche in Bangla Desh o nel Punjab, vanno a un cocktail per un festival a Venezia e poi la sera dopo a Berlino o a Cannes, la loro patria deve somigliare a qualcosa come un aeroporto internazionale, dove è vietato fumare e ci sono tanti controlli ma si possono prendere tutte le uscite e le entrate del mondo. Il mio amico Giancarlo mi ricorda che Achab nell'ossessione della sua caccia a Moby Dick urla "Io colpirei il sole se mi facesse offesa" e si dice convinto che in Melville si può trovare qualcosa che ci faccia capire l'adesso dello spirito americano più che altrove. Achab si perde nel suo smisurato orgoglio umano, nell'insopportabilità di immaginare che "là fuori" vi sia qualcosa più grande di lui o che lui non possa catturare, piegare, vincere. Una sfida mortale, personale, "privata", ma che è di due mondi, senza limiti, senza tempo. Una lotta contro la Grande Bestia, il Leviatano. Achab si perde. Ma ciò non lo fa meno tragico e grande. Roma, 20 febbraio 2003
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