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- From: nonluoghi at liberi.innboks.com
- Date: 16 May 2001 10:09:37 -0000
Segnaliamo che nel nostro sito pubblichiamo una serie di riflessioni (pre e
postelettorali...) sul deficit democratico e sull'interiorizzazione individuale
delle leggi violente della competizione e della sopraffazione dell'uomo
sull'uomo.
QUi sotto uno di questi interventi che comunque potete leggere andando a
www.nonluoghi.it oppure www.nonluoghi.org.
Ciao da Nonluoghi
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Tutti i Berlusconi del mondo
Democrazia formale, deriva neoliberista, utopia negata: riflessioni all'ombra
del 13 maggio
Vorrei evitare di parlare a vuoto ma mi rendo conto che corro questo rischio
intendendo affrontare un tema come il deficit democratico.
Lo faccio gettando lo sguardo sull'Italia e sul voto del 13 maggio: una vicenda
che contrappunta la tragedia internazionale con monologhi farseschi nazionali
utili a comprendere meglio la gravità della situazione.
Cercherò - senza pretese di certezza né di lucidità - di mettere da parte il
tormento personale di questi giorni elettorali e tenterò di collocare nel
contesto globale anche l'anomalia italiana con il suo surreale
presidente-padrone di tutto.
Spero in questo modo, sedendomi sul ciglio del paradigma della società di
mercato e della sua pseudodemocrazia, di poter osservare le cose con il
distacco necessario per mettere almeno in dubbio le teorie progressiste (il
"meno peggio" come tappa di un percorso di liberazione?) che demonizzano un
"nemico" cui in realtà appaiono in larga misura speculari. A scanso di equivoci
voglio precisare che ritengo un dato fuori discussione che Berlusconi è un
"politico" impresentabile e dannoso. La domanda è quanto siano più presentabili
i suoi avversari. E non solo: quanto sono "presentabili" gli elettori?
In altre parole: quanto è presentabile la democrazia formale cui si riduce la
"gestione" della convivenza nelle nostre società dominate dalle leggi
economiche del profitto e della competizione, interiorizzate dall'individuo a
tal punto da divenire elementi costitutivi della stessa personalità postmoderna?
I poteri e le istituzioni (dalla famiglia al governo passando per ogni altra
forma di organizzazione umana) distribuiti e riprodotti ai vari punti della rete
comunitaria sono catalizzatori dei meccanismi di un sistema dinamico di dominio
che funziona per gerarchie e per deleghe acritiche, in un intreccio perverso fra
il politico, l'economico e il sociale. Non si salva quasi nulla ed è raggelante
una delle dimostrazioni empiriche di questa deriva sistemica: il fatalismo
pressoché generale col quale si accoglie il trionfo della filosofia mercantile
della "distrazione omologante"; vale a dire della "sottomissione partecipe":
irriducibile a un semplice rapporto di forza squilibrato (neanche al rapporto
fra individuo e comunità o fra umanità e mercato…).
La vasta macchina dell'eterodirezione si autoalimenta e funziona mediante
meccanismi fra loro anche indipendenti, fino ad abbeverarsi alla fonte
dell'individuo frastornato e manipolato, pieno già al suo stesso interno di
devastanti conflitti irrisolti e in buona parte latenti. Un individuo
paralizzato cui le cose vanno di lusso se appena riesce a vivere un conflitto
consapevole e disarmante fra l'idea e il fatto, fra l'etica universale e il
bisogno contingente, fra la tensione ideale e il possibile/necessario qui e ora.
Nella stragrande maggioranza dei casi, infatti, anche questo conflitto – quasi
fosse retaggio di un passato fallimentare o vanamente utopistico - rimarrà
relegato fra le utili rimozioni di un quotidiano che sarà agitato, piuttosto, da
"concreti" bisogni individuali e da fenomeni di massa indotti dalla grande
fabbrica del consenso (scuola, stampa, tv, business, politica, chiese) e ormai
ben interiorizzati e proiettati all'esterno. Bisogni traducibili anche in
contestazione di parte dell'esistente nel nome di una qualche "nuova" ricetta
ben metabolizzata. L'omologazione mercantile, infatti, ha un suo dinamismo. Non
è conservazione, è rivoluzione: quest'ultimo vocabolo, magari appaiato a
"libertà", compare frequentemente nel linguaggio pubblicitario dell'economia e
della politica autoritarie.
L'essere umano omologato, figlio ma anche complice della semina
eterodiretta, potrà, dunque, ragionevolmente ritenersi protagonista di un
divenire storico propulsivo, di un'ubriacatura futurista, di una grande corsa
verso il domani radioso del mercato e della tecnoscienza.
