Intervista ad Alex Zanotelli,
missionario comboniano in una bidonville di Nairobi, in
Kenia Un genocidio “made in
Usa”
«Se
avremo a che fare con un’impostazione economica come il “Nafta
for Africa”, andremo verso una tragedia colossale. Si tratta
davvero di decidere la morte di un milione di persone. E il
mio sdegno non conosce limiti. Vivendo sulla mia pelle la
sofferenza dei poveri a Korogocho, non posso non indignarmi,
arrabbiarmi ed esprimere tutta la rabbia che ho dentro». Così
padre Alex Zanotelli, missionario comboniano in una delle più
povere bidonville di Nairobi, tuona contro lo scellerato
progetto economico degli Stati Uniti che intende estendere a
tutta l’Africa il modello neoliberista imposto nell’America
settentrionale e firmato da Usa, Canada e Messico (appunto il
Nafta, accordo nordamericano sul libero commercio). L’ex
direttore di Nigrizia è in questi giorni a Roma dove ha partecipato alla
presentazione della campagna “Break the silence”, rompi il
silenzio, quel silenzio che soprattutto in Italia offusca la
tragedia del più povero continente della terra.
Liberazione lo
ha intervistato proprio per contribuire, nel suo piccolo, a
dare forza alla parola d’ordine della campagna. Alex,
che cosa vuole dire questo Nafta per l’Africa? Lo scopo fondamentale è
quello di creare una nuova frontiera per il mercato dove
buttare merci. E’ questo il fine essenziale. Ed ecco dunque la
legislazione sul “Nafta for Africa”. Io mi meraviglio molto
del disinteresse europeo su quanto sta avvenendo. E cito, a
questo proposito, il New York Times, che in fondo possiamo
definire la voce del padrone. L’anno scorso pubblicò
un’editoriale estremamente pesante, dove si diceva che questa
legislazione era fatta per favorire le grandi multinazionali e
distruggere quel poco di stato che ancora c’è nel continente
africano. Dio mio, se perfino il New York Times dice una cosa del genere e
invece l’Europa è incapace addirittura di parlarne, davvero
non ci capisco più nulla. Quali sono secondo te i punti
più inquietanti di questa iniziativa americana? Il “Nafta for Africa” è una
legislazione che prevede qualcosa di analogo al Nafta già in
vigore in America del nord. Come è noto è una specie di
tentativo, nato nell’ambito della globalizzazione, che ha il
fine di abbattere le barriere doganali. Allora ci fu
all’interno degli Stati Uniti un’opposizione terribile.
Vinsero per poco ma vinsero. E ora se ne vedono tutti i frutti
amari, amarissimi. Tanto che oggi anche negli Stati Uniti non
ne possono più, come sta accadendo per esempio tra i sindacati
americani. Adesso gli Usa vogliono esportare questa
esperienza, amara soprattutto per il Messico, in Africa.
Questo significa appunto aprire questo continente alle grandi
multinazionali che potranno così comprare quello che vogliono,
compreso il ricchissimo sottosuolo, importare ed esportare a
loro piacimento tutti i capitali. E’ un po’ la traduzione del
Mai (Accordo multilaterale sugli investimenti) per l’Africa. E
in un momento in cui questo continente già vive una situazione
incredibile. Un’imposizione del genere vuole dire un vero e
proprio genocidio. Quali ripercussioni ci potranno
essere dal punto di vista sociale? Già il Fondo monetario
internazionale e la Banca mondiale hanno adottato una politica
di taglio alle spese sociali. Vediamo già che cosa significano
negli Stati Uniti e in Europa questi tagli che vengono pagati
soprattutto dai poveri. Figurarsi in un’Africa che vive una
situazione economica drammatica. Con una politica già promossa
dalla Banca mondiale e dal Fmi, rafforzata da un accordo tra
il presidente americano e i capi di stato africani, arriveremo
a dei tagli incredibili alle spese pubbliche, come sanità,
educazione, comunicazione. Questo per moltissima gente vuole
dire la morte. Ecco che allora irrompe con ancora più forza il
diritto dei poveri. Non si può andare avanti lasciando
semplicemente che l’economia faccia i propri giochi a spese
dell’uomo. L’economia deve servire l’uomo, non schiavizzarlo o
peggio ancora ucciderlo. Come si colloca la questione
del debito estero in questo scenario preoccupante? Il G7 di Colonia ha detto che
rimettevano, se potevano perché ancora non è certo, 2,5
bilioni di dollari, l’1% dell’intero debito internazionale.
