[Nonviolenza] Donna, vita, liberta'. 86



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DONNA, VITA, LIBERTA'
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A sostegno della lotta nonviolenta delle donne per la vita, la dignita' e i diritti di tutti gli esseri umani
a cura del "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo
Supplemento a "La nonviolenza e' in cammino" (anno XXIV)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com
Numero 86 del 27 marzo 2023

In questo numero:
1. Abolire la guerra, sconfiggere il fascismo, salvare le vite
2. Anna Bravo: Gandhi, un maestro (parte seconda e conclusiva)

1. L'ORA. ABOLIRE LA GUERRA, SCONFIGGERE IL FASCISMO, SALVARE LE VITE

E' il primo dovere.

2. TESTI. ANNA BRAVO: GANDHI, UN MAESTRO (PARTE SECONDA E CONCLUSIVA)
[Dal libro di Anna Bravo, La conta dei salvati. Dalla Grande Guerra al Tibet: storie di sangue risparmiato, Laterza, Roma-Bari 2013, riproponiamo ancora una volta il capitolo terzo "Un maestro" (pp. 53-89).
Anna Bravo, storica e docente universitaria, ha insegnato Storia sociale. Si e' occupata di storia delle donne, di deportazione e genocidio, resistenza armata e resistenza civile, cultura dei gruppi non omogenei, storia orale; su questi temi ha anche partecipato a convegni nazionali e internazionali. Ha fatto parte del comitato scientifico che ha diretto la raccolta delle storie di vita promossa dall'Aned (Associazione nazionale ex-deportati) del Piemonte; ha fatto parte della Societa' italiana delle storiche, e dei comitati scientifici dell'Istituto storico della Resistenza in Piemonte, della Fondazione Alexander Langer e di altre istituzioni culturali. Luminosa figura della nonviolenza in cammino, della forza della verita', e' deceduta l'8 dicembre 2019 a Torino, la citta' dove era nata nel 1938. Tra le opere di Anna Bravo: (con Daniele Jalla), La vita offesa, Angeli, Milano 1986; Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza, Roma-Bari 1991; (con Daniele Jalla), Una misura onesta. Gli scritti di memoria della deportazione dall'Italia,  Angeli, Milano 1994; (con Anna Maria Bruzzone), In guerra senza armi. Storie di donne 1940-1945, Laterza, Roma-Bari 1995, 2000; (con Lucetta Scaraffia), Donne del novecento, Liberal Libri, 1999; (con Anna Foa e Lucetta Scaraffia), I fili della memoria. Uomini e donne nella storia, Laterza, Roma-Bari 2000; (con Margherita Pelaja, Alessandra Pescarolo, Lucetta Scaraffia), Storia sociale delle donne nell'Italia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2001; Il fotoromanzo, Il Mulino, Bologna 2003; A colpi di cuore, Laterza, Roma-Bari 2008; (con Federico Cereja), Intervista a Primo Levi, ex deportato, Einaudi, Torino 2011; La conta dei salvati, Laterza, Roma-Bari 2013; Raccontare per la storia, Einaudi, Torino 2014.
Mohandas K. Gandhi e' stato della nonviolenza il piu' grande e profondo pensatore e operatore, cercatore e scopritore; e il fondatore della nonviolenza come proposta d'intervento politico e sociale e principio d'organizzazione sociale e politica, come progetto di liberazione e di convivenza. Nato a Portbandar in India nel 1869, studi legali a Londra, avvocato, nel 1893 in Sud Africa, qui divenne il leader della lotta contro la discriminazione degli immigrati indiani ed elaboro' le tecniche della nonviolenza. Nel 1915 torno' in India e divenne uno dei leader del Partito del Congresso che si batteva per la liberazione dal colonialismo britannico. Guido' grandi lotte politiche e sociali affinando sempre piu' la teoria-prassi nonviolenta e sviluppando precise proposte di organizzazione economica e sociale in direzione solidale ed egualitaria. Fu assassinato il 30 gennaio del 1948. Sono tanti i meriti ed e' tale la grandezza di quest'uomo che una volta di piu' occorre ricordare che non va  mitizzato, e che quindi non vanno occultati limiti, contraddizioni, ed alcuni aspetti discutibili - che pure vi sono - della sua figura, della sua riflessione, della sua opera. Opere di Gandhi: essendo Gandhi un organizzatore, un giornalista, un politico, un avvocato, un uomo d'azione, oltre che una natura profondamente religiosa, i suoi scritti devono sempre essere contestualizzati per non fraintenderli; Gandhi considerava la sua riflessione in continuo sviluppo, e alla sua autobiografia diede significativamente il titolo Storia dei miei esperimenti con la verita'. In italiano l'antologia migliore e' Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi; si vedano anche: La forza della verita', vol. I, Sonda; Villaggio e autonomia, Lef; l'autobiografia tradotta col titolo La mia vita per la liberta', Newton Compton; La resistenza nonviolenta, Newton Compton; Civilta' occidentale e rinascita dell'India, Movimento Nonviolento (traduzione del fondamentale libro di Gandhi: Hind Swaraj; ora disponibile anche in nuova traduzione col titolo Vi spiego i mali della civilta' moderna, Gandhi Edizioni); La cura della natura, Lef; Una guerra senza violenza, Lef (traduzione del primo, e fondamentale, libro di Gandhi: Satyagraha in South Africa). Altri volumi sono stati pubblicati da Comunita': la nota e discutibile raccolta di frammenti Antiche come le montagne; da Sellerio: Tempio di verita'; da Newton Compton: e tra essi segnaliamo particolarmente Il mio credo, il mio pensiero, e La voce della verita'; Feltrinelli ha recentemente pubblicato l'antologia Per la pace, curata e introdotta da Thomas Merton. Altri volumi ancora sono stati pubblicati dagli stessi e da altri editori. I materiali della drammatica polemica tra Gandhi, Martin Buber e Judah L. Magnes sono stati pubblicati sotto il titolo complessivo Devono gli ebrei farsi massacrare?, in "Micromega" n. 2 del 1991 (e per un acuto commento si veda il saggio in proposito nel libro di Giuliano Pontara, Guerre, disobbedienza civile, nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1996). Opere su Gandhi: tra le biografie cfr. B. R. Nanda, Gandhi il mahatma, Mondadori; il recente accurato lavoro di Judith M. Brown, Gandhi, Il Mulino; il recente libro di Yogesh Chadha, Gandhi, Mondadori, e quello di Christine Jordis, Gandhi, Feltrinelli. Tra gli studi cfr. Johan Galtung, Gandhi oggi, Edizioni Gruppo Abele; Icilio Vecchiotti, Che cosa ha veramente detto Gandhi, Ubaldini; ed i volumi di Gianni Sofri: Gandhi e Tolstoj, Il Mulino (in collaborazione con Pier Cesare Bori); Gandhi in Italia, Il Mulino; Gandhi e l'India, Giunti. Cfr. inoltre: Dennis Dalton, Gandhi, il Mahatma. Il potere della nonviolenza, Ecig. Una importante testimonianza e' quella di Vinoba, Gandhi, la via del maestro, Paoline. Per la bibliografia cfr. anche Gabriele Rossi (a cura di), Mahatma Gandhi; materiali esistenti nelle biblioteche di Bologna, Comune di Bologna. Altri libri particolarmente utili disponibili in italiano sono quelli di Lanza del Vasto, William L. Shirer, Ignatius Jesudasan, George Woodcock, Giorgio Borsa, Enrica Collotti Pischel, Louis Fischer. Un'agile introduzione e' quella di Ernesto Balducci, Gandhi, Edizioni cultura della pace. Una interessante sintesi e' quella di Giulio Girardi, Riscoprire Gandhi, Anterem, Roma 1999. Tra le piu' recenti pubblicazioni segnaliamo le seguenti: Antonio Vigilante, Il pensiero nonviolento. Una introduzione, Edizioni del Rosone, Foggia 2004; Mark Juergensmeyer, Come Gandhi, Laterza, Roma-Bari 2004; Roberto Mancini, L'amore politico, Cittadella, Assisi 2005; Enrico Peyretti, Esperimenti con la verita'. Saggezza e politica di Gandhi, Pazzini, Villa Verucchio (Rimini) 2005; Fulvio Cesare Manara, Una forza che da' vita. Ricominciare con Gandhi in un'eta' di terrorismi, Unicopli, Milano 2006; Giuliano Pontara, L'antibarbarie. La concezione etico-politica di Gandhi e il XXI secolo, Ega, Torino 2006]

L'indipendenza
Gandhi torna alla politica nazionale nel 1928, dopo che il governo britannico ha rifiutato all'India lo status di dominion e promulgato una nuova Costituzione per il paese senza aver incluso nessun rappresentante indiano tra i costituenti.
