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[Nonviolenza] Telegrammi. 5314
- Subject: [Nonviolenza] Telegrammi. 5314
- From: Centro di ricerca per la pace Centro di ricerca per la pace <centropacevt at gmail.com>
- Date: Wed, 4 Sep 2024 15:12:20 +0200
TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 5314 del 5 settembre 2024
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXV)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, e-mail: centropacevt at gmail.com, sito: https://lists.peacelink.it/nonviolenza/
Sommario di questo numero:
1. Nell'arco forse di una settimana
2. Alcune pubblicazioni di e su Guenther Anders
3. Scriviamo al presidente statunitense Biden per chiedere la grazia per Leonard Peltier
4. Jean-Marie Muller: La risoluzione nonviolenta dei conflitti
5. Segnalazioni librarie
6. La "Carta" del Movimento Nonviolento
7. Per saperne di piu'
1. L'ORA. NELL'ARCO FORSE DI UNA SETTIMANA
Nell'arco forse di una settimana
cinque miei vecchi amici sono morti
gia' compagni di lotte in anni lontani
nessuno di loro si e' mai arreso alla violenza
fino alla fine tutti hanno continuato
ad impegnarsi per il bene comune
a soccorrere ogni sofferente
a contrastare il fascismo che torna
sono vecchio e sono vecchi i miei amici
per antonomasia i vecchi compagni sono vecchi
e tutti sanno che i vecchi infine muoiono
e' inevitabile che la vita finisca
e certo e' triste che non si sia riusciti
in cosi' tanti anni di lotte necessarie
ed in millenni ormai di umana civilta'
a realizzare quella societa' giusta e fraterna
che ad ogni essere umano rechi aiuto
che nessun essere umano opprima piu'
ma ancora piu' atroce e scandaloso
ci appare il fatto che vi siano ancora guerre
ancora stragi ancora orrori e orrori
torture schiavitu' violenze inenarrabili
e donne e uomini muoiano in giovane eta'
uccisi da persone che avrebbero potuto
essere loro amici compagni fratelli sposi
abolire la guerra e' necessario
abolire gli eserciti e le armi
cessare di uccidere
salvare le vite
la nonviolenza e' la politica necessaria
la nonviolenza e' l'orizzonte e la risorsa
che qui ed ora soltanto puo' salvare
l'umanita' sull'orlo dell'abisso
l'umanita' che geme e chiede aiuto
aprire gli occhi medicare i cuori
serbare memoria del bene e fare il bene
condividere il pane l'acqua il fuoco
prendersi cura di questa sola terra
che vive e di cui tutte e tutti siamo
parte e custodi e lampada e semente
anche se tutto un giorno finira'
a tutte e tutti sia la breve vita degna
non prevalga la barbarie assassina
non prevalgano le tenebre e la morte
non prevalga la violenza l'odio il niente
2. REPETITA IUVANT. ALCUNE PUBBLICAZIONI DI E SU GUENTHER ANDERS
- Guenther Anders, Amare, ieri. Appunti sulla storia della sensibilita', Bollati Boringhieri, Torino 2004, pp. 172.
- Guenther Anders, Brevi scritti sulla fine dell'uomo, Asterios, Trieste 2016, pp. 110.
- Guenther Anders, Discesa all'Ade, Bollati Boringhieri, Torino 2008, pp. 176.
- Guenther Anders, Discorso sulle tre guerre mondiali, Linea d'ombra, Milano 1990, pp. 112.
- Guenther Anders, Dopo Holocaust, 1979, Bollati Boringhieri, Torino 2014, pp. 112.
- Guenther Anders, Essere o non essere. Dario di Hiroshima e Nagasaki, Einaudi, Torino 1961, pp. XVIII + 216.
- Guenther Anders, Kafka. Pro e contro, Corbo, Ferrara 1989, pp. XVIII + 138.
- Guenther Anders, Il mondo dopo l'uomo. Tecnica e violenza, Mimesis, Milano-Udine 2008, pp. 102. NUova edzione in diversa traduzione di Stato di necessita' e legittima difesa.
- Guenther Anders, La battaglia delle ciliegie. La mia storia d'amore con Hannah Arendt, Donzelli, Roma 2012, pp. LXXVI + 84.
- Guenther Anders, La catacomba molussica, Lupetti, Milano 2008, pp. 320.
- Guenther Anders, L'emigrante, Donzelli, Roma 2022, pp. XIV + 90.
- Guenther Anders, L'odio e' antiquato, Bollati Boringhieri, Torino 2006, pp. 88.
- Guenther Anders, Lo sguardo dalla torre, Mimesis, Milano-Udine 2012, pp. 194.
- Guenther Anders, L'uomo e' antiquato. I. Considerazioni sull'anima nell'era della seconda rivoluzione industriale, Il Saggiatore, Milano 1963, pp. 336.
- Guenther Anders, L'uomo e' antiquato. II. Sulla distruzione della vita nell'epoca della terza rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino 1992, pp. VI + 430.
- Guenther Anders, Noi figli di Eichmann, La Giuntina, Firenze 1995, pp. 112.
- Guenther Anders, Opinioni di un eretico, Theoria, Roma-Napoli 1991, pp. 110.
- Guenther Anders, Patologia della liberta', Palomar, Bari 1993, pp. 132.
- Guenther Anders, Stato di necessita' e legittima difesa. Violenza si' o no: una critica del pacifismo, Edizioni cultura della pace, San Domenico di Fiesole (Fi) 1997, pp. 80.
- Guenther Anders, Tesi sull'eta' atomica, Edizioni del Centro di ricerca per la pace, Viterbo 1991, pp. 16.
- Guenther Anders, Uomo senza mondo. Scritti sull'arte e la letteratura, Spazio Libri Editori, Ferrara 1991, pp. II + 238.
- Guenther Anders e Claude Eatherly, Il pilota di Hiroshima. Ovvero: la coscienza al bando, Einaudi, Torino 1962, Linea d'ombra, Milano 1992, pp. 224.
- Hannah Arendt, Guenther Stern-Anders, Le Elegie duinesi di R. M. Rilke, Asterios, Trieste 2014, 2019, pp. 80.
- Hannah Arendt - Guenther Anders, Scrivimi qualcosa di te. Lettere e documenti, Carocci, Roma 2017, pp. XVI + 194.
*
- Alessio Cernicchiaro, Guenther Anders. La Cassandra della filosofia. Dall'uomo senza mondo al mondo senza uomo, Petite Plaisance, Pistoia 2014, pp. 400.
- Devis Colombo, Patologie dell'esperienza. La filosofia di Guenther Anders fra contingenza e tecnica, Mimesis, Milano-Udine 2019, pp. 184.
- Micaela Latini e Aldo Meccariello (a cura di), L'uomo e la (sua) fine. Saggi su Guenther Anders, Asterios, Trieste 2014, 2020, pp. 240.
- Micaela Latini e Vallori Rasini (a cura di), L'uomo e' antiquato? Guenther Anders e la scena attuale, volume monografico di "aut aut", n. 397, marzo 2023, Il Saggiatore, Milano 2023, pp. 208.
- Franco Lolli, Guenther Anders, Orthotes, Napoli-Salerno 2014, pp. 94.
- Pier Paolo Portinaro, Il principio disperazione. Tre studi su Guenther Anders, Bollati Boringhieri, Torino 2003, pp. 180.
3. REPETITA IUVANT. SCRIVIAMO AL PRESIDENTE STATUNITENSE BIDEN PER CHIEDERE LA GRAZIA PER LEONARD PELTIER
Scriviamo al presidente statunitense Biden per chiedere la grazia per Leonard Peltier.
E' consuetudine dei presidenti statunitensi giunti a fine mandato di concedere la grazia ad alcuni detenuti.
Leonard Peltier e' un illustre attivista nativo americano, difensore dei diritti umani di tutti gli esseri umani e della Madre Terra.
Leonard Peltier, che a settembre compira' 80 anni, da 48 anni e' detenuto per un crimine che non ha commesso.
Leonard Peltier e' gravemente malato, e le sue malattie non possono essere curate adeguatamente in carcere.
Affinche' non muoia in carcere un uomo innocente, affinche' Leonard Peltier possa tornare libero e trascorrere con i suoi familiari questo poco tempo che gli resta da vivere, la cosa piu' importante ed urgente da fare adesso e' scrivere a Biden per chiedere che conceda la grazia a Leonard Peltier.
*
Per scrivere a Biden la procedura e' la seguente.
Nel web aprire la pagina della Casa Bianca attraverso cui inviare lettere: https://www.whitehouse.gov/contact/
Compilare quindi gli item successivi:
- alla voce MESSAGE TYPE: scegliere Contact the President
- alla voce PREFIX: scegliere il titolo corrispondente alla propria identita'
- alla voce FIRST NAME: scrivere il proprio nome
- alla voce SECOND NAME: si puo' omettere la compilazione
- alla voce LAST NAME: scrivere il proprio cognome
- alla voce SUFFIX, PRONOUNS: si puo' omettere la compilazione
- alla voce E-MAIL: scrivere il proprio indirizzo e-mail
- alla voce PHONE: scrivere il proprio numero di telefono seguendo lo schema 39xxxxxxxxxx
- alla voce COUNTRY/STATE/REGION: scegliere Italy
- alla voce STREET: scrivere il proprio indirizzo nella sequenza numero civico, via/piazza
- alla voce CITY: scrivere il nome della propria citta' e il relativo codice di avviamento postale
- alla voce WHAT WOULD YOU LIKE TO SAY? [Cosa vorresti dire?]: scrivere un breve testo (di seguito una traccia utilizzabile):
Egregio Presidente degli Stati Uniti d'America,
le scriviamo per chiederle di concedere la grazia al signor Leonard Peltier.
Leonard Peltier ha quasi 80 anni ed e' affetto da plurime gravi patologie che non possono essere adeguatamente curate in carcere: gli resta poco da vivere.
Leonard Peltier ha subito gia' 48 anni di carcere per un delitto che non ha commesso: la sua liberazione e' stata chiesta da Nelson Mandela e da madre Teresa di Calcutta, dal Dalai Lama e da papa Francesco, da Amnesty International, dal Parlamento Europeo, dall'Onu, da milioni di esseri umani.
Egregio Presidente degli Stati Uniti d'America,
restituisca la liberta' a Leonard Peltier; non lasci che muoia in carcere un uomo innocente.
Distinti saluti.
*
Sollecitiamo chi legge questo comunicato ad aderire all'iniziativa e a diffondere l'informazione.
Free Leonard Peltier.
Mitakuye Oyasin.
4. TESTI. JEAN-MARIE MULLER: LA RISOLUZIONE NONVIOLENTA DEI CONFLITTI
[Da Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace, Plus - Pisa University Press, Pisa 2004 (traduzione italiana di Enrico Peyretti dell'edizione originale Le principe de non-violence. Parcours philosophique, Desclee de Brouwer, Paris 1995), riproponiamo il capitolo nono: "La risoluzione nonviolenta dei conflitti" (pp. 183-197). Ringraziamo di cuore Enrico Peyretti per averci messo a disposizione la sua traduzione e la casa editrice Plus - Pisa University Press per il suo consenso]
Arrestare la rivalita' mimetica
A causa della semplificazione che introduce nella realta', la violenza viola la complessita' dei legami esistenti tra le cose e gli uomini. Una situazione conflittuale e' sempre un concatenamento, un intreccio molto complesso di numerose cause. Per risolvere un conflitto si deve agire contemporaneamente su tutte le cause che lo hanno generato. La violenza e' incapace di condurre queste differenti azioni. A causa del suo meccanismo semplificatore, essa non vede che una sola causa, e non agisce che in una sola direzione.