Saranno spazzate via le catene del passato: i monopoli economici, l'oppressione
di stato, la burocrazia maligna, le ristrettezze sociali, la scarsità materiale,
i limiti della vita… Rivoluzione e libertà.
Mi pare di intuire il simbolismo positivo (o forse dovrei meglio dire
"positivista") di un orizzonte blindato che viene invece percepito socialmente
come aperto; di un'immersione paradigmatica che viene al contrario decodificata
individualmente come fuga dal sistema; di una perdita di socialità che viene
interpretata, all'opposto, come conquista di territori per il libero dispiegarsi
del movimento umano.
Eppure il processo in atto di "rivoluzione e libertà" è un falso movimento.
Vuole sostituire la burocrazia con un'altra burocrazia; lo stato con un altro
stato; i monopoli con altri monopoli; l'assistenza pietistica ai bisognosi con
altre forme di assistenza pietistica; le gerarchie con altre gerarchie; il
controllo sociale con altro controllo sociale. A giovarsi della rivoluzione e
della libertà sono principalmente i soggetti forti che nel mercato hanno il
privilegio di godere dei diritti di "elettorato
attivo", cioè una parte delle imprese per le quali si ridurrebbero i vincoli
"etici" in una lotta concorrenziale selvaggia quanto socialmente desiderata. Mi
pare quasi superfluo aggiungere che tale liberazione mercantile, compresa la dea
concorrenza ormai adorata quasi da tutti, accentua lo sfruttamento dell'uomo
sull'uomo, il trasferimento sulla collettività di costi di produzione da
tagliare per accrescere i profitti d'impresa, le malattie e le morti causate
direttamente dal sistema economico, la necessità di avere sotto controllo masse
di consumatori convinti di agire in autonomia.
Lo spensierato homo oeconomicus non s'interroga su tutto ciò, tuttavia è
consapevole di qualche "ragionevole" aggiustamento di rotta necessario e
funzionale a un sistema che dimostrerà di sapersi autogovernare in virtù del
rapporto di mutuo soccorso fra economia e politica nel nome naturalmente del
"benessere" individuale e collettivo (attenti alle mucche pazze, vigilare
sull'ozono, non troppi poveri o disoccupati, non troppi debiti del Terzo mondo
in attesa di esportare anche lì la nostra rivoluzione eccetera). Ho sentito con
le mie orecchie esponenti forzitalioti o imprenditori fintoalternativi
simpatizzare con il "popolo di Seattle" perché erano posti di fronte alle
porcherie delle multinazionali: il sistema ha i suoi
anticorpi, è in grado di metabolizzare tutto, anche le contestazioni,
riciclandole e neutralizzandone la intrinseca carica sovversiva.
Tirare la corda senza romperla: è una delle funzioni vitali del meccanismo di
dominio, della grande macchina deterministica del Mercato, impersonale e
deresponsabilizzante a ogni livello.
Ma se anche la corda saltasse, avremmo, probabilmente, un'umanità spaesata in
cerca di nuovi pastori di greggi impauriti, di altri venditori di verità, di
rapide ristrutturazioni piramidali a ogni punto della rete sociale.
Non mi sembra azzardato immaginare che a un Big Bang economico e sociale
seguirebbe probabilmente una qualche forma di restaurazione di un sistema di
dominio basato sulla gerarchia e sull'eterodirezione "partecipata" e camuffata
da autonomia. Come prima e forse più di prima: dopo una rivoluzione di "libertà"
qualcuno potrebbe denunciare quell'eccesso di libertà, la corruzione degli
spiriti, i facili costumi…
E allora ogni speranza è perduta? Non è escluso che un "Big Bang" del sistema
(sia esso da crisi ecologica profonda o da crack finanziario) possa risvegliare
in qualche anfratto della mente umana un immaginario possibile e dunque dare una
scossa a un cammino verso l'utopia della libertà e della giustizia. Ma non è
detto.
Forse qualche passo è possibile, anche senza un accordo qui e ora sui dettagli
di un progetto di liberazione (che credo possa ipotizzarsi come utopia
federalista di reale democrazia politica ma anche economica e fondata in gran
parte sull'autosostentamento della comunità locale e sulla mutua assistenza
infra e intercomunitaria; di là dalla faticosa elaborazione dei meccanismi
decisionali e gestionali di base, uno dei problemi ostici è la formazione dei
bisogni individuali e collettivi con la inevitabile determinazione di scale di
priorità/valore cui difficilmente si sfugge anche in condizioni di abbondanza di
beni materiali; ma tutto questo, un giorno, qualcuno avrà forse il coraggio di
sperimentare strada facendo).
