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Genova
- Subject: Genova
- From: "Enrico Peyretti" <peyretti at tiscalinet.it>
- Date: Wed, 1 Aug 2001 19:37:07 +0200
0108 Dopo la tragedia di Genova.doc Dopo la tragedia di Genova Dopo la tragedia di Genova, proviamo a riflettere. Di tragedia si è trattato, e di nessuna vittoria, anche se rimangono delle possibilità preziose, da curare e sviluppare. Tragedia, perché quando la violenza si scatena, tutti ne rimaniamo sporcati, degradati. La violenza nasce dalla stupidità ignorante, dalla paura, ma anche da dosi di odio presenti nel corpo sociale, e sempre genera paura, ignoranza e odio. L'odio è il male maggiore che possa arrivare ad un popolo. Un male peggiore della morte, perché dalla morte può venire anche vita, ma la vita nell'odio è soltanto morte. La violenza di pochi offende e avvilisce tutti, e può contaminare molti. Questa violenza viene da uomini-pietra e pietrifica anche le vittime, se non hanno immense risorse umane. Il vero principale problema dei fatti di Genova è questo: le risorse umane profonde e solide. Le altre considerazioni sono successive. Anzitutto, la parola va data alla verità del dolore. Da Alessandria, persone generose che hanno accolto e curato i rilasciati dal carcere, italiani e stranieri, in aperta campagna, senza sapere dove si trovassero, raccontano: «Le botte le hanno prese tutte nella caserma di Bolzaneto: ragazzi e ragazze. Le costole rotte, le caviglie gonfie e doloranti, i lividi sul corpo, i colpi alla testa sono frutti del dopo arresto. In piedi per sedici diciotto ore con le mani legate dietro la schiena, faccia al muro costretti ad orinarsi nei pantaloni, gambe divaricate, colpi nei testicoli, se cedevano le gambe e ti chinavi botte e spruzzate di prodotti urticanti sul viso. Le ragazze nude costrette a far flessioni, insultate in modo ignobile dai poliziotti che dichiaravano di aver finalmente visto come è fatta una puttana comunista nuda, a chi ha avuto un conato di vomito è stato passato il viso sul pavimento per farglielo leccare. In quelle condizioni costretti a cantare "viva il duce" e canti inneggianti al fascismo, ben conosciuti da quei poliziotti; forzatamente venivano costretti a passare le loro mani su zaini ed altri oggetti (armi improprie) perché rimanessero le loro impronte. Questo era già successo quando sulle auto (spesso non riconoscibili) che li portavano alle caserme, con le mani legate dietro la schiena, la testa abbassata i ragazzi si sentivano passare fra le mani vari oggetti». Basti questa testimonianza, tra le centinaia disponibili (io ne ho ricevute più di quattrocento), a dire la vergogna d'Italia. Che ci siano anche solo alcuni poliziotti fascisti, cioè dediti al culto della forza bruta, mentre hanno la forza soltanto per difendere il diritto, e che ministri della Repubblica li difendano pregiudizialmente, questa è la vergogna e la sconfitta d'Italia. Aveva ragione chi segnalava il pericolo civile delle forze oggi al governo. Era dal tempo del fascismo che non avvenivano energiche manifestazioni sotto le nostre ambasciate nel mondo, come sono avvenute ora, a vergogna d'Italia. 1 - Il movimento anti-globalizzazione non è contro l'unificazione del mondo umano. Il movimento stesso è mondiale: internazionale, interculturale, intergenerazionale, altruista. È contro una mondializzazione iniqua, nella quale cresce la ricchezza e cresce l'ingiustizia. Bush e Berlusconi, quando dicono che chi è contro la globalizzazione è contro i poveri, sono impudenti spacciatori di notizie false. Se guardiamo le cifre, le "provvidenze" prese dagli 8 ricchi per i popoli poveri sono briciole offensive e sprezzanti, polvere negli occhi. 2 - Il movimento non è soltanto negativo. La sua ossatura valida è costituita da esperienze in atto, seppure germinali, di economia alternativa, solidale, che stanno maturando in espressioni teoriche e politiche. 