Il partito del Congresso, diretto da Jawaharlal Nehru, stretto amico di Gandhi e futuro premier dell'India libera, sancisce il Purna Swaraj, l'indipendenza completa, e il 31 dicembre 1929 fa issare a Lahore la bandiera indiana.
Per Gandhi, e' tornato il momento di una grande campagna nazionale. Che sara' contro il monopolio britannico sull'estrazione e la vendita del sale, che vieta persino la piccola produzione locale nelle zone costiere - e nel clima dei tropici del sale non si puo' fare a meno.
Nel marzo del 1930, dopo averlo annunciata al vicere', Gandhi inizia con 78 amici un cammino verso il mare, con l'obiettivo di far bollire l'acqua sulla spiaggia e di raccogliere il sale che si cristallizza ai bordi dei recipienti. E' una sfida frontale all'impero. "Metteremo in pratica - dice - una non-cooperazione talmente rigorosa che infine non sara' possibile alla macchina dell'amministrazione funzionare in alcun modo. Che allora il governo segua le proprie regole, impieghi i fucili contro di noi, ci mandi in prigione, ci impicchi. Ma a quanti si possono infliggere tali punizioni? Provate a calcolare quanto tempo impiegheranno gli inglesi a impiccare trecento milioni di persone" (46). I manifestanti antimafia del nostro tempo, con i loro striscioni "Ammazzateci tutti", sono figli di Gandhi, anche se forse non lo sanno.
Migliaia di indiani si uniscono all'impresa, rimasta celebre come la Marcia del sale di Gandhi e come l'esempio piu' alto nella storia di "teatro" politico.
Nonostante la perfetta nonviolenza, gli arrestati sono piu' di 60.000, compreso Gandhi; ma il governatore inglese dovra' riconoscere alle popolazioni della costa il diritto di estrarre il sale per il consumo domestico.
La marcia ha confermato lo status di icona internazionale di Gandhi, il suo genio nel combinare uso dei media, empatia con le moltitudini, senso della performance - e inventiva pubblicitaria: il dothi di cotonina bianca sulla pelle appena scura, la canna di bambu' cui si appoggia camminando, sono un richiamo straordinario per i fotografi e per i cineoperatori, un vero e proprio "marchio". Ieri, oggi e probabilmente domani, chi vede un'immagine con questi ingredienti pensa a Gandhi, anche senza sapere la sua storia. Quel che lo ha avvicinato ai contadini indiani, ora lo avvicina al mondo.
Nel 1931 i prigionieri politici sono liberati e Gandhi e' invitato a Londra, come rappresentante del Congresso ai negoziati noti come la "Conferenza della tavola rotonda" su una nuova Costituzione per l'India. Non si arriva a niente, anzi si riapre la campagna britannica contro i nazionalisti. Nuovamente arrestato nel '32, Gandhi digiuna a oltranza, finche' gli inglesi lo rilasciano, terrorizzati dall'idea che muoia in carcere - non e' la prima, non sara' l'ultima volta.
Nel 1934 si ritira dal palcoscenico politico e torna ai suoi contadini, creando l'Associazione delle industrie di villaggio, studiata per far nascere una serie di comunita' autogovernate, con un'economia fondata sullo scambio a piccolo raggio di beni e prestazioni.
Allo scoppio della guerra, propone una campagna di disobbedienza individuale anziche' di massa, per non danneggiare troppo la Gran Bretagna, ma l'intransigenza di Churchill porta nel '42 il partito del Congresso a una risoluzione che chiede la fine immediata del dominio coloniale. Mentre il governo britannico soffia sulle tensioni tra indu' e musulmani all'interno del movimento nazionalista, Gandhi risponde lo stesso anno con la campagna "Quit India!", avvertendo che stavolta la lotta non si fermera' neppure se ci saranno violenze individuali. E' l'invito alla ribellione nonviolenta totale, un movimento di ampiezza senza precedenti. Senza precedenti e' anche la repressione, con migliaia di persone uccise o ferite, centinaia di migliaia arrestate, a cominciare da gran parte dei leader politici. Compreso Gandhi, che inizia nel febbraio '43 il digiuno di penitenza per le violenze commesse dagli indiani durante l'insurrezione. E ancora una volta deve essere liberato; la sua salute e' cosi' compromessa che sembra a un passo dalla morte.
Alla fine della guerra il movimento raggiunge il suo scopo - non da solo: la Gran Bretagna e' allo stremo, il governo e' passato ai laburisti. Il nuovo premier Attlee annuncia che il potere verra' trasferito agli indiani e il 24 marzo 1947 nomina vicere' e governatore generale delle Indie un buon amico di Nehru, Lord Mountbatten.
Il Gandhi nazionalista ha vinto, ma quando ormai, piu' che per l'indipendenza, sta lottando contro i due flagelli storici della societa' indiana, l'esistenza degli intoccabili e la contrapposizione fra indu' e musulmani.
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Contro l'India per gli intoccabili
Dopo aver temporeggiato sulla questione delle caste a causa del loro radicamento nell'induismo, nel '31 Gandhi aveva gettato tutto il suo peso in una campagna contro l'intoccabilita'. Alcuni indiani di alto lignaggio se ne erano gia' fatti paladini, i senza casta avevano un leader emerso dalle loro file, Bhimrao Ramji Ambedkar, che chiedeva la cancellazione tout court del sistema castale, e invitava gli intoccabili a lasciare l'induismo - lui stesso era diventato buddista.
