di Paolo Gallori
Riot Act. I Pearl Jam invitano all'"adunata sediziosa" quanti,
dopo l'11 settembre, hanno fatto un passo indietro, resistendo alla sirena
del cieco patriottismo pompato dalla Casa Bianca per garantirsi il
consenso in vista della campagna d'Iraq, dopo la "necessaria" crociata
d'Afghanistan.
Quanti intravedono altro che il perseguimento dell'umano diritto alla
pace nella determinazione di Bush a chiudere i conti lasciati in sospeso
da suo padre con Saddam, dieci anni fa. Cosa? Il pieno controllo sulle vie
del petrolio, l'accesso incondizionato alla nera risorsa del Golfo. Dietro
il teatrino di Bush c'è la vittoria del "Green Disease", la malattia
verde, il primato del dollaro su qualsiasi etica della pace.
Per una straordinaria coincidenza, il nuovo album della band di Seattle
arriva al momento giusto per guastare il trionfo del presidente americano,
che in pochi giorni ha incassato il controllo repubblicano di entrambi i
rami del Congresso alle elezioni di medio termine e l'approvazione del
Consiglio di sicurezza dell’Onu alla risoluzione che dà i "sette giorni" a
Saddam.
Riot Act ha un ingrediente che ne esalta il sapore: un attacco
diretto a Bush, dove il crudo sarcasmo ruba la scena all’elegante
metafora. "Perché è così appoggiato? - canta Eddie Vedder in
Bushleaguer - Lui non è un leader, è solo un lobbista
texano…trivella in cerca della paura, che gli rende il lavoro più
semplice…".
Riot Act, prodotto dai Pearl Jam con Adam Kasper, missato da
Brendan O'Brien, è un album importante per chi crede che il rock non sia
solo un innocuo esercizio di stile, una gara di velocità tra chitarristi o
di precisione tra batteristi. Facile sparare a zero contro il potere nelle
cantine, quando si è parte di un underground che si nutre di se stesso.
Altro coraggio è richiesto a chi parla sapendo di essere ascoltato dal
pianeta, giungendo anche nelle case di chi non comprerà Riot Act,
attraverso la radio, le interviste. Un coraggio che si esprime anche nelle
emozioni messe a nudo nelle altre canzoni dell'album, ricche di simbolismi
e per questo aperte a diverse letture. La ballata I'm Mine, per
esempio: "So solo che sono nato e che un giorno morirò, ma quello che c'è
in mezzo è mio, io sono mio". E ancora Can't Keep, dolente sussurro
e traccia con cui si apre l'album: "Non aspetterò risposte, non puoi
trattenermi qui... voglio dare un'occhiata dall’altra parte". Inni
all'onestà intellettuale o alla sincerità nei rapporti umani, poco
importa.
I Pearl Jam seguono schemi rodati per regalare ancora una volta ariose
melodie alternate a secche, elettriche cavalcate. Le chitarre di Mike
McCready e Stone Gossard tessono trame classiche sempre appaganti, Jeff
Ament innerva il tutto col suo basso, Matt Cameron alterna drumming
diretto e spiazzanti controtempo. Boom Gaspar impreziosisce il sound con
intarsi di Hammond e Fender Rhodes, avvolgendo Riot Act di un'aura
di sacralità.
Eddie Vedder commuove. Dà i brividi sentirlo emergere tra la polvere
dell’acustica Thumbing My Way. Nelle profondità della sua voce, le
emozioni restano incollate in ogni sfumatura. Il dolore ha forgiato la sua
espressività, dalla tragedia senza senso di Roskilde. Ai nove ragazzi
morti davanti ai Pearl Jam in un giorno d'estate del 2000 è indirizzato il
lamento melismatico di Arc, in cui Vedder fa rivivere lo spirito di
Nusrath Fateh Ali Khan. E la solenne preghiera Love Boat Captain:
"Capitano, sostienimi e porta la verità... quando tutto è perduto ci sarai
tu... perché di fronte all'universo io non significo nulla, e c'è solo una
parola in cui credo... amore". Amore. America. Amore...
da: http://www.kwmusica.kataweb.it/kwmusica/pp_scheda.jsp?idContent=105627&idCategory=2028 |