Abbiamo bisogno di una legge di giustizia, non una legge di guerra



.....articoli mandati da judy.....una mia amica di boston
========================================


Abbiamo bisogno di una legge di giustizia, non una legge di guerra

Di James Carroll, 15/9/2001

COME AMIAMO il nostro paese! Per giorni ora, noi Americani, mentre ci
aggraviamo e tremiamo, abbiamo sentito l'accumulante peso della nostra
devozione patriottica. Siamo uniti nella shockante scoperta di che raro
e
prezioso tesoro siano gli Stati Uniti d'America. L'inaspettata
vulnerabilita' della nostra nazione, come improvvisa perdita
dell'abitudine
di prendere come postulato la sua nobilta', ci fa sentire spaesati. Lo
vediamo nella New York skyline vuota, mozzafiato e nella ferita del
palazzo
accanto al cimitero di Arlinghton. Lo vediamo nei volti cupi dei
risoluti
soccorritori e nella implicazione che ha visto massacrati i passeggeri
che
hanno combattutto contro i dirottatori. Lo vediamo nella splendida
diversita' dei nostri connotati, dei nostri accenti, delle nostre
credenze,
e anche delle nostre reazioni. Mai e' stato cosi' vero il nostro motto
nazionale: "Tra molti: uno solo".

Ma fin'ora la nostra espressione di questo cosi' intenso patriottismo e'

stata stranamente in contrasto con il suo significato intrinseco,
siccome
cio' di cui andiamo piu' fieri dell'America in questo momento e' il modo
in
cui misura la propria speranza sui principi di democrazia, tolleranza,
legge, rispetto del prossimo e addirittura compassione sociale. Il
nostro
supremo gesto partiottico in questa crisi e' stato una richiesta quasi
universale di guerra e, infatti, il sentimento crescente di guerra,
alimentato dalla retorica dei nostri piu' grandi leaders, potrebbe
presto
essere incorporata in una formale dichiarazione di guerra. Prima di
andare
oltre, dovremmo pensare attentamente a proposito di questa linea di
azione e
dove ci potrebbe portare. La politica di guera serve veramente a fermare
il
terrorismo? E proclamare guerra e' l'unico modo di dimostrare il nostro
amore per l'America?

Prima lasciatemi dichiarare l'ovvio. Il consenso quasi mondiale che gli
attacchi terroristici su New York e washington debbano essere risolti
con la
forza e' interamente corretto. Il network di assassini suicidi di masse,

quantunque di grande scala e dovunque sia nascosto, deve essere
eliminato.
Ma la forza puo' essere esercitata decisamente e in modo effettivo anche
in
un'altro contesto diverso dalla "guerra". Uno dei grandi passi della
civilizzazione e' occorso quando gli umani hanno trovato il modo di
incanalare l'inevitabile violenza via dalla "guerra" e verso un nuovo,
controbilanciante contesto incorporato nell'idea di "giustizia". La
distinzione potrebbbe sembrare troppo sottile per essere rilevante nella

controreazione di questa catastrofe, ma e' dopo la catastrofe che invece

questa distinzione ha piu' importanza. La differenza tra "guerra" e
"giustizia" non e' l'uso della forza. Gli Stati Uniti d'America con i
propri
alleati nel mondo, dovrebbero essere inbarcati non in una guerra ma in
una
massiccia, sicura, e veloce campagna di esercitazione di giustizia. Come
il
termine "esercitazione di giustizia" (law ENFORCEMENT) implica, l'uso
proprio della forza sarebbe l'essenza di questa campagna.

Perche' questa distinzione ha importanza? Quattro ragioni:

La guerra, per definizione, e' un'attivita' esercitata contro una
entita'
politica o sociale, mentre il network terrorista responsabile per questa

catastrofe, da tutti i rapporti che sono pervenuti, e' una coalizione di

singoli individui, forse una grande coalizione. L'esercitazione della
giustizia, per definizione, e' un'attivita' esercitata contro singoli
individue o coalizioni. Travestendo la nostra risposta ai terroristi in
una
retorica di guerra, facciamo in modo che membri di gruppi associati da
fattori estrinsechi con i perpetratori (Arabi, Musulmani, Afghani,
Pakistani, ect.) soffriranno di terribili conseguenze, dal essere
bombardati
in Kabul al subire discriminazione raziale a boston. In piu', la
retorica di
guerra, come cade nell'orecchio di queste persone (un miliardo di
Musulmani), rende molto probabile che vedano l'America solo come loro
nemica.