Ma per Gandhi l'idea di restare esterno a un conflitto era difficile da accettare, tanto piu' se la materia investiva e spaccava l'intero paese. Di fronte al Communal Award sul riconoscimento delle comunita', che prevedeva elettorati a parte per musulmani, sikh, europei, cristiani, intoccabili, si era opposto duramente. "Noi non vogliamo che gli intoccabili siano classificati nei nostri registri come una classe separata - aveva detto nel novembre 1931 - I sikh possono rimanere tali per sempre, e cosi' anche i musulmani e gli europei. Gli intoccabili dovrebbero restare intoccabili in eterno? Preferirei che l'induismo morisse piuttosto che l'intoccabilita' continuasse" (47). Dopo aver rinominato gli intoccabili harijan, figli di dio, aveva annunciato che se fosse rimasto il solo a resistere al Communal Award, avrebbe resistito con la sua vita. Pochi lo avevano preso sul serio.
Ma il digiuno a oltranza del settembre 1932 nel carcere di Yeravda e' contro l'intoccabilita', e Gandhi chiarisce che la sola cosa in grado di farlo desistere e' la modifica della legge elettorale. Il paese si ferma, nelle chiese americane e inglesi si prega per lui, molti indu' di alta casta aprono i templi agli intoccabili, permettono loro di usare i pozzi, a volte condividono i pasti, promettono di ammetterli alle scuole e ai servizi sociali. Mentre Gandhi e' ormai morente, il primo ministro britannico, il Congresso e Ambedkar accettano di rinegoziare la clausola. E' "l'illustrazione piu' spettacolare di un satyagrahi che esce vittorioso da un conflitto condotto da solo contro un popolo e un governo" (48).
In realta' Gandhi ha raggiunto il suo obiettivo solo in parte, e nel timore che i templi si richiudano e i contatti diradino, nel 1933 inizia una marcia di dieci mesi lungo piu' di 20.000 chilometri. Va di villaggio in villaggio, organizza cene e concerti affiancando notabili e harijan, raccoglie fondi, prega in pubblico, chiede in dono alle donne i loro gioielli, a volte glieli toglie di dosso - e alcune finiscono per lasciarli a casa (49). L'adesione e' spettacolare, ma presto i templi cominciano davvero a richiudersi, e del resto ad Ambedkar e ai suoi seguaci l'apertura era sembrata poca cosa. Molti intoccabili perdono fiducia in Gandhi, una parte non gliela concedera' piu'.
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Contro l'India per l'unita'
Gia' nei primi anni Venti Gandhi era talmente convinto della crucialita' delle relazioni indu'-musulmani, che aveva aderito alla improbabilissima campagna per la restaurazione del califfato ottomano come garante dei luoghi sacri dell'islam. Nel 1924 aveva lanciato un digiuno con la parola d'ordine della fratellanza nella diversita'. In ogni iniziativa aveva messo lo spirito di Hind Swaraj, dove all'interlocutore che gli chiede: "Cosa dirai alla nazione?", risponde con una domanda folgorante: "Chi e' la nazione?" e prosegue: "l'India non puo' cessare di essere una nazione perche' la gente che ci vive appartiene a religioni diverse [...]. Coloro che hanno preso coscienza dello spirito di nazionalita' non interferiscono nella religione altrui; se lo fanno, non sono adatti ad essere considerati una nazione" (50). Era, nel 1909!, una netta adesione al modello di Stato laico e pluriculturale. Il nazionalismo di Gandhi non aveva niente di mistico, di romantico, di etnico; era inclusivo, universalista, radicato nella storia comune del subcontinente, nella comune oppressione e volonta' di riscatto. Dividersi gli sembrava una "vivisezione".
Se non che, i musulmani stavano riscoprendo, in parallelo con gli indu', il loro senso di identita' nazionale, avevano un leader, Mohammed Ali Jinnah, presidente del partito della Lega musulmana, accesamente separatista, che accusava Gandhi di rallentare il distacco con le sue trattative interminabili, di ricattare gli avversari con i suoi digiuni.
La prospettiva dell'indipendenza fa esplodere le tensioni. Nel '46, falliti gli sforzi di creare un governo provvisorio composto da indu' e musulmani, l'odio religioso divampa in massacri reciproci. Tutto il paese e' insanguinato e disperato. A causa dell' "idiozia di tutte e due le parti", dice Gandhi (51). Che, con i suoi fragili 77 anni, inizia una marcia di dieci mesi nella ribollente provincia del Noakhali. Va a piedi appoggiandosi alla sua canna di bambu', in auto, in treno - e a ogni stazione le folle si accalcano, salgono sul tetto dei vagoni, battono ai finestrini per avere la sua benedizione, mentre un numero sempre maggiore di capi locali si impegna a proteggere a costo della vita gli appartenenti ad altre religioni. E' il primo esempio nella storia di interposizione fra schieramenti in lotta. Ed e' una minaccia per gli estremisti indu' e musulmani. I primi lo chiamano "Mohamed Gandhi", gli altri lo denunciano come il "nemico numero uno". La maggior parte delle lettere che riceve traboccano di insulti.
Sfiniti e spaventati dalla prospettiva di una guerra civile, i negoziatori del Congresso abbandonano la linea unitaria, e nel giugno del 1947 firmano con la Lega musulmana e i sikh il piano di Mountbatten per la spartizione dell'India. Nasce il Pakistan, Gandhi registra la sconfitta e dichiara pubblicamente che l'India "non ha mai seguito la sua strada" (52). Mentre milioni di profughi si spostano dall'India al nuovo Stato e viceversa, in varie zone si arriva alla pulizia etnica reciproca. I britannici non vedono l'ora di andarsene da questo inferno.
Gandhi ci si immerge. A Calcutta, luogo delle peggiori atrocita', digiuna finche' i leader indu' e musulmani sottoscrivono un accordo di pacificazione che reggera' per mesi - e' l'evento chiamato "il miracolo di Calcutta" (53). Lo stesso succede in Bengala. Gandhi si ferma poi a Delhi, dove sfugge a un attentato e dove il 13 gennaio '48 inizia un digiuno a oltranza, mentre gli estremisti indu' gridano "Lasciatelo morire". Cinque giorni dopo, ottiene la firma dei capifazione a un patto di tregua e protezione reciproca. Dodici giorni ancora, ed e' assassinato da un fondamentalista indu'; stava preparando un incontro interreligioso per la costituzione di un esercito nonviolento, il Shanti Sena (54).
Al primo che accusa dell'omicidio i musulmani, Mountbatten risponde seccamente: "Sciocco! Non lo sai che e' stato un indu'?". Un membro del suo staff gli chiede come faccia a saperlo, lui risponde: "Non lo so. Ma se e' un musulmano siamo tutti spacciati, percio' e' bene che sia un indu'". Gandhi avrebbe fatto lo stesso.
Venticinque anni dopo, Larry Collins e Dominique Lapierre intervistano Mountbatten, e arrivati a parlare dell'assassinio vedono qualcosa di perturbante: "Quest'uomo, che si vantava di essere un guerriero professionista, un uomo che sarebbe affondato assieme alla sua nave piuttosto che abbandonare il suo posto, piangeva. Piangeva apertamente, senza vergognarsi, mentre raccontava di essere entrato nella Birla House quel pomeriggio di gennaio, e di aver visto il corpo di Gandhi adagiato sul lettuccio di paglia" (55).