3 - Lo spettacolo osceno della violenza strutturale nell'economia e nel governo del mondo, assunto abusivamente dai più forti contro le legittime istituzioni cosmopolitiche, quale è l'Onu esautorata, muove all'indignazione e alla collera anche correnti sprovvedute sul piano morale e culturale, e ineducate all'azione costruttiva politica. Ad esse si aggiungono frazioni piccole ma accanite, della destra internazionale mortifera, di cultura puramente violenta, che si esprimono soltanto nella distruzione, non senza che il cinismo del potere le utilizzi, come è avvenuto chiaramente a Genova, al fine di criminalizzare tutta la protesta. 4 - Purtroppo, i tragici fatti di Genova dimostrano che aveva ragione chi chiedeva una netta separazione, proclamata e praticata, tra le forme di protesta decise o disponibili alla violenza, e le forme seriamente nonviolente. Pensiamo e scriviamo "nonviolenza" in parola unica per dirne la grande valenza positiva, non di pura e insufficiente astensione dal dare inizio alla violenza, come quando si pensa e si scrive l'espressione in due parole ("non violenza"), pura negazione relativa e transitoria. La nonviolenza in quel significato positivo, attivo, costruttivo, è radicalmente alternativa anzitutto alla prima e maggiore violenza, quella strutturale dell'ingiustizia sistematica, poi anche alla violenza fisica, materiale, interiorizzata nella rabbia di chi protesta unicamente o principalmente in modo negativo e distruttivo. Chi fa così imita, riproduce e addirittura giustifica la maggiore violenza strutturale, regalando agli oppressori (e ai loro strumenti umani, le polizie) la possibilità di apparire oppressi agli occhi dell'opinione pubblica più condizionata, ma anche giustamente offesa per azioni distruttive a danno non certo dei potenti, ma di terzi incolpevoli. Questo risultato è stato, di fatto o volontariamente, lo scopo di quelle componenti deteriori dell'agitazione, nemiche del movimento per la giustizia, che a Genova sono state le "tute nere". I governi, specialmente quello italiano ospitante, che oggi, anche nelle democrazie, sono governati dai potentati economici incontrollati, hanno fatto proprio, o hanno addirittura predisposto, questo risultato infame. 5 - La richiesta di netta separazione tra violenti e nonviolenti, avanzata nel movimento stesso da molti mesi, era stata malintesa da buona parte del movimento composito, come se fosse una discriminazione tra buoni e cattivi, una divisione tra alleati con lo stesso obiettivo. Ci sono i testi scritti di quel dibattito in posta elettronica. Sta qui la grave debolezza o ambiguità del Genoa Social Forum, dove pure tanto generoso impegno è stato profuso. La distinzione era assolutamente pratica, non moralistica: non era tra buoni e cattivi, ma tra effettivi alleati della violenza strutturale (i manifestanti violenti, che facevano "dichiarazioni di guerra", rimangiate l' indomani, senza alcuna credibilità) e veri avversari alternativi alla violenza strutturale (i manifestanti positivamente nonviolenti). L' alternativa chiara andava difesa come primo obiettivo, e l'alternativa era la nonviolenza pura. E' stata una grave ingenuità (generosa, ma sbagliata) credere di potere condurre un'azione comune senza questa chiarezza. 6 - Il rifiuto di operare quella distinzione essenziale per la lotta giusta ha dato luogo all'ambiguità della posizione mediana e mediatrice tra gli estremi, violento l'uno, nonviolento l'altro. Questa ambiguità deve ora essere oggetto di seria meditazione e di un lungo lavoro di ricostruzione. Questa ambiguità ha disorientato e buttato allo sbaraglio tanti generosi manifestanti, specialmente i più giovani, col possibile effetto di scoraggiare e dilapidare il loro fresco impegno, offeso dalla violenza dilagata, o di lasciarli corrompere dal virus della stessa violenza. Molto ambigua era la posizione delle "tute bianche", che volevano l'affrontamento fisico, l'invasione della "zona rossa", il blocco dei lavori dei G8, e dicevano di volerlo fare senza violenza, pur sapendo di provocare una reazione violenta, dalla quale si sarebbero "difese". Questa azione veniva chiamata "disobbedienza civile", ignorando che l'autentica disobbedienza civile, e non la semplice provocazione, richiede alcune ardue qualità: la grande forza di sopportare tutte le conseguenze (come Socrate, Tommaso Moro, Gandhi, Franz Jägerstätter) ; il coraggio di dimostrare con l'«arma umana della sofferenza» (Gandhi) di