Si racconta che Alessandro Magno, re di Macedonia, all'inizio della sua campagna contro i Persi, fece sosta a Gordio, la capitale della Frigia. Li', egli apprese che un oracolo aveva promesso l'impero dell'Asia a chi avesse sciolto il nodo molto complicato che attaccava il giogo al timone del carro del re di Frigia. Ma, non riuscendo a sciogliere quel nodo, Alessandro lo taglio' con un colpo di spada. Questo gesto di Alessandro simboleggia perfettamente l'azione della violenza: essa taglia il nodo quando invece si tratta di scioglierlo. Cosi' facendo, essa distrugge in modo irreparabile la corda che costituiva quel nodo e la rende definitivamente inutilizzabile. Parlando di risoluzione di un conflitto, si parla proprio del suo scioglimento. La violenza, come tale, e' incapace di procurare lo scioglimento di un conflitto. Solo l'azione nonviolenta puo' sciogliere il nodo gordiano di un conflitto e permetterne quindi la risoluzione. Tagliare il nodo invece di prendere il tempo necessario per scioglierlo, e' dare prova di impazienza. La violenza e' sempre una impazienza. E' una precipitazione, un eccesso di velocita' dell'azione. Essa fa violenza al tempo necessario per la crescita e la maturazione di ogni cosa. Non e' che il tempo agisca di per se', ma esso concede all'azione la durata di cui ha bisogno per diventare efficace. Dunque, la virtu' della pazienza e' nel cuore dell'esigenza di nonviolenza. La pazienza non e' rassegnazione, ma, al contrario, e' determinazione: prende tutto il tempo che occorre per raggiungere i suoi fini. La pazienza ha la forza della perseveranza.
Riprendiamo qui l'ipotesi di Rene' Girard, secondo la quale l'origine del conflitto tra due avversari si trova nella rivalita' mimetica che li oppone per l'appropriazione di uno stesso oggetto. La strategia dell'azione nonviolenta intende rompere col mimetismo per il quale ognuno dei due rivali imita la violenza dell'altro rendendo colpo su colpo, frattura per frattura, occhio per occhio, dente per dente. Il principio stesso dell'azione nonviolenta e' il rifiuto di lasciarsi trascinare in questa spirale di violenze senza fine. Gesu' di Nazareth ricusa la vecchia legge del taglione fondata sull'imitazione della violenza dell'avversario e insegna a non resistere alla violenza con la violenza. "Al contrario – egli afferma – se qualcuno ti da' uno schiaffo sulla guancia destra, presentagli l'altra" (1). Cio' che Gesu' insegna qui, e' spezzare l'ingranaggio senza fine del mimetismo, rifiutando di imitare la violenza di chi ha preso l'iniziativa dell'aggressione. Presentare l'altra guancia dopo aver ricevuto uno schiaffo, non e' sottomettersi all'avversario, ma fargli fronte, non e' rassegnarsi a subire la logica della violenza, al contrario e' resistere con tutte le proprie forze a questa logica.
Decidere di non imitare la violenza del nostro avversario e' decidere di guardarsi dall'essere contaminati dalla sua crudelta'. "L'esistenza di un nemico – scrivono Edgar Morin e Anne Brigitte Kern – lega insieme la nostra e la sua barbarie. Il nemico si crea per un accecamento a volte unilaterale, ma che diventa reciproco quando noi subiamo una inimicizia che ci rende ostili in risposta. (...) Ci occorre fermare la macchina infernale permanente che fabbrica incessantemente e dappertutto la crudelta' con la crudelta'" (2).
Per rompere questa logica, bisogna costantemente centrare di nuovo il conflitto sull'oggetto che ne e' la causa e non lasciarlo degenerare in una pura rivalita' tra persone. Gesu' opta qui per una soluzione radicale e afferma che e' meglio rinunciare all'oggetto piuttosto che entrare in guerra con colui che lo brama. Quindi consiglia ai suoi amici di dare anche il mantello a chi vuol prendersi la loro tunica (3). Egli vuole sottolineare cosi' che la conservazione di un oggetto non potrebbe giustificare la morte di un uomo. Non sarebbe, infatti, del tutto irragionevole rischiare non soltanto di uccidere, ma anche di morire, per difendere un oggetto? In definitiva, Gesu' non consiglia l'eroismo ma la semplice prudenza. Infatti, non e' prudente rischiare la propria vita per difendere la propria borsa.
*
Proprieta' e violenza
Conviene ora riflettere sul legame che esiste tra la proprieta' e la violenza. Non e' forse vero che il piu' delle volte e' per difendere l'oggetto della sua proprieta' che l'uomo ricorre alla violenza? "La proprieta' – scrive Tolstoj – implica non solo che io non abbandonero' il mio bene a chi vorra' prenderlo, ma che lo difendero' contro di lui. E non si puo' difendere contro un altro cio' che si crede proprio se non con la violenza, cioe', quando e' il caso, con la lotta e, se e' necessario, l'uccisione. (...) Senza violenza e senza uccidere la proprietà non potrebbe mantenersi. (...) ammettere la proprieta', e' ammettere la violenza e l'omicidio" (4). Tuttavia, la proprieta' non e' forse un diritto di ogni individuo affinche', molto semplicemente, lui e i suoi possano vivere? Non e' forse una delle condizioni della liberta'? Non e', in fondo, un diritto dell'uomo? In effetti, cio' sembra incontestabile. Del resto, quando Tolstoj denuncia la proprieta', condanna molto precisamente la proprieta' della terra russa, che si trova tutta intera nelle mani di pochi signori e di cui i contadini, che pero' la lavorano duramente, sono spossessati. Inoltre, non e' la proprieta' dei beni che Tolstoj condanna, ma l'accumulazione dei beni da parte di alcuni, che priva gli altri del necessario per vivere. "L'uomo – egli scrive – che vuole contribuire non al solo bene proprio, ma a quello degli altri (...) non deve possedere che nella precisa misura in cui gli altri non avranno da chiedergli una parte di cio' che possiede" (5). Lao Tzu allo stesso modo vede nell'accumulazione dei beni una causa di guerra. Cosi' scrive nel libro 9 del Tao-teh-ching: "Chi accumula nella sua casa l'oro e la giada non ne potra' difendere l'entrata". Allo stesso modo, fra "le cose che scompaiono come il suono d'una moneta" il Buddha nomina "il piacere che c'e' ad accumulare dei beni" (6). E nel numero dei "falsi amici", di cui l'uomo avvertito deve diffidare, egli pone "quelli che affermano che bisogna arricchirsi sempre piu'" (7).
Nel dialogo Fedone di Platone, Socrate afferma che per i veri filosofi la verita' deve essere l'unico oggetto dei loro desideri. E per avere il tempo e la liberta' necessari alla ricerca della verita', essi devono rinunciare agli oggetti che il corpo fa desiderare, ma che non sono altro che ingombri per l'intelligenza. E' precisamente dall'attaccamento a questi oggetti che nasce la violenza. "Guerra, dissidi, battaglie – dice Socrate – e' solo il corpo e i suoi desideri che ne sono la causa; infatti, non si fa la guerra se non per ammassare ricchezze" (8).
Dire che l'accumulazione delle ricchezze genera la violenza, e' stabilire un legame tra nonviolenza e poverta'? No, se poverta' e' sinonimo di indigenza, ma e' stabilire un legame tra nonviolenza e giustizia. La giustizia, infatti, esige che ciascuno possa possedere gli oggetti e i beni che gli sono necessari per vivere. La giustizia non esige che io mi privi di cio' di cui ho bisogno, ma esige nello stesso tempo che gli altri non siano privati di cio' di cui hanno bisogno e, di questo, io sono responsabile. In questo senso, la giustizia non esige la poverta', ma la condivisione. Non c'e' giustizia possibile senza una condivisione equa degli oggetti e dei beni.
Resta vero che l'uomo e' nel suo diritto nell'acquistare e possedere gli oggetti che gli sono di necessita' vitale; ne risulta come corollario che e' nel suo diritto anche difenderli contro chi volesse spossessarnelo. La risoluzione del conflitto deve allora stabilire delle relazioni di giustizia tra i due rivali, che garantiscano i diritti rispettivi di ciascuno sull'oggetto e, per arrivare a cio', bisogna sempre tornare all'oggetto del conflitto per rendere possibile una negoziazione centrata su di esso.
La rivalita' delle persone non puo' che avvelenare il conflitto e condurlo nel vicolo cieco della violenza. Inoltre, la violenza rischia fortemente di distruggere l'oggetto stesso che e' motivo della disputa. La violenza e' spesso la politica del peggio, cioe' quella della terra bruciata. Non e' raro che ciascuno dei due rivali preferisca vedere l'oggetto distrutto piuttosto che vederlo diventare proprieta' dell'altro.
E' dunque meglio negoziare a proposito dell'oggetto esaminando chi possiede diritti su di esso e quali sono questi diritti. Puo' essere che l'uno e l'altro dei due avversari facciano valere legittimamente dei diritti sull'oggetto. Chissa' che non sia possibile conciliare questi diritti. Chissa' che l'oggetto non possa essere diviso equamente, o che non esistano altri oggetti suscettibili di soddisfare le rivendicazioni dell'uno o dell'altro dei protagonisti. In tutte queste ipotesi, e' molto probabile che non si possa arrivare ad un accordo se non nella misura in cui ogni parte accetti di fare alcune concessioni, dal momento che queste salvaguardano l'essenziale dei loro diritti. La lotta nonviolenta non ha altro scopo che creare le condizioni per una negoziazione riguardo all'oggetto che permetta l'effettivo rispetto dei diritti dell'uno come dell'altro dei due rivali. Ma per giungere ad un accordo, ogni rivendicazione sull'oggetto che sia ingiustificata dovra' essere abbandonata. E, per questo, bisognera' probabilmente esercitare una reale costrizione su quello che la fa valere indebitamente. La lotta nonviolenta deve essere capace di esercitare questa costrizione.
*
La mediazione
La mediazione e' l'intervento di un terzo, di una persona terza, che si interpone nel rapporto a due dei protagonisti del conflitto, che si mette in mezzo ai due av-versari (dal latino adversus: uno che si volge contro, che si oppone), cioe' alle due persone, le due comunita' o i due popoli che si fronteggiano e si rivolgono uno contro l'altro. La mediazione mira a far passare i due protagonisti dalla av-versione alla con-versazione (dal latino conversari: volgersi verso qualcuno), cioe' mira a condurli al rivolgersi uno verso l'altro per parlarsi, capirsi e, se possibile, trovare un compromesso che apra la via alla riconciliazione. Il mediatore vuole sforzarsi di essere un "terzo pacificatore". Con la sua interposizione, egli tenta di rompere la relazione "binaria", quella dei due avversari che si affrontano sordi e ciechi, per stabilire una relazione "ternaria", nella quale potranno comunicare tramite un intermediario. Nella relazione binaria degli avversari, due discorsi, due ragionamenti, due logiche si affrontano senza che alcuna comunicazione possa permettere un riconoscimento e una comprensione reciproche. Si tratta di passare da una logica di competizione binaria a una dinamica di cooperazione ternaria.
Il "terzo" mediatore si sforza di creare uno "spazio intermediario" (9) che introduca una distanza tra gli avversari in modo che ognuno dei due possa fare un passo indietro rispetto a se' stesso, rispetto all'altro, rispetto al conflitto che li rende lividi. La creazione di questo spazio separa gli avversari – come si separano due uomini che si battono – e questa separazione puo' permettere la comunicazione. Lo spazio intermediario e' uno spazio di "ri-creazione" nel quale i due avversari potranno riposarsi dal loro conflitto e ricreare le loro relazioni in un modo di procedere calmo e costruttivo. La mediazione vuole dunque creare nella societa' un luogo in cui gli avversari possano imparare o reimparare a comunicare, per poter arrivare a un patto che permetta loro di vivere insieme, se non in una vera pace, almeno in una coesistenza pacifica.