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Il Gandhi musulmano
Anche quando nella campagna unitaria e' piu' isolato, Gandhi puo' contare su Abdul Ghaffar Khan, leader della piu' grande tribu' dei pathan (conosciuti oggi come pashtun) della Frontiera, la zona fra India, Afghanistan e l'attuale Pakistan che dopo la conquista britannica era diventata l'estremo Nord-Ovest dell'India. Figlio di un ricco capo tribale del distretto di Peshawar, aveva assistito da ragazzo alla rivolta del 1897, cui gli inglesi avevano risposto distruggendo i raccolti, abbattendo gli alberi, avvelenando i pozzi, demolendo le case - e innescando una guerriglia senza fine.
Ancora giovane, aveva deciso di fare politica e preso contatto con leader musulmani progressisti e comunisti, ma stava ancora cercando la sua strada. La trova nel 1914, quando decide di dedicare la vita alle riforme sociali e all'indipendenza dell'India. Tra il 1915 e il 1918 visita le basse valli della Frontiera, e, nonostante l'avversione dei mullah e gli ostacoli della legge inglese, apre scuole nel suo villaggio di Utmanzai e in altri vicini. Nel 1919, quando i britannici negano ai pathan la modesta autonomia riconosciuta alle altre province, fonda un partito di opposizione che diventera' il piu' popolare della regione (56). Nel 1920 partecipa alla sessione del Congresso che decide la lotta nonviolenta, si riconosce in Gandhi, lo incontra personalmente nel 1928 ed entra nella sua cerchia. Ma la scelta nonviolenta e' precedente, e si ispira al codice d'onore pathan e all'islam. Credente devotissimo, Ghaffar Khan sceglie nel patrimonio religioso islamico gli insegnamenti capaci di combattere l'odio, di svuotare la mistica della vendetta. Nella sua concezione, jihad vuol dire qualcosa di molto diverso da quel che si intende oggi; e' la lotta per l'indipendenza e per le riforme, ma soprattutto l'impegno a riformare se stessi (57).
Lui, che ha ereditato il titolo guerriero di Khan, che e' detto anche Badshah, il "re dei Khan", diventa un guerriero senza armi e una guida spirituale. Riesce a creare il primo "esercito" nonviolento (ma inquadrato militarmente) della storia, il Khudai Khidmatgar ("servi di dio"), incaricato di aprire scuole, sostenere progetti di lavoro, mantenere l'ordine nelle assemblee, sviluppare l'autogoverno. Tutti i pathan possono farne parte, uomini e (nelle intenzioni) donne (58), scelta inaudita all'epoca, purche' giurino sul Corano di seguire i principi dell'islam e, se perseguitati, di rispondere con il satyagraha. Come Gandhi, rispetta tutte le religioni perche' "Dio manda messaggeri ovunque" (59), valorizza il ruolo delle donne nel movimento e l'istruzione femminile, vive una vita semplice. Come Gandhi, spesso - fra carcere e lavoro politico - trascura la famiglia. A differenza di Gandhi, non fa voto di castita' e si sposa tre volte.
L'India si accorge dei pathan durante la marcia del sale (60), quando si viene a sapere che si sono uniti alla lotta. Contro di loro, l'esercito usa carri armati, mitragliatrici, provocazioni per spingerli a reagire con la violenza (61). Senza successo.
Dopo l'accordo fra Gandhi e il vicere', la regione ottiene la parita' politica col resto dell'India e Ghaffar Khan, ormai considerato un santo, il "Gandhi della Frontiera", sceglie la condizione del fakir, il senza terra e senza diritto di voto nella jirga. Il seguito che guadagna gli scatena contro la ritorsione britannica.
Imprigionato per tre anni senza processo, poi bandito dalle sue montagne, al rilascio nel 1934 accetta l'invito di Gandhi a vivere nel suo ashram di Wardha; nuovamente incarcerato, all'uscita, nel luglio '36 torna da lui.
Gandhi ne e' felice. Ghaffar Khan e' il soldato capace di convertire altri soldati (62), la conferma vivente che anche l'islam include un messaggio di pace, che la potenza del corpo e la dimestichezza con le armi non sono affatto un ostacolo alla nonviolenza - i pathan sono in genere fisicamente imponenti, abituati da sempre ad andare in giro con il fucile in spalla. La loro fama di guerrieri e' tale che gli stessi leader nazionalisti ne diffidano, e quando si sparge la notizia che hanno scelto la nonviolenza, i capi politici e militari britannici sospettano un inganno: il satyagraha - pensano con doppio razzismo - si addice ai fragili indiani, femminilizzati da due secoli di ruoli servili; chi possiede la forza non puo' fare a meno di usarla, perche' ai "selvaggi" manca l'autocontrollo (63).
Nel '38, Ghaffar Khan gira la Frontiera con Gandhi, per esercitare i volontari nel Programma costruttivo. Poi prosegue da solo, avversato dagli inglesi, dai mullah, dai nazionalisti musulmani, dai ricchi khan che non vogliono riforme. Sfugge a due attentati, continua a lottare per chiudere le faide familiari e tribali, cerca di "nutrire l'affamato e vestire l'ignudo", ricorda alle donne la loro parita' coranica con gli uomini. Insegna la sabr, la pazienza, ricordando che nel Corano e' la virtu' cardinale della jihad.
Nel 1940, quando Ali Jinnah lancia la secessione, Ghaffar Khan invita invece la Lega a cacciare gli inglesi e poi a vivere insieme, indu' e musulmani, come avevano fatto per secoli - gli estremisti lo bollano come Khan indu'. Ma e' attaccato anche da una parte dei pathan, che appoggiano la guerra e non approvano il matrimonio di suo figlio con una donna parsi, e di sua nipote con un sikh convertito al cristianesimo; a qualche inglese sembra "schiavo dei suoi principi", e "un po' matto" (64).
Durante i massacri indu'-musulmani, attraversa con Gandhi le regioni piu' infuocate per mettere pace e testimoniare la fratellanza. Si separano solo al momento in cui Gandhi parte per Calcutta, Khan per la Frontiera, dove i Khudai Khidmatgar stanno proteggendo indu' e sikh dai musulmani, e assicurano lealta' al neonato Pakistan, in cui e' stata inclusa buona parte della regione.
Ma aver lottato per l'unita' del subcontinente e' considerato un tradimento, e Ghaffar Khan reagisce accusando il governo pakistano di essere una (irreligiosa) marionetta dei britannici (65). Quando chiede autonomia per i pathan, i Khudai Khidmatgar sono messi al bando, le loro sedi distrutte, la loro memoria sistematicamente cancellata (66). Lui e' condannato a tre anni di carcere duro, prolungati a sette, e subito di nuovo arrestato. In un intervallo di liberta', fonda il primo partito socialdemocratico del Pakistan, ma ormai e' gravemente infermo - fra prigioni britanniche e pakistane, ha passato 30 anni rinchiuso (67).
