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Abbiamo bisogno di una legge di giustizia, non una legge di guerra
- Subject: Abbiamo bisogno di una legge di giustizia, non una legge di guerra
- From: Nada Tarlao <maschera at xnet.it>
- Date: Sun, 16 Sep 2001 18:21:18 +0200
.....articoli mandati da judy.....una mia amica di boston ======================================== Abbiamo bisogno di una legge di giustizia, non una legge di guerra Di James Carroll, 15/9/2001 COME AMIAMO il nostro paese! Per giorni ora, noi Americani, mentre ci aggraviamo e tremiamo, abbiamo sentito l'accumulante peso della nostra devozione patriottica. Siamo uniti nella shockante scoperta di che raro e prezioso tesoro siano gli Stati Uniti d'America. L'inaspettata vulnerabilita' della nostra nazione, come improvvisa perdita dell'abitudine di prendere come postulato la sua nobilta', ci fa sentire spaesati. Lo vediamo nella New York skyline vuota, mozzafiato e nella ferita del palazzo accanto al cimitero di Arlinghton. Lo vediamo nei volti cupi dei risoluti soccorritori e nella implicazione che ha visto massacrati i passeggeri che hanno combattutto contro i dirottatori. Lo vediamo nella splendida diversita' dei nostri connotati, dei nostri accenti, delle nostre credenze, e anche delle nostre reazioni. Mai e' stato cosi' vero il nostro motto nazionale: "Tra molti: uno solo". Ma fin'ora la nostra espressione di questo cosi' intenso patriottismo e' stata stranamente in contrasto con il suo significato intrinseco, siccome cio' di cui andiamo piu' fieri dell'America in questo momento e' il modo in cui misura la propria speranza sui principi di democrazia, tolleranza, legge, rispetto del prossimo e addirittura compassione sociale. Il nostro supremo gesto partiottico in questa crisi e' stato una richiesta quasi universale di guerra e, infatti, il sentimento crescente di guerra, alimentato dalla retorica dei nostri piu' grandi leaders, potrebbe presto essere incorporata in una formale dichiarazione di guerra. Prima di andare oltre, dovremmo pensare attentamente a proposito di questa linea di azione e dove ci potrebbe portare. La politica di guera serve veramente a fermare il terrorismo? E proclamare guerra e' l'unico modo di dimostrare il nostro amore per l'America? Prima lasciatemi dichiarare l'ovvio. Il consenso quasi mondiale che gli attacchi terroristici su New York e washington debbano essere risolti con la forza e' interamente corretto. Il network di assassini suicidi di masse, quantunque di grande scala e dovunque sia nascosto, deve essere eliminato. Ma la forza puo' essere esercitata decisamente e in modo effettivo anche in un'altro contesto diverso dalla "guerra". Uno dei grandi passi della civilizzazione e' occorso quando gli umani hanno trovato il modo di incanalare l'inevitabile violenza via dalla "guerra" e verso un nuovo, controbilanciante contesto incorporato nell'idea di "giustizia". La distinzione potrebbbe sembrare troppo sottile per essere rilevante nella controreazione di questa catastrofe, ma e' dopo la catastrofe che invece questa distinzione ha piu' importanza. La differenza tra "guerra" e "giustizia" non e' l'uso della forza. Gli Stati Uniti d'America con i propri alleati nel mondo, dovrebbero essere inbarcati non in una guerra ma in una massiccia, sicura, e veloce campagna di esercitazione di giustizia. Come il termine "esercitazione di giustizia" (law ENFORCEMENT) implica, l'uso proprio della forza sarebbe l'essenza di questa campagna. Perche' questa distinzione ha importanza? Quattro ragioni: La guerra, per definizione, e' un'attivita' esercitata contro una entita' politica o sociale, mentre il network terrorista responsabile per questa catastrofe, da tutti i rapporti che sono pervenuti, e' una coalizione di singoli individui, forse una grande coalizione. L'esercitazione della giustizia, per definizione, e' un'attivita' esercitata contro singoli individue o coalizioni. Travestendo la nostra risposta ai terroristi in una retorica di guerra, facciamo in modo che membri di gruppi associati da fattori estrinsechi con i perpetratori (Arabi, Musulmani, Afghani, Pakistani, ect.) soffriranno di terribili conseguenze, dal essere bombardati in Kabul al subire discriminazione raziale a boston. In piu', la retorica di guerra, come cade nell'orecchio di queste persone (un miliardo di Musulmani), rende molto probabile che vedano l'America solo come loro nemica. La