Genova



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Dopo la tragedia di Genova

Dopo la tragedia di Genova, proviamo a riflettere. Di tragedia si è
trattato, e di nessuna vittoria, anche se rimangono delle possibilità
preziose, da curare e sviluppare. Tragedia, perché quando la violenza si
scatena, tutti ne rimaniamo sporcati, degradati. La violenza nasce dalla
stupidità ignorante, dalla paura, ma anche da dosi di odio presenti nel
corpo sociale, e sempre genera paura, ignoranza e odio. L'odio è il male
maggiore che possa arrivare ad un popolo. Un male peggiore della morte,
perché dalla morte può venire anche vita, ma la vita nell'odio è soltanto
morte. La violenza di pochi offende e avvilisce tutti, e può contaminare
molti. Questa violenza viene da uomini-pietra e pietrifica anche le vittime,
se non hanno immense risorse umane. Il vero principale problema dei fatti di
Genova è questo: le risorse umane profonde e solide. Le altre considerazioni
sono successive.
Anzitutto, la parola va data alla verità del dolore. Da Alessandria, persone
generose che hanno accolto e curato i rilasciati dal carcere, italiani e
stranieri, in aperta campagna, senza sapere dove si trovassero, raccontano:
«Le botte le hanno prese tutte nella caserma di Bolzaneto: ragazzi e
ragazze. Le costole rotte, le caviglie gonfie e doloranti, i lividi sul
corpo, i colpi alla testa sono frutti del dopo arresto. In piedi per sedici
diciotto ore con le mani legate dietro la schiena, faccia al muro costretti
ad orinarsi nei pantaloni, gambe divaricate, colpi nei testicoli, se
cedevano le gambe e ti chinavi botte e spruzzate di prodotti urticanti sul
viso. Le ragazze nude costrette a far flessioni, insultate in modo ignobile
dai poliziotti che dichiaravano di aver finalmente visto come è fatta una
puttana comunista nuda, a chi ha avuto un conato di vomito è stato passato
il viso sul pavimento per farglielo leccare. In quelle condizioni costretti
a cantare "viva il duce" e canti inneggianti al fascismo, ben conosciuti da
quei poliziotti; forzatamente venivano costretti a passare le loro mani su
zaini ed altri oggetti (armi improprie) perché rimanessero le loro impronte.
Questo era già successo quando sulle auto (spesso non riconoscibili) che li
portavano alle caserme, con le mani legate dietro la schiena, la testa
abbassata i ragazzi si sentivano passare fra le mani vari oggetti».
Basti questa testimonianza, tra le centinaia disponibili (io ne ho ricevute
più di quattrocento), a dire la vergogna d'Italia. Che ci siano anche solo
alcuni poliziotti fascisti, cioè dediti al culto della forza bruta, mentre
hanno la forza soltanto per difendere il diritto, e che ministri della
Repubblica li difendano pregiudizialmente, questa è la vergogna e la
sconfitta d'Italia. Aveva ragione chi segnalava il pericolo civile delle
forze oggi al governo. Era dal tempo del fascismo che non avvenivano
energiche manifestazioni sotto le nostre ambasciate nel mondo, come sono
avvenute ora, a vergogna d'Italia.

1 - Il movimento anti-globalizzazione non è contro l'unificazione del mondo
umano. Il movimento stesso è mondiale: internazionale, interculturale,
intergenerazionale, altruista. È contro una mondializzazione iniqua, nella
quale cresce la ricchezza e cresce l'ingiustizia. Bush e Berlusconi, quando
dicono che chi è contro la globalizzazione è contro i poveri, sono impudenti
spacciatori di notizie false. Se guardiamo le cifre, le "provvidenze" prese
dagli 8 ricchi per i popoli poveri sono briciole offensive e sprezzanti,
polvere negli occhi.

2 - Il movimento non è soltanto negativo. La sua ossatura valida è
costituita da esperienze in atto, seppure germinali, di economia
alternativa, solidale, che stanno maturando in espressioni teoriche e
politiche.

3 - Lo spettacolo osceno della violenza strutturale nell'economia e nel
governo del mondo, assunto abusivamente dai più forti contro le legittime
istituzioni cosmopolitiche, quale è l'Onu esautorata, muove all'indignazione
e alla collera anche correnti sprovvedute sul piano morale e culturale, e
ineducate all'azione costruttiva politica. Ad esse si aggiungono frazioni
piccole ma accanite, della destra internazionale mortifera, di cultura
puramente violenta, che si esprimono soltanto nella distruzione, non senza
che il cinismo del potere le utilizzi, come è avvenuto chiaramente a Genova,
al fine di criminalizzare tutta la protesta.