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Sangue indiano, sangue britannico
Le istruzioni per la marcia del sale sono: non indietreggiare davanti ai fucili spianati, non difendersi neppure alzando le braccia per deviare i bastoni ferrati dei poliziotti, rialzarsi dopo le cadute, non fermarsi per mettere in salvo i feriti. Alcune descrizioni impressionano.
Negley Farson, corrispondente speciale del "Daily News" di Chicago, racconta di un gruppo di sikh: "Il capo sikh era simile alla statua del gladiatore di Roma: un uomo erculeo, con la barba legata alle orecchie. Lo stavano picchiando in testa, continuarono a colpirlo finche' il turbante si disfece. Ancora qualche bastonata e i capelli si sciolsero e gli caddero sulla faccia. Ancora un po' di sangue comincio' a colare giu' per i capelli neri penzolanti. Lui rimaneva li', ritto con le mani sui fianchi. Poi arrivo' un colpo particolarmente violento e cadde in avanti con il volto a terra. Mi avvicinai al sergente bianco: era tanto sudato per lo sforzo che la sua Sam Browne [modello di cintura] gli macchiava la bianca tunica. Lo fissai con il cuore in gola: tiro' indietro il braccio per la stangata finale... ma poi crollo' con le mani lungo il corpo. 'Non serve a niente', disse rivolgendosi a me con un vago ghigno di autogiustificazione. 'Non si puo' picchiare un disgraziato quando ti sta di fronte in quel modo'. Fece al sikh un irridente saluto militare e si allontano' [...]. Il sikh mi lancio' un sorriso sanguinolento e si rialzo' per ricominciare" (68).
Il saluto militare e' il classico riconoscimento concesso a chi ha combattuto e perso con onore. Solo che l'onore qui sta nel non combattere, e il tocco di irrisione serve probabilmente ad alleviare il doppio scacco di trovarsi nel ruolo del carnefice e di doversi arrendere a un coraggio cosi' diverso. "Vi sfiniremo con la nostra capacita' di soffrire", aveva detto Gandhi. Grazie all'esperienza diretta, il sergente capisce piu' e meglio del funzionario britannico che in quell'occasione parla di "entusiasmo isterico", di "smania del martirio".
Ma Farson racconta anche di una donna che sollevava il suo bambino per farlo colpire sulla testa, indifferente a tutto tranne che a offrirlo alla causa. Per simboleggiare l'inermita' offesa, ai bolscevichi e' stato necessario l'Ejzenstejn della Corazzata Potemkin, con la famosa carrozzina che rotola giu' dalla scalinata di Odessa. Quel che in Urss e' rappresentazione, in India e' realta'. Che sia una realta' desiderabile e' altra questione.
L'autosacrificio ha una lunga genealogia, dai protomartiri della cristianita' ai monaci tibetani di oggi, passando per il topos universale del guerriero compassionevole.
Ma che la scelta del sangue comprenda quello altrui e venga da un nonviolento, inquieta. Gandhi non sembra preoccuparsene: e' un pragmatico, che coltiva la speranza di limitare la violenza in una circostanza data, non la pretesa di cancellarla dal mondo. Che puo' rinunciare alla coerenza fra mezzi e obiettivi fino a rasentare il disprezzo per la vita (69). Ed e' un uomo devotissimo, che alla morte guarda attraverso il filtro della reincarnazione.
Considerando il medio periodo, si deve a lui (e da ultimo alla disponibilita' del governo laburista) se il sangue versato dagli indiani per l'indipendenza e' incomparabilmente minore di quello sparso in Algeria, Angola, Rhodesia, o in qualsiasi altro territorio ex coloniale. E se nessuna potenza ha lasciato un possedimento con cosi' poche perdite come il Regno Unito.
Che nel sangue risparmiato vada incluso quello britannico e' una ovvieta' non sempre ricordata. Quanto sarebbe costata a Londra una guerra di liberazione e' facile immaginare, pensando a un popolo di 300 milioni di persone, in cui una parte notevole degli uomini aveva imparato l'uso delle armi nelle campagne militari dell'impero, e in cui era vivo il ricordo della strage seguita all'ammutinamento dei Sepoy? Senza Gandhi, una guerra di guerriglia avrebbe probabilmente trovato appoggio interno (oltre che la simpatia dei socialisti europei e di settori dell'intellettualita' inglese). Senza di lui, persino il terrorismo avrebbe potuto affermarsi.
Certo, il Regno Unito restava una grande potenza, ma impoverita dalle guerre e dalla corsa al riarmo. Conservava l'orgoglio guerriero, ma le madri britanniche, stando alle sconsolate inchieste medico-sociali, di guerrieri ne producevano troppo pochi, piccoli di statura, deboli di salute, scarsamente patriottici, vulnerabili a paragone dei pathan delle montagne, che avevano proprie strutture militari, armi nascoste dopo l'invasione britannica e la possibilita' di riceverne altre dagli afghani a nord della Frontiera. "Avrebbero potuto condurre la piu' terribile delle rivolte se non fossero stati guidati da una commovente, persino cieca fiducia in 'Baba Gandhi'" (70). E fra gli indiani della pianura, le esplosioni di collera avrebbero potuto trasformarsi in ribellione endemica.
Nel '40, quando gli inglesi restano soli a combattere Hitler, cosa ne sarebbe stato di loro (e del mondo) se l'India si fosse sollevata, o addirittura, come proponeva il collaboratore e poi nemico di Gandhi Subhas Chandra Bose, si fosse schierata con Giappone e Germania?
A Londra, la statua di Gandhi al centro del parco di Tavistock Square lo raffigura seduto, in posa meditativa, non come il condottiero di masse che e' stato; e lo colloca all'interno di un memoriale dedicato anche a Hiroshima - fra le vittime, dunque, e a lui non sarebbe piaciuto. Che fosse difficile decidere con chi accompagnarlo e' vero; forse con nessuno. Ma perche' non un memoriale per lui solo, in nome dei tanti ragazzi cui la sua nonviolenza ha risparmiato il destino di quelli francesi in Indocina?
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Incoerente, effeminato, folle
Di Gandhi non si puo' certo dire che sia stato messo ai margini. Su di lui esiste una mole di opere, una collana di cento volumi raccoglie i suoi scritti. L'elezione a padre di un grande popolo protegge dall'oblio, ma lo imprigiona nell'immagine di uomo di dio. Lo era, lo e' sempre stato?
Gandhi ha sostenuto due guerre e una spedizione militare, non ha capito la portata della seconda guerra mondiale, ne' la frattura storico-politica rappresentata dai totalitarismi, e neppure il genocidio incombente (71). Agli ebrei ha consigliato di andare incontro alla morte in spirito nonviolento. Dov'e' il Gandhi secondo cui il satyagrahi non puo' assistere inerte all'ingiustizia, il Gandhi che rifiutava la passivita' e riteneva folle lanciare una campagna senza aver preparato gli aderenti? Gli e' subentrato, si direbbe, un politico come tanti, che sacrifica la difesa degli innocenti perseguitati alla propria passione - l'unita' con i compatrioti musulmani, ostili all'idea di un rifugio per gli ebrei in Palestina.
