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Reportage dal Campo profughi di Jenin
- Subject: Reportage dal Campo profughi di Jenin
- From: "kowalski" <kowalski at informationguerrilla.org>
- Date: Wed, 8 May 2002 01:27:47 +0200
Reportage dal Campo profughi di Jenin Patrizia Viglino Un bambino di 3 anni nel mezzo del Campo profughi di Jenin raccoglie una pietra tra le macerie e la stringe nel pugno della mano, spaventato dalla mia macchina fotografica. Sua mamma cerca di rassicurarlo mentre lui affonda il viso sulla sua gonna e non vuole più guardarmi. Ecco che cosa è rimasto del Mohaian Jenin: il terrore negli occhi di un bambino e la spinta atavica a conservare la vita. Almeno per chi è sopravvissuto. Oggi venerdì 19 aprile è il primo giorno in cui i carri armati israeliani hanno abbandonato l'area del Campo. Il coprifuoco è sospeso per poche ore e una fiumana di uomini si incamminano per fare ritorno alle loro case sulla strada che dal villaggio di Burqeen porta a Jenin. Un carro armato israeliano ostruisce il passaggio, i soldati sono al lavoro con un bulldozer e scavano una grossa buca al centro della strada principale. I pochi taxi palestinesi sono costretti a fermarsi. Gli uomini risalgono a piedi la collina d'ulivi per due km prima di poter raggiungere il Campo. Ci sono giovani ma anche anziani, uomini che erano stati arrestati e deportati per gli interrogatori, rilasciati poi al check point di Salem, al confine con la linea verde. Fanno ritorno al Campo ma non alle loro case. Quel che resta dei quartieri centrali è una montagna di macerie spianate dai bulldozer intervallate da qualche scheletro di casa ancora in piedi, senza più le pareti esterne, dove siedono all'interno alcuni gruppi di donne e bambini. Tutto è stato completamente distrutto, case, scuole, ospedali, moschee. Ricostruire questi terribili 19 giorni, da quando i carri armati israeliani hanno iniziato a circondare l'area del villaggio di Jenin, imponendo il coprifuoco totale, non sarà semplice. La popolazione civile è in stato di shock e non è in grado di ricostruire questa che chiamano la nuova Nakba, una nuova catastrofe. Fin dal 1° di aprile le notizie delle operazioni militari israeliane procedevano senza che ci fossero obiettivi apparentemente chiari, a parte una volontà di punizione collettiva per gli attentati di Nethanya e Gerusalemme compiuti dagli attentatori suicidi palestinesi. All'alba del 2 aprile è iniziato l'attacco al Campo profughi con spari di granate e l'ingresso dei soldati che, come già successo al campo profughi di Balata a Nablus, si preparavano a compiere i rastrellamenti, casa per casa, di tutti gli uomini dai 14 ai 50 anni. Il timore che si ripetessero le devastazioni di Nablus erano forti. La popolazione civile chiedeva già da subito l'intervento internazionale per l'invio di una forza di protezione dei civili. Con i primi bombardamenti e i primi morti, i combattenti palestinesi hanno organizzato una difesa in un quartiere centrale del Campo che ha fatto sperare nella possibilità del ritiro delle truppe israeliane che evitasse appunto il bagno di sangue. I bombardamenti con i carri armati si sono susseguiti con regolarità giorno e notte, colpendo le abitazioni civili nella cinta esterna del Campo e aprendo un varco per l'ingresso dei carri armati Merkava e degli APC, i blindati per il trasporto delle truppe militari. Le stradine strettissime, dove non potevano circolare due auto contemporaneamente, hanno iniziato a tramutarsi in strade larghissime con l'abbattimento di edifici, distruzione di tutte le infrastrutture: l'elettricità, le fognature, le condutture dell'acqua, la distruzione di un antico pozzo, i mezzi di trasporto, l'imposizione del coprifuoco continuo durato due settimane. La popolazione civile lanciava i suoi SOS per telefono lamentando il razionamento di acqua e cibo e i pesanti bombardamenti che non accennavano a placarsi dopo giorni. Così, mentre anche Betlemme e Nablus si trovavano sotto assedio, giungevano le notizie dal Mohaian Jenin di una resistenza all'invasione dei soldati israeliani. Scontri a fuoco con