Una mediazione puo' essere avviata solo se l'uno e l'altro dei due avversari accettano di coinvolgersi volontariamente in questo processo di conciliazione. Certamente, la mediazione puo' essere loro suggerita, consigliata, raccomandata, ma non puo' essere imposta. Scegliere la mediazione significa, per ciascuno dei due avversari, capire che lo sviluppo della loro ostilita' non puo' che essere dannoso per loro, e che essi hanno ogni interesse a trovare, con un accordo amichevole, un esito positivo al conflitto che li oppone. Significa anche rendersi conto che l'intervento giudiziario, che imporrebbe loro una decisione d'autorita', invece di appianare il loro conflitto non farebbe che aggravarlo. Il piu' delle volte le decisioni del giudice tagliano il nodo di un conflitto stabilendo un vincitore e un vinto – uno vince la causa, l'altro la perde – e le due parti escono dal tribunale piu' avversarie che mai. La mediazione non si preoccupa tanto di giudicare un fatto passato – cio' che fa l'istituzione giudiziaria – quanto di basarsi su di esso per superarlo e permettere agli avversari di ieri di inventare un avvenire libero dal peso del loro passato.
Il mediatore non ha la funzione di pronunciare un giudizio ne' di emettere una condanna. Non e' ne' un giudice che da' ragione a uno contro l'altro, ne' un arbitro che sanziona la colpa di uno contro l'altro, ma un intermediario che si sforza di ristabilire la comunicazione tra l'uno e l'altro per giungere a una conciliazione dell'uno con l'altro. Il mediatore non ha alcun potere di costrizione che gli permetta di imporre una soluzione ai protagonisti di un conflitto. Il postulato piu' importante su cui si fonda la mediazione, e' che la risoluzione di un conflitto deve essere soprattutto l'opera dei protagonisti stessi. La mediazione mira a permettere ai due avversari di appropriarsi del "loro" conflitto allo scopo di potere cooperare per gestirlo, padroneggiarlo e risolverlo insieme. Il mediatore e' un "facilitatore": facilita la comunicazione tra i due avversari affinche' possano esprimersi, ascoltarsi, comprendersi e arrivare a un accordo.
Il mediatore - sottolinea François Bazier – deve essere "parziale con uno, poi parziale con l'altro, non imparziale" (10). Questa osservazione ci porta a rifiutare la nozione di "neutralita'" con la quale si vorrebbe spesso caratterizzare la posizione del mediatore. Questi, in realta', non e' "neutrale". La parola neutrale, secondo la sua etimologia latina (ne uter), significa "ne' l'uno ne' l'altro, nessuno dei due". Cosi', in caso di conflitto internazionale, un paese neutrale e' quello che non prende partito per nessuno dei due avversari, che non accorda il suo sostegno e non offre il suo aiuto a nessuno dei due e resta al di fuori del conflitto. Ora, precisamente, il mediatore non e' uno che non prende partito per "nessuno dei due" avversari, ma quello che prende partito per "tutti e due". Egli accorda il suo sostegno e offre il suo aiuto alle due parti presenti. Si impegna a fianco dell'uno poi a fianco dell'altro: si impegna due volte, si coinvolge due volte, prende partito due volte. Ma il suo doppio partito preso non e' mai incondizionato, ma e' ogni volta un partito preso di discernimento e di equita'. In questo senso, il mediatore non e' neutrale, e' equanime: si sforza di dare a ciascuno secondo cio' che gli e' dovuto. Cosi' potra' guadagnare la fiducia dei due avversari e favorire il dialogo tra loro.
La mediazione puo' intervenire tanto al livello delle relazioni comunitarie che sociali o politiche. La "mediazione comunitaria" riguarda persone che si trovino impegnate in un conflitto del quotidiano, come un litigio di vicinato o una lite familiare. La mediazione comincia generalmente con degli incontri preliminari separati con ciascuna delle due parti. Questi incontri permettono alle persone implicate nel conflitto di esprimersi in un clima di fiducia. Il mediatore non conduce un interrogatorio sospettoso, ma rivolge domande rispettose. Il suo intento e' capire l'interlocutore, ma anche e soprattutto permettergli di meglio capirsi, aiutarlo a ri-flettere su se' stesso, sul suo atteggiamento nel conflitto. Il mediatore pratica in certo modo l'arte della maieutica (dal greco maieutike', che significa l'arte di assistere qualcuno nel parto), cioe' egli aiuta i suoi interlocutori a "partorire" la loro propria verita'. La qualita' dell'ascolto del mediatore si rivela qui determinante per la riuscita della sua opera. Chi si sente ascoltato si sente gia' compreso. Allora puo' confidarsi e non soltanto raccontare i fatti, almeno la sua versione dei fatti, ma anche, ed e' la cosa piu' importante, esprimere il suo "vissuto". Per sciogliere il nodo di un conflitto, non basta stabilire la verita' oggettiva dei fatti, bisogna soprattutto imparare la verita' soggettiva delle persone con le loro emozioni, i loro desideri, le loro frustrazioni e le loro sofferenze. Allora ognuno puo' identificare i sentimenti che lo fanno agire. L'ascolto attivo del mediatore ha gia', di per se' stesso, un effetto terapeutico che comincia a guarire il suo interlocutore dalle sue angosce, le sue paure, le sue collere e le sua violenze latenti. Allora egli puo' disarmare l'ostilita' che nutre verso il suo avversario.
Questi incontri preliminari hanno la funzione di preparare le due parti ad accettare di entrare nella dinamica della mediazione. Quando esse hanno compreso e accettato i principi e le regole della mediazione, il mediatore o, generalmente, i mediatori possono allora invitarle a incontrarsi. L'entrata in mediazione implica che le due parti concludano un armistizio (dal latino arma sistere, fermare le armi): ognuno si impegna a rinunciare ad ogni atto ostile verso l'altro durante il periodo della mediazione. Inoltre, il ruolo essenziale del mediatore e' di facilitare l'espressione e di favorire l'ascolto di ognuno al fine di ristabilire la comunicazione, di dissipare i malintesi e di permettere la comprensione vicendevole. Il mediatore puo' ricorrere a delle tecniche di riformulazione allo scopo di dissipare ogni errore di interpretazione delle intenzioni di ciascuno dei due. Questo confronto in presenza del mediatore ha l'obiettivo di sostituire lo scontro di due monologhi, in cui ciascuno non sente che se' stesso, con un vero dialogo in cui ciascuno ascolta l'altro. Poco a poco, questo dialogo, se ciascuno accetta di proseguirlo (saranno certamente necessari piu' incontri), deve fare apparire la possibilita' di sciogliere il nodo del conflitto trovando un compromesso che, nell'essenziale, rispetta i diritti e salvaguarda gli interessi di ognuna delle due parti. Il mediatore – cosi' ne esprime l'opera Jean-François Six – riesce quando "permette a ciascuno dei due che erano molto lontani di avvicinarsi, di tendere verso il punto in cui potranno darsi la mano senza che nessuno dei due sia umiliato o abbia perduto la faccia" (11). La riuscita della mediazione deve concretizzarsi con un accordo scritto e firmato dalle due parti. Questo "trattato di pace" ha il valore di un patto che impegna la responsabilita' dei firmatari. Il mediatore potra' assicurarsi che l'accordo sia rispettato da ciascuno.
Certo, ogni mediazione puo' fallire per opera dell'uno o dell'altro dei protagonisti. Con ogni probabilita', in tal caso, il conflitto riprendera' il suo corso e forse tocchera' alla giustizia tagliarlo con le sue procedure.
La mediazione comunitaria si esercita essenzialmente in seno alla societa' civile per iniziativa di cittadini che hanno costituto un'associazione di diritto privato. Le reti associative devono restare uno dei luoghi privilegiati in cui si esercita la mediazione ed e' augurabile che il piu' gran numero di mediatori siano dei cittadini che intendano partecipare appieno alla vita della loro comunita'. Ma la mediazione non deve restare una "sperimentazione sociale" lasciata all'iniziativa privata. Deve invece essere considerata come uno dei primissimi modi di regolazione dei conflitti sociali, e come uno degli elementi essenziali che contribuiscono a costituire un legame sociale. In questa prospettiva, il mediatore deve essere riconosciuto come uno dei principali attori sociali che concorrono a stabilire la pace sociale. Riguardo alle esigenze e agli obiettivi della democrazia, il valore della mediazione e' veramente politico ed e' alto. E' per questo che conviene istituzionalizzare la mediazione nei diversi settori della societa' sforzandosi di coniugare nel modo migliore le iniziative dei cittadini con quelle dei poteri pubblici.
Affinche' la mediazione possa adempiere tutta la sua funzione sociale, e' importante che l'autorita' pubblica partecipi direttamente allo sviluppo della sua istituzionalizzazione. Poiche' la mediazione e' di interesse pubblico, tocca normalmente ai poteri pubblici partecipare al finanziamento delle associazioni che esercitano un'attivita' di mediazione. Ma occorre ugualmente che l'autorita' pubblica, sia politica che giudiziaria, possa dotarsi essa stessa di servizi di mediazione. Quando il mediatore e' nominato dal potere pubblico, la sua indipendenza e la sua autonomia devono essere pienamente riconosciute e garantite. Peraltro, data la natura stessa della mediazione, il mediatore non deve ricevere alcun potere di decisione o di costrizione. Il suo solo potere deve essere di raccomandazione, restando il potere di decisione nelle mani dell'autorita' che lo ha nominato. E poiche' e' sempre meglio prevenire che curare, e' compito del mediatore proporre all'autorita' pubblica le riforme amministrative, regolamentari, se non anche legislative, capaci di prevenire i conflitti.
Cosi' la pratica della mediazione nei diversi settori della societa' puo' diventare uno dei principali metodi di soluzione nonviolenta dei conflitti che nascono tra gli individui e tra i gruppi. Evitando il ricorso ai metodi repressivi dello Stato e permettendo a dei cittadini di coinvolgersi direttamente nella gestione dei conflitti che oppongono tra loro altri cittadini, la mediazione favorisce l'autoregolazione della violenza sociale.
I principi e le regole della mediazione possono ugualmente essere applicati entro conflitti propriamente politici, sia sul piano nazionale che internazionale. Conflitti, crisi, guerre potranno cosi' essere disinnescati con la mediazione esercitata da un paese terzo che proponga i suoi "buoni uffici". La mediazione puo' essere una delle piu' efficaci "armi" di una diplomazia di pace.
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Karl Popper e l'"educazione alla nonviolenza"
"La civilta' – scrive Karl Popper – consiste essenzialmente nel ridurre la violenza" (12). La liberta' delle persone – sottolinea – non e' garantita nella societa' che nella misura in cui tutte rinunciano alla violenza: "Lo Stato di diritto esige la nonviolenza, che ne e' il nocciolo fondamentale" (13). Se questo o quell'individuo ricorre alla violenza verso altri, e' allora necessario che il governo intervenga per ristabilire la sicurezza pubblica e la pace sociale. Ma, secondo Karl Popper, lo Stato di diritto deve essere fondato essenzialmente non sulla repressione da parte del governo, ma sul civismo degli individui, per il quale essi rinunciano spontaneamente alla violenza. Per questo, bisogna sviluppare tra i cittadini una cultura della nonviolenza e cominciare con l'educare i bambini alla nonviolenza. Piu' sara' trascurato "il dovere di educare alla nonviolenza" (14) - afferma Popper – piu' la cultura della violenza sara' preponderante nella societa', e piu' il governo dovra' ricorrere a misure di costrizione e repressione.