Quando un carissimo compagno di lotta - forse l'oggetto di una sua passione omoerotica - ormai vecchio e malato attraversa il mondo per supplicarlo di perorare la causa degli ebrei, Gandhi esita, infine scrive a Hitler, firmandosi "il suo amico sincero", nell'illusione di dissuaderlo dalla guerra: come e' stato detto di Simone Weil, una umilta' sovrumana puo' accompagnarsi a un'arroganza quasi oltraggiosa (72).
I suoi digiuni a oltranza sono una forma neppure velata di ricatto, e quando un missionario americano gliene chiede ragione risponde: "Si', e' lo stesso tipo di coercizione che Gesu' esercita su di voi dalla croce" (73). "Un potenziale santo puo' essere una persona molto difficile", scrive Eliot (74). La sua antropologia e' segnata dalla contrapposizione fra lo spirito, luogo della salvezza, e il corpo, luogo del cedimento - come per molti intellettuali novecenteschi - e in piu' e' devastata dal terrore della sessualita'.
Ma Gandhi e' fisicamente coraggioso, terapeutico per il morale del suo popolo, indifferente alla razza, alla religione, allo status. Autenticamente votato alla poverta' - alla sua morte, tutti i suoi averi valgono meno di 5 sterline. Dotato di un talento meraviglioso nell'esprimere i concetti piu' ardui in termini comprensibili a chiunque.
E' anche pieno di fiducia negli altri, giocoso, pronto a far ridere i bambini con le sue smorfie e un po' bambino lui stesso. Ironico, come quando, richiesto di un parere sulla civilta' occidentale, risponde: "Penso che sarebbe una buona idea" (75). Gli alti standard, scrive Orwell, non devono far dimenticare le virtu' poco appariscenti (76).
Con la sua compassione e le sue ambiguita', il suo candore e la scaltrezza ereditata dagli antenati mercanti, Gandhi e' un catalizzatore di sentimenti forti, ed era gia' cosi' per i contemporanei. Molti grandi del mondo lo consideravano la luce del Novecento. Fra i politici inglesi, i migliori lo appoggiavano, ma Churchill ne era offeso e inorridito, e non pochi speravano appassionatamente che morisse durante un digiuno. Il suo peccato andava al di la' dell'indipendenza, era l'impressione che - semplicemente esistendo - si facesse beffe del modello di politica (e di mascolinita') caro all'Occidente.
Un leader che ogni giorno fila la sua bobina di cotone, che si presenta al re-imperatore coperto di un dothi come l'ultimo degli straccioni, espone il suo corpo invecchiato e la bocca sdentata, siede per terra a gambe incrociate, rifugge dalla convivialita' maschile, non e' un vero politico, ne' un vero uomo. Se il suo autocontrollo e il suo coraggio sono indiscutibili, ci si puo' rivalere chiamandolo "omuncolo", "fachiro mezzo nudo", "simulatore di digiuni" - l'imperialismo e' un sentimento piuttosto che una politica (77).
Gandhi lo sapeva, e contro l'idealizzazione dell'eta' adulta, della mascolinita' e della normalita', aveva scelto di essere "irresponsabile, effeminato, immaturo e folle" (78) - corpo estraneo.
Anche negli anni Sessanta-Settanta, chi fa conoscenza con lui si innamora o lo scarta. Le lotte all'Est e gran parte del movimento per i diritti civili si ispirano al satyagraha; gli studenti in Occidente quasi lo ignorano, fa scuola lo psichiatra Fanon, che teorizza il potere liberatorio della violenza degli oppressi. Gli eroi sono Guevara, Ho Chi Min, Mao.
Presto, sull'onda del neofemminismo e degli studi postcoloniali, si fara' strada un nuovo sguardo critico su Gandhi, sul suo pensiero in tema di femminilita' e mascolinita' (79), sul suo ecumenismo che pretende di unire l'elite occidentalizzata, i professionisti, i proprietari terrieri e i contadini poveri (80) sacrificando - detto brutalmente - la lotta di classe a quella anticoloniale (81).
Altri studiosi proveranno ad accorciare la distanza dalle icone rivoluzionarie (e da Marx e Lenin) setacciando la sua opera in cerca di tratti apparentabili, o definendo marginale il suo ascetismo. Ma Gandhi non e' meno lontano da Guevara che da Churchill (82); e, come scrive Erikson, "se il satyagraha ha avuto la potenzialita' di rivaleggiare con la liberazione del lavoro leniniana e di sfidare altre fedi politiche del XX secolo, la realizzazione dipendeva dalla fedelta' o dall'infedelta' [di Gandhi] alla sua purezza interna" (83).
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Rimuovere Gandhi?
E oggi, che sotto i nostri occhi passa di tutto e il suo contrario, che la nostra societa' sembra impegnata a inverare la profezia di Gandhi sulla sua autodistruzione?
In una recente biografia molto ben accolta e qui gia' citata, Great Soul di Joseph Lelyveld, compare un Gandhi politico mediocre, padre indifferente, autocrate capriccioso, maniaco che tiene il conto di ogni grammo ingerito, di ogni centimetro di pelle da mostrare, di ogni piega del tessuto in cui si avvolge, di ogni esercizio di automortificazione. Un asceta egotico, che da vecchio ama dormire con fanciulle seminude usandole come strumento per mettere alla prova la sua castita', un moralista ipocrita che nasconde un legame omosessuale. In una biografia di poco precedente (84), si raccontano le sue prevaricazioni contro tutti i politici durante le campagne sull'intoccabilita'; l'ossessione per le funzioni del corpo, la pretesa di usare i nipoti come segretari e assistenti, l'ipersessualita' anche in eta' avanzata. Si spiega che la piu' famosa fotografia di Gandhi a Dandi dopo la marcia del sale, e' una "ripetizione" dell'arrivo, scattata tre giorni dopo e a 20 chilometri di distanza - ma di quante altre immagini elette a simbolo si puo' dire lo stesso. Si denunciano i molti aggiustamenti delle due autobiografie. Si sostiene che la sua ambizione non era l'indipendenza o una vita migliore per gli indiani; era raggiungere la propria perfezione spirituale.
Non si tratta di pamphlet, quelli di Lelyveld e Adams sono studi documentati. Solo che presentano come disvelamenti una serie di critiche gia' circolanti fra gli oppositori di Gandhi (che non nascondeva affatto le proprie abitudini) e in biografie precedenti (85). Viene allora spontaneo chiedersi se la character assassination nel suo caso non sia un po' troppo attraente. Perche' e' un "santo", il che rende le "scoperte" piu' ghiotte? O perche', scrive lo stesso Lelyveld, anche adesso, "non lascia tranquilli gli indiani, e nemmeno il resto del mondo" (86).
