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13 ott. 2001


I profeti disarmati davanti al terrore
LE IDEE

MARIO PIRANI

LA GUERRA TERRORISTICA IN ATTO - senza confini territoriali precisi né
limiti etici nell'uso delle armi, come la minaccia batteriologica lascia
prevedere - si riverbera con similare pervasività nelle angosciate
discussioni che l'accompagnano di giorno in giorno. Tutti i valori vengono
sottoposti a verifica: l'anelito alla pace e lo spirito di difesa, le
appartenenze religiose e l'etica laica, lo scontro fra civiltà diverse e
l'accettazione delle diversità. Nulla può essere dato per scontato e
risolto, neppure nelle nostre coscienze, affidate a una morale
necessariamente provvisoria. Qualche punto appare, peraltro, acquisito
almeno come orientamento di appartenenza. Mi riferisco, ad esempio, a
quanto sostiene Umberto Eco ("la Repubblica" del 5 ottobre) soprattutto
laddove ricorda che «il parametro della tolleranza della diversità»
distingue la nostra cultura da quelle che non la tollerano. Ma fino a
quando? Qualche incrinatura già si percepisce e a nulla serve stracciarsi
le vesti con ipocrito scandalo.
Certo, s è discusso fin troppo, pro e contro, sulla lettera di Oriana
Fallaci al "Corriere della Sera".