L'educazione "non consiste soltanto nell'insegnare dei fatti, ma soprattutto nel mostrare quanto e' importante l'eliminazione della violenza" (15). Attraverso la sua esperienza di educatore, Karl Popper si e' convinto che "i bambini non amano la violenza" (16), ma sostiene che "noi educhiamo i bambini alla violenza" (17). Secondo lui, lo strumento piu' potente di questa educazione alla violenza e' la televisione che tende a prendere un posto preponderante nell'ambiente dei bambini. Piazzati per delle ore davanti al piccolo schermo, i bambini contemplano la violenza giorno dopo giorno e questa violenza prende ai loro occhi valore di esempio. Cosi', "i bambini e i giovani corrono un reale pericolo: quello di abituarsi alla violenza" (18). E' dunque importante "evitare che scompaiano le resistenze naturali alla violenza presso la maggioranza delle persone" (19) prendendo per tempo le misure necessarie. Come abbiamo gia' sottolineato, Karl Popper concepisce la democrazia essenzialmente come un controllo del potere da parte dei cittadini. In questa prospettiva, egli afferma che e' assolutamente necessario, per la sopravvivenza stessa della democrazia, che il potere della televisione sia sottoposto a uno stretto controllo. Perche' "quando noi accettiamo che si riduca a nulla l'avversione generale che la violenza ispira, noi sabotiamo lo Stato di diritto e l'accordo generale per il quale la violenza deve essere evitata. E nello stesso momento sabotiamo la civilta'" (20).
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Per una educazione nonviolenta
"La Repubblica – scrive Blandine Barret-Kriegel – ha bisogno di uomini e donne che preferiscono la virtu'" (21). Ma se sono le donne e gli uomini virtuosi che fanno la Repubblica, chi insegnera' la virtu' ai figli della Repubblica? In una societa' democratica, e dunque "laica", nessuna istituzione della societa' politica ha la funzione di definire le esigenze filosofiche e morali che tuttavia devono essere a fondamento della Repubblica. La scuola e l'universita', in linea generale, non insegnano che delle "filosofie morte", come insegnano delle lingue morte. I professori di filosofia sono soprattutto degli storici della filosofia e il loro insegnamento e' essenzialmente libresco. L'insegnamento delle filosofie vive e' lasciato all'iniziativa di individui che non hanno altra autorita' che quella loro riconosciuta da altri individui. Del resto, non puo' essere diversamente in un campo in cui la regola assoluta deve essere il rispetto della liberta' di coscienza di ciascuno. Noi sappiamo per esperienza che gli Stati che vogliono imporre un "ordine morale" non sono democratici. Compete alla societa' civile, che si trova alle spalle della societa' politica, definire i "valori" che sono a fondamento di una cultura e di una civilta'. Le "autorita' morali" precedono le autorita' politiche nel dichiarare il diritto, ma non hanno altro potere che la loro capacita' di convincere. Nessun "valore", in effetti, potrebbe essere imposto con la costrizione, ma bisogna allora convenire che ne risulta una estrema difficolta' a fissare, in una societa' democratica, le regole etiche che devono orientare il comportamento di tutti i cittadini.
Per uccidere i germi delle ideologie che legittimano e onorano la violenza, bisogna sforzarsi di permeare tutta la societa' con una "cultura della nonviolenza", e la cultura comincia con l'educazione. Questa svolge un ruolo determinante nell'iniziazione del bambino a una cittadinanza responsabile. Purtroppo, non e' la cittadinanza politica l'orizzonte a cui mira il sistema educativo dominante messo in atto, ma la competitivita' economica. Nella concezione stessa di questo sistema, la conoscenza si trova non soltanto soppiantata, ma praticamente svuotata dal sapere tecnologico. L'obiettivo ricercato e' consentire ai giovani di arrivare sul mercato del lavoro con la qualificazione tecnica richiesta per avere le migliori possibilita' di trovare un impiego. Certo, e' una funzione essenziale dell'educazione permettere ai giovani di acquistare una qualificazione professionale grazie alla quale potranno trovare un lavoro, in mancanza della possibilita' di scegliere il mestiere che meglio corrisponde alle loro attitudini. Ma l'educazione non puo' ridurre il suo ruolo a questa funzione, sotto pena di tradire la sua missione. La scuola deve essere soprattutto una scuola di civismo.
Una vera educazione civica dei bambini deve cercare di favorire l'autonomia piuttosto che la sottomissione, lo spirito critico piu' che l'obbedienza passiva, la responsabilita' piu' che la disciplina, la cooperazione piu' che la competizione, la solidarieta' piu' che la rivalita'. Si tratta proprio, in definitiva, di educare i bambini alla nonviolenza, ma, per questo, la prima condizione e' che l'educazione stessa si ispiri ai principi, alle regole, ai metodi della nonviolenza: l'educazione alla nonviolenza comincia con la nonviolenza dell'educazione. Importa anzitutto che gli adulti rispettino l'universo del bambino e non vengano a invaderlo e occuparlo imponendo le loro leggi e le loro ideologie legnose. Certo, un'educazione nonviolenta non implica che si cancelli ogni autorita' dell'adulto. Per strutturare la sua personalita', il bambino ha bisogno di urtarsi con questa autorita', ma e' nella natura stessa dell'autorita' del buon pedagogo di esercitarsi mediante la nonviolenza. Riferendosi alle parole di Georges Gusdorf, in cui diceva della violenza che e' "una specie di colpo basso contrario all'onore della filosofia" (22), Eric Prairat considera la violenza "una specie di colpo basso contrario all'onore dell'educazione" (23).
Gli educatori devono imparare loro stessi a dare delle "lezioni reali" a partire dagli inevitabili conflitti che oppongono i bambini tra loro, al fine di far loro scoprire che questi momenti di opposizione agli altri devono integrarsi in un processo di sviluppo della loro personalita'. "Se si ammette – scrive Eric Prairat – che il conflitto non e' la violenza, ma che questa non e' che uno dei suoi esiti, uno degli epiloghi possibili, allora, tra i conflitti e la violenza, si disegna uno spazio privilegiato per l'educatore, non per mettere in atto una strategia di occultamento e dissimulazione, s'intende, ma per insegnare ai bambini, o meglio imparare con loro, a vivere e risolvere in modo positivo gli inevitabili scontri che permeano la vita sociale" (24).
Iniziare i bambini alla cittadinanza significa insegnare loro il buon uso della legge facendo loro comprendere che l'obbedienza richiesta ai cittadini non e' la sottomissione passiva e incondizionata all'ordine di un superiore gerarchico, ma l'adesione con riflessione e consenso a una regola di cui riconoscono essi stessi il buon fondamento. Dev'essere una dimensione essenziale della pedagogia far partecipare i bambini a stabilire delle regole comunitarie a cui dovranno loro stessi adeguarsi, facendo loro sperimentare che tali regole sono necessarie perche' possano vivere insieme nel rispetto di tutti e di ciascuno. "Fare dei bambini degli esseri autonomi significa dare loro accesso ai tre atti che regolano la vita collettiva: fissare le regole, farle applicare, rendere giustizia" (25).
La scuola sara' il luogo privilegiato dove si distruggono i pregiudizi discriminatori verso gli "altri", verso quelli che appartengono a un'altra razza, a un altro popolo, a un'altra religione. Trasmettere ai bambini degli stereotipi del nemico, e' gia' armare le loro intelligenze e le loro braccia, e' gia' insegnare loro la guerra. "Proprio come nel fenomeno del capro espiatorio – scrive Bernadette Bayada – gli stereotipi del nemico suscitano dei comportamenti ostili. Attraverso un circolo vizioso, essi creano il loro verificarsi e danno l'impressione fallace di verita' e di certezza" (26). Dunque, e' un'esigenza essenziale della pedagogia disarmare lo sguardo dei bambini verso gli "altri" e, in modo tutto particolare, verso quelli la cui identita' sociale e' segnata da una differenza. Si tratta di educare il loro sguardo affinche' escano da ogni ostilita' verso gli "altri-che-sono-differenti" e imparino la benevolenza verso di loro senza perdere pero' la facolta' di giudizio critico verso cio' che puo' esservi di criticabile nel loro comportamento. Tra un razzismo duro e un ecumenismo molle c'e' tutto lo spazio per ricercare un giudizio lucido ed equo, che renda giustizia agli "altri" senza, per questo, tradire le esigenze della verita'.
*
Note
1. Vangelo secondo Matteo, 5, 38-39. Questi appelli evangelici, che sembrano paradossi fuori dalla realta', sono bene illustrati nel loro realismo entro la concreta situazione sociale di Israele sotto occupazione romana nel libro di Walter Wink, Rigenerare i poteri. Discernimento e resistenza in un mondo di dominio, edizioni EMI, Bologna 2003 (n. d. tr.).
2. Edgar Morin e Anne Brigitte Kern, Terre-patrie, Paris, Le Seuil, 1993, pp. 200-201.
3. Vangelo secondo Matteo, 5, 40.
4. Leone Tolstoj, Rayons de l’aube, Paris, Stock, 1901, p.98. Il brano citato si trova in traduzione italiana nella Lettera ai Dukhobory emigrati in Canada, testo compreso in Lev Tolstoj, La legge della violenza e la legge dell'amore, Edizioni del Movimento Nonviolento, Verona 1998, p. 80.
5. Ibidem, p. 383.
6. Paroles du Bouddha, op. cit., p. 80.
7. Ibidem, p. 81.
8. Platone, Fedone, libro XI, 66c.
9. Sulla nozione di "spazio intermediario" cfr l'articolo di Etienne Duval nel dossier di Non-Violence Actualite': "La mediation", Montargis, 1993, pp. 32-34. (Non-Violence Actualite', 20 rue du Devidet, F-45200 Montargis).
10. François Bazier, La mediation, op. cit., p. 20.
11. Jean-François Six, Breche, n. 40-42, p. 118.
12. Karl Popper, John Condry, La television: un danger pour la democratie, Paris, Anatolia, 1994, p. 33; tr. it. dall'originale inglese, Cattiva maestra televisione, i libri di Reset, Donzelli editore, Roma, 1994, p. 22.
13. Karl Popper, La leçon de ce siecle, op. cit., p. 72.
14. Ibidem, p. 73.
15. Karl Popper, John Condry, La television: un danger pour la democratie, op. cit., p. 33; tr. it. cit., p. 22.
16. Karl Popper, La leçon de ce siecle, op. cit., p. 70.
17. Karl Popper, John Condry, La television: un danger pour la democratie, op. cit., p. 26-27; tr. it. cit., p. 18.
18. Karl Popper, La leçon de ce siecle, op. cit., p. 77.
19. Ibidem, p. 71.
20. Iibidem.
21. Liberation, 25 marzo 1992.
22. Georges Gusdorf, La vertu de force, Paris, PUF, 1960, p. 84.
23. Eric Prairat, "Pour une education non-violente", Dossier di Non-violence Actualite', Montargis, 1988, p. 45-46.
24. Ibidem, p. 46.
25. Anne-Catherine Bisot et François Lhopiteau, "La resolution non-violente des conflits", in L'education a' la paix, Paris, Centre national de documentation pedagogique, 1993, p. 213.
26. Bernadette Bayada, "Prejuges et stereotypes, sources de violence", in L'education a' la paix, op. cit., p. 139.
5. SEGNALAZIONI LIBRARIE
Riletture
- Wanda Tommasi, I filosofi e le donne, Tre Lune Edizioni, Mantova 2001, pp. 272.
6. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli.