Kalashnikov contro i più sofisticati M16 che hanno provocato decine di morti tra i palestinesi e l'uccisione di 22 soldati secondo fonti palestinesi, mentre fonti israeliane ammettevano soltanto quattro perdite. I combattenti palestinesi allestiscono in un edificio bombardato una trappola mortale, minandolo con l'esplosivo, dove 13 soldati israeliani cadono nell'imboscata. Ora è rimasto un cumulo di macerie dalla quale l'IDF, le forze di occupazione israeliane, ha rimosso i corpi. Tutto intorno tracce delle lotta. Abiti e scarpe abbandonati al suolo, muri ancora sporchi di sangue, segno che l'esercito israeliano, una volta vinta la resistenza in quella zona del Campo, ha fatto delle esecuzioni sommarie. In un edificio di fronte, ormai semi crollato, c'è una stanza dove si vedono i resti di un pasto frugale, qualche tazza per il the e sulle pareti tutto intorno pezzi di carne umana stampati sui muri, tracce di uno o due corpi che sono stati fatti esplodere. I palestinesi non sono in grado di ricostruire cosa sia successo ma sulla parete laterale c'è un grosso buco provocato da un missile, sparato probabilmente da un carro armato. Anche per la strada ci sono brandelli di carne umana e tutto intorno un fetore acre. Il 4 aprile l'esercito israeliano non riesce ancora a espugnare due quartieri al centro del Campo e inizia a bombardare in modo massiccio con gli elicotteri Apache e i bombardieri F16. L'isolamento si fa totale. Le notizie giungono sempre più sporadiche, l'ospedale del Campo viene messo fuori uso, i soldati vietano tassativamente ogni soccorso medico, sparano a vista sulle ambulanze, completando l'isolamento del Campo dal resto del villaggio. Alcuni gruppi di donne e bambini cercano di uscire dal Campo sotto i bombardamenti. Non è chiaro se abbiano mai raggiunto un posto sicuro. Due gruppi di circa 200 persone sono arrivati nell'ospedale ma dopo tre giorni sono usciti alla ricerca di cibo. Nei villaggi intorno a Jenin, di Rummenieh, Taibeh, Qabatye, Burqueen, Kafr Than, Zababa giungono centinaia e centinaia di uomini tra gli 11 e i 70 anni provenienti dal Campo profughi. La moschea di Taibeh si trasforma in un centro di accoglienza, l'altoparlante chiama i nomi delle persone per permettere ai parenti di ricongiungersi. Le famiglie ospitano gli scampati. Nella scuola di Taibeh vengono allestiti dei dormitori, in una stanza è stata fatta una raccolta di abiti per rivestire gli uomini che venivano rilasciati nudi dopo gli interrogatori e una lavagna raccoglie i nomi per i parenti che giungono dagli altri villaggi. Le prime testimonianze sono agghiaccianti. Intorno a mezzogiorno del 9 aprile la resistenza palestinese ha dichiarato il cessate il fuoco e si è arresa per aver finito le munizioni. “Eravamo pronti a resistere, a sacrificarci per la nostra terra” - racconta un giovane combattente appena rilasciato dopo due giorni di interrogatori - “dopo tre giorni abbiamo finito le munizioni e ci siamo arresi ma i soldati non hanno accettato il cessate il fuoco e hanno iniziato a bombardarci con gli elicotteri Apache e i bombardieri F16. Poi hanno fatto entrare i bulldozer e completato le demolizioni senza fare uscire la gente dalle case. Molti sono rimasti intrappolati dentro per sfuggire al fuoco randomico dei cecchini e dei carri armati”. I soldati invadono tutte le aree del Campo e iniziano a compiere le prime esecuzioni sommarie. Alcuni testimoni hanno visto 5 ragazzi messi al muro davanti agli occhi dei loro familiari. Tutti gli uomini vengono fatti uscire dalle case. Khaled, 30 anni, racconta come i soldati siano entrati in casa sua sfondando la porta di ingresso. Sul suo viso sono ancora evidenti le tumefazioni dalle percosse con i calci degli M16. Dopo 4 giorni non può ancora muoversi a causa delle torture subite, la schiena è tumefatta e i suoi polsi sono segnati dalle cicatrici delle manette di plastica. Dopo un interrogatorio sommario davanti ai suoi familiari è stato usato come scudo umano per permettere ai soldati di entrare nella casa dei vicini. Come tutti gli uomini è stato costretto a spogliarsi, bendato e messo in fila