Tutte e due le cose, probabilmente. Gandhi disturba, specie se incontra l'iperateismo, l'iperrazionalismo, il marxismo militante e altri ismi; e viene ricambiato. Per esempio da Domenico Losurdo, che dedica grande spazio a "smascherarlo" (87). O da Christopher Hitchens (88). Per Hitchens, l'India, che avrebbe avuto bisogno di un moderno leader, si e' trovata nelle mani di un fachiro - le parole di Churchill ottanta anni fa. Un fachiro che con i suoi discorsi sull'induismo e le sue ostentazioni di culto, avrebbe incrementato la paura dei musulmani di trovarsi subordinati alla maggioranza indu', spingendoli alla secessione. Un cattivo modello per i popoli oppressi, capace di invitare un dirigente sudafricano a non vergognarsi di indossare soltanto un pezzo di stoffa intorno ai fianchi: "Non e' facile - ammicca Hitchens, in questo caso occidentalista inconsapevole - immaginare Nelson Mandela che segue questo semplice consiglio". Un cattivo maestro, convinto che il meglio per l'anima siano la castita' e la poverta' (89). Un opportunista: lanciare la campagna "Quit India!" nel 1942 significava delegare i giapponesi a combattere per la liberta' del paese, mentre quando l'esercito di Hirohito premeva ai confini dell'India, sarebbe stato doveroso prepararsi a una guerriglia. Infine, Gandhi e' un totale anacronismo.
Eppure, scrive Judith Brown, come "uomo del suo tempo che pone le domande piu' profonde anche se non ne conosce la risposta", puo' essere un uomo per tutti i tempi (90). L'India si e' gettata nella modernita' piu' caotica senza saper eliminare l'abisso fra i ricchi e i poveri, ne' il peso delle caste. E neppure il crimine degli aborti selettivi di femmine e dell'uccisione di neonate, la violenza contro le donne (91). Ma conta alcuni grandi teorici dell'economia compatibile, pullula di attivisti per la difesa dell'ambiente, ha un primo ministro sikh, ha avuto tre presidenti musulmani, il maggiore partito e' presieduto da una donna di origini cristiane. E il Shanti Sena ha fatto da modello per l'interposizione a livello di base.
Gandhi e' spesso mal conosciuto, a volte brutalmente distorto: per la sua affezione all'Islam e il suo antico sostegno al califfato si e' arrivati a nominarlo precursore di Osama bin Laden (92). Ma ha ispirato grandi critici della modernita', a cominciare da Ivan Illich. E ha trovato eredi non previsti: dai promotori delle sollevazioni arabe del 2011, alle ragazze ucraine del gruppo di opposizione femminista Femen, che manifestano scoprendosi il seno davanti ai poliziotti impietriti - e che avrebbero lasciato Gandhi stupefatto.
Sembra invece spento il ricordo della nonviolenza ispirata all'islam. Inserito nel 1984 fra i possibili Nobel per la pace, Ghaffar Khan viene scartato perche' troppo pochi lo conoscono. Dopo l'11 settembre, un articolo di Karl E. Meyer sul "New York Times" lo citava come uno straordinario precedente e una prova della complessita' dell'Islam (93) - un'osservazione che non viene raccolta. La Frontiera in questi anni e' una zona di insediamento dei talebani, la retorica sui pashtun superguerrieri prospera, per costruire una tradizione democratica il governo afghano ha preferito appoggiarsi a un vecchio re. Questa e' l'impressione che si ha guardando all'Occidente e dall'Occidente (94).
Ce n'e' un'altra, diversa. Ghaffar Khan muore nel 1988, durante la guerra fra Urss e Afghanistan. Folle strabocchevoli di afghani e pakistani (non solo di etnia pashtun) e di indiani lo accompagnano da Peshawar a Jalalabad: in suo onore, le frontiere sono state aperte, le ostilita' sospese (95).
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Note
46. Gandhi, discorso tenuto a Borsad (18 marzo 1930), citato in Chadha, Gandhi cit., p. 290.
47. Shridharani, War without Violence cit., p. 68. Per gli stessi motivi, si opponeva anche all'elettorato separato per le classi schedate (Scheduled castes) cioe' quelle in condizioni particolarmente disagiate, incluse in un'apposita lista dalle autorita' britanniche, cfr. Chadha, Gandhi cit., p. 320.
48. Shridharani, War without Violence cit., p. 66.
49. Lelyveld, Great Soul cit., p. 245.
50. Gandhi, Hind Swaraj cit., pp. 211 e 64-65.
51. Lelyveld, Great Soul cit., p. 313.
52. Chadha, Gandhi cit., p. 436.
53. Vedi la descrizione della nipote Manu, in Attali, Le reveil cit., pp. 523-527.
54. Thomas Weber, Gandhi's Peace Army, The Shanti Sena and Unarmed Peacekeeping, Syracuse University Press, Syracuse, NY 1995, pp. 69 e sgg. Gandhi non pensava a una polizia locale o a un corpo di volontari incaricato di sopprimere le ribellioni, ma a una forza a livello di base capace di prevenirle, e, se scoppiavano, di interporsi fisicamente. La sua fondazione e' del 1958, a opera, fra gli altri, dell'erede spirituale Vinoba Bhave.
55. Le due citazioni di Mountbatten si trovano in Larry Collins e Dominique Lapierre, Mountbatten and Independent India, Vikas, Uttar Pradesh 1984, alle pp. 45-46 e IX, citate in Chadha, Gandhi cit., pp. 464 e 469.
56. Jeffery J. Roberts, The Origins of Conflict in Afghanistan, Praeger, Westport 2003, p. 11.
57. Eknath Easwaran, Badshah Khan, il Gandhi musulmano, trad. it., Sonda, Torino 2008, p. 148.
58. Sulle difficolta', cfr. Mukulika Banerjee, in The Pathan Unarmed. Opposition and Memory in the North West Frontier, Oxford University Press, Karachi - New Delhi 2000; l'autrice racconta che nelle manifestazioni pubbliche le donne preferivano sfilare separatamente per conservare un residuo del purdha, l'invisibilita' femminile nello spazio pubblico, pp. 98-100.
59. Easwaran, Badshah Khan cit., p. 174. Sulla sua vita e dottrina vedi anche Banerjee, The Pathan Unarmed cit.
60. Ad aderire e' una minoranza, ma consistente; cfr. Rajmohan Gandhi, Eight Lives: A Study of the Hindu-Muslim Encounter, State University of New York Press, New York 1986, p. 120.
61. Nel bazar di Qissa Khwani manifestanti inermi sono investiti da carri armati, con piu' di trecento morti, colpiti a freddo tra la folla che rimane ferma. Il massacro e' documentato nei giornali anglo-indiani del tempo e negli studi di Gene Sharp.
62. Gandhi, in "Harijan", October 15, 1938, citato in Ronald Duncan (a cura di), Selected Writings of Mahatma Gandhi, Beacon Press, Boston 1951, p. 90.
63. Shridharani, War without Violence cit., p. 210; per un confronto tra le figure di Gandhi e Ghaffar Khan, e fra indù e pathan, vedi ivi, pp. 212-214 e sgg.
64. Roberts, The Origins of Conflict cit., pp. 63 e 72.
65. Ivi, p. 168. Vedi anche Chand Attar, India, Pakistan and Afghanistan: A Study of Freedom Struggle and Abdul Ghaffar Khan, Commonwealth, New Delhi 1989.