7. PER SAPERNE DI PIU'
Indichiamo i siti del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org e www.azionenonviolenta.it ; per contatti: azionenonviolenta at sis.it
Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/
TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 5314 del 5 settembre 2024
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXV)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, e-mail: centropacevt at gmail.com , sito: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/
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Nuova informativa sulla privacy
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Numero 5314 del 5 settembre 2024
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Sommario di questo numero:
1. Nell'arco forse di una settimana
2. Alcune pubblicazioni di e su Guenther Anders
3. Scriviamo al presidente statunitense Biden per chiedere la grazia per Leonard Peltier
4. Jean-Marie Muller: La risoluzione nonviolenta dei conflitti
5. Segnalazioni librarie
6. La "Carta" del Movimento Nonviolento
7. Per saperne di piu'
1. L'ORA. NELL'ARCO FORSE DI UNA SETTIMANA
Nell'arco forse di una settimana
cinque miei vecchi amici sono morti
gia' compagni di lotte in anni lontani
nessuno di loro si e' mai arreso alla violenza
fino alla fine tutti hanno continuato
ad impegnarsi per il bene comune
a soccorrere ogni sofferente
a contrastare il fascismo che torna
sono vecchio e sono vecchi i miei amici
per antonomasia i vecchi compagni sono vecchi
e tutti sanno che i vecchi infine muoiono
e' inevitabile che la vita finisca
e certo e' triste che non si sia riusciti
in cosi' tanti anni di lotte necessarie
ed in millenni ormai di umana civilta'
a realizzare quella societa' giusta e fraterna
che ad ogni essere umano rechi aiuto
che nessun essere umano opprima piu'
ma ancora piu' atroce e scandaloso
ci appare il fatto che vi siano ancora guerre
ancora stragi ancora orrori e orrori
torture schiavitu' violenze inenarrabili
e donne e uomini muoiano in giovane eta'
uccisi da persone che avrebbero potuto
essere loro amici compagni fratelli sposi
abolire la guerra e' necessario
abolire gli eserciti e le armi
cessare di uccidere
salvare le vite
la nonviolenza e' la politica necessaria
la nonviolenza e' l'orizzonte e la risorsa
che qui ed ora soltanto puo' salvare
l'umanita' sull'orlo dell'abisso
l'umanita' che geme e chiede aiuto
aprire gli occhi medicare i cuori
serbare memoria del bene e fare il bene
condividere il pane l'acqua il fuoco
prendersi cura di questa sola terra
che vive e di cui tutte e tutti siamo
parte e custodi e lampada e semente
anche se tutto un giorno finira'
a tutte e tutti sia la breve vita degna
non prevalga la barbarie assassina
non prevalgano le tenebre e la morte
non prevalga la violenza l'odio il niente
2. REPETITA IUVANT. ALCUNE PUBBLICAZIONI DI E SU GUENTHER ANDERS
- Guenther Anders, Amare, ieri. Appunti sulla storia della sensibilita', Bollati Boringhieri, Torino 2004, pp. 172.
- Guenther Anders, Brevi scritti sulla fine dell'uomo, Asterios, Trieste 2016, pp. 110.
- Guenther Anders, Discesa all'Ade, Bollati Boringhieri, Torino 2008, pp. 176.
- Guenther Anders, Discorso sulle tre guerre mondiali, Linea d'ombra, Milano 1990, pp. 112.
- Guenther Anders, Dopo Holocaust, 1979, Bollati Boringhieri, Torino 2014, pp. 112.
- Guenther Anders, Essere o non essere. Dario di Hiroshima e Nagasaki, Einaudi, Torino 1961, pp. XVIII + 216.
- Guenther Anders, Kafka. Pro e contro, Corbo, Ferrara 1989, pp. XVIII + 138.
- Guenther Anders, Il mondo dopo l'uomo. Tecnica e violenza, Mimesis, Milano-Udine 2008, pp. 102. NUova edzione in diversa traduzione di Stato di necessita' e legittima difesa.
- Guenther Anders, La battaglia delle ciliegie. La mia storia d'amore con Hannah Arendt, Donzelli, Roma 2012, pp. LXXVI + 84.
- Guenther Anders, La catacomba molussica, Lupetti, Milano 2008, pp. 320.
- Guenther Anders, L'emigrante, Donzelli, Roma 2022, pp. XIV + 90.
- Guenther Anders, L'odio e' antiquato, Bollati Boringhieri, Torino 2006, pp. 88.
- Guenther Anders, Lo sguardo dalla torre, Mimesis, Milano-Udine 2012, pp. 194.
- Guenther Anders, L'uomo e' antiquato. I. Considerazioni sull'anima nell'era della seconda rivoluzione industriale, Il Saggiatore, Milano 1963, pp. 336.
- Guenther Anders, L'uomo e' antiquato. II. Sulla distruzione della vita nell'epoca della terza rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino 1992, pp. VI + 430.
- Guenther Anders, Noi figli di Eichmann, La Giuntina, Firenze 1995, pp. 112.
- Guenther Anders, Opinioni di un eretico, Theoria, Roma-Napoli 1991, pp. 110.
- Guenther Anders, Patologia della liberta', Palomar, Bari 1993, pp. 132.
- Guenther Anders, Stato di necessita' e legittima difesa. Violenza si' o no: una critica del pacifismo, Edizioni cultura della pace, San Domenico di Fiesole (Fi) 1997, pp. 80.
- Guenther Anders, Tesi sull'eta' atomica, Edizioni del Centro di ricerca per la pace, Viterbo 1991, pp. 16.
- Guenther Anders, Uomo senza mondo. Scritti sull'arte e la letteratura, Spazio Libri Editori, Ferrara 1991, pp. II + 238.
- Guenther Anders e Claude Eatherly, Il pilota di Hiroshima. Ovvero: la coscienza al bando, Einaudi, Torino 1962, Linea d'ombra, Milano 1992, pp. 224.
- Hannah Arendt, Guenther Stern-Anders, Le Elegie duinesi di R. M. Rilke, Asterios, Trieste 2014, 2019, pp. 80.
- Hannah Arendt - Guenther Anders, Scrivimi qualcosa di te. Lettere e documenti, Carocci, Roma 2017, pp. XVI + 194.
*
- Alessio Cernicchiaro, Guenther Anders. La Cassandra della filosofia. Dall'uomo senza mondo al mondo senza uomo, Petite Plaisance, Pistoia 2014, pp. 400.
- Devis Colombo, Patologie dell'esperienza. La filosofia di Guenther Anders fra contingenza e tecnica, Mimesis, Milano-Udine 2019, pp. 184.
- Micaela Latini e Aldo Meccariello (a cura di), L'uomo e la (sua) fine. Saggi su Guenther Anders, Asterios, Trieste 2014, 2020, pp. 240.
- Micaela Latini e Vallori Rasini (a cura di), L'uomo e' antiquato? Guenther Anders e la scena attuale, volume monografico di "aut aut", n. 397, marzo 2023, Il Saggiatore, Milano 2023, pp. 208.
- Franco Lolli, Guenther Anders, Orthotes, Napoli-Salerno 2014, pp. 94.
- Pier Paolo Portinaro, Il principio disperazione. Tre studi su Guenther Anders, Bollati Boringhieri, Torino 2003, pp. 180.
3. REPETITA IUVANT. SCRIVIAMO AL PRESIDENTE STATUNITENSE BIDEN PER CHIEDERE LA GRAZIA PER LEONARD PELTIER
Scriviamo al presidente statunitense Biden per chiedere la grazia per Leonard Peltier.
E' consuetudine dei presidenti statunitensi giunti a fine mandato di concedere la grazia ad alcuni detenuti.
Leonard Peltier e' un illustre attivista nativo americano, difensore dei diritti umani di tutti gli esseri umani e della Madre Terra.
Leonard Peltier, che a settembre compira' 80 anni, da 48 anni e' detenuto per un crimine che non ha commesso.
Leonard Peltier e' gravemente malato, e le sue malattie non possono essere curate adeguatamente in carcere.
Affinche' non muoia in carcere un uomo innocente, affinche' Leonard Peltier possa tornare libero e trascorrere con i suoi familiari questo poco tempo che gli resta da vivere, la cosa piu' importante ed urgente da fare adesso e' scrivere a Biden per chiedere che conceda la grazia a Leonard Peltier.
*
Per scrivere a Biden la procedura e' la seguente.
Nel web aprire la pagina della Casa Bianca attraverso cui inviare lettere: https://www.whitehouse.gov/contact/
Compilare quindi gli item successivi:
- alla voce MESSAGE TYPE: scegliere Contact the President
- alla voce PREFIX: scegliere il titolo corrispondente alla propria identita'
- alla voce FIRST NAME: scrivere il proprio nome
- alla voce SECOND NAME: si puo' omettere la compilazione
- alla voce LAST NAME: scrivere il proprio cognome
- alla voce SUFFIX, PRONOUNS: si puo' omettere la compilazione
- alla voce E-MAIL: scrivere il proprio indirizzo e-mail
- alla voce PHONE: scrivere il proprio numero di telefono seguendo lo schema 39xxxxxxxxxx
- alla voce COUNTRY/STATE/REGION: scegliere Italy
- alla voce STREET: scrivere il proprio indirizzo nella sequenza numero civico, via/piazza
- alla voce CITY: scrivere il nome della propria citta' e il relativo codice di avviamento postale
- alla voce WHAT WOULD YOU LIKE TO SAY? [Cosa vorresti dire?]: scrivere un breve testo (di seguito una traccia utilizzabile):
Egregio Presidente degli Stati Uniti d'America,
le scriviamo per chiederle di concedere la grazia al signor Leonard Peltier.
Leonard Peltier ha quasi 80 anni ed e' affetto da plurime gravi patologie che non possono essere adeguatamente curate in carcere: gli resta poco da vivere.
Leonard Peltier ha subito gia' 48 anni di carcere per un delitto che non ha commesso: la sua liberazione e' stata chiesta da Nelson Mandela e da madre Teresa di Calcutta, dal Dalai Lama e da papa Francesco, da Amnesty International, dal Parlamento Europeo, dall'Onu, da milioni di esseri umani.
Egregio Presidente degli Stati Uniti d'America,
restituisca la liberta' a Leonard Peltier; non lasci che muoia in carcere un uomo innocente.
Distinti saluti.
*
Sollecitiamo chi legge questo comunicato ad aderire all'iniziativa e a diffondere l'informazione.
Free Leonard Peltier.
Mitakuye Oyasin.
4. TESTI. JEAN-MARIE MULLER: LA RISOLUZIONE NONVIOLENTA DEI CONFLITTI
[Da Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace, Plus - Pisa University Press, Pisa 2004 (traduzione italiana di Enrico Peyretti dell'edizione originale Le principe de non-violence. Parcours philosophique, Desclee de Brouwer, Paris 1995), riproponiamo il capitolo nono: "La risoluzione nonviolenta dei conflitti" (pp. 183-197). Ringraziamo di cuore Enrico Peyretti per averci messo a disposizione la sua traduzione e la casa editrice Plus - Pisa University Press per il suo consenso]
Arrestare la rivalita' mimetica
A causa della semplificazione che introduce nella realta', la violenza viola la complessita' dei legami esistenti tra le cose e gli uomini. Una situazione conflittuale e' sempre un concatenamento, un intreccio molto complesso di numerose cause. Per risolvere un conflitto si deve agire contemporaneamente su tutte le cause che lo hanno generato. La violenza e' incapace di condurre queste differenti azioni. A causa del suo meccanismo semplificatore, essa non vede che una sola causa, e non agisce che in una sola direzione.