indiana davanti ai carri armati che sfilavano per le strade, abbattendo al passaggio i muri delle case. La gente osservava dalle finestre senza poter fare nulla. I primi feriti sanguinavano per le strade. Un volontario medico della Red Crescent Society, il corrispondente palestinese della Croce Rossa, racconta come sia stato arrestato mentre si recava al Campo per tentare un soccorso. Anche i medici e le ambulanze sono state usate come scudo per l'avanzata dei soldati, casa per casa. Ha visto diversi feriti abbandonati per la strada e alcuni cadaveri colpiti dal fuoco dei numerosi cecchini senza che potesse fare nulla. Un anziano di 70 anni racconta di aver visto un corpo davanti alla sua porta di casa, abbandonato per 4 giorni, prima che anche lui venisse arrestato e portato via per l'interrogatorio. I primi giorni gli interrogatori sono stati condotti duramente. Molti uomini presentano segni di torture, bruciature, fratture e maltrattamenti. I polsi e il volto pieni di cicatrici come un segno di riconoscimento. Non è stato risparmiato nessuno da queste brutalita' e umiliazioni. Gli anziani ricordano l'espulsione dai loro villaggi del 1948 tuttavia le umiliazioni a cui sono stati sottoposti non hanno precedenti. Trasportati fuori dal Campo verso la foresta di Saed sono stati tenuti legati e bendati, senza abiti, solo con le mutande, e interrogati due per volta, prima dall'esercito e poi dai servizi speciali, Shin Bet e Mossad. Umiliati e percossi, come racconta Walid, un impiegato delle Nazioni Unite, a cui è stato dato da bere acqua e piscio, dopo tre giorni senza acqua. A tutti è stata scattata una polaroid. Sul retro i soldati hanno scritto il numero della carta di identità, l'ID palestinese, e la parola “terrorista”, prima del rilascio sotto l'intimidazione di non tornare mai piu' a Jenin. I giovani dei villaggi vicini si sono recati per giorni al check point di Salem per soccorrerli. Molti di loro non potevano camminare. Gli uomini non sanno nulla di quello che succede all'interno del Campo, non hanno notizia dei loro familiari, delle donne e dei bambini. Nessuno riesce ad entrare. I bombardamenti continuano massicci. I palestinesi dicono di aver visto l'esercito israeliano portare via i corpi dalle strade per caricarli negli APC. Secondo alcuni testimoni i corpi sono stati messi in fosse comuni prima di essere trasportati verso la Valle del Giordano. Il 14 aprile la Corte suprema israeliana ha approvato la richiesta di una immediata cessazione delle sepolture in fosse comuni dei palestinesi uccisi, effettuate da parte dell'esercito. La Croce Rossa Internazionale ha infatti chiesto che si procedesse alla numerazione e all'identificazione dei corpi, riconoscendo la necessità per la Mezzaluna Rossa palestinese di prendere parte all'operazione di identificazione. Tuttavia i soldati hanno continuato le rimozioni, impedendo qualsiasi intervento esterno. L'opinione pubblica mondiale, compresa una parte di quella israeliana, è fortemente preoccupata del fatto che ci possano essere state esecuzioni di massa e un massacro di civili sotto i bombardamenti. Numerosi testimoni hanno visto diversi corpi gettati nei canali. I combattenti sono stati giustiziati sommariamente dopo essere stati circondati. I soldati non hanno permesso a nessuno di lasciare il campo. Chi è riuscito a scappare racconta di molti corpi rimasti tra le case distrutte. Oltre il 30% delle case sono state ridotte a cumuli di macerie che si levano per diversi metri di altezza e qualche centinaio di chilometri quadrati. Il 15 aprile riesco a entrare nel Campo profughi di Jenin passando attraverso la collina. La Croce Rossa Internazionale ha potuto rimuovere sette corpi dalle strade ma non tutti i cadaveri che decompongono da giorni. La popolazione civile, donne e bambini, convive da due settimane con l'orrore della morte. In un edificio c'è un corpo carbonizzato, colpito da un missile mentre si trovava in casa. Un altro cadavere spunta dalle macerie di un'altra casa, semi sepolto dal crollo. L'odore della morte mi guida verso una casa dove al piano terra giacciono 4 