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Palestina Israele-due popoli, due Stati
- Subject: Palestina Israele-due popoli, due Stati
- From: "Forum delle Donne" <forumdonne.prc at rifondazione.it>
- Date: Wed, 22 May 2002 12:53:56 +0200
Palestina - Israele Due popoli, due Stati Un documento del Forum delle donne di Rifondazione comunista L'indecente esposizione mediatica di Arafat come prigioniero liberato unilateralmente da Sharon e insieme ostaggio permanentemente sotto tiro della rappresaglia israeliana, in una Palestina annientata e assediata, dà la misura della tragedia che si è consumata e continua a consumarsi in quella terra. L'umiliante trattamento pubblico inflitto al leader palestinese, le continue minacce d'esilio fatte contro di lui durante e dopo l'assedio di Ramallah, la delegittimazione quotidiana del suo ruolo indicano in modo rappresentativo dove Israele voglia arrivare. Mentre la minaccia dell'occupazione militare continua a incombere sui villaggi palestinesi, nella complicità o indifferenza o silenzio delle grandi potenze del mondo, è stato legittimato il principio che in qualsiasi momento Israele può intervenire militarmente, operare massacri (Jenin), sottrarsi alle risoluzioni, ai controlli dell'ONU, nonché alle regole del diritto internazionale. Ma soprattutto è stato compiuto un passo nella direzione strategica voluta da Sharon: cancellare ogni possibilità di riconoscimento dello Stato palestinese, delegittimare l'Autorità Nazionale, umiliare e cancellare la cultura e l'identità di quel popolo. Sharon ha applicato in pieno e rivendica con feroce determinazione il modello USA della guerra al terrorismo. Gli attentati terroristici sono stati strumentalmente utilizzati per portare avanti il progetto essenziale a cui s'ispira la politica di Sharon: la costituzione di un grande Israele, che comprenda al suo interno la presenza di mini insediamenti palestinesi separati tra loro e ridotti a veri e propri bantustan. "Enduring freedom" e l'idea di una guerra infinita, agita con qualsiasi mezzo e dovunque gli Usa e i suoi alleati lo ritengano necessario, fornisce il contesto di legittimazione internazionale della politica israeliana. Gli attentati terroristici e la strategia dei kamikaze, che hanno avuto nell'ultimo anno una drammatica escalation di insensata follia omicida, sono stati certamente anche il frutto velenoso di questa situazione, la trappola mortale in cui giovani uomini e donne hanno cercato risposta alla mancanza sempre più drammatica di prospettive e futuro per il loro Paese e per la loro vita. Ma sono anche l'espressione di una ricorrente e perdurante concezione politica fondata sull'autonomia del politico, di un meccanismo antropologico-culturale che attiva fino alle conseguenze estreme un'allucinata reciprocità del rapporto amico-nemico e insidia alle radici qualsiasi possibilità di costruire punti di vista, azioni, strategie realmente alternative. E' una concezione della politica dominata dalla cultura maschile, che separa mezzi e fini, vita e politica, centralizzando nelle mani di pochi uomini le strategie di potere e annullando le responsabilità soggettive. L'influenza crescente che gli attentati terroristici hanno tra la popolazione e soprattutto tra i giovanissimi - ormai impossibilitati a esprimere altrimenti la loro opposizione all'occupazione israeliana - dimostra ormai quanto l'integralismo di stampo islamista, che di questa cultura si alimenta, abbia presa anche tra donne e uomini ricchi di una grande e antica cultura laica e democratica come quella palestinese. Come sempre accade, la religione offre copertura ideologica, argomenti popolari, riferimenti identitari al fondamentalismo politico. Non a caso in Occidente si parla ormai di scontro di civiltà e i riferimenti alla civiltà cristiana contro quella islamica alimentano la politica delle varie destre, più o meno estreme. Per questo ci sembra che un danno gravissimo alla causa palestinese sia operato da quelle ideologie di sinistra che, nell'icona del martire suicida, schiacciano e intrappolano il destino del popolo palestinese, caricando donne e uomini di quella terra del ruolo di avanguardia rivoluzionaria di un'ipotetica strategia antimperialista, esaltando l'eroismo dei giovani kamikaze additati come esempio positivo della lotta. Ma la confusione ideologica è un tratto distintivo delle vicende che si succedono tra Israele e Palestina. Quella di Israele è in tutto e per tutto una guerra coloniale, che produce crimini, massacri, devastazioni, vere e proprie deportazioni, che si serve degli stereotipi del più bieco razzismo per creare consenso al suo interno, per guadagnare