Perugia-Assisi. Sinistra antiglobal e volontariato assieme: un puro caso?



Perugia-Assisi. Sinistra antiglobal e volontariato assieme: un puro
caso?

Dopo Genova, la sinistra antiglobal e il volontariato si sono ritrovati
massicciamente insieme alla Marcia della Pace. Vale la pena rifletterci
sopra.

A) Il crollo delle Twin Tower e la guerra in Afganistan ci hanno fatto
capire che essere di sinistra e' piu' scomodo di quanto credessimo. Il
mondo era un disastro. Noi ce ne preoccupavamo. In pochi se ne
occupavano. Ora dobbiamo occuparcene tutti e dobbiamo imparare da quei
pochi.

Diciamocelo pure. Tutti noi che protestavamo contro il capitalismo,
tutti noi che almeno dalla guerra del Viet-nam abbiamo incominciato ad
essere preoccupati dalla politica di potenza americana, tutti noi che
pensavamo da tempo che ormai il mondo era diventato un vulcano che
aspettava un'occasione per esplodere, ebbene tutti noi, per un
comprensibile, ma colpevole, senso di paura speravamo che il redde
rationem sarebbe avvenuto piu' tardi, molto piu' tardi. O magari un poco
alla volta, in modo da poter cercare di cambiare gradualmente, molto
gradualmente, molto comodamente, il corso della storia, o se non proprio
il corso almeno il rivolo che ci stava piu' vicino.
Abbiamo pensato che, tutto sommato, dopo la sconfitta in Viet-nam
l'America si sarebbe adeguata al bipolarismo geopolitico. E cosi' noi ci
siamo subito adeguati a un bipolarismo dell'anima: la giustizia e la
pace come "sentimenti" da una parte, dall'altra il sistema occidentale
per tutto cio' che sentimento non e'. Insomma, avevamo calcolato che
alla fin fine si poteva stare comodamente con Dio e con Mammona. Che e'
il modo migliore per disarmare le coscienze. E, fu cosi' che
incominciammo a non capire, a fingere di non capire, quel che stava
succedendo.
Ad esempio non capimmo niente del conflitto in Afganistan. Percepimmo
piu' o meno vagamente che i sovietici erano invasori (e feroci) e, con
la stessa vaghezza, concordammo con la propaganda occidentale che i
mujaheddin islamici, a libro paga del Segretario di Stato statunitense,
erano i liberatori. A dire il vero delle faccende afgane ci interessava
poco o niente, ma ci faceva comodo pensare che quei "cattivoni" degli
Americani, ogni tanto qualcosa di positivo lo facevano, anche se per
qualche ovvio interesse. Come ad esempio sostenere dei poveri montanari
nella loro impari lotta contro gli elicotteri blindati sovietici. Ci
voleva molto a capire che tra quelle montagne si giocava una sanguinosa
partita dove l'unica cosa d'impiccio, sia per una parte in conflitto che
per l'altra, era il popolo afgano e dove diecimila afgani non valevano
nemmeno un chilometro delle future pipeline? No, bastava poco. Bastava
un minimo di coerenza in piu'. Ma occorrevano due condizioni che non
esistevano: avere un cuore meno duro ed essere consapevoli che la
giustizia e la pace non sono dei sentimenti con cui baloccarsi, ma
un'arma con cui lottare.
Ci volle poco piu' di un decennio perche' gli Stati Uniti si
riprendessero dalla sconfitta in Viet-nam, si sbarazzassero senza colpo
ferire dell'Unione Sovietica e conducessero la prima guerra
dell'unipolarismo, la Guerra del Golfo. L'ultima guerra, ci dissero.
Quella per imporre definitivamente, per l'appunto, il nuovo ordine
unipolare e monoculturale.
Rimanemmo spiazzati. Saddam non ci piaceva per niente. Ma quella guerra
era evidentemente arbitraria se messa insieme a tutte le altre
situazioni d'illegalita' internazionale tollerate nel mondo o
incoraggiate. Ci preoccupammo. Poi ci furono la guerra di Croazia,
quella in Bosnia, quella in Kossovo. Eravamo sempre piu' preoccupati e
sconcertati. L'ultima era addirittura condotta dalla Sinistra. Ci
guardammo un po' piu' in giro. Fu dura scoprire che gli unici che erano
rimasti "fedeli agli ideali" erano i missionari comboniani, i volontari
della Caritas, quelli dell'Esercito della Salvezza, i medici di
Emergency, gli operatori di questa o quella ONG. Quei pochi che
guardavano le donne e gli uomini prima direttamente e solo in seguito
attraverso le proprie categorie politiche, religiose e concettuali. Quei
pochi che si mettevano in gioco.
Quei pochi che non si preoccupavano, ma se ne occupavano.
Abbiamo scoperto con stupore che indipendentemente da come la pensassero
erano gli unici "di sinistra". E ora stiamo scoprendo che bisogna stare
con loro e imparare da loro se veramente siamo intenzionati a essere "di
sinistra". E' una rivoluzione culturale difficile, scomoda, ma
inevitabile.
Tra i partiti c'e' chi sembra lo abbia capito quasi istituzionalmente e
chi individualmente. Purtroppo, come abbiamo visto recentemente, i piu'
continuano a ripetere la solita formula fallimentare "Capisco i problemi
morali, ma la politica e' un'altra cosa".

B) La guerra durera' anni. Oneri e onori di chi ci partecipera'. Il
prezzo e' (sempre) giusto.