4 - Purtroppo, i tragici fatti di Genova dimostrano che aveva ragione chi
chiedeva una netta separazione, proclamata e praticata, tra le forme di
protesta decise o disponibili alla violenza, e le forme seriamente
nonviolente. Pensiamo e scriviamo "nonviolenza" in parola unica per dirne la
grande valenza positiva, non di pura e insufficiente astensione dal dare
inizio alla violenza, come quando si pensa e si scrive l'espressione in due
parole ("non violenza"), pura negazione relativa e transitoria. La
nonviolenza in quel significato positivo, attivo, costruttivo, è
radicalmente alternativa anzitutto alla prima e maggiore violenza, quella
strutturale dell'ingiustizia sistematica, poi anche alla violenza fisica,
materiale, interiorizzata nella rabbia di chi protesta unicamente o
principalmente in modo negativo e distruttivo. Chi fa così imita, riproduce
e addirittura giustifica la maggiore violenza strutturale, regalando agli
oppressori (e ai loro strumenti umani, le polizie) la possibilità di
apparire oppressi agli occhi dell'opinione pubblica più condizionata, ma
anche giustamente offesa per azioni distruttive a danno non certo dei
potenti, ma di terzi incolpevoli. Questo risultato è stato, di fatto o
volontariamente, lo scopo di quelle componenti deteriori dell'agitazione,
nemiche del movimento per la giustizia, che a Genova sono state le "tute
nere". I governi, specialmente quello italiano ospitante, che oggi, anche
nelle democrazie, sono governati dai potentati economici incontrollati,
hanno fatto proprio, o hanno addirittura predisposto, questo risultato
infame.

5 - La richiesta di netta separazione tra violenti e nonviolenti, avanzata
nel movimento stesso da molti mesi, era stata malintesa da buona parte del
movimento composito, come se fosse una discriminazione tra buoni e cattivi,
una divisione tra alleati con lo stesso obiettivo. Ci sono i testi scritti
di quel dibattito in posta elettronica. Sta qui la grave debolezza o
ambiguità del Genoa Social Forum, dove pure tanto generoso impegno è stato
profuso. La distinzione era assolutamente pratica, non moralistica: non era
tra buoni e cattivi, ma tra effettivi alleati della violenza strutturale (i
manifestanti violenti, che facevano "dichiarazioni di guerra", rimangiate l'
indomani, senza alcuna credibilità) e veri avversari alternativi alla
violenza strutturale (i manifestanti positivamente nonviolenti). L'
alternativa chiara andava difesa come primo obiettivo, e l'alternativa era
la nonviolenza pura. E' stata una grave ingenuità (generosa, ma sbagliata)
credere di potere condurre un'azione comune senza questa chiarezza.