essere liberi anche dalla violenza di risposta; la capacità di smascherare in tal modo l'ingiustizia della legge ingiusta e la violenza che la difende. Ma questa forza, coraggio e capacità non si improvvisano e non c'erano nella maggioranza dei manifestanti, pur i meglio intenzionati, pur preparati come mai prima in nessun'altra manifestazione così grande. Ci sono stati in casi preziosi per sperare, come quello riferito dall'Ansa nel dispaccio che riportiamo qui sotto, e chissà in quanti altri rimasti ignoti. Tra quei quindici c'erano alcuni nostri amici ed un redattore de il foglio. Solo l'Unità ha riferito l'episodio con la massima evidenza. (ANSA) - GENOVA, 20 LUG - «Devo ringraziare quei quindici che si sono messi in ginocchio e ci hanno salvato». A parlare è un poliziotto. Esprime gratitudine nei confronti di un gruppo di pacifisti che, all'arrivo del corteo degli anarchici [si tratta delle "tute nere"], si sono inginocchiati in fondo a Via Palestro, davanti allo schieramento dei poliziotti, invitando il gruppo a fermarsi. Si era appena conclusa la manifestazione pacifica e colorata degli ambientalisti e della Rete Lilliput partita da Piazza Manin. Il corteo si era sciolto, dopo le azioni simboliche davanti alla grata di protezione alla zona rossa di Via Assarotti, e una parte dei manifestanti si era riversata su piazza Marsala per un sit-in. «Toglietevi il casco» ripetevano i giovani all'indirizzo dei poliziotti in assetto antisommossa. Gianluca, 21 anni, ha raccolto l'invito e subito dopo tutti gli altri lo hanno seguito. A quel punto una ragazza entusiasta si è alzata ed è andata ad abbracciare il poliziotto. «Noi ci siamo tolti il casco - dice un altro poliziotto - e loro ci hanno dimostrato solidarietà. Gli anarchici di fronte a loro hanno desistito». 7 - Tuttavia, nonostante quelle carenze e ambiguità, la preparazione e lo svolgimento delle giornate di Genova, compresi i momenti di convegno, hanno promosso una riflessione, sebbene ancora incompiuta, sull'alternativa tra violenza e nonviolenza, essenziale e preliminare alla ricerca della giustizia coi mezzi della giustizia, gli unici mezzi che possono avvicinare a quel fine. Questa riflessione, imposta ulteriormente dai fatti, che hanno rivelato tanto il fascino nero della violenza sbrigativa, quanto i suoi effetti degradanti, va ora continuata e approfondita, affinché gli errori e i dolori di Genova non siano arrivati invano. Bisogna aprire un dialogo serio e paziente, meditato e senza pregiudizi, tra le componenti del movimento qualificate in senso nonviolento, e tutte le altre, fino a quelle più esposte al mito disumano della violenza. Assai difficile, o impossibile, sarà tentare il dialogo coi gruppi violenti per tradizione ideologica nazi-fascista. Ma con le singole persone disorientate, il dialogo e l' esempio incoraggiante sono sempre possibili. L'umanità è la sostanza ricuperabile di ogni persona. Ma le idee non sono tutte rispettabili: il culto della violenza non è rispettabile. 8 - La forza pubblica, in troppi dei suoi agenti, non ha saputo e probabilmente - troppi segni lo indicano - non ha voluto separare violenti, non-violenti, e nonviolenti, ma ha colpito in modo pesante e indiscriminato, sia che fosse diretta o coperta politicamente in tal senso, sia perché ineducata e abbandonata nell'incapacità inammissibile di distinguere la protesta legittima da quella illegittima, la propria azione legittima da quella illegittima, l'uso della forza giusta e minima dalla violenza. L' effetto, visto in tv da tutti, dell'uso violento e brutale, persino omicida, della forza pubblica, che è giustificata soltanto dalla difesa dei diritti, è di una immensa gravità civile. Lo stato nemico dei cittadini che dissentono è il peggiore degli stati. La democrazia non è il calcolo dei voti nell'urna: questo è soltanto uno strumento indispensabile ma formale. La democrazia consiste nella difesa e realizzazione dei diritti umani, tra i quali c'è la manifestazione del dissenso senza violenza. I colpiti dalla polizia e dai carabinieri a Genova non erano violenti, se non forse pochissimi. I grandi violenti non sono stati colpiti, ma lasciati liberi di