Torniamo allora all'inizio: hanno ragione dunque le forze "progressiste" a
voler sonnecchiosamente governare i fenomeni senza strappi né sussulti
anti-sistemici?
No, perché il loro non è un disegno di emancipazione: è una sconfitta storica,
una rilettura leggermente corretta del progetto dell'avversario, la morte di
un'elaborazione teorica alternativa sia pure paradigmatica.
Uscire qui e ora dal paradigma non è possibile ma al suo interno esistono
ampi spazi di manovra lasciati desolatamente vuoti dalla sinistra, alla
"rivoluzione e libertà" millantata dai rètori del mercato assassino si è
contrapposto invece un solo grido: "anche con noi quella rivoluzione e quella
libertà, ma noi siamo più umani e ve la impacchettiamo meglio". Eppure mettere
in discussione le fondamenta gerarchiche e autoritarie delle istituzioni sociali
e economiche – che ne determinano l'attuale perversione - è in parte possibile
anche senza l'auspicato, quanto oggi ovviamente imprevedibile, salto oltre il
tragico paradigma del mercato e della competizione, oltre il sistema
dell'eterodirezione subdola e della democrazia negata.
Qualcosa di utile si potrebbe seminare, per esempio, nelle scuole, se
maggiore fosse l'attenzione data agli approcci pedagogici e didattici di tipo
libertario.
Vendere verità e sfornare persone pronte a interiorizzare di tutto è oggi
un'attività largamente rilevabile nelle scuole non solo italiane. Si canalizza
brutalmente il traffico umano. Si profila una sistematica negazione del dubbio
metodico e dunque del relativismo e, intrinsecamente, non solo della ricerca
dell'incontro - senza maschere - con l'Altro ma della semplice tolleranza, anche
quanto magari ad essa
si dedicano pompose lezioni a ogni livello. Il controcanto di tutto ciò sono i
bombardamenti massmediatici di ogni risma e gli altri luoghi simbolici e reali
del potere gerarchico e dell'etica eterodeterminata (tribunali, polizie,
caserme, ospedali, uffici, giocoforza anche le famiglie e i supermercati…).
Il processo di rimbecillimento e di deresponsabilizzazione individuale
interiorizzata ("non preoccuparti, a certe cose ci pensiamo noi: tu vota qui,
firma là, protesta in piazza laggiù…") va dalla culla alla tomba e vasti sono
gli ambiti potenziali per interventi antagonistici di tipo "riformista", utili
almeno – se non sempre a ridurre la sofferenza umana qui e ora - a favorire le
precondizioni della riscoperta utopica. Si tratterebbe di riforme "agitatrici",
portatrici di nuove tensioni, di conflitti – interiori e comunitari - e di
interrogativi e dubbi: in altre parole, il carburante umano che di
questi tempi scarseggia.
Altro che i falsi problemi che la sinistra di governo agita penosamente per
distinguersi dalla destra.
Dalla scuola all'esercito (e alle guerre!), dal sistema penale alla sanità,
dalla religione al lavoro: in questi anni la "sinistra" non ha fatto nulla per
occupare gli spazi di manovra alternativa. E' stata, al contrario, buona
servitrice dei (dis)valori dominanti, cioè del mercato e dei suoi meccanismi che
ha assecondato fino a catalizzare un mondo di bisogni indotti e di status symbol
significanti dell'esistenza di un individuo medio.
Affiorano soltanto sottili differenze di fondo fra la sinistra di governo e la
destra aziendale. Queste sfumature forse possono tradursi in atti concreti più
o meno dannosi nel quadro sociale e ambientale interno e globale. Per una parte
della popolazione italiana queste distinzioni potrebbero rivelarsi determinanti:
da esse dipende il rimanere o meno entro i confini del rispetto della propria
dignità. Qualcuno, in un clima avvelenato dalla protervia della destra,
finirebbe più facilmente fuori da quei confini, siano essi economici o culturali
(o entrambe le cose, come nel caso di chi bussa alla Fortezza Europa in cerca di
una vita nuova).
Anche le lotte sociali possono avere sbocchi diversi con i due interlocutori:
uno potrebbe sbatterti le porte in faccia, l'altro – la sinistra - ascoltarti
con la sua malcelata arroganza e se ti va bene, però, fagocitarti e riciclarti
politicamente corretto pur facendoti ottenere, forse, qualche risultato concreto
di diminuzione della sofferenza umana. Ma rigorosamente senza incidere nei
meccanismi sistemici dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo.
Tuttavia, nel conto va messo anche il peso dell'altra politica, quella
spontanea di base con l'impegno diretto e le azioni nonviolente, che
potrebbe essere catalizzata da un quadro istituzionale più "destro" mettendo
così di nuovo in discussione il risultato finale di una legislatura
berlusconiana comparata alle involute evoluzioni della sinistra.