66. Sulla storia dei Khudai Khidmatgar e sulla loro damnatio memoriae, e' fondamentale Banerjee, The Pathan Unarmed cit.
67. Easwaran, Badshah Khan cit., p. 250. Vedi anche Abdul Ghaffar Khan, My Life and Struggle: Autobiography of Badshah Khan, Hind Pocket Books, Delhi 1969.
68. L'episodio, come quello seguente, e' in Chadha, Gandhi cit., pp. 295-296.
69. Pontara, Riflessioni sparse cit., par. "Virtu' marziali e disprezzo per la vita", pp. 27 e sgg. Al tempo della (prima) guerra del Kashmir, nel corso di una preghiera pubblica "Gandhi disse che non avrebbe versato una sola lacrima se tutti i valorosi soldati indiani coinvolti nella difesa del Kashmir fossero stati annientati", cfr. Chadha, Gandhi cit., p. 447.
70. Shridharani, War without Violence cit., p. 212.
71. Infatti associa gli ebrei in Germania agli indiani in Sudafrica, e Buber deve spiegargli che le condizioni sono imparagonabili, Le lettere fra Gandhi, Martin Buber e Judah L. Magnes sono pubblicate sotto il titolo Devono gli ebrei farsi massacrare?, in "Micromega", 2, 1991.
72. T.S. Eliot, Prefazione a Simone Weil, The Need for Roots: Prelude to a Declaration of Duties towards Mankind, trad. inglese, Routledge, London 2002, p. VIII.
73. E. Stanley Jones, Mahatma Gandhi, London 1948, p. 143, citato in Nanda, Gandhi and His Critics, Oxford University Press, Oxford 1996, p. 21.
74. Eliot, Prefazione a The Need for Roots cit. p. VIII.
75. Ashis Nandy, Dall'esterno dell'impero. Una critica radicale alla modernita', in Gandhi, Hind Swaraj cit., p. 140.
76. George Orwell, Reflections on Gandhi, in "Partisan Review", 16, 1, January 1949.
77. Il detto, di David Somervell, e' in esergo a Nandy, The Intimate Enemy cit.
78. Nandy, Dall'esterno dell'impero cit., p. 168.
79. Sul Gandhi "femminista" esiste una discussione non vasta ma acuta, che ha visto alcune pensatrici su posizioni opposte: da Gloria Steinem (Revolution from Within: A Book of Self-Esteem, Little, Brown and Company, Boston 1992; trad. it., Autostima, Rizzoli, Milano 1992), secondo cui la "riforma" interiore di Gandhi offre un'analogia con la lotta delle donne per la liberta' e l'autostima, a Carol Gilligan (In a Different Voice: Psychological Theory and Women's Development, Harvard University Press, Cambridge 1982; trad. it., Con voce di donna. Etica e formazione della personalita', Feltrinelli, Milano 1987), che denuncia le contraddizioni fra la sua vita quotidiana e l'etica della nonviolenza. Il dibattito non sempre si misura con la storia del paese, come avviene invece tra le femministe indiane, vedi in particolare Ketu H. Katrak e per il nodo nazionalismo e sessualita' Andrew Parker, Mary Russo, Doris Sommer, and Patricia Yaeger (a cura di), Nationalisms and Sexualities, Routledge, New York-London 1992, che affronta il tema in varie realta' ex coloniali.
80. Judith Brown, Gandhi's Rise to Power, Cambridge University Press, London 1972, pp. 322, 343-346.
81. Alcune rivolte contadine dei primissimi anni Venti avrebbero avuto una fisionomia autonoma e politica che Gandhi non raccoglie. Cfr. Gyanendra Pandey, Peasant Revolt and Indian Nationalism: The Peasant Movement in Awadh, 1919-22, e Shahid Amin, Gandhi as Mahatma, in Ranajit Guha e Gayatri Chakravorty Spivak (a cura di), Selected Subaltern Studies, Oxford University Press, New York 1888, pp. 233-274 e 275-342. Nascono in India nell'82 i Subaltern (nell'accezione gramsciana) Studies, che sotto l'influenza di Gramsci si dedicano allo studio di chi soffre la storia e non la scrive.
82. Esempi di analogie fra Gandhi e Guevara in Pontara, Introduzione cit., pp. LXXXV, XC, CXXIII.
83. Erikson, Gandhi's Truth, cit., p. 421.
84. Adams, Gandhi cit., Quercus, Londra 2010.
85. Una fra tante, Chadha, Gandhi cit. pp. 423 e sgg.
86. Lelyveld, Great Soul cit., p. XV.
87. Spesso in modo ingeneroso, vedi l'analisi sull'"ideologia della guerra" in Losurdo, La non-violenza cit., pp. 80 e sgg.
88. Christopher Hitchens, The Real Mahatma Gandhi, in "The Atlantic Magazine", July/August 2011, recensione a Lelyveld, Great Soul cit. Hitchens si definiva "a very conservative Marxist".
89. Ma c'e' una differenza abissale fra una diversa concezione dell'uso dei beni e la miseria, che Gandhi, proprio perche' amava i poveri, detestava.
90. Judith M. Brown, Gandhi: Prisoner of Hope, Yale University Press, New Haven - London 1989, p. 394.
91. Si arriva persino, in Rajasthan nel 1987, a casi di riemersione del sati (l'immolazione delle vedove sulla pira del marito morto). Le indiane hanno molto per cui lottare; cfr. Katrak, Politics of the Female Body cit., pp. 84 e sgg.
92. Vedi la critica a questa idiozia in James L. Rowell, Gandhi and Bin Laden: Religion at the Extremes, University Press of America, Lanham 2009.
93. Karl E. Meyer, The Peacemaker of the Pashtun Past, in "The New York Times", December 12, 2001, uno dei pochi giornali a dare notizia della sua morte.
94. Per esempio nel libro di Lelyveld, che trabocca di personaggi legati a Gandhi, Ghaffar Khan non esiste.
95. Anche se a Jalalabad quel giorno c'e' un attentato, cfr. Valerio Pellizzari, In battaglia, quando l'uva e' matura. Quarant'anni di Afghanistan, Laterza, Roma-Bari 2012, p. 202.

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DONNA, VITA, LIBERTA'
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A sostegno della lotta nonviolenta delle donne per la vita, la dignita' e i diritti di tutti gli esseri umani
a cura del "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo
Supplemento a "La nonviolenza e' in cammino" (anno XXIV)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com
Numero 86 del 27 marzo 2023
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Il "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo e' una struttura nonviolenta attiva dagli anni '70 del secolo scorso che ha sostenuto, promosso e coordinato varie campagne per il bene comune, locali, nazionali ed internazionali. E' la struttura nonviolenta che oltre trent'anni fa ha coordinato per l'Italia la piu' ampia campagna di solidarieta' con Nelson Mandela, allora detenuto nelle prigioni del regime razzista sudafricano. Nel 1987 ha promosso il primo convegno nazionale di studi dedicato a Primo Levi. Dal 2000 pubblica il notiziario telematico quotidiano "La nonviolenza e' in cammino". Dal 2021 e' particolarmente impegnata nella campagna per la liberazione di Leonard Peltier, l'illustre attivista nativo americano difensore dei diritti umani di tutti gli esseri umani e dell'intero mondo vivente, da 47 anni prigioniero innocente.
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