Si racconta che Alessandro Magno, re di Macedonia, all'inizio della sua campagna contro i Persi, fece sosta a Gordio, la capitale della Frigia. Li', egli apprese che un oracolo aveva promesso l'impero dell'Asia a chi avesse sciolto il nodo molto complicato che attaccava il giogo al timone del carro del re di Frigia. Ma, non riuscendo a sciogliere quel nodo, Alessandro lo taglio' con un colpo di spada. Questo gesto di Alessandro simboleggia perfettamente l'azione della violenza: essa taglia il nodo quando invece si tratta di scioglierlo. Cosi' facendo, essa distrugge in modo irreparabile la corda che costituiva quel nodo e la rende definitivamente inutilizzabile. Parlando di risoluzione di un conflitto, si parla proprio del suo scioglimento. La violenza, come tale, e' incapace di procurare lo scioglimento di un conflitto. Solo l'azione nonviolenta puo' sciogliere il nodo gordiano di un conflitto e permetterne quindi la risoluzione. Tagliare il nodo invece di prendere il tempo necessario per scioglierlo, e' dare prova di impazienza. La violenza e' sempre una impazienza. E' una precipitazione, un eccesso di velocita' dell'azione. Essa fa violenza al tempo necessario per la crescita e la maturazione di ogni cosa. Non e' che il tempo agisca di per se', ma esso concede all'azione la durata di cui ha bisogno per diventare efficace. Dunque, la virtu' della pazienza e' nel cuore dell'esigenza di nonviolenza. La pazienza non e' rassegnazione, ma, al contrario, e' determinazione: prende tutto il tempo che occorre per raggiungere i suoi fini. La pazienza ha la forza della perseveranza.
Riprendiamo qui l'ipotesi di Rene' Girard, secondo la quale l'origine del conflitto tra due avversari si trova nella rivalita' mimetica che li oppone per l'appropriazione di uno stesso oggetto. La strategia dell'azione nonviolenta intende rompere col mimetismo per il quale ognuno dei due rivali imita la violenza dell'altro rendendo colpo su colpo, frattura per frattura, occhio per occhio, dente per dente. Il principio stesso dell'azione nonviolenta e' il rifiuto di lasciarsi trascinare in questa spirale di violenze senza fine. Gesu' di Nazareth ricusa la vecchia legge del taglione fondata sull'imitazione della violenza dell'avversario e insegna a non resistere alla violenza con la violenza. "Al contrario – egli afferma – se qualcuno ti da' uno schiaffo sulla guancia destra, presentagli l'altra" (1). Cio' che Gesu' insegna qui, e' spezzare l'ingranaggio senza fine del mimetismo, rifiutando di imitare la violenza di chi ha preso l'iniziativa dell'aggressione. Presentare l'altra guancia dopo aver ricevuto uno schiaffo, non e' sottomettersi all'avversario, ma fargli fronte, non e' rassegnarsi a subire la logica della violenza, al contrario e' resistere con tutte le proprie forze a questa logica.
Decidere di non imitare la violenza del nostro avversario e' decidere di guardarsi dall'essere contaminati dalla sua crudelta'. "L'esistenza di un nemico – scrivono Edgar Morin e Anne Brigitte Kern – lega insieme la nostra e la sua barbarie. Il nemico si crea per un accecamento a volte unilaterale, ma che diventa reciproco quando noi subiamo una inimicizia che ci rende ostili in risposta. (...) Ci occorre fermare la macchina infernale permanente che fabbrica incessantemente e dappertutto la crudelta' con la crudelta'" (2).
Per rompere questa logica, bisogna costantemente centrare di nuovo il conflitto sull'oggetto che ne e' la causa e non lasciarlo degenerare in una pura rivalita' tra persone. Gesu' opta qui per una soluzione radicale e afferma che e' meglio rinunciare all'oggetto piuttosto che entrare in guerra con colui che lo brama. Quindi consiglia ai suoi amici di dare anche il mantello a chi vuol prendersi la loro tunica (3). Egli vuole sottolineare cosi' che la conservazione di un oggetto non potrebbe giustificare la morte di un uomo. Non sarebbe, infatti, del tutto irragionevole rischiare non soltanto di uccidere, ma anche di morire, per difendere un oggetto? In definitiva, Gesu' non consiglia l'eroismo ma la semplice prudenza. Infatti, non e' prudente rischiare la propria vita per difendere la propria borsa.
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Proprieta' e violenza
Conviene ora riflettere sul legame che esiste tra la proprieta' e la violenza. Non e' forse vero che il piu' delle volte e' per difendere l'oggetto della sua proprieta' che l'uomo ricorre alla violenza? "La proprieta' – scrive Tolstoj – implica non solo che io non abbandonero' il mio bene a chi vorra' prenderlo, ma che lo difendero' contro di lui. E non si puo' difendere contro un altro cio' che si crede proprio se non con la violenza, cioe', quando e' il caso, con la lotta e, se e' necessario, l'uccisione. (...) Senza violenza e senza uccidere la proprietà non potrebbe mantenersi. (...) ammettere la proprieta', e' ammettere la violenza e l'omicidio" (4). Tuttavia, la proprieta' non e' forse un diritto di ogni individuo affinche', molto semplicemente, lui e i suoi possano vivere? Non e' forse una delle condizioni della liberta'? Non e', in fondo, un diritto dell'uomo? In effetti, cio' sembra incontestabile. Del resto, quando Tolstoj denuncia la proprieta', condanna molto precisamente la proprieta' della terra russa, che si trova tutta intera nelle mani di pochi signori e di cui i contadini, che pero' la lavorano duramente, sono spossessati. Inoltre, non e' la proprieta' dei beni che Tolstoj condanna, ma l'accumulazione dei beni da parte di alcuni, che priva gli altri del necessario per vivere. "L'uomo – egli scrive – che vuole contribuire non al solo bene proprio, ma a quello degli altri (...) non deve possedere che nella precisa misura in cui gli altri non avranno da chiedergli una parte di cio' che possiede" (5). Lao Tzu allo stesso modo vede nell'accumulazione dei beni una causa di guerra. Cosi' scrive nel libro 9 del Tao-teh-ching: "Chi accumula nella sua casa l'oro e la giada non ne potra' difendere l'entrata". Allo stesso modo, fra "le cose che scompaiono come il suono d'una moneta" il Buddha nomina "il piacere che c'e' ad accumulare dei beni" (6). E nel numero dei "falsi amici", di cui l'uomo avvertito deve diffidare, egli pone "quelli che affermano che bisogna arricchirsi sempre piu'" (7).
Nel dialogo Fedone di Platone, Socrate afferma che per i veri filosofi la verita' deve essere l'unico oggetto dei loro desideri. E per avere il tempo e la liberta' necessari alla ricerca della verita', essi devono rinunciare agli oggetti che il corpo fa desiderare, ma che non sono altro che ingombri per l'intelligenza. E' precisamente dall'attaccamento a questi oggetti che nasce la violenza. "Guerra, dissidi, battaglie – dice Socrate – e' solo il corpo e i suoi desideri che ne sono la causa; infatti, non si fa la guerra se non per ammassare ricchezze" (8).
Dire che l'accumulazione delle ricchezze genera la violenza, e' stabilire un legame tra nonviolenza e poverta'? No, se poverta' e' sinonimo di indigenza, ma e' stabilire un legame tra nonviolenza e giustizia. La giustizia, infatti, esige che ciascuno possa possedere gli oggetti e i beni che gli sono necessari per vivere. La giustizia non esige che io mi privi di cio' di cui ho bisogno, ma esige nello stesso tempo che gli altri non siano privati di cio' di cui hanno bisogno e, di questo, io sono responsabile. In questo senso, la giustizia non esige la poverta', ma la condivisione. Non c'e' giustizia possibile senza una condivisione equa degli oggetti e dei beni.
Resta vero che l'uomo e' nel suo diritto nell'acquistare e possedere gli oggetti che gli sono di necessita' vitale; ne risulta come corollario che e' nel suo diritto anche difenderli contro chi volesse spossessarnelo. La risoluzione del conflitto deve allora stabilire delle relazioni di giustizia tra i due rivali, che garantiscano i diritti rispettivi di ciascuno sull'oggetto e, per arrivare a cio', bisogna sempre tornare all'oggetto del conflitto per rendere possibile una negoziazione centrata su di esso.
La rivalita' delle persone non puo' che avvelenare il conflitto e condurlo nel vicolo cieco della violenza. Inoltre, la violenza rischia fortemente di distruggere l'oggetto stesso che e' motivo della disputa. La violenza e' spesso la politica del peggio, cioe' quella della terra bruciata. Non e' raro che ciascuno dei due rivali preferisca vedere l'oggetto distrutto piuttosto che vederlo diventare proprieta' dell'altro.
E' dunque meglio negoziare a proposito dell'oggetto esaminando chi possiede diritti su di esso e quali sono questi diritti. Puo' essere che l'uno e l'altro dei due avversari facciano valere legittimamente dei diritti sull'oggetto. Chissa' che non sia possibile conciliare questi diritti. Chissa' che l'oggetto non possa essere diviso equamente, o che non esistano altri oggetti suscettibili di soddisfare le rivendicazioni dell'uno o dell'altro dei protagonisti. In tutte queste ipotesi, e' molto probabile che non si possa arrivare ad un accordo se non nella misura in cui ogni parte accetti di fare alcune concessioni, dal momento che queste salvaguardano l'essenziale dei loro diritti. La lotta nonviolenta non ha altro scopo che creare le condizioni per una negoziazione riguardo all'oggetto che permetta l'effettivo rispetto dei diritti dell'uno come dell'altro dei due rivali. Ma per giungere ad un accordo, ogni rivendicazione sull'oggetto che sia ingiustificata dovra' essere abbandonata. E, per questo, bisognera' probabilmente esercitare una reale costrizione su quello che la fa valere indebitamente. La lotta nonviolenta deve essere capace di esercitare questa costrizione.
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La mediazione
La mediazione e' l'intervento di un terzo, di una persona terza, che si interpone nel rapporto a due dei protagonisti del conflitto, che si mette in mezzo ai due av-versari (dal latino adversus: uno che si volge contro, che si oppone), cioe' alle due persone, le due comunita' o i due popoli che si fronteggiano e si rivolgono uno contro l'altro. La mediazione mira a far passare i due protagonisti dalla av-versione alla con-versazione (dal latino conversari: volgersi verso qualcuno), cioe' mira a condurli al rivolgersi uno verso l'altro per parlarsi, capirsi e, se possibile, trovare un compromesso che apra la via alla riconciliazione. Il mediatore vuole sforzarsi di essere un "terzo pacificatore". Con la sua interposizione, egli tenta di rompere la relazione "binaria", quella dei due avversari che si affrontano sordi e ciechi, per stabilire una relazione "ternaria", nella quale potranno comunicare tramite un intermediario. Nella relazione binaria degli avversari, due discorsi, due ragionamenti, due logiche si affrontano senza che alcuna comunicazione possa permettere un riconoscimento e una comprensione reciproche. Si tratta di passare da una logica di competizione binaria a una dinamica di cooperazione ternaria.
Il "terzo" mediatore si sforza di creare uno "spazio intermediario" (9) che introduca una distanza tra gli avversari in modo che ognuno dei due possa fare un passo indietro rispetto a se' stesso, rispetto all'altro, rispetto al conflitto che li rende lividi. La creazione di questo spazio separa gli avversari – come si separano due uomini che si battono – e questa separazione puo' permettere la comunicazione. Lo spazio intermediario e' uno spazio di "ri-creazione" nel quale i due avversari potranno riposarsi dal loro conflitto e ricreare le loro relazioni in un modo di procedere calmo e costruttivo. La mediazione vuole dunque creare nella societa' un luogo in cui gli avversari possano imparare o reimparare a comunicare, per poter arrivare a un patto che permetta loro di vivere insieme, se non in una vera pace, almeno in una coesistenza pacifica.