cadaveri. Morti orribili, tracce di tentativi di fuga. Le mosche divorano le carni in decomposizione, i bambini assistono a questo spettacolo, molti dei quali sono parenti delle vittime. C'è un forte pericolo di epidemie. Manca l'acqua e il cibo. I tantissimi neonati non mangiano da giorni. La popolazione ha perso tutto e si aggira per le macerie senza accennare nessuna reazione. Non ci sono medici, a parte Mohammed, medico palestinese rimasto nel Campo per tutta la durate dell'assedio e una volontaria francese giunta da qualche giorno. I convogli umanitari delle Nazioni Unite vengono fermati all'ingresso del Campo con acqua, viveri e medicinali. Il coprifuoco continua. Alcuni bambini si spostano con le bandiere bianche in cerca di acqua tra gli allagamenti delle fognature. La popolazione vive nel terrore dei cecchini israeliani che continuano a sparare. È difficile raggiungere alcuni edifici dove fino a due giorni prima si sentivano ancora le voci di sopravvissuti. Quello che colpisce è la grande quantità di macerie. Nel Campo vivevano 15.000 profughi in un'area delimitata di 1kmq. In ogni abitazione c'erano almeno una media di 20 persone. Circa 600 case sono state rase al suolo. Per diversi giorni ancora i soldati israeliani non permettono i soccorsi medici e sanitari. La popolazione è stremata. Intanto continua la caccia ai giornalisti che riescono a entrare nel Campo. I soldati procedono con gli arresti e il sequestro del materiale. Anche i veterani delle guerre, AP, Reuters, CNN, BBC, al Jazeera sono costretti alla fuga come la popolazione civile del resto, che convive sotto il fuoco dei cecchini. Il 16 di aprile cerco di rientrare nel Campo con un gruppo di pacifisti italiani, membri di diverse municipalità italiane: Napoli, Salerno, alcuni comuni campani e laziali. Ci sono anche dei giornalisti stranieri. Veniamo fermati dai carri armati, i passaporti sequestrati. Dopo lunghe trattative ci accompagnano con i carri armati oltre la linea verde dicendo che i Territori Palestinesi Occupati sono vietati agli stranieri e che sono pieni di terroristi. Intanto un soldato spara a un cane sulla collina e lo fa secco. Protestiamo pretendendo la restituzione dei passaporti e il rilascio dei palestinesi che si trovavano con noi. Venerdì 19 ritorno nel Campo per la momentanea sospensione del coprifuoco. I palestinesi parlano di 200-400 morti, quasi tutti civili. Le organizzazioni umanitarie azzardano stime molto più alte, si accenna a qualche migliaio. Le due ruspe al lavoro nel Campo tra le macerie scavano alla ricerca dei cadaveri. Dopo un ora da alcuni scavi si leva l'odore dei corpi in decomposizione. Intanto un camion ha finalmente portato via gli otto corpi che giacevano nelle case, avvolti in drappi di seta bianchi. Una bandiera palestinese sventola sulla cima più alta delle macerie, poco più in là una bandiera verde dell'Islam e un'altra di Fatah. All'uscita del Campo gli israeliani hanno disegnato le stelle di Davide sulle pareti esterne e interne delle case e dei negozi. Su un muro colpito dal fuoco di un carro armato c'è anche una scritta in israeliano: Con Israele la Vita, mentre in una casa a pochi metri ci sono 2 missili inesplosi. Nonostante la fine del coprifuoco all'uscita da Campo cadiamo sotto il fuoco dei soldati israeliani. Siamo un gruppo di giornalisti, alcuni attivisti per la pace italiani e americani, civili palestinesi tra cui anziani e bambini. I soldati israeliani ci prendono di mira mentre speditamente ci avviamo ai taxi collettivi. Un proiettile sfiora un palestinese di 65 anni che cammina davanti a me. Probabilmente ci vogliono intimidire. Mi lascio alle spalle una tragedia di proporzioni indescrivibili, difficile da quantificare che ha suscitato orrore nei numerosi testimoni stranieri e uno stato di totale prostrazione nel popolo palestinese. Un massacro voluto e annunciato con il tacito consenso della comunita' internazionale, un punto di non ritorno per il popolo palestinese ma anche per il futuro di Israele. http://www.carta.org/agenzia/palestina/020506jenin.htm
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