leggi di guerra





16 Gennaio 2002


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L'Italia riesuma le leggi di guerra
Un comandante italiano a Kabul che fa passare per le armi una presunta spia
è un assassino o un legittimo combattente? Picchiare un taleban è un crimine
o un atto non punibile per mancanza di "reciprocità dello Stato nemico" sul
trattamento dei prigionieri? Diffondere notizie diverse da quelle ufficiali
o scrivere che la guerra fa schifo è libertà di stampa o reato militare?
Questione di interpretazione: in onore di Enduring Freedom torna il codice
penale militare di guerra sepolto nel '45
DOMENICO GALLO

Per la prima volta dal 1945, nell'ordinamento giuridico italiano è entrato
di nuovo in vigore il Codice penale militare di guerra. Sotto il profilo
istituzionale, è questa la vera novità che emerge dalla partecipazione di un
corpo di spedizione italiano alla "guerra contro il terrorismo".
Per tutte le precedenti missioni all'estero compiute dalle forze armate
italiane, dalla guerra del Golfo, all'intervento in Somalia, a quello in
Bosnia e a quello nel Kosovo, è stata sempre emanata una norma speciale che,
in deroga a quanto previsto dall'articolo 9 del Codice penale militare di
guerra, prevedeva che alla missione militare italiana all'estero dovessero
applicarsi le norme del codice penale militare di pace. Molti giorni dopo il
voto del Parlamento sulla partecipazione italiana, nel silenzio generale, è
stato emanato un decreto legge (1 dicembre 2001 n. 421), che contiene norme
urgenti per la partecipazione di personale militare all'operazione
multinazionale denominata "Enduring Freedom".
Gli articoli 8 e 9 del decreto prevedono che "al corpo di spedizione
italiano" si applica il codice penale militare di guerra, con esclusione
delle disposizioni di natura processuale. In parole povere, i reati previsti
dal codice penale militare di guerra non saranno giudicati dagli speciali
Tribunali militari di guerra (che non esistono più) ma dalla ordinaria
giustizia penale militare. Nello stesso giorno il governo ha presentato al
Senato un disegno di legge che conteneva modifiche al codice penale militare
di guerra. Queste modifiche si riducono a ben poca cosa e lasciano
interamente in piedi l'impianto normativo e ideologico del codice penale
militare di guerra, compresa la giurisdizione dei Tribunali speciali
militari, che - invece - il decreto legge ha disapplicato, considerandola
incostituzionale. Ma introducono due peggioramenti significativi. Il primo è
che viene ampliata la portata dell'articolo 9, prevedendo che in caso di
missioni all'estero (anche in tempo di pace), le disposizioni del codice
penale militare di guerra si applicano non solo al Corpo di spedizione, ma
anche al personale militare che svolge compiti di supporto nel territorio
nazionale. Il secondo è che viene reintrodotto il cosiddetto "reato
militarizzato", che nell'ordinamento italiano era stato cancellato nel
lontano 1956: i Tribunali militari tornano ad avere competenza su molti
reati comuni, purché commessi in divisa. Peraltro il "reato militarizzato"
viene introdotto con una ampiezza molto più estesa di quella vigente durante
la seconda guerra mondiale.
Non è un caso che il disegno di legge per la conversione del decreto legge
Enduring Freedom e il disegno di legge per le modifiche al codice penale
militare di guerra siano stati presentati contestualmente. Sono funzionali
l'uno all'altro ed esprimono un unico indirizzo in tema di recupero e
riutilizzabilità di leggi di guerra che affondano le loro radici nella notte
della storia.
Non si può negare che quando si compie una missione con contenuto bellico
sorga la necessità che le operazioni militari siano disciplinate da un corpo
di norme specifiche, che nel codice penale militare di pace mancano. Ci sono
di mezzo parecchie convenzioni internazionali relative al diritto umanitario
di guerra, che tutelano la popolazione civile e i prigionieri, convenzioni
che vanno rese pienamente operative. Nel codice penale militare di guerra