distruggere, se non portati sul posto a questo scopo, come molti hanno visto. Quando Berlusconi ha accusato di violenza tutti i manifestanti senza distinzione, si è dimostrato, anche sul piano dei più elementari valori civili, oltre che nell'etica economica, quell'affarista «inadatto a governare» un paese civile. La destra della maggioranza che, con la durezza di Fini, ha voluto difendere contro l'evidenza tutto l'operato della forza pubblica, ha manifestato la sua idea di stato, profondamente antidemocratica, inaccettabile. Le forze politiche del centro-sinistra sono state deboli, esitanti, incapaci di capire tutto il valore del movimento per la giustizia, tentando poi di aggregarsi, ma da lungo tempo notoriamente senza lucidità di giudizio sulla violenza neoliberista. Rifondazione è stata presente. Ma tutto il sistema dei partiti non è culturalmente adeguato al fenomeno in corso: o non lo capisce, o cerca di utilizzarlo. Specialmente sulla necessaria opzione nonviolenta assoluta, perché la politica sia umana, tutta la classe politica, da destra a sinistra, è pressoché analfabeta. Il lavoro da fare è immenso. 9 - L'esito cruento e deformato delle manifestazioni genovesi dà ragione, purtroppo, a chi, prevedendolo e temendolo, aveva organizzato in molte città maggiori e minori (Torino, Bologna, Reggio Emilia, Ferrara, Cuneo, Pinerolo, ed altre che ora mi sfuggono) manifestazioni all'insegna di "Non solo a Genova" e di "Parliamo a tutti, non solo ai G8". Tali manifestazioni si sono svolte non solo senza fare né patire violenza, ma producendo argomenti e segni di denuncia e di critica propositiva attraverso l'immagine e il gesto totalmente non-aggressivo, strutturalmente nonviolento, quale è il cammino in fila indiana, portando cartelli sul corpo, non su aste, e distribuendo volantini esplicativi. Questo tipo di manifestazione, camminando sui marciapiedi, rispettando i semafori, non disturbando i passanti, instaura una comunicazione mite e razionale con molti cittadini, che manca ad ogni corteo di massa. A Torino vi hanno partecipato, sabato 21 luglio, da 300 a 500 persone, confluite da tre diverse file indiane, ciascuna di almeno cento persone (non è difficile contarsi così in fila), partite dalla semi-periferia, a qualche chilometro dal centro, percorrendo le vie più popolate. (Ma, l'indomani, Repubblica ha parlato di un centinaio di presenti, e La Stampa di cortei "mini", di quaranta persone ciascuno!. diventate però 300 in piazza Castello). Ciò che conta è che diversi passanti hanno osservato: «Non come a Genova!». E sbagliavano, perché di Genova avevano saputo solo il brutto, e non la realtà della grandissima maggioranza serena e propositiva. L'informazione corrente giustamente ha fatto eco alla tragedia, ma, nella sua cronica sordità a ciò che più importa, ingiustamente ha trascurato il segnale della forza mite di chi porta le ragioni della giustizia. Questo tipo di informazione ha ingannato molti italiani più sprovveduti, facendo credere che a Genova si siano affrontate due violenze pari, oppure addirittura che i dimostranti abbiano meritato i colpi ricevuti. 10 - Infine, il giudizio sulle violenze, tutte in pratica contro lo sviluppo di un movimento per la giustizia mondiale, non deve dimenticare che la violenza più radicata e più grave è l'ingiustizia strutturale. Anche la protesta più scomposta e violenta, e quindi stupida e complice, è generata da quella violenza più vasta e profonda, più invisibile e rispettata, più giustificata e accettata, più mascherata e falsificatrice, più attrezzata e spregiudicata nel difendersi. La vera azione per la giustizia comincia e continua soltanto con i mezzi della giustizia, quindi nella ricerca rigorosa, personale e collettiva, della forza nonviolenta, che è la "forza vera" (satyagraha), la forza umana, creativa, coraggiosa, liberante. Tutta la politica, quella delle istituzioni, e quella dei movimenti oltre le istituzioni, deve emanciparsi dal mito superstizioso e dannato della violenza risolutiva, e imparare la politica della nonviolenza, l'unica adeguata ad una convivenza umana. Enrico Peyretti (1 agosto 2001)
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