La passionalità senza limiti delle sue parole, l'espandersi irrefrenabile
per quattro pagine di una prosa tumultuosa, a volte brutale e offensiva,
sprezzante di ogni filtro e distinguo analitico, i sentimenti di simpatia e
di avversione, a capoversi alterni, cui un normale lettore, privo di
preconcetti, è stato sottoposto, rendono pleonastiche ulteriori analisi. Si
parva licet componere magnis, mi sembra si sia trattato, sia pure in chiave
giornalistica, di una specie di "stream of consciousness", ovverosia di un
"flusso di coscienza", proprio di quel "monologo interiore", in bilico tra
inconscio e ragione, cui si abbandona Molly Bloom, a conclusione dell'
Ulisse di Joyce. Piantiamola, dunque, qui, rispettando anche l'invito della
umbratile Oriana a non disturbarla oltre.
Utile, invece, approfondire la discussione su alcuni temi che i commenti,
susseguenti la sua irruzione, hanno rilanciato. Taluni, ad esempio,
nell'empito di ristabilire versioni «politicamente corrette», sono tornati
a percorrere le vecchie tracce dell'antiamericanismo aprioristico e del
pacifismo ad oltranza, il che non sempre aiuta a intendere gli eventi.
Invece di analizzarli nella loro fattualità specifica questi vengono letti
sovrapponendovi schemi interpretativi residuali della guerra fredda,
quando, appunto, la sinistra vedeva il mondo nettamente diviso in due
campi: «quello dell'imperialismo e della guerra e quello del socialismo e
della pace». Da un lato i baffoni benedicenti di Stalin, sormontati dalla
colomba di Picasso e, dall'altro, un minaccioso zio Sam a stelle e strisce,
armato di bomba atomica.
Purtroppo, pur depurato di Stalin e orfano di colombe, lo schema pacifista
e veteroterzomondista resta sostanzialmente inalterato. Almeno il nemico è
sempre lo stesso. Quanto all' "amico" non lo si riconosce più
esplicitamente come tale (anche se talvolta ci si è recati per solidarietà
a Bagdad o a Belgrado) ma si cerca di «comprenderne» l'ira funesta, sia
quella di Milosevic, di Saddam Hussein e, persino, di Bin Laden, causata
pur sempre - secondo questa vulgata - dagli errori e misfatti di
Washington. Di qui l'ansia di «non rispondere alla violenza con la
violenza», di non attuare offensive militari «inutili e pericolose», ma, se
mai, azioni di polizia per provare chi sia il colpevole, arrestarlo e
sottoporlo a regolare processo, quasi si trattasse di una caccia per
scoprire i complici del mostro di Firenze. Vi è su questa linea chi arriva
al paradosso involontario, come Dacia Maraini ("Il Corriere" del 5
ottobre), che scrive: «Non sono stati gli islamici in generale a fare
l'eccidio (il che è incontestabile, ndr)... ma persone con nome e cognome.
Sono queste persone che vanno scoperte, processate e condannate, come si è
fatto dopo il nazismo con il processo di Norimberga. La guerra non è una
risposta congrua contro il terrorismo». Forse la scarsa attenzione alla
storia del Novecento ha reso immemori la Maraini e i tanti che la pensano
analogamente sul fatto che non ci sarebbe stato processo di Norimberga, se
non fosse stata combattuta la Seconda guerra mondiale.
Meritano, per contro, una attenta disamina le due pagine di Tiziano
Terzani, un grande reporter che per tanti anni, con sapiente policromia
evocativa, ci ha raccontato l'Asia. Il suo scritto ("Corriere" 8 ottobre.),
anch'esso di risposta ad Oriana, rappresenta, a mio avviso, l'esposizione
più articolata fra quante contestano la guerra e accusano l'America di
averla voluta. Gli argomenti che Terzani mette in campo sono molteplici.
Non risponderò ad ognuno di essi (anche per scoraggiare certi spazi fuori
misura) ma dico subito che, pur trovandomi in disaccordo su tutto, reputo
utilissima una dialettica rispettosa che fornisca materiale per un
confronto (come dice Eco, pensando almeno ai giovani, tanto «ai vecchi la
testa non la si cambia più»). Confesso che, pur invidiando il fideismo
religioso che trapela dall'articolo (non a caso intitolato «Il Sultano e
San Francesco»), non riesco proprio ad accettare il paragone che l'autore
azzarda, allorché riporta la nostra fantasia ai tempi della quinta
Crociata. Allora, ci ricorda Terzani, il poverello di Assisi, «amareggiato
dal comportamento dei crociati, sconvolto da una spaventosa battaglia, di
cui aveva visto le vittime, attraversò le linee del fronte e venne
catturato, incatenato e portato al cospetto del Sultano... e dopo una
chiacchierata notturna il Sultano lasciò che il mattino seguente San
Francesco tornasse, incolume, all'accampamento dei crociati». Come se non
bastasse, il narratore ama immaginare che «l'uno disse all'altro le sue
ragioni... che fra i due non ci fu aggressività e che si lasciarono di buon
umore, sapendo che, comunque, non potevano fermare la storia.» Questo
excursus non è una digressione lirica ma un apologo politico. Sol che se
appare difficile ma non impossibile reinventare un San Francesco (che ai
suoi tempi non era ancora santo, ma un semplice frate, noto per la sua
dirompente e felice eterodossia), magari nelle vesti di Kofi Annan, del
tutto fantasiosa è l'immagine di un Bin Laden nelle vesti di un Saladino,
saggio e disponibile ad un amichevole confronto. Questi scenari onirici non
sono, peraltro, innocui: essi lasciano intendere che se i crudeli e
cattivissimi crociati d'Oltreatlantico (del resto anche Bin Laden l'ha
giurata ai «crociati», oltre che agli ebrei) la smettessero di trucidare
maomettani, l'intesa tra uomini di buona volontà sarebbe a portata di mano.
Ora, è pur vero che il pacifismo è un valore in sé e che anche il gettare
il cuore oltre l'ostacolo può smorzare le pulsioni di quanti pensano di
tagliare solo con la spada i nodi della Storia, a condizione di saper
riconoscere che vi sono, però, momenti in cui il pacifismo ad oltranza
finisce per identificarsi nel cedimento alla sopraffazione più bieca, allo
sterminio degli innocenti, al terrorismo di massa. Oggi, appunto, trattare
con le centrali delle reti terroristiche islamiche avrebbe ancor meno senso
dei viaggi che compiva nel '90 a Bagdad il segretario dell'Onu, Perez de
Quellar, con la speranza di dissuadere Saddam Hussein dalle sue mire
aggressive. E, così come allora, va ribadito che la guerra non è iniziata
con la risposta americana ma con l'aggressione, ieri del Kuwait, ed ora con
l'immane massacro delle Due Torri e del Pentagono. E', quindi, una guerra
in difesa della convivenza umana, quella che ci vede tutti coinvolti, non
certo una «vendetta» gratuita e dannosa, come Terzani paventa.
Vi sono, poi, almeno altri due punti che obbligano a una risposta. Il primo
quando egli mette in dubbio il concetto stesso di terrorismo. E si chiede:
se è terrorista Bin Laden, allora perché non anche i dirigenti dell'Union
Carbide, responsabili per incuria dello scoppio della fabbrica di Bhopal in
India che costò 16.000 vittime? O gli uomini d'affari che arrivano nei
paesi del Terzo mondo «con nella borsa non una bomba ma i piani per la
costruzione di una fabbrica chimica... di una centrale nucleare che fa
ammalare di cancro la gente che ci vive vicino... di una diga che disloca
decine di migliaia di famiglie ?». Da questi interrogativi si evincerebbe
che se tutto è terrorismo (compreso quello di Agnelli, Ford e quanti
fabbricano automobili che portano a morte diecina di migliaia di persone
all'anno) nulla è terrorismo. Comunque, se fosse qualcosa di così
dilatabile, fino a comprendervi tutte le disgrazie, nefandezze, errori e
contraddizioni dell'umanità, risulterebbe incongruo combatterlo con le
armi. Ma così non è.