esiste un intero capitolo (il titolo IV) che disciplina i reati contro le le
ggi e gli usi di guerra, rendendo punibili comportamenti che normalmente
sono interdetti dalle Convenzioni internazionali, come le le sevizie e i
maltrattamenti ai prigionieri. Gli esempi si sprecano, uno per tutti i
cappucci, i tranquillanti, le catene e le gabbie di filo spinato impiegati
dalle forze armate americane sui prigionieri di al Qaeda.
Per rendere operativa tale disciplina, però, la strada maestra non era
quella di riesumare tutto il codice penale militare di guerra, ma quella di
richiamare la disciplina specifica relativa ai reati contro le leggi e gli
usi di guerra, dichiarandola applicabile all'operazione "Enduring Freedom".
La strada seguita, paradossalmente, rende invece tale disciplina inoperante.
E' stato infatti riesumato anche l'articolo 165 che prevede che i reati
contro le leggi e gli usi di guerra sono punibili "in seguito a disposizione
del Comandante Supremo e solo in quanto lo Stato nemico garantisca parità di
tutela penale allo Stato italiano ed ai suoi cittadini". E' evidente che,
nel caso della missione Enduring Freedom, questa condizione di punibilità
potrebbe non verificarsi mai, per una semplice ragione: i "terroristi" non
sono uno Stato nemico. Il disegno di legge di modifica del codice penale
militare di guerra prevede infatti l'abrogazione di questa disposizione,
perché contrasta con gli obblighi internazionali assunti dall'Italia e
derivanti dalle Convenzioni e dal Protocollo di Ginevra. Ma la disciplina
del decreto legge è pienamente vigente, mentre le proposte modifiche del
codice penale militare di guerra non si sa se e quando saranno trasformate
in legge. Pertanto il decreto legge fallisce completamente l'obiettivo -
ammesso che l'abbia mai avuto - di rendere operanti ed applicabili a
Enduring Freedom le norme del diritto umanitario che l'Italia ha l'obbligo
di osservare.
Tuttavia questa riesumazione delle leggi di guerra non è priva di effetti
collaterali. Per esempio, credete che la pena di morte sia stata abolita?
Nei fatti potrebbe non essere del tutto vero: è stata richiamata in vita una
norma, l'articolo 183, che consente ai comandanti militari di passare
immediatamente per le armi le spie o i combattenti che non indossino
l'uniforme. Fatto anche più grave, sono state riesumate delle norme che non
si applicano soltanto ai militari ma a "chiunque", come l'articolo 76 che
punisce la divulgazione di notizie diverse da quelle ufficiali, o l'articolo
80 che punisce la pubblicazione di critiche o scritti polemici sulle
operazioni militari o sull'andamento della guerra, o l'articolo 87 che
punisce la denigrazione della guerra.
Ovviamente, dalla riesumazione del codice penale militare di guerra
effettuata con il decreto legge non deriva automaticamente che tali norme
siano concretamente operanti. A questo punto la questione diventa un
problema di interpretazione. E' interessante, però, notare che queste
disposizioni contengono una sorta di codice deontologico dell'informazione
di guerra al quale tutti i mass media americani si attengono
scrupolosamente, e al quale si attengono spontaneamente una buona parte dei
mass media italiani, dai quali, anzi, cominciano a piovere intimazioni a
tacere. Si va dal grido silete sociologi, lanciato da Panebianco sul
Corriere della Sera del 6 novembre, alla simpatica copertina di Libero che
l'8 novembre ha pubblicato le foto dei parlamentari traditori che "stanno
con il nemico", alle esternazioni del generale Fabio Mini che sul numero
4/2001 di Limes ha invocato una "lotta istituzionale" contro "la spazzatura
propagandistica e di disinformazione che ci viene propinata sotto le nobili
vesti del diritto al dissenso", aggiungendo con tono minaccioso che essa
"non sarà né semplice né indolore" (cfr il manifesto del 21 dicembre).
Insomma non è stato riesumato solo un codice condannato dalla storia, ma è
stata riesumata anche una cultura ante seconda guerra mondiale, che
credevamo sparita per sempre: tacete, il nemico vi ascolta.