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Berretti Bianchi in Palestina: Quarta parte
- Subject: Berretti Bianchi in Palestina: Quarta parte
- From: "Francesco Andreini" <francescoandreini at libero.it>
- Date: Tue, 10 Sep 2002 01:47:04 +0200
18 agosto domenica Annick mi chiama alle 7 e mezza e mi dice che partiremo alle 8, ma per andare ad Hebron. Così insieme a Donato ed Elisabetta lasciamo il Faisal in tempo per incontrarci con gli altri alla Jaffa Gate. Percorriamo con un pulmino una strada detta by-pass, perché riservata agli israeliani, fino alla sua intersezione con quella "normale" per i Palestinesi che debbono entrare ad Hebron: è una strada sterrata, che incrocia perpendicolarmente quella degli israeliani, asfaltata; le persone, numerose, attraversano a piedi la strada asfaltata con i loro fardelli sulle spalle. Noi scendiamo e ci avviciniamo ai soliti taxi per Palestinesi. La pista, sale e scende per i soliti avvallamenti provocati dalle ruspe, e si avvicina alla città con un percorso da rally. Quando arriviamo nel centro cittadino invece si apre la solita dimensione surreale: il mercato, le auto e le varie attività commerciali; ogni città è come una grande prigione, la vita al suo interno sembra quella di una città qualunque. Ci presentiamo alla sede di una Organizzazione per la Gioventù Palestinese, e parliamo con il suo presidente, Adli Dahana; una persona molto aperta e decisa che ci espone il quadro della situazione: il 25% dei giovani palestinesi soffre di malnutrizione; Hebron è una città divisa in due, anche nel suo centro storico; gli ebrei sono il 20%, ma ovviamente il loro "peso" non è proporzionale al numero; ci sono stati più di 200 giorni di coprifuoco nel 2001; i 400 abitanti ebrei del centro sono "protetti" da più di 1000 soldati. Adli dice però che questa situazione rende gli stessi israeliani vittime insieme ai palestinesi. L'associazione che ci ospita è stata fondata nel 1997 e promuove scambi tra giovani europei e palestinesi. Le pareti sono addobbate con manifesti, alcuni dei quali italiani. Nel corso della conversazione poi Adli si sfoga anche sui difetti dell'ANP: l'attuale ministro degli affari civili è un impresario edile, e stranamente vince tutti gli appalti di costruzione degli insediamenti israeliani e delle strade di collegamento tra gli insediamenti. Il distretto di Hebron ha 450.000 abitanti; un terzo di tutta la popolazione povera palestinese vive in questo distretto; ci sono in media 7,1 persone per famiglia; gli abitanti dei villaggi vedono il medico da una a tre volte la settimana, ma tutto dipende dalle decisioni dell'esercito che possono cambiare in ogni momento. Nel sottosuolo palestinese ci sono circa 800 milioni di metri cubi di acqua, ma sono tutti sotto il controllo israeliano, e ai palestinesi si lascia solo l'acqua non potabile. Quando lasciamo l'ufficio ci affidiamo a Satomi, una ragazza giapponese che vive da sei mesi ad Hebron, e così visitiamo anche il centro storico. Ogni pochi metri si incontrano militari che impediscono il passaggio ai soli palestinesi; le strette vie del centro con le reti che proteggono i passanti dal lancio di oggetti vari dalle finestre degli abitanti israeliani; ad uno dei tanti blocchi troviamo una ragazza, palestinese, che tenta di passare con noi: dice di essere venuta con la madre e che si è perduta; tentiamo una trattativa con i militari, ma non c'è nulla da fare; si avvicina anche un israeliano, e comincio una conversazione con lui; parla di diritto al ritorno, perché dice che nel 1929 gli ebrei vennero cacciati dagli arabi; gli chiedo se il diritto al ritorno deve essere riservato agli ebrei, o se può valere per tutti; lui allora passa al pericolo degli arabi che sparano dalle finestre, e quindi gli arabi vanno allontanati; io replico che semmai vanno allontanati coloro che sparano, senza preoccuparsi se siano arabi o italiani; gli ricordo che nel 1929 anche in Europa si sparava agli ebrei, ma oggi noi europei abbiamo il permesso di passare mentre i palestinesi no. Alla fine ci rendiamo conto che la discussione non porta alcun cambiamento, soprattutto per la ragazza palestinese, e