La guerra, per definizione, e' relativamente imprecisa. Possono essere
fatti
passi per limitare "danni collaterali" (o "effetti collaterali"), ma il
metodo della guerra, si sa, e' di portare pressione da scaricare contro
una
struttura di potere ostile infliggendo sofferenze sulla societa' della
quale
fa parte. La storia ci mostra che, una volta iniziata la guerra, la
violenza
diviene globale. Come il Presidente Bush ha minacciato, non viene fatta
alcuna distinzione. Nell'esercitazione della giustizia le distinzioni,
invece, sono fondamentali. L'esercitazione della giustizia si basa su
discipline che sono tralasciate, nella guerra. Abbiamo davvero il
diritto si
tralasciare queste discipline in questo momento?

In guera ci si preoccupa di piu' dei risultati, che non dei mezzi. In
parole
povere: in guerra il fine giustifica il mezzo. Nell'esercitazione della
legge il fine rimane incorporato nei mezzi, il che' spiega perche' le
procedure sono cosi' scrupolosamente osservate nell'attivita della
giustizia
sui criminali. Rispondere alla violazione dell'ordine sociale da parte
dei
terroristi con altre violazioni significa che i terroristi hanno vinto.

La guerra, inevitabilmente, genera il proprio "momentum", che ha una
maniera
di inumanizzare opprimento i propositi umanistici per i quali la stessa
guerra e' originata a priori. Nel terreno di morte della violenza del
combattimento, l'auto-criticismo puo' sembrare come un fatale
"auto-dubbio",
cosi' il momento selvaggio della guerra raramente viene riconosciuto
prima
della fine della guerra stessa. La legge delle conseguenze inaspettate
si
applica universalmente alla guerra. Dall'altra parte, l'esercitazione
della
giustizia, con i propri sistemi di controllo e bilancio tra la polizia e
le
corti, e' inevitabilmente auto-critica. Il collegamento morale tra atto
e
conseguenza e' sicuramente piu' protetto.

Che cosa significa vincere una guerra contro il terrorismo? Com'e'
diventato
quest'odio dell'America una sorgente di significato per grandi numeri
dei
quali la poverta' gia' ammonta ad uno stato di guerra? Una campagna
massiva
di violenza senza briglie deve forse diventare in nuovo significato di
America? Il World Trade Centerera un simbolo della speranza e tesoro
sociali, economici e politici dell'America, una speranza incorporata
soprattutto nella giustizia. Vincere la battaglia contro il terrorismo
significa ispirare questa stessa speranza nei cuori di tutti coloro che
non
ce l'hanno. Il modo in cui noi risponderemo a questa catastrofe
definira' il
nostro patriottismo, formera' il secolo e memorizzera' i nostri amati
che
sono morti.



La colonna di James Carroll appare regolarmente sul Globe.

Questa storia e' apparsa a pagina A19 del Boston Globe il 15/9/2001.
© Copyright 2001 Globe Newspaper Company.

Traduzione di Walter Bosello

l'originale



We need the rule of law, not the rule of war

By James Carroll, 9/15/2001

HOW WE LOVE our country! For days now, we Americans, while mourning and
shuddering, have felt the accumulating weight of our patriotic devotion.
We
are joined in the shocking recognition of what a rare and precious
treasure
is the United States of America. Our nation's sudden vulnerability makes
us
shrug off, just as suddenly, the habit of taking for granted its
nobility.
We see it in the throat-choking empty place of the New York skyline and
in
the gaping wound of the building beside Arlington Cemetery. We see it in
the
grimy faces of the resolute rescue workers and in the implication that
doomed airline passengers fought back against hi-jackers. We see it in
the
splendid diversity of our features, our accents, our beliefs, our
responses,
even. Never has the national motto seemed more true: Out of many, one.