Siccome la forza delle lotte sociali dipende, in realtà, dalla partecipazione e
dal grado di consapevolezza di ognuno, mi pare ragionevole ritenere che i
risultati migliori si possano ottenere a prescindere dal macchinista col quale
ti devi confrontare.
Spargere germi di democrazia diretta muovendosi nella comunità, nei suoi spazi
nessuno escluso, è probabilmente l'investimento più sensato che oggi possa fare
la minoranza di esseri umani convinti che la trasformazione del paradigma sia
possibile e possa cominciare da subito. La narcosi dell'homo oeconomicus non ha
del tutto addormentato i sentimenti e le emozioni: il moto di indignazione che
viene prima di tutto dal cuore dell'umanità spesso è percepibile nitidamente ma
finisce disperso nello smarrimento e nel senso di impotenza.
Condividere dialetticamente l'indignazione o confrontarsi con la tragedia della
sua scomparsa – anche al bar o al circolo del quartiere - può essere un primo,
piccolo
passo che i "facilitatori" possono affiancare alle imprescindibili azioni di
lotta negli ambiti della politica di base, dell'attività sociale e nella cultura
che a loro volta potranno assumere linguaggi e forme più aperte. Una rete di
consapevolezze e di contraddizioni che si autogenera/organizza nell'incertezza e
nell'imprevedibilità sperimentale di un insieme non gerarchico, e quindi
solidale, mi pare oggi una precondizione auspicabile ma di là da venire. Una
precondizione per poter almeno sperare di contribuire alla nascita di un'idea
partecipata di comunità nuova, senza cadere negli schemi consunti delle masse
grimaldello di feroci e pericolose avanguardie "illuminate" che nel nome della
giustizia e della libertà riproducono con vesti linde gli sporchi meccanismi
della sopraffazione.
E' deprimente, in questo quadro, osservare che gli elementi sociali e
psicologici costitutivi del sistema di dominio gerarchico sono ben radicati
all'interno delle stesse istituzioni che avrebbero la pretesa di rappresentare
la via dell'antagonismo sistemico.
Alla stessa stregua – sull'altro versante - è inquietante ma illuminante
rendersi
conto che oggi è a tal punto fossilizzata l'interiorizzazione dei valori e dei
bisogni indotti che lo stesso governante "impazzito" che facesse scelte
oggettive di giustizia e libertà rischierebbe la rivolta reazionaria dei
sudditi: quanto resisterebbe in carica un governo che di punto in bianco – cioè
senza esserseli "lavorati" prima - chiamasse i cittadini a decidere direttamente
su una valanga di questioni o che aprisse le frontiere all'immigrazione nel nome
di un sacrosanto rifiuto del principio del sangue e del suolo?
La situazione è maledettamente complessa e maligna.
Volerne uscire con qualche ricetta in tasca mi pare onestamente impossibile e
per questo penso sia giusto diffidare di chi vuole farci credere di averne
chiavi in mano, locali, globali e "glocali".
Si tratta di costruire qualcosa giorno dopo giorno tutti insieme e soprattutto
di sperare che si diffonda il coraggio di sperimentare di più ai margini del
paradigma dominante.
Dovremmo avere anche la forza di ricominciare a filosofare; di rimettere in
discussione quasi tutto.
Le istituzioni, il lavoro, le leggi economiche, noi stessi.
Non ce l'abbiamo.
Ma una cosa, a proposito di filosofia e senza andare troppo lontano dalla
politica e dall'economia, possiamo fare sforzandoci solo un po': accendere la
luce nella stanza della morte. Il grande luna park del mercato lascia regnare il
buio fra le pareti dell'oltre e del nulla; la morte dimenticata, quasi non
esistesse. Un esercizio di rimozione utile a togliere di mezzo il
dubbio/angoscia esistenziale e soprattutto l'idea del limite: la vita non ha
limiti, l'uomo non ha limiti, il profitto non ha limiti ed è lo strumento per
conquistare la felicità terrena.
Ritornare a parlare della morte, metterla a fuoco con tragica lucidità può
servire a relativizzare la competizione e a rivelare la dimensione
generatrice comune del sé e dell'altro, a dare il peso che merita a ogni
respiro che si ferma (sia esso in Palestina o nell'ospedale del quartiere) e
anche a individuare il perimetro del mercato accorgendosi che la vita – e la
morte – cadono in gran parte fuori di esso.
E che se invece nella "realtà" quotidiana abbiamo la sensazione contraria –
cioè che il mercato si sovrapponga alla vita e alla morte - vuol dire che c'è
qualcosa che non va.
(Zenone Sovilla)
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