ci allontaniamo. Tornando verso il punto di partenza della nostra escursione passiamo davanti alla Grande Moschea di Hebron, quella che ospita le tombe di Sarah e Abramo, luogo in cui l'esaltato israeliano, per alcuni eroe, ha compiuto una strage di persone riunite per la preghiera del venerdì (era il 1994); anche qui però il controllo di chi entra viene eseguito ovviamente dall'esercito israeliano. Mentre mangiamo in uno dei soliti locali sulla strada assistiamo ai perenni controlli dei documenti dei palestinesi.Dal diario di Elisabetta: >----------------------------------------, poi ci dirigiamo verso il centro >della città, ci fermiamo nuovamente ad un posto di blocco dove un >giornalista britannico attende che i soldati gli restituiscano il >pass di giornalista, dopo avergli distrutto la telecamera. > Attendiamo con lui ed altri giornalisti, siamo una decina, >improvvisamente una forte esplosione, è una bomba, ci dirigiamo >rapidamente in direzione dello scoppio e vediamo residui di fumo >nero e gente che scappa, pochi attimi e una jeep di soldati a >fortissima velocità arriva sgommando, non è successo nulla, è >evidente che si fà terrorismo psicologico. Chissà forse i soldati >hanno voluto distogliere la nostra attenzione dal ceck point. Nel >centro della cittadina ci fermiamo in un localino a mangiare Kebab, >fuori arrivano i soldati e vediamo che fermano a caso gli uomini, >per strada o li fanno scendere dalle auto e li portano dietro a una >traversa laterale. Decidiamo di seguirli e li troviamo seduti a >terra sotto il tiro dei soldati, sono circa 15 giovani tra i 25 e i >35 anni, un fotografo di origine araba sta intanto discutendo >animatamente con un soldato che gli ha sequestrato il pass e pare >non volerglielo restituire, perchè fotografa gli arresti, arrivano >tre dell' FLPH un associazione di osservatori internazionali, con >telecamera, decidiamo dopo aver discusso con loro che a questo punto >la nostra presenza è superflua e ci allontaniamo.------------------------ Chiamo al telefono Nabil, l'ingegnere che è venuto a Siena lo scorso maggio e che cura i rapporti tra il Comune di Dura, nel distretto di Hebron, e il Comune di Siena. Abbiamo deciso di incontrarci e così lui viene a prenderci per farci visitare la sua città. Ci mostra il palazzo comunale, dove ci incontriamo con la Giunta, le aree destinate al verde pubblico e ci parla dei progetti dell'amministrazione per il futuro. Ci offre poi un tè seduti per terra nella parte più alta della città, dove si trovano alcuni edifici scolastici e, si dice, uno dei possibili luoghi della tomba di Mosè; c'è una tranquillità quasi irreale, ma Nabil ci assicura che nessuno oserebbe rimanere là oltre il tramonto, per le sempre possibili scorribande dell'esercito israeliano. Ci racconta alcuni episodi dei momenti più crudi dell'occupazione, ma prevale la voglia di andare avanti. Ceniamo insieme e poi andiamo a dormire presso l'I.P.Y.L. 19 agosto lunedì Il mattino seguente, dopo aver parlato con Hassib, partiamo per Gerusalemme per poi dirigerci verso Nablus. Tra Gerusalemme e Nablus vi sono due posti di blocco: il primo è praticamente solo per i palestinesi, a noi basta inventare un pretesto a cui i soldati fanno finta di credere; il secondo, Hawara, invece è un po' più complicato. Mentre attendiamo il nostro turno ci viene incontro un "internazionale" tra i 50 e i 60 con un viso sconvolto: chiede al nostro autista se lo può portare indietro e così l'autista lo invita a salire; noi chiediamo subito che notizie ci può dare e lui inizia a dire che sono tutti matti, che questa mattina hanno fatto esplodere una casa nel centro di Nablus e che è un inferno; lui è un sanitario e aveva il compito di coadiuvare un medico dentista; quando si accorge che l'autista cerca di portarci più vicino al posto di blocco intima di fermare il mezzo perché lui non vuole fare neppure un centimetro verso Nablus; ha una faccia sconvolta e così lo lasciamo scendere. Al posto di blocco raccontiamo ancora che siamo una delegazione universitaria e non fatichiamo troppo a convincere i militari. Dopo il check point proseguiamo a piedi verso Nablus; impieghiamo