Si', e' vero: la morale e' tutt'altra cosa.
Come ha sostenuto l'ex Segretario di Stato, Madeleine Albright, a
proposito del mezzo milione di bambini iracheni morti a causa
dell'embargo, "the price is worth it". Il prezzo e' giusto.
In casa nostra si puo' litigare fino alla zuffa sulle rogatorie
internazionali o sul diritto societario, ma se si tratta della guerra
mondiale in corso, la parola d'ordine e' una sola: "Stringiamci a
coorte". Per patriottismo tricolore? No. Perche' the price is worth it.
Il prezzo di cosa?
Come gia' durante la Guerra del Golfo e quella del Kossovo, i
commentatori e i politici, di destra e di sinistra, ci fanno notare che
e' una questione di prendere o lasciare. "Gli Americani", ci dicono
testualmente, "alla fine faranno la conta degli alleati affidabili".  E
dopo la conta? Nessuno la dice cosi', ma dopo la conta, come e' ovvio,
c'e' la spartizione del bottino: aree d'influenza, intraprese
economiche, sfruttamento di risorse energetiche, costruzione e gestione
di pipelines, mercati. Soldi, insomma. Quattrini. Mammona. Che altro ci
puo' essere dopo la conta?
La guerra durera' anni e anni, In questo gli Americani sono sinceri.
Magari quarant'anni come la Guerra Fredda. The price is worth it. E non
perche' sia impossibile catturare o eliminare i singoli terroristi, ma
perche' non c'e' nessuna volonta' di sconfiggere il terrorismo come
fenomeno. E soprattutto perche' l'obiettivo e' un altro ed e' in diretto
contrasto con la sua rimozione (anche in questo gli americani sono
schietti, basta leggersi i loro documenti strategici invece che sentire
i nostri opinion makers).
E' lacerante vedere da una parte migliaia e migliaia di uomini in tutto
il mondo che magari non avrebbero mai sparato a nessuno e che ora si
appellano all'avventurista sanguinario di turno (era gia' successo con
Saddam) perche' esasperati dall'emarginazione economica, sociale e
politica, inferociti da una politica estera americana che di
quest'emarginazione globale e' il sostegno, e vedere dall'altra parte
gli Stati Uniti che colgono al balzo l'occasione per espandere ancora di
piu' il loro potere nel mondo e propagare quell'emarginazione a
dismisura. E noi dietro, perche' the price is worth it.
No, il terrorismo non e' l'obiettivo di questa guerra (cosi' come
l'Occidente in quanto tale non e' l'obiettivo del terrorismo). Nemmeno
l'opinione pubblica americana riesce piu' a capire cosa succede: il
nemico e' bin Laden; no, sono anche i Talebani; no, sono anche certi
stati canaglia limitrofi, come l'Iraq; no, ce ne sono in tutta l'Asia.
E gia', perche' la posta in gioco e' l'Asia, mica il terrorismo. E per
conquistarla bisogna fare e disfare alleanze, spostare truppe in
Uzbekistan, spostare navi e aerei nell'Oceano Indiano, promettere a
destra e a sinistra. All'Alleanza del nord ma anche ai loro mortali
nemici, i generali pakistani. Ad Arafat e a Sharon. Ai Cinesi e ai
Russi. Ai musulmani e ai cristiani. Ai civili e ai militari. Bisogna
prospettare piu' democrazia, ma intanto sostenere le dittature e le
autocrazie. Promettere "liberta' durature" e intanto incominciare a
limitarle anche in casa propria. E, soprattutto, occorre fare le guerre.

I principi non contano. La morale men che meno. The price is worth it.
La partita e' grossa e si possono pagare anche prezzi alti. Anche
qualche migliaio di morti in casa propria, a scadenze regolari. The
price is worth it.
Come ci illumina lo stratega americano Luttwack, e' ingenuo richiedere
la rimozione del fenomeno terrorismo. L'importante e' riuscire a fare
come hanno fatto in Israele: tenerlo sotto controllo, cosi' che "diventi
un accidente come un altro nella vita quotidiana". Perche' no? The price
is worth it.
Cosi' venire ammazzato in ufficio da un aereo dirottato sara' piu' o
meno come finire sotto una macchina quando si torna a casa. The price is
worth it.
Qualcuno ha gia' decretato che ne vale la pena. E poi (e quindi) altra
soluzione non c'e'.
A meno di far marcia indietro, rivedere tutto. Ad esempio rinunciando a
una politica che viene prima della morale, senza pero' ricadere in
pensieri totalitari (e questo, in effetti, richiederebbe una non
semplice rivoluzione copernicana nel pensiero
occidentale). Ad esempio, espandendo la democrazia in Occidente e nel
mondo (cosa difficilissima quando la gente e' terrorizzata e quando si
sono create forze politiche integraliste e totalitarie dappertutto).
Infine, cambiando il tipo di sviluppo economico. O meglio, mettendo
all'ordine del giorno veramente lo sviluppo, non l'espansione economica.

Compiti enormi, complessissimi, che fanno venire le vertigini se solo ci
si fa mente locale.
Ma un credente, in cio', potrebbe essere addirittura facilitato.
Basterebbero dieci parole della Lettera ai Romani per fargli mettere
tutto in dubbio: "Non esser vinto dal male, ma vinci il male col bene".
Il bene non e' uno stendardo di eserciti. Non e' un fortino, una
nazione, un governo, un modo di produzione, una civilta', un'alleanza,
un'area del mondo. Non esiste, come invece ci assordano, una lotta del
Bene contro il Male, dove ogni mezzo e' permesso. L'apostolo Paolo non
dice "vinci il male per il bene", ma "vinci il male col bene". Il bene
e' quindi un mezzo, l'unica arma consentita: "se il tuo nemico ha fame,
dagli da mangiare; se ha sete dagli da bere; poiche' facendo cosi', tu
radunerai dei carboni accesi sul suo capo".

Utopie? Si', utopie. Ma il resto e' follia. E lo stiamo vedendo.

Piero Pagliani
Roma