But so far our main expression of this intense patriotism has been oddly
in
tension with its inner meaning, for the thing we treasure above all
about
America at this moment is the way it measures its hope by principles of
democracy, tolerance, law, respect for the other, and even social
compassion. Our supreme patriotic gesture in this crisis has been a
nearly
universal call for war, and indeed, the growing sentiment for war,
fueled by
the rhetoric of our highest leaders, may soon be embodied in a formal
congressional declaration of war. Before we go further, we should think
carefully about why we are heading down this path and where it is likely
to
lead. Do the rhetoric of war and the actions it sets in motion really
serve
the urgent purpose of stopping terrorism? And is the launching of war
really
the only way to demonstrate our love for America?

First, let me state the obvious. The nearly worldwide consensus that the

terrorist attacks on New York and Washington must be met with force is
entirely correct. The network of suicidal mass murderers, however large
and
wherever hidden, must be eliminated. But force can be exercised
decisively
and overwhelmingly in another context than that of ''war.'' One of the
great
advances in civilization occurred when human beings found a way to
channel
unavoidable violence away from ''war'' and toward a new,
counterbalancing
context embodied in the idea of ''law.'' The distinction may seem too
fine
to be relevant in the aftermath of this catastrophe, but it is after
catastrophe that the distinction matters most. The difference between
''war'' and ''law'' is not the use of force. The United States of
America,
with its world allies, should be embarked not on a war but on an
unprecedented, swift, sure, and massive campaign of law enforcement. As
the
term ''law enforcement'' implies, the proper use of force would be of
the
essence in this campaign.

Why does this distinction matter? Four reasons:

War, by definition, is an activity undertaken against a political or
social
entity, while the terrorist network responsible for this catastrophe,
from
all reports, is a coalition of individuals, perhaps a large one. Law
enforcement, by definition, is an activity undertaken against just such
individuals or networks. By clothing our response to the terrorist acts
in
the rhetoric of war, we make it far more likely that members of groups
associated by extrinsic factors with the perpetrators (Arabs, Muslims,
Afghans, Pakistanis, etc.) will suffer terrible consequences, from being

bombed in Kabul to being discriminated against in Boston. Furthermore,
the
rhetoric of war, as it falls on the ears of such people (a billion
Muslims),
makes it all the more likely that they will see America only as their
enemy.

War, by definition, is relatively imprecise. Steps can be taken to limit

''collateral damage,'' but the method of war, in fact, is to bring
pressure
to bear against a hostile power structure by inflicting suffering on the

society of which it is part. History shows that once wars begin,
violence
becomes general. As President Bush threatened, no distinctions are made.
In
law enforcement, distinctions remain of the essence. Law enforcement
submits
to disciplines that are jettisoned in war. Do we really have the right
to
jettison such disciplines now?

War, similarly, is less concerned with procedure than with result.More
plainly, in war the ends justify the means. In law enforcement, the end
remains embodied in the means, which is why procedures are so
scrupulously
observed in criminal justice activity. To respond to a terrorist's
violation
of the social order with further violations of that order means the
terrorist has won.

War inevitably generates its own momentum, which has a way of inhumanely

overwhelming the humane purposes for which the war is begun in the first

place. In the death-ground of combat violence, self-criticism can seem
like
fatal self-doubt, so the savage momentum of war is rarely recognized
until
too late. The rule of unintended consequences universally applies in
war.
Law enforcement, on the other hand, with its system of checks and
balances
between police and courts, is inevitably self-critical. The moral link
between act and consequence is far more likely to be protected.

What does winning a war against terrorism mean? How has hatred of
America
become a source of meaning for vast numbers whose poverty already
amounts to
a state of war? Must a massive campaign of unleashed violence become
America's new source of meaning, too? The World Trade Center was a
symbol of
the social, economic, and political hope Americans treasure, a hope
embodied
above all in law. To win the struggle against terrorism means inspiring
that
same hope in the hearts of all who do not have it. How we respond to
this
catastrophe will define our patriotism, shape the century, and
memorialize
our beloved dead.

James Carroll's column appears regularly in the Globe.

This story ran on page A19 of the Boston Globe on 9/15/2001.
© Copyright 2001 Globe Newspaper Company.


...nada