Una mediazione puo' essere avviata solo se l'uno e l'altro dei due avversari accettano di coinvolgersi volontariamente in questo processo di conciliazione. Certamente, la mediazione puo' essere loro suggerita, consigliata, raccomandata, ma non puo' essere imposta. Scegliere la mediazione significa, per ciascuno dei due avversari, capire che lo sviluppo della loro ostilita' non puo' che essere dannoso per loro, e che essi hanno ogni interesse a trovare, con un accordo amichevole, un esito positivo al conflitto che li oppone. Significa anche rendersi conto che l'intervento giudiziario, che imporrebbe loro una decisione d'autorita', invece di appianare il loro conflitto non farebbe che aggravarlo. Il piu' delle volte le decisioni del giudice tagliano il nodo di un conflitto stabilendo un vincitore e un vinto – uno vince la causa, l'altro la perde – e le due parti escono dal tribunale piu' avversarie che mai. La mediazione non si preoccupa tanto di giudicare un fatto passato – cio' che fa l'istituzione giudiziaria – quanto di basarsi su di esso per superarlo e permettere agli avversari di ieri di inventare un avvenire libero dal peso del loro passato.
Il mediatore non ha la funzione di pronunciare un giudizio ne' di emettere una condanna. Non e' ne' un giudice che da' ragione a uno contro l'altro, ne' un arbitro che sanziona la colpa di uno contro l'altro, ma un intermediario che si sforza di ristabilire la comunicazione tra l'uno e l'altro per giungere a una conciliazione dell'uno con l'altro. Il mediatore non ha alcun potere di costrizione che gli permetta di imporre una soluzione ai protagonisti di un conflitto. Il postulato piu' importante su cui si fonda la mediazione, e' che la risoluzione di un conflitto deve essere soprattutto l'opera dei protagonisti stessi. La mediazione mira a permettere ai due avversari di appropriarsi del "loro" conflitto allo scopo di potere cooperare per gestirlo, padroneggiarlo e risolverlo insieme. Il mediatore e' un "facilitatore": facilita la comunicazione tra i due avversari affinche' possano esprimersi, ascoltarsi, comprendersi e arrivare a un accordo.
Il mediatore - sottolinea François Bazier – deve essere "parziale con uno, poi parziale con l'altro, non imparziale" (10). Questa osservazione ci porta a rifiutare la nozione di "neutralita'" con la quale si vorrebbe spesso caratterizzare la posizione del mediatore. Questi, in realta', non e' "neutrale". La parola neutrale, secondo la sua etimologia latina (ne uter), significa "ne' l'uno ne' l'altro, nessuno dei due". Cosi', in caso di conflitto internazionale, un paese neutrale e' quello che non prende partito per nessuno dei due avversari, che non accorda il suo sostegno e non offre il suo aiuto a nessuno dei due e resta al di fuori del conflitto. Ora, precisamente, il mediatore non e' uno che non prende partito per "nessuno dei due" avversari, ma quello che prende partito per "tutti e due". Egli accorda il suo sostegno e offre il suo aiuto alle due parti presenti. Si impegna a fianco dell'uno poi a fianco dell'altro: si impegna due volte, si coinvolge due volte, prende partito due volte. Ma il suo doppio partito preso non e' mai incondizionato, ma e' ogni volta un partito preso di discernimento e di equita'. In questo senso, il mediatore non e' neutrale, e' equanime: si sforza di dare a ciascuno secondo cio' che gli e' dovuto. Cosi' potra' guadagnare la fiducia dei due avversari e favorire il dialogo tra loro.
La mediazione puo' intervenire tanto al livello delle relazioni comunitarie che sociali o politiche. La "mediazione comunitaria" riguarda persone che si trovino impegnate in un conflitto del quotidiano, come un litigio di vicinato o una lite familiare. La mediazione comincia generalmente con degli incontri preliminari separati con ciascuna delle due parti. Questi incontri permettono alle persone implicate nel conflitto di esprimersi in un clima di fiducia. Il mediatore non conduce un interrogatorio sospettoso, ma rivolge domande rispettose. Il suo intento e' capire l'interlocutore, ma anche e soprattutto permettergli di meglio capirsi, aiutarlo a ri-flettere su se' stesso, sul suo atteggiamento nel conflitto. Il mediatore pratica in certo modo l'arte della maieutica (dal greco maieutike', che significa l'arte di assistere qualcuno nel parto), cioe' egli aiuta i suoi interlocutori a "partorire" la loro propria verita'. La qualita' dell'ascolto del mediatore si rivela qui determinante per la riuscita della sua opera. Chi si sente ascoltato si sente gia' compreso. Allora puo' confidarsi e non soltanto raccontare i fatti, almeno la sua versione dei fatti, ma anche, ed e' la cosa piu' importante, esprimere il suo "vissuto". Per sciogliere il nodo di un conflitto, non basta stabilire la verita' oggettiva dei fatti, bisogna soprattutto imparare la verita' soggettiva delle persone con le loro emozioni, i loro desideri, le loro frustrazioni e le loro sofferenze. Allora ognuno puo' identificare i sentimenti che lo fanno agire. L'ascolto attivo del mediatore ha gia', di per se' stesso, un effetto terapeutico che comincia a guarire il suo interlocutore dalle sue angosce, le sue paure, le sue collere e le sua violenze latenti. Allora egli puo' disarmare l'ostilita' che nutre verso il suo avversario.
Questi incontri preliminari hanno la funzione di preparare le due parti ad accettare di entrare nella dinamica della mediazione. Quando esse hanno compreso e accettato i principi e le regole della mediazione, il mediatore o, generalmente, i mediatori possono allora invitarle a incontrarsi. L'entrata in mediazione implica che le due parti concludano un armistizio (dal latino arma sistere, fermare le armi): ognuno si impegna a rinunciare ad ogni atto ostile verso l'altro durante il periodo della mediazione. Inoltre, il ruolo essenziale del mediatore e' di facilitare l'espressione e di favorire l'ascolto di ognuno al fine di ristabilire la comunicazione, di dissipare i malintesi e di permettere la comprensione vicendevole. Il mediatore puo' ricorrere a delle tecniche di riformulazione allo scopo di dissipare ogni errore di interpretazione delle intenzioni di ciascuno dei due. Questo confronto in presenza del mediatore ha l'obiettivo di sostituire lo scontro di due monologhi, in cui ciascuno non sente che se' stesso, con un vero dialogo in cui ciascuno ascolta l'altro. Poco a poco, questo dialogo, se ciascuno accetta di proseguirlo (saranno certamente necessari piu' incontri), deve fare apparire la possibilita' di sciogliere il nodo del conflitto trovando un compromesso che, nell'essenziale, rispetta i diritti e salvaguarda gli interessi di ognuna delle due parti. Il mediatore – cosi' ne esprime l'opera Jean-François Six – riesce quando "permette a ciascuno dei due che erano molto lontani di avvicinarsi, di tendere verso il punto in cui potranno darsi la mano senza che nessuno dei due sia umiliato o abbia perduto la faccia" (11). La riuscita della mediazione deve concretizzarsi con un accordo scritto e firmato dalle due parti. Questo "trattato di pace" ha il valore di un patto che impegna la responsabilita' dei firmatari. Il mediatore potra' assicurarsi che l'accordo sia rispettato da ciascuno.
Certo, ogni mediazione puo' fallire per opera dell'uno o dell'altro dei protagonisti. Con ogni probabilita', in tal caso, il conflitto riprendera' il suo corso e forse tocchera' alla giustizia tagliarlo con le sue procedure.
La mediazione comunitaria si esercita essenzialmente in seno alla societa' civile per iniziativa di cittadini che hanno costituto un'associazione di diritto privato. Le reti associative devono restare uno dei luoghi privilegiati in cui si esercita la mediazione ed e' augurabile che il piu' gran numero di mediatori siano dei cittadini che intendano partecipare appieno alla vita della loro comunita'. Ma la mediazione non deve restare una "sperimentazione sociale" lasciata all'iniziativa privata. Deve invece essere considerata come uno dei primissimi modi di regolazione dei conflitti sociali, e come uno degli elementi essenziali che contribuiscono a costituire un legame sociale. In questa prospettiva, il mediatore deve essere riconosciuto come uno dei principali attori sociali che concorrono a stabilire la pace sociale. Riguardo alle esigenze e agli obiettivi della democrazia, il valore della mediazione e' veramente politico ed e' alto. E' per questo che conviene istituzionalizzare la mediazione nei diversi settori della societa' sforzandosi di coniugare nel modo migliore le iniziative dei cittadini con quelle dei poteri pubblici.
Affinche' la mediazione possa adempiere tutta la sua funzione sociale, e' importante che l'autorita' pubblica partecipi direttamente allo sviluppo della sua istituzionalizzazione. Poiche' la mediazione e' di interesse pubblico, tocca normalmente ai poteri pubblici partecipare al finanziamento delle associazioni che esercitano un'attivita' di mediazione. Ma occorre ugualmente che l'autorita' pubblica, sia politica che giudiziaria, possa dotarsi essa stessa di servizi di mediazione. Quando il mediatore e' nominato dal potere pubblico, la sua indipendenza e la sua autonomia devono essere pienamente riconosciute e garantite. Peraltro, data la natura stessa della mediazione, il mediatore non deve ricevere alcun potere di decisione o di costrizione. Il suo solo potere deve essere di raccomandazione, restando il potere di decisione nelle mani dell'autorita' che lo ha nominato. E poiche' e' sempre meglio prevenire che curare, e' compito del mediatore proporre all'autorita' pubblica le riforme amministrative, regolamentari, se non anche legislative, capaci di prevenire i conflitti.
Cosi' la pratica della mediazione nei diversi settori della societa' puo' diventare uno dei principali metodi di soluzione nonviolenta dei conflitti che nascono tra gli individui e tra i gruppi. Evitando il ricorso ai metodi repressivi dello Stato e permettendo a dei cittadini di coinvolgersi direttamente nella gestione dei conflitti che oppongono tra loro altri cittadini, la mediazione favorisce l'autoregolazione della violenza sociale.
I principi e le regole della mediazione possono ugualmente essere applicati entro conflitti propriamente politici, sia sul piano nazionale che internazionale. Conflitti, crisi, guerre potranno cosi' essere disinnescati con la mediazione esercitata da un paese terzo che proponga i suoi "buoni uffici". La mediazione puo' essere una delle piu' efficaci "armi" di una diplomazia di pace.
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Karl Popper e l'"educazione alla nonviolenza"
"La civilta' – scrive Karl Popper – consiste essenzialmente nel ridurre la violenza" (12). La liberta' delle persone – sottolinea – non e' garantita nella societa' che nella misura in cui tutte rinunciano alla violenza: "Lo Stato di diritto esige la nonviolenza, che ne e' il nocciolo fondamentale" (13). Se questo o quell'individuo ricorre alla violenza verso altri, e' allora necessario che il governo intervenga per ristabilire la sicurezza pubblica e la pace sociale. Ma, secondo Karl Popper, lo Stato di diritto deve essere fondato essenzialmente non sulla repressione da parte del governo, ma sul civismo degli individui, per il quale essi rinunciano spontaneamente alla violenza. Per questo, bisogna sviluppare tra i cittadini una cultura della nonviolenza e cominciare con l'educare i bambini alla nonviolenza. Piu' sara' trascurato "il dovere di educare alla nonviolenza" (14) - afferma Popper – piu' la cultura della violenza sara' preponderante nella societa', e piu' il governo dovra' ricorrere a misure di costrizione e repressione.
