[Nonviolenza] La biblioteca di Zorobabele. 99



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LA BIBLIOTECA DI ZOROBABELE
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Segnalazioni librarie e letture nonviolente
a cura del "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo
Supplemento a "La nonviolenza e' in cammino" (anno XXII)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com
Numero 99 del primo giugno 2021

In questo numero:
Jean-Marie Muller: Le possibilita' di una cultura della nonviolenza

MAESTRI. JEAN-MARIE MULLER: LE POSSIBILITA' DI UNA CULTURA DELLA NONVIOLENZA
[Da Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace, Plus - Pisa University Press, Pisa 2004 (traduzione italiana di Enrico Peyretti dell'edizione originale Le principe de non-violence. Parcours philosophique, Desclee de Brouwer, Paris 1995), riprendiamo il capitolo quindicesimo: "Le possibilita' di una cultura della nonviolenza" (pp. 283-302). Ringraziamo di cuore Enrico Peyretti per averci messo a disposizione la sua traduzione e la casa editrice Plus - Pisa University Press per il suo consenso.
Jean-Marie Muller, filosofo francese, nato nel 1939 a Vesoul, docente, ricercatore, e' tra i più importanti studiosi del pacifismo e delle alternative nonviolente, oltre che attivo militante nonviolento. E' direttore degli studi presso l'Institut de Recherche sur la Resolution non-violente des Conflits (Irnc). In gioventu' ufficiale della riserva, fece obiezione di coscienza dopo avere studiato Gandhi. Ha condotto azioni nonviolente contro il commercio delle armi e gli esperimenti