Un mondo senza armi e senza ingiustizie è possibile



Un mondo senza armi e senza ingiustizie è possibile

La vera e duratura garanzia di pace, stabilità e sicurezza risiede nella
capacità delle nazioni del mondo, a partire da quelle che hanno più
ricchezza e dunque più potere, di ritrovare unità, concerto nelle
decisioni, coralità nella definizione delle priorità.
Nazioni unite significava e deve tornare pienamente a significare questo.
Certamente, e pur indirettamente, il progressivo svuotamento e
delegittimazione di sedi internazionali quali l'ONU non ha contribuito a
rendere più sicure e durature le relazioni di pace tra i popoli e gli
equilibri geopolitici tra le diverse aree.
In questo stato di grave tensione e dopo i tragici lutti che hanno colpito
la popolazione americana, occorre far sì che l'emozione non soffochi la
ragione, che il dolore non accechi e zittisca la politica, la quale rimane
lo strumento principe per governare le relazioni tra gli stati, dirimendone
e prevenendone i conflitti.
Prima che di "giustizia infinita" occorrerebbe forse parlare di fine
dell'ingiustizia. Non è un gioco di parole: è la consapevolezza, fuori di
ogni retorica o demagogia, che il rapporto tra Nord e Sud del mondo è
contrassegnato storicamente da troppe disparità, ineguaglianze, povertà,
logiche di sfruttamento, razzismo e neocolonialismo. Uno squilibrio
pericoloso, rispetto al quale siamo spesso sordi e disattenti. Ragionarne
non significa certo allentare lo sdegno per il criminale attentato dell'11
settembre o diminuire la solidarietà nei confronti delle vittime e delle
popolazioni colpite. All'opposto, significa ricercare una più avanzata ed
efficace capacità di prevenire nuovi lutti e di battere le organizzazioni
criminali e il fanatismo politico e religioso, sottraendo loro il consenso
e contrastandone l'operatività.
Queste ingiustizie, lo strangolamento economico di intere regioni e
continenti attraverso il meccanismo "usurario" del debito, la morte per
fame, per sete, per malattie evitabili, per desertificazione del
territorio, per nuovo schiavismo, per AIDS, per privazione dei diritti
umani, per intolleranze etnico-religiose, costituiscono nell'insieme una
polveriera.
Promuovere giustizia, neutralizzare la polveriera, ristabilire equilibrio
geopolitico non può avvenire in forza delle armi, né con la logica della
rappresaglia o con la licenza di uccidere. Una logica che può apparire
legittimata dalla gravità inaudita degli avvenimenti, emotivamente
condivisibile, ma politicamente assai rischiosa e del resto moralmente e
culturalmente inaccettabile per quanti si riconoscono in Cristo e per
coloro che credono nelle regole dello stato di diritto. Nella guerra non
c'è mai vero sollievo per le vittime, non c'è riparazione per i torti
subiti, non c'è promozione di giustizia: c'è solo la certezza di
incrementare la spirale dell'odio. La giustizia non si conquista sulla
punta delle baionette, neppure quando si hanno tutte le ragioni dalla
propria parte o quando, come nel criminale attacco dell'11 settembre a New
York e a Washington, migliaia di persone vengono uccise senza pietà e senza
giustificazione alcuna. Non è certo con nuove leggi repressive ed
emarginanti contro gli immigrati, come sembra farsi strada negli USA, che
si ferma la mano e l'odio del fanatismo etnico o religioso. Anzi. Non è con
l'aumento delle spese militari, con le finanziarie e l'economia di guerra,
che si stabilizzano e rendono sicure certe aree geografiche o le nostre
stesse città. Certo, la giustizia e la sicurezza non si ottengono neppure
con la rassegnazione o subendo passivamente la violenza e il terrorismo.
Questo deve essere chiaro e ribadito.
Ma, al di là e dopo l'emozione che ci ha tutti colpito per la tragedia
negli USA, e senza fare venire meno la massima solidarietà per la
popolazione colpita, la necessità vitale e lungimirante è quella di una
nuova logica politica, di una alleanza internazionale non solo contro il
terrorismo, ma per una nuova cultura nel rapporto tra i popoli, le
religioni, i paesi e i loro governi, che non metta sempre al primo posto la
logica del profitto e la legge del più forte (militarmente ed
economicamente), ma quella della tolleranza e del rispetto reciproco, della
convivenza e dello sviluppo comune.
Quando la parola passa alle armi, quali che siano le ragioni e gli
avvenimenti che determinano questa scelta, si tratta sempre di uno scontro
tra inciviltà. Invece, questo nostro mondo lacerato e insanguinato, ha
bisogno di riscoprire una nuova umanità, un modo nuovo, radicalmente
diverso, radicalmente più giusto, non distruttivo, per affrontare e
risolvere i conflitti. Un modo radicalmente e rigorosamente nonviolento. È
un'utopia? Può sembrarlo, ma forse diventa credibile e praticabile se
osserviamo quanto l'opzione militare e la politica (e l'economia) che
preferiscono la risposta delle armi non hanno mai prodotto stabilità,
sicurezza e progresso. Al contrario, hanno sempre rinnovato, esteso e
moltiplicato i conflitti e le vittime, specie civili.
Allora - è questo il mio auspicio e impegno -, paradossalmente, la
terribile strage dell'11 settembre può innescare un soprassalto di lucidità
nei governi e nella coscienza collettiva, nella società civile globale, per
interrompere finalmente la spirale dell'odio e del terrore. Iniziando a
metterne in discussione i presupposti e sottraendosi al copione già scritto
della rappresaglia. Un copione di morte, sicuramente previsto e fortemente
voluto dagli occulti registi dell'11 settembre. Non facciamo il loro gioco,
vi prego.

Don Luigi Ciotti
Gruppo Abele

(Torino, 21 settembre 2001)


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