Per i paesi più poveri la percentuale salirebbe al 12%. La
condizione è che comunque questi paesi impoveriti diventino
membri del Wto (Accordo internazionale sul commercio),
accettino gli aggiustamenti strutturali e diventino così parte
effettiva del sistema della globalizzazione. Un’altra maniera
per tirarli dentro la via che io chiamo dell’impoverimento.
Non è certo una medicina. Va detto che è già un passo in
avanti che qualcuno cominci a capire l’assurdità del debito e
io benedico tutte le campagne perché aiutano almeno a
coscientizzare. Ma rendiamoci conto che non saranno i grandi
proclami imperiali di Clinton che risolveranno il problema. Il
sistema rimane intatto e non c’è nessuna volontà di
cambiamento e di giustizia. Si vuole solo continuare a fare
della carità. Il banco di prova della penetrazione
americana nel continente è il Congo. Quale è la tua analisi?
Dietro al conflitto del
Congo c’è il concetto, legato appunto alla globalizzazione,
che in sintesi è “meno stato c’è, e più le grandi compagnie
possono fare i loro interessi”. Anche se la guerra va avanti,
ognuna delle compagnie dei diamanti, dell’oro hanno i loro
eserciti e la loro sicurezza. Va ricordato che la prima guerra
di Kabila, quella contro Mobutu, è stata pianificata
militarmente dai grandi potentati economici, con la
benedizione degli Stati Uniti, che ha utilizzato il Sudafrica
e tutte le grandi ditte di diamanti per garantirsi l’accesso
alle ricchezze locali. Quando invece Kabila si è rivoltato e
ha tentato una via più nazionalista immediatamente c’è stata
un’altra reazione ed è partita la guerra attuale. Dietro a
questo naturalmente ci sono enormi interessi. Ho citato quelli
delle grandi compagnie. C’è poi l’interesse globale degli Usa
per il Centrafrica, sancito dal viaggio di Clinton, quando
rilanciò la “renaissance” africana (il rinascimento africano),
proponendoci come modelli Cagame, Museveni, che sappiamo
benissimo che persone sono. Cambiando in parte scenario,
come valuti l’attuale scontro nello Zimbabwe tra il presidente
Mugabe e i bianchi? Per
me lo Zimbabwe potrebbe essere emblematico di situazioni che
si ripetono altrove come in Sudafrica. Mugabe è un dittatore,
e ultimamente la gente non ne vuole sapere di lui. Per questo
ha cavalcato la storia della terra. Ma il problema della terra
è reale. Non è possibile che pochi bianchi abbiamo la maggior
parte delle terre buone e i neri - che sono trenta o quaranta
milioni - facciano i servi. Un problema grosso anche in
Sudafrica..... Sì. In
Sudafrica l’87% delle terre è ancora in mano ai bianchi e il
95% delle risorse è proprietà di cinque milioni di bianchi.
Bisogna dunque che si arrivi ad un minimo di giustizia sociale
e questo problema Mandela, che pure ha evitato una guerra
civile nella transizione alla democrazia, non lo ha
affrontato. Il Sudafrica corre inoltre un rischio ancora più
grave: quello di essere usato dai potentati economici per
spiazzare il resto del continente. Siamo ancora lontani da una
soluzione seria del problema Sudafrica. Con questa nota amara
Zanotelli ci lascia. Deve incontrare il segretario dei Ds
Walter Veltroni. Chissà se riuscirà a convincerlo che la
politica liberista va combattuta con grande determinazione,
proprio come fa lui.
Vittorio
Bonanni |