circa un'ora a percorrere la strada fino al Medical Relief Center e lungo tutto il percorso riceviamo saluti di benvenuto (welcome, welcome!), sorrisi e strette di mano da parte dei bambini che instancabilmente ci chiedono: "what's your name?". A metà percorso incontriamo tre altri internazionali, un italiano (Angelo) e due "americani"; ci scambiamo saluti e notizie. Angelo, nato a Siena, non manca di chiedere chi abbia vinto il Palio di agosto! Arriviamo al MRC e ci accoglie il dottor Allan, che Annick ha già conosciuto nel suo precedente viaggio. Mentre conversiamo con lui arriva Heidi, dell'International Solidarity Movement, e con lei facciamo il programma per il resto della giornata e ci organizziamo per la notte: Elisabetta Annick e Thomas andranno nel centro di Nablus, in un appartamento messo a disposizione da una famiglia (casa Hussein), io e Donato andremo al campo profughi di Balata (Titi house), in una delle case "a rischio" di demolizione, mentre Tom preferisce andare in un albergo non lontano dal centro. Gli altri partono subito per le loro destinazioni, mentre io e Donato aspettiamo Aisa, una ragazza giapponese, che ci accompagnerà al Balata Camp. Aisa giunge poco dopo con Connor, un giovane "americano" (uso le virgolette perché quando gli internazionali sono molti capita spesso che gli americani non USA contestino questa semplificazione). Quando entriamo nel Campo di Balata notiamo la solita sensazione degli altri campi profughi: qui il coprifuoco non è molto rispettato, né dai bambini, che spesso non lo rispettano neppure in città, né dagli adulti che passeggiano e fanno i loro commerci per la via centrale del campo. Ci fermiamo a mangiare qualcosa e io vado a comperare una bottiglia d'acqua in un negozio vicino; subito si avvicina un giovane che vende felafel e me ne regala uno appena tolto dalla friggitrice. L'ingresso per la casa che ci ospita è situato in un vicolo tanto stretto che il piccolo zaino che ho sulle spalle mi rende difficile la leggera rotazione necessaria a percorrere il vicolo senza strofinare le due pareti; la porta d'ingresso è messa in modo tale che siamo costretti ad entrare uno alla volta, perché quando la porta è aperta non si può accedere alle scale che portano all'interno. Credo di aver capito che questa è una precisa strategia per impedire ai militari di entrare in massa nelle case. I militari hanno trovato però il modo di entrare in gruppo: sfondano semplicemente le pareti! La famigli che ci ospita ha le solite foto dei martiri appese alle pareti; ci offrono frutta e bibiteŠ Noi alloggiamo al piano superiore, dove ha subito inizio una riunione per una nuova situazione venutasi a creare in una casa vicina ad un altro Campo di Nablus, quello di Askar: c'è una situazione di tensione in una casa che i militari stanno cercando di occupare con il loro metodo preferito: chiudono gli abitanti della casa all'interno lasciandoli senza viveri e senza acqua fino a che non cedono "spontaneamente" la casa; gli internazionali cercano di portare cibo e acqua ai legittimi proprietari tentando di scoraggiare i militari da questa azione. Partono subito tre volontari, anche se è già buio e con il coprifuoco in corso muoversi non è prudente. Io e Donato restiamo con Peter e Ky. La notte passa tranquilla. 20 agosto martedì L'assemblea del mattino che doveva iniziare alle nove comincia alle 10 e 30 presso la casa Hussein, perché aspettiamo tutti gli altri che sono sparsi nel distretto di Nablus. I punti all'o.d.g. sono: 1. come distribuire gli "scudi umani", cioè tutti noi 2. come e quando fare una iniziativa per gli abitanti del campo di Askar, che soffrono particolarmente le restrizioni di movimento per la vicinanza di coloni; tra poco riaprono le scuole e i bambini rischiano di trovarsi in situazioni di serio pericolo perché no c'è scuola dentro il campo 3. come "disturbare" l'azione dei militari che occupano in continuazione case per usarle come caserme temporanee cacciando i legittimi inquilini 4. organizzazione e preparazione della manifestazione di sabato prossimo insieme ai palestinesi e agli israeliani di Ta'ayush 5. come intervenire nei villaggi