L'educazione "non consiste soltanto nell'insegnare dei fatti, ma soprattutto nel mostrare quanto e' importante l'eliminazione della violenza" (15). Attraverso la sua esperienza di educatore, Karl Popper si e' convinto che "i bambini non amano la violenza" (16), ma sostiene che "noi educhiamo i bambini alla violenza" (17). Secondo lui, lo strumento piu' potente di questa educazione alla violenza e' la televisione che tende a prendere un posto preponderante nell'ambiente dei bambini. Piazzati per delle ore davanti al piccolo schermo, i bambini contemplano la violenza giorno dopo giorno e questa violenza prende ai loro occhi valore di esempio. Cosi', "i bambini e i giovani corrono un reale pericolo: quello di abituarsi alla violenza" (18). E' dunque importante "evitare che scompaiano le resistenze naturali alla violenza presso la maggioranza delle persone" (19) prendendo per tempo le misure necessarie. Come abbiamo gia' sottolineato, Karl Popper concepisce la democrazia essenzialmente come un controllo del potere da parte dei cittadini. In questa prospettiva, egli afferma che e' assolutamente necessario, per la sopravvivenza stessa della democrazia, che il potere della televisione sia sottoposto a uno stretto controllo. Perche' "quando noi accettiamo che si riduca a nulla l'avversione generale che la violenza ispira, noi sabotiamo lo Stato di diritto e l'accordo generale per il quale la violenza deve essere evitata. E nello stesso momento sabotiamo la civilta'" (20).
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Per una educazione nonviolenta
"La Repubblica – scrive Blandine Barret-Kriegel – ha bisogno di uomini e donne che preferiscono la virtu'" (21). Ma se sono le donne e gli uomini virtuosi che fanno la Repubblica, chi insegnera' la virtu' ai figli della Repubblica? In una societa' democratica, e dunque "laica", nessuna istituzione della societa' politica ha la funzione di definire le esigenze filosofiche e morali che tuttavia devono essere a fondamento della Repubblica. La scuola e l'universita', in linea generale, non insegnano che delle "filosofie morte", come insegnano delle lingue morte. I professori di filosofia sono soprattutto degli storici della filosofia e il loro insegnamento e' essenzialmente libresco. L'insegnamento delle filosofie vive e' lasciato all'iniziativa di individui che non hanno altra autorita' che quella loro riconosciuta da altri individui. Del resto, non puo' essere diversamente in un campo in cui la regola assoluta deve essere il rispetto della liberta' di coscienza di ciascuno. Noi sappiamo per esperienza che gli Stati che vogliono imporre un "ordine morale" non sono democratici. Compete alla societa' civile, che si trova alle spalle della societa' politica, definire i "valori" che sono a fondamento di una cultura e di una civilta'. Le "autorita' morali" precedono le autorita' politiche nel dichiarare il diritto, ma non hanno altro potere che la loro capacita' di convincere. Nessun "valore", in effetti, potrebbe essere imposto con la costrizione, ma bisogna allora convenire che ne risulta una estrema difficolta' a fissare, in una societa' democratica, le regole etiche che devono orientare il comportamento di tutti i cittadini.
Per uccidere i germi delle ideologie che legittimano e onorano la violenza, bisogna sforzarsi di permeare tutta la societa' con una "cultura della nonviolenza", e la cultura comincia con l'educazione. Questa svolge un ruolo determinante nell'iniziazione del bambino a una cittadinanza responsabile. Purtroppo, non e' la cittadinanza politica l'orizzonte a cui mira il sistema educativo dominante messo in atto, ma la competitivita' economica. Nella concezione stessa di questo sistema, la conoscenza si trova non soltanto soppiantata, ma praticamente svuotata dal sapere tecnologico. L'obiettivo ricercato e' consentire ai giovani di arrivare sul mercato del lavoro con la qualificazione tecnica richiesta per avere le migliori possibilita' di trovare un impiego. Certo, e' una funzione essenziale dell'educazione permettere ai giovani di acquistare una qualificazione professionale grazie alla quale potranno trovare un lavoro, in mancanza della possibilita' di scegliere il mestiere che meglio corrisponde alle loro attitudini. Ma l'educazione non puo' ridurre il suo ruolo a questa funzione, sotto pena di tradire la sua missione. La scuola deve essere soprattutto una scuola di civismo.
Una vera educazione civica dei bambini deve cercare di favorire l'autonomia piuttosto che la sottomissione, lo spirito critico piu' che l'obbedienza passiva, la responsabilita' piu' che la disciplina, la cooperazione piu' che la competizione, la solidarieta' piu' che la rivalita'. Si tratta proprio, in definitiva, di educare i bambini alla nonviolenza, ma, per questo, la prima condizione e' che l'educazione stessa si ispiri ai principi, alle regole, ai metodi della nonviolenza: l'educazione alla nonviolenza comincia con la nonviolenza dell'educazione. Importa anzitutto che gli adulti rispettino l'universo del bambino e non vengano a invaderlo e occuparlo imponendo le loro leggi e le loro ideologie legnose. Certo, un'educazione nonviolenta non implica che si cancelli ogni autorita' dell'adulto. Per strutturare la sua personalita', il bambino ha bisogno di urtarsi con questa autorita', ma e' nella natura stessa dell'autorita' del buon pedagogo di esercitarsi mediante la nonviolenza. Riferendosi alle parole di Georges Gusdorf, in cui diceva della violenza che e' "una specie di colpo basso contrario all'onore della filosofia" (22), Eric Prairat considera la violenza "una specie di colpo basso contrario all'onore dell'educazione" (23).
Gli educatori devono imparare loro stessi a dare delle "lezioni reali" a partire dagli inevitabili conflitti che oppongono i bambini tra loro, al fine di far loro scoprire che questi momenti di opposizione agli altri devono integrarsi in un processo di sviluppo della loro personalita'. "Se si ammette – scrive Eric Prairat – che il conflitto non e' la violenza, ma che questa non e' che uno dei suoi esiti, uno degli epiloghi possibili, allora, tra i conflitti e la violenza, si disegna uno spazio privilegiato per l'educatore, non per mettere in atto una strategia di occultamento e dissimulazione, s'intende, ma per insegnare ai bambini, o meglio imparare con loro, a vivere e risolvere in modo positivo gli inevitabili scontri che permeano la vita sociale" (24).
Iniziare i bambini alla cittadinanza significa insegnare loro il buon uso della legge facendo loro comprendere che l'obbedienza richiesta ai cittadini non e' la sottomissione passiva e incondizionata all'ordine di un superiore gerarchico, ma l'adesione con riflessione e consenso a una regola di cui riconoscono essi stessi il buon fondamento. Dev'essere una dimensione essenziale della pedagogia far partecipare i bambini a stabilire delle regole comunitarie a cui dovranno loro stessi adeguarsi, facendo loro sperimentare che tali regole sono necessarie perche' possano vivere insieme nel rispetto di tutti e di ciascuno. "Fare dei bambini degli esseri autonomi significa dare loro accesso ai tre atti che regolano la vita collettiva: fissare le regole, farle applicare, rendere giustizia" (25).
La scuola sara' il luogo privilegiato dove si distruggono i pregiudizi discriminatori verso gli "altri", verso quelli che appartengono a un'altra razza, a un altro popolo, a un'altra religione. Trasmettere ai bambini degli stereotipi del nemico, e' gia' armare le loro intelligenze e le loro braccia, e' gia' insegnare loro la guerra. "Proprio come nel fenomeno del capro espiatorio – scrive Bernadette Bayada – gli stereotipi del nemico suscitano dei comportamenti ostili. Attraverso un circolo vizioso, essi creano il loro verificarsi e danno l'impressione fallace di verita' e di certezza" (26). Dunque, e' un'esigenza essenziale della pedagogia disarmare lo sguardo dei bambini verso gli "altri" e, in modo tutto particolare, verso quelli la cui identita' sociale e' segnata da una differenza. Si tratta di educare il loro sguardo affinche' escano da ogni ostilita' verso gli "altri-che-sono-differenti" e imparino la benevolenza verso di loro senza perdere pero' la facolta' di giudizio critico verso cio' che puo' esservi di criticabile nel loro comportamento. Tra un razzismo duro e un ecumenismo molle c'e' tutto lo spazio per ricercare un giudizio lucido ed equo, che renda giustizia agli "altri" senza, per questo, tradire le esigenze della verita'.
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Note
1. Vangelo secondo Matteo, 5, 38-39. Questi appelli evangelici, che sembrano paradossi fuori dalla realta', sono bene illustrati nel loro realismo entro la concreta situazione sociale di Israele sotto occupazione romana nel libro di Walter Wink, Rigenerare i poteri. Discernimento e resistenza in un mondo di dominio, edizioni EMI, Bologna 2003 (n. d. tr.).
2. Edgar Morin e Anne Brigitte Kern, Terre-patrie, Paris, Le Seuil, 1993, pp. 200-201.
3. Vangelo secondo Matteo, 5, 40.
4. Leone Tolstoj, Rayons de l’aube, Paris, Stock, 1901, p.98. Il brano citato si trova in traduzione italiana nella Lettera ai Dukhobory emigrati in Canada, testo compreso in Lev Tolstoj, La legge della violenza e la legge dell'amore, Edizioni del Movimento Nonviolento, Verona 1998, p. 80.
5. Ibidem, p. 383.
6. Paroles du Bouddha, op. cit., p. 80.
7. Ibidem, p. 81.
8. Platone, Fedone, libro XI, 66c.
9. Sulla nozione di "spazio intermediario" cfr l'articolo di Etienne Duval nel dossier di Non-Violence Actualite': "La mediation", Montargis, 1993, pp. 32-34. (Non-Violence Actualite', 20 rue du Devidet, F-45200 Montargis).
10. François Bazier, La mediation, op. cit., p. 20.
11. Jean-François Six, Breche, n. 40-42, p. 118.
12. Karl Popper, John Condry, La television: un danger pour la democratie, Paris, Anatolia, 1994, p. 33; tr. it. dall'originale inglese, Cattiva maestra televisione, i libri di Reset, Donzelli editore, Roma, 1994, p. 22.
13. Karl Popper, La leçon de ce siecle, op. cit., p. 72.
14. Ibidem, p. 73.
15. Karl Popper, John Condry, La television: un danger pour la democratie, op. cit., p. 33; tr. it. cit., p. 22.
16. Karl Popper, La leçon de ce siecle, op. cit., p. 70.
17. Karl Popper, John Condry, La television: un danger pour la democratie, op. cit., p. 26-27; tr. it. cit., p. 18.
18. Karl Popper, La leçon de ce siecle, op. cit., p. 77.
19. Ibidem, p. 71.
20. Iibidem.
21. Liberation, 25 marzo 1992.
22. Georges Gusdorf, La vertu de force, Paris, PUF, 1960, p. 84.
23. Eric Prairat, "Pour une education non-violente", Dossier di Non-violence Actualite', Montargis, 1988, p. 45-46.
24. Ibidem, p. 46.
25. Anne-Catherine Bisot et François Lhopiteau, "La resolution non-violente des conflits", in L'education a' la paix, Paris, Centre national de documentation pedagogique, 1993, p. 213.
26. Bernadette Bayada, "Prejuges et stereotypes, sources de violence", in L'education a' la paix, op. cit., p. 139.
5. SEGNALAZIONI LIBRARIE
Riletture
- Wanda Tommasi, I filosofi e le donne, Tre Lune Edizioni, Mantova 2001, pp. 272.
6. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli.
7. PER SAPERNE DI PIU'
Indichiamo i siti del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org e www.azionenonviolenta.it ; per contatti: azionenonviolenta at sis.it
Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/
TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 5314 del 5 settembre 2024
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXV)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, e-mail: centropacevt at gmail.com , sito: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/
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