guerra, per definizione, e' relativamente imprecisa. Possono essere fatti passi per limitare "danni collaterali" (o "effetti collaterali"), ma il metodo della guerra, si sa, e' di portare pressione da scaricare contro una struttura di potere ostile infliggendo sofferenze sulla societa' della quale fa parte. La storia ci mostra che, una volta iniziata la guerra, la violenza diviene globale. Come il Presidente Bush ha minacciato, non viene fatta alcuna distinzione. Nell'esercitazione della giustizia le distinzioni, invece, sono fondamentali. L'esercitazione della giustizia si basa su discipline che sono tralasciate, nella guerra. Abbiamo davvero il diritto si tralasciare queste discipline in questo momento? In guera ci si preoccupa di piu' dei risultati, che non dei mezzi. In parole povere: in guerra il fine giustifica il mezzo. Nell'esercitazione della legge il fine rimane incorporato nei mezzi, il che' spiega perche' le procedure sono cosi' scrupolosamente osservate nell'attivita della giustizia sui criminali. Rispondere alla violazione dell'ordine sociale da parte dei terroristi con altre violazioni significa che i terroristi hanno vinto. La guerra, inevitabilmente, genera il proprio "momentum", che ha una maniera di inumanizzare opprimento i propositi umanistici per i quali la stessa guerra e' originata a priori. Nel terreno di morte della violenza del combattimento, l'auto-criticismo puo' sembrare come un fatale "auto-dubbio", cosi' il momento selvaggio della guerra raramente viene riconosciuto prima della fine della guerra stessa. La legge delle conseguenze inaspettate si applica universalmente alla guerra. Dall'altra parte, l'esercitazione della giustizia, con i propri sistemi di controllo e bilancio tra la polizia e le corti, e' inevitabilmente auto-critica. Il collegamento morale tra atto e conseguenza e' sicuramente piu' protetto. Che cosa significa vincere una guerra contro il terrorismo? Com'e' diventato quest'odio dell'America una sorgente di significato per grandi numeri dei quali la poverta' gia' ammonta ad uno stato di guerra? Una campagna massiva di violenza senza briglie deve forse diventare in nuovo significato di America? Il World Trade Centerera un simbolo della speranza e tesoro sociali, economici e politici dell'America, una speranza incorporata soprattutto nella giustizia. Vincere la battaglia contro il terrorismo significa ispirare questa stessa speranza nei cuori di tutti coloro che non ce l'hanno. Il modo in cui noi risponderemo a questa catastrofe definira' il nostro patriottismo, formera' il secolo e memorizzera' i nostri amati che sono morti. La colonna di James Carroll appare regolarmente sul Globe. Questa storia e' apparsa a pagina A19 del Boston Globe il 15/9/2001. © Copyright 2001 Globe Newspaper Company. Traduzione di Walter Bosello l'originale We need the rule of law, not the rule of war By James Carroll, 9/15/2001 HOW WE LOVE our country! For days now, we Americans, while mourning and shuddering, have felt the accumulating weight of our patriotic devotion. We are joined in the shocking recognition of what a rare and precious treasure is the United States of America. Our nation's sudden vulnerability makes us shrug off, just as suddenly, the habit of taking for granted its nobility. We see it in the throat-choking empty place of the New York skyline and in the gaping wound of the building beside Arlington Cemetery. We see it in the grimy faces of the resolute rescue workers and in the implication that doomed airline passengers fought back against hi-jackers. We see it in the splendid diversity of our features, our accents, our beliefs, our responses, even. Never has the national motto seemed more true: Out of many, one. But so far our main expression of this intense patriotism has been oddly in tension with its inner meaning, for the thing we treasure above all about America at this moment is the way it measures its hope by principles of democracy, tolerance, law, respect for the other, and even social compassion. Our supreme patriotic gesture in this crisis has been a nearly universal call for war, and indeed, the growing sentiment for war, fueled by the rhetoric of our highest leaders, may soon be embodied in a formal congressional declaration of war. Before we go further, we should think carefully about why we are heading down this path and where it is likely to lead. Do the rhetoric of war and the actions