l'appoggio della popolazione sia rispetto alle operazioni militari contro i villaggi palestinesi sia per allentare la tensione causata dalle crescenti contraddizioni socio-economiche nella stessa Israele. Forte dell'appoggio incondizionato dell'alleato americano e della colpevole subalternità dell'Europa, Israele agisce nell'arena internazionale con i poteri assoluti di una superpotenza e Sharon - anche questo va detto con chiarezza - sta spingendo verso forme estreme la politica attuata da tutti i governi precedenti, laburisti o likud per quanto riguarda tutte le questioni di fondo dei rapporti con la Palestina: dagli insediamenti al diritto al ritorno dei profughi, fino al riconoscimento di due Stati e di Gerusalemme capitale di entrambi. Tuttavia avere chiare le enormi responsabilità di quel Paese e denunciarne crimini, misfatti, massacri, non può autorizzare, anche solo per parziali accostamenti, ad operare processi di assimilazione ed identificazione della drammatica vicenda palestinese alla Shoà, alla tragedia dei lager, alla soluzione finale pensata e organizzata da Hitler. La riduzione indifferenziata delle tragedie storiche a un unico schema interpretativo non rafforza affatto ma indebolisce la capacità critica di giudizio, soprattutto quando si tratta di una vicenda così estrema come l'olocausto, che deve restare ben radicata nella memoria e nelle coscienze come bussola di orientamento e misura etica del male. Identificando l'aggressione alla Palestina con la Shoà e anche confondendo in un unico calderone le responsabilità storiche dello Stato di Israele, e le specifiche politiche dell'attuale governo, con la cultura ebraica, le comunità della diaspora, le scelte dei singoli, si offrono alibi a tutti quelli che, anche a sinistra, non vogliono fare i conti con le micidiali politiche di Sharon e trovano buoni argomenti nelle semplificazioni ideologiche non di rado aberranti che spesso accompagnano il sostegno alla causa palestinese. Rompere il set mediatico costruito in questi giorni per dimostrare che il governo israeliano ha colpito soltanto per sconfiggere il terrorismo e che è disposto oggi a trovare una soluzione di pace: è questo il primo passo da compiere per continuare l'impegno e la mobilitazione a favore della causa palestinese. L'equidistanza tra le due parti in causa, l'oscuramento continuamente operato circa l'enorme disparità di forza e responsabilità tra Israele e Palestina, l'indifferenza totale e il silenzio sistematico sulle risoluzioni dell'ONU ostinatamente violate da Israele hanno offerto il migliore viatico alla strategia di guerra di Sharon. Rilanciare la battaglia politica per una soluzione di pace in Medio oriente significa parlare innanzitutto con chiarezza della guerra che Israele conduce contro la Palestina e delle gravissime intenzioni di Sharon, che, se realizzate fino in fondo, comporterebbero la fine di qualsiasi speranza di futuro non solo per la Palestina ma anche per la stessa Israele. Significa chiedere l'applicazione immediata e rigorosa delle risoluzioni dell'ONU e non permettere che cali il silenzio dopo i massacri effettuati dall'occupazione militare nei campi e nei villaggi. La missione dell'ONU per appurare la verità su quanto avvenuto a Jenin deve essere svolta, non può essere tollerato il diniego israeliano, non può essere lasciata senza risposta la violenta ingiustizia perpetrata legalmente dall'esercito ai danni di una popolazione inerme e indifesa. Significa sostenere il movimento pacifista israeliano, quante e quanti in tutte le forme si oppongono in quel Paese alla guerra, riconoscere il ruolo di ponte di civiltà che quelle donne e quegli uomini svolgono in un momento così drammatico, mobilitare intorno a loro la comunità internazionale, moltiplicare le occasioni di incontro tra le voci libere di una parte e dell'altra. Nell'esperienza dura di questi giorni matura in quei Paesi anche una sinistra nuova che vede uniti ebrei e arabi nell'idea che nessuna soluzione potrà esserci se non si imbocca una via del tutto diversa. L'Europa - su questo deve essere fatto il massimo sforzo in tutte le sedi - si deve convertire nell'agente attivo, spingere l'ONU a mettere in campo una forza internazionale che imponga il "cessate il fuoco", la fine dell'accerchiamento militare voluto da Sharon, l'avvio - in un contesto qualitativamente diverso - di negoziati per una pace vera, per la fine dell'occupazione e la nascita di due stati indipendenti, Palestina e Israele. Forum delle donne di Rifondazione comunista Viale del Policlinico 131 - CAP 00161 - Roma Tel. 06/44182204 Fax 06/44239490
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