che sotto coprifuoco da quasi sessanta giorni non hanno la possibilità di fare provviste La discussione è sempre molto ordinata e con interventi brevi; unico handicap la lingua: gli italiani hanno qualche difficoltà a seguire gli interventi, soprattutto quando parlano alcuni "americani" che considerano la loro lingua come lingua madre per tutti! Alle 11 e 30 ci rechiamo al M.R.C. per l'appuntamento che il dr. Allan aveva preso con noi; ci sono delle incomprensioni tra gli ISM e il MR: il dr.Allan ritiene che a volte gli ISM agiscano indipendentemente dalla popolazione palestinese e questo crea qualche malumore. Poi Allan ci porta in un locale del centro di Nablus, dove di solito si tengono riunioni "importanti" socialmente (matrimoni, funerali,Š) e di lì a poco arriva il Prefetto di Nablus che tiene una conferenza stampa sulla situazione di Nablus; parla in arabo e l'interprete è una ragazza che Elisabetta aveva conosciuto a Gerusalemme. "L'obiettivo delle distruzioni effettuate dall'esercito non può essere altro che l'espulsione dei Palestinesi dalla loro terra; Sharon è il vero colpevole di questa situazione; 280 case sono state distrutte totalmente in città; altre centinaia sono fortemente danneggiate; da aprile ad oggi si contano 130 morti; ogni giorni si cercano scuse per continuare con queste azioni; noi aspettiamo ancora prove concrete delle loro affermazioni; qui la vita è diventata impossibile; non c'è lavoro, non si può procurare il cibo, tutte le attività sono sospese; la situazione sanitaria è molto precaria; l'istruzione è a rischio e molti ragazzi possono perdere l'intero anno scolastico". Finita questa esposizione un giornalista chiede come si può ridurre il peso di Jihad e Hamas; Il Prefetto risponde che per farlo occorre creare un clima politico che permetta un reale cambiamento; altra domanda: e per fermare gli attentati terroristici? Risposta: i palestinesi si stanno difendendo; l'unico terrorista è il Primo Ministro Ariel Sharon! Al pomeriggio andiamo al villaggio di Betibe, uno dei villaggi rimasti isolati sin dall'inizio del coprifuoco. Ci porta un taxi che rischia licenza e auto non essendo autorizzato a muoversi; visitiamo varie famiglie, a cui portiamo alcune cose comperate al mercato di Nablus; presso la seconda famiglia viene a trovarci un medico, che poi ci guida in altre case che si trovano in particolari difficoltà: una famiglia composta dai genitori e sette figlie, tutte femmine; una di loro si chiama Palestina Libera! Il fratello del dottore è uno dei "fortunati" che ha avuto la casa occupata dai militari e ci porta visitarla mostrandoci i danni compiuti dai "soldatini". Mentre siamo con loro passano un carro armato e una autoblinda che con l'altoparlante ci intima di stare dentro le case. Si sta facendo tardi e così richiamiamo il nostro tassista temerario che questa volta rischia il doppio, perché con il buio le auto si vedono meglio. A metà percorso il motore si ferma (rottura della coppa dell'olio) e tutti scendiamo per spingere l'auto in una zona dove non può essere schiacciata con i tank. Il tassista ci vuole invitare a cena a casa sua e a dormire, ma non possiamo accettare perché le case dove dormiamo sono "a rischio" distruzione e la nostra presenza potrebbe salvarle. Allora ferma un collega per farci portare a destinazione; anche il collega si presta a correre il rischio e oltre a portarci a destinazione, a Balata, non vuole neppure uno shekel. Quando arriviamo al campo è notte e ci fermiamo a prendere un "panino" arabo: anche questo ci viene offerto dal gestore e devo dire che per me è stato difficile non cedere alla commozione. Tornando verso la "nostra casa" (è difficile non sentirsi a casa con questa gente) un anziano signore mi chiede con quali soldi siamo venuti, se qualcuno ci paga, e cosa racconteremo quando torneremo a casa; io ho risposto guardandolo negli occhi che ci paghiamo da soli, e che racconteremo quello che abbiamo visto. Lui mi ha stretto la mano e se ne è andato. Mi era successa la stessa cosa nel 1991, ma non lo ricordavo più. Francesco Andreini Berretti Bianchi
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