L'odierno terrorismo si identifica, per contro, con una precisa strategia
bellica: essa mira a uccidere, in modo indifferenziato, migliaia di civili
(se la minaccia batteriologica si realizza assai di più), attraverso l'uso
di qualsiasi mezzo letale di sterminio e l'impiego di militanti della Fede,
fanatizzati fino alla sublimazione del suicidio. Lo scopo è quello di
destabilizzare le società avanzate, far crollare i governi dei paesi arabi
che si sottraggono al loro contagio, in primo luogo quelli petroliferi,
distruggere Israele, come obbiettivo di galvanizzazione di massa.
Passo al secondo punto: come può Terzani credere, ed altri con lui cercare
di far credere (persino il portavoce di Bin Laden, Suliman Abu Ghait), che
tutto questo, a cominciare dall'attacco alle Due Torri, non ha né le
stimmate di una guerra di religione né rappresenta «un attacco alla libertà
e alla democrazia occidentale», ma semplicemente «un attacco alla politica
estera americana»? A parte la difficoltà solo di immaginare che le masse
diseredate, strumentalizzate dalle centrali del terrore, siano al corrente
e sensibili alle vicende della diplomazia internazionale (altra cosa è la
maledizione del muezzin contro i giudei e i crociati o contro chi
perseguita l' "eroico" Saddam), a cosa si riferiscono i tanti intellettuali
e opinionisti d'Occidente, che fanno propria questa diagnosi e ne traggono
la conclusione che qui è la radice dell'odio o dell'avversione per
l'America, compresa la loro? Una analisi sulle linee di fondo della
politica Usa - almeno agli occhi di un democratico - non può prescindere
dal riconoscimento che, almeno nei momenti decisivi della storia degli
ultimi cento anni, gli Stati Uniti, non solo sono stati dalla parte della
libertà ma hanno svolto il ruolo decisivo per assicurarla, sia all'Europa
che alle nazioni dell'Asia: nella grande guerra contro il Tripartito
nazifascista (BerlinoRomaTokio), nella ricostruzione postbellica, nella
salvaguardia dalla incombente minaccia comunista, negli interventi contro
le aggressioni più recenti, dal Kuwait al Kosovo. In questo ambito generale
vi sono state scelte sbagliate, come il Vietnam, decisioni inaccettabili,
come l'appoggio alle dittature sudamericane, ripensamenti nefasti, come il
rifiuto del trattato di Kyoto.
L'elenco potrebbe continuare, ma quale che sia il bilancio esso non
arriverà mai a giustificare l'odio delle Due Torri. Esso nasce, invece, dal
disegno di potere che abbiamo cercato di delineare e si nutre di un
dirompente e crescente sentimento di frustrazione che accomuna vastissime
masse islamiche, in specie arabe, ma non solo. Una frustrazione che ha
origine nei ripetuti fallimenti della loro modernizzazione. Il primo
fallimento fu quello del cosiddetto «socialismo dei colonnelli», quando,
sulla scia esaltante del nasserismo e grazie all'appoggio dell'Urss,
l'Egitto, la Siria, l'Algeria e molti altri paesi del Terzo mondo cercarono
di costruire i rudimenti di una economia di Stato, pianificata e sorretta
da regimi autoritari militari. Finì male e quelle idee vennero amaramente
rigettate. Si affacciò allora la speranza di agganciarsi allo sviluppo
capitalistico, percepito visivamente, ma come una fata morgana
irraggiungibile, attraverso la tv e le ondate migratorie. L'inanità del
compito, minato anche da uno sviluppo mostruoso dell'urbanizzazione e da
una crescita demografica che in un anno si mangia dieci anni di aiuti e
investimenti, accompagnata dalla corruzione delle classi dirigenti e dalla
mancanza di democrazia, ha dato spazio ad un ripiegamento fideistico verso
l'islamismo che si presenta come soccorritore e vindice dei poveri, degli
umiliati e degli oppressi. In questo contesto non va dimenticato che
l'Islam non ha mai conosciuto una vera e definitiva separazione della
religione dalla morale, dalla politica e dallo Stato. Una volta tornato in
sella l'Islam impone, quindi, in chi lo osserva in modo integralista, i
suoi dettami medievali, le sue leggi, anche le più crudeli, e le sue
discriminazioni intolleranti, prima fra tutte quella contro l'emancipazione
femminile. E' un disperato ripiegamento verso il passato di chi non è
riuscito ad imboccare la strada del futuro. Di qui la rabbia mortale contro
la modernità e chi la rappresenta. Di qui l'immane, difficilissimo compito
di battere il terrorismo per aiutare il mondo arabo a riprendere il cammino
in avanti. In questo senso si può paradossalmente essere d'accordo con
Terzani quando afferma che «il problema del terrorismo non si risolverà
uccidendo i terroristi, ma eliminando le ragioni che li rendono tali». A
condizione di capirne davvero le ragioni e, nel frattempo, impedendo di
farsi sterminare dai loro kamikaze.



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