6 - Il rifiuto di operare quella distinzione essenziale per la lotta giusta
ha dato luogo all'ambiguità della posizione mediana e mediatrice tra gli
estremi, violento l'uno, nonviolento l'altro. Questa ambiguità deve ora
essere oggetto di seria meditazione e di un lungo lavoro di ricostruzione.
Questa ambiguità ha disorientato e buttato allo sbaraglio tanti generosi
manifestanti, specialmente i più giovani, col possibile effetto di
scoraggiare e dilapidare il loro fresco impegno, offeso dalla violenza
dilagata, o di lasciarli corrompere dal virus della stessa violenza. Molto
ambigua era la posizione delle "tute bianche", che volevano l'affrontamento
fisico, l'invasione della "zona rossa", il blocco dei lavori dei G8, e
dicevano di volerlo fare senza violenza, pur sapendo di provocare una
reazione violenta, dalla quale si sarebbero "difese". Questa azione veniva
chiamata "disobbedienza civile", ignorando che l'autentica disobbedienza
civile, e non la semplice provocazione, richiede alcune ardue qualità: la
grande forza di sopportare tutte le conseguenze (come Socrate, Tommaso Moro,
Gandhi, Franz Jägerstätter) ; il coraggio di dimostrare con l'«arma umana
della sofferenza» (Gandhi) di essere liberi anche dalla violenza di
risposta; la capacità di smascherare in tal modo l'ingiustizia della legge
ingiusta e la violenza che la difende. Ma questa forza, coraggio e capacità
non si improvvisano e non c'erano nella maggioranza dei manifestanti, pur i
meglio intenzionati, pur preparati come mai prima in nessun'altra
manifestazione così grande. Ci sono stati in casi preziosi per sperare, come
quello riferito dall'Ansa nel dispaccio che riportiamo qui sotto, e chissà
in quanti altri rimasti ignoti. Tra quei quindici c'erano alcuni nostri
amici ed un redattore de il foglio. Solo l'Unità ha riferito l'episodio con
la massima evidenza.
 (ANSA) - GENOVA, 20 LUG - «Devo ringraziare quei quindici che si sono messi
in ginocchio e ci hanno salvato». A parlare è un poliziotto. Esprime
gratitudine nei confronti di un gruppo di pacifisti che, all'arrivo del
corteo degli anarchici [si tratta delle "tute nere"], si sono inginocchiati
in fondo a Via Palestro, davanti allo
schieramento dei poliziotti, invitando il gruppo a fermarsi. Si era appena
conclusa la manifestazione pacifica e colorata degli ambientalisti e della
Rete Lilliput partita da Piazza Manin. Il corteo si era sciolto, dopo le
azioni simboliche davanti alla grata di protezione alla zona rossa di Via
Assarotti, e una parte dei manifestanti si era riversata su piazza Marsala
per un sit-in. «Toglietevi il casco» ripetevano i giovani all'indirizzo dei
poliziotti in assetto antisommossa. Gianluca, 21 anni, ha raccolto l'invito
e subito dopo tutti gli altri lo hanno seguito. A quel punto una ragazza
entusiasta si è alzata ed è andata ad abbracciare il poliziotto. «Noi ci
siamo tolti il casco - dice un altro poliziotto - e loro ci hanno dimostrato
solidarietà. Gli anarchici di fronte a loro hanno desistito».

7 - Tuttavia, nonostante quelle carenze e ambiguità, la preparazione e lo
svolgimento delle giornate di Genova, compresi i momenti di convegno, hanno
promosso una riflessione, sebbene ancora incompiuta, sull'alternativa tra
violenza e nonviolenza, essenziale e preliminare alla ricerca della
giustizia coi mezzi della giustizia, gli unici mezzi che possono avvicinare
a quel fine. Questa riflessione, imposta ulteriormente dai fatti, che hanno
rivelato tanto il fascino nero della violenza sbrigativa, quanto i suoi
effetti degradanti, va ora continuata e approfondita, affinché gli errori e
i dolori di Genova non siano arrivati invano. Bisogna aprire un dialogo
serio e paziente, meditato e senza pregiudizi, tra le componenti del
movimento qualificate in senso nonviolento, e tutte le altre, fino a quelle
più esposte al mito disumano della violenza. Assai difficile, o impossibile,
sarà tentare il dialogo coi gruppi violenti per tradizione ideologica
nazi-fascista. Ma con le singole persone disorientate, il dialogo e l'
esempio incoraggiante sono sempre possibili. L'umanità è la sostanza
ricuperabile di ogni persona. Ma le idee non sono tutte rispettabili: il
culto della violenza non è rispettabile.

8 - La forza pubblica, in troppi dei suoi agenti, non ha saputo e
probabilmente - troppi segni lo indicano - non ha voluto separare violenti,
non-violenti, e nonviolenti, ma ha colpito in modo pesante e indiscriminato,
sia che fosse diretta o coperta politicamente in tal senso, sia perché
ineducata e abbandonata nell'incapacità inammissibile di distinguere la
protesta legittima da quella illegittima, la propria azione legittima da
quella illegittima, l'uso della forza giusta e minima dalla violenza. L'
effetto, visto in tv da tutti, dell'uso violento e brutale, persino omicida,
della forza pubblica, che è giustificata soltanto dalla difesa dei diritti,
è di una immensa gravità civile. Lo stato nemico dei cittadini che
dissentono è il peggiore degli stati. La democrazia non è il calcolo dei
voti nell'urna: questo è soltanto uno strumento indispensabile ma formale.
La democrazia consiste nella difesa e realizzazione dei diritti umani, tra i
quali c'è la manifestazione del dissenso senza violenza. I colpiti dalla
polizia e dai carabinieri a Genova non erano violenti, se non forse
pochissimi. I grandi violenti non sono stati colpiti, ma lasciati liberi di
distruggere, se non portati sul posto a questo scopo, come molti hanno
visto. Quando Berlusconi ha accusato di violenza tutti i manifestanti senza
distinzione, si è dimostrato, anche sul piano dei più elementari valori
civili, oltre che nell'etica economica, quell'affarista «inadatto a
governare» un paese civile. La destra della maggioranza che, con la durezza
di Fini, ha voluto difendere contro l'evidenza tutto l'operato della forza
pubblica, ha manifestato la sua idea di stato, profondamente
antidemocratica, inaccettabile. Le forze politiche del centro-sinistra sono
state deboli, esitanti, incapaci di capire tutto il valore del movimento per
la giustizia, tentando poi di aggregarsi, ma da lungo tempo notoriamente
senza lucidità di giudizio sulla violenza neoliberista. Rifondazione è stata
presente. Ma tutto il sistema dei partiti non è culturalmente adeguato al
fenomeno in corso: o non lo capisce, o cerca di utilizzarlo. Specialmente
sulla necessaria opzione nonviolenta assoluta, perché la politica sia umana,
tutta la classe politica, da destra a sinistra, è pressoché analfabeta. Il
lavoro da fare è immenso.