it sets in motion really serve the urgent purpose of stopping terrorism? And is the launching of war really the only way to demonstrate our love for America? First, let me state the obvious. The nearly worldwide consensus that the terrorist attacks on New York and Washington must be met with force is entirely correct. The network of suicidal mass murderers, however large and wherever hidden, must be eliminated. But force can be exercised decisively and overwhelmingly in another context than that of ''war.'' One of the great advances in civilization occurred when human beings found a way to channel unavoidable violence away from ''war'' and toward a new, counterbalancing context embodied in the idea of ''law.'' The distinction may seem too fine to be relevant in the aftermath of this catastrophe, but it is after catastrophe that the distinction matters most. The difference between ''war'' and ''law'' is not the use of force. The United States of America, with its world allies, should be embarked not on a war but on an unprecedented, swift, sure, and massive campaign of law enforcement. As the term ''law enforcement'' implies, the proper use of force would be of the essence in this campaign. Why does this distinction matter? Four reasons: War, by definition, is an activity undertaken against a political or social entity, while the terrorist network responsible for this catastrophe, from all reports, is a coalition of individuals, perhaps a large one. Law enforcement, by definition, is an activity undertaken against just such individuals or networks. By clothing our response to the terrorist acts in the rhetoric of war, we make it far more likely that members of groups associated by extrinsic factors with the perpetrators (Arabs, Muslims, Afghans, Pakistanis, etc.) will suffer terrible consequences, from being bombed in Kabul to being discriminated against in Boston. Furthermore, the rhetoric of war, as it falls on the ears of such people (a billion Muslims), makes it all the more likely that they will see America only as their enemy. War, by definition, is relatively imprecise. Steps can be taken to limit ''collateral damage,'' but the method of war, in fact, is to bring pressure to bear against a hostile power structure by inflicting suffering on the society of which it is part. History shows that once wars begin, violence becomes general. As President Bush threatened, no distinctions are made. In law enforcement, distinctions remain of the essence. Law enforcement submits to disciplines that are jettisoned in war. Do we really have the right to jettison such disciplines now? War, similarly, is less concerned with procedure than with result.More plainly, in war the ends justify the means. In law enforcement, the end remains embodied in the means, which is why procedures are so scrupulously observed in criminal justice activity. To respond to a terrorist's violation of the social order with further violations of that order means the terrorist has won. War inevitably generates its own momentum, which has a way of inhumanely overwhelming the humane purposes for which the war is begun in the first place. In the death-ground of combat violence, self-criticism can seem like fatal self-doubt, so the savage momentum of war is rarely recognized until too late. The rule of unintended consequences universally applies in war. Law enforcement, on the other hand, with its system of checks and balances between police and courts, is inevitably self-critical. The moral link between act and consequence is far more likely to be protected. What does winning a war against terrorism mean? How has hatred of America become a source of meaning for vast numbers whose poverty already amounts to a state of war? Must a massive campaign of unleashed violence become America's new source of meaning, too? The World Trade Center was a symbol of the social, economic, and political hope Americans treasure, a hope embodied above all in law. To win the struggle against terrorism means inspiring that same hope in the hearts of all who do not have it. How we respond to this catastrophe will define our patriotism, shape the century, and memorialize our beloved dead. James Carroll's column appears regularly in the Globe. This story ran on page A19 of the Boston Globe on 9/15/2001. © Copyright 2001 Globe Newspaper Company. ...nada
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