9 - L'esito cruento e deformato delle manifestazioni genovesi dà ragione,
purtroppo, a chi, prevedendolo e temendolo, aveva organizzato in molte città
maggiori e minori (Torino, Bologna, Reggio Emilia, Ferrara, Cuneo, Pinerolo,
ed altre che ora mi sfuggono) manifestazioni all'insegna di "Non solo a
Genova" e di "Parliamo a tutti, non solo ai G8". Tali manifestazioni si sono
svolte non solo senza fare né patire violenza, ma producendo argomenti e
segni di denuncia e di critica propositiva attraverso l'immagine e il gesto
totalmente non-aggressivo, strutturalmente nonviolento, quale è il cammino
in fila indiana, portando cartelli sul corpo, non su aste, e distribuendo
volantini esplicativi. Questo tipo di manifestazione, camminando sui
marciapiedi, rispettando i semafori, non disturbando i passanti, instaura
una comunicazione mite e razionale con molti cittadini, che manca ad ogni
corteo di massa. A Torino vi hanno partecipato, sabato 21 luglio, da 300 a
500 persone, confluite da tre diverse file indiane, ciascuna di almeno cento
persone (non è difficile contarsi così in fila), partite dalla
semi-periferia, a qualche chilometro dal centro, percorrendo le vie più
popolate. (Ma, l'indomani, Repubblica ha parlato di un centinaio di
presenti, e La Stampa di cortei "mini", di quaranta persone ciascuno!.
diventate però 300 in  piazza Castello). Ciò che conta è che diversi
passanti hanno osservato: «Non come a Genova!». E sbagliavano, perché di
Genova avevano saputo solo il brutto, e non la realtà della grandissima
maggioranza serena e propositiva. L'informazione corrente giustamente ha
fatto eco alla tragedia, ma, nella sua cronica sordità a ciò che più
importa, ingiustamente ha trascurato il segnale della forza mite di chi
porta le ragioni della giustizia. Questo tipo di informazione ha ingannato
molti  italiani più sprovveduti, facendo credere che a Genova si siano
affrontate due violenze pari, oppure addirittura che i dimostranti abbiano
meritato i colpi ricevuti.

10 - Infine, il giudizio sulle violenze, tutte in pratica contro lo sviluppo
di un movimento per la giustizia mondiale, non deve dimenticare che la
violenza più radicata e più grave è l'ingiustizia strutturale. Anche la
protesta più scomposta e violenta, e quindi stupida e complice, è generata
da quella violenza più vasta e profonda, più invisibile e rispettata, più
giustificata e accettata, più mascherata e falsificatrice, più attrezzata e
spregiudicata nel difendersi. La vera azione per la giustizia comincia e
continua soltanto con i mezzi della giustizia, quindi nella ricerca
rigorosa, personale e collettiva, della forza nonviolenta, che è la "forza
vera" (satyagraha), la forza umana, creativa, coraggiosa, liberante. Tutta
la politica, quella delle istituzioni, e quella dei movimenti oltre le
istituzioni, deve emanciparsi dal mito superstizioso e dannato della
violenza risolutiva, e imparare la politica della nonviolenza, l'unica
adeguata ad una convivenza umana.

   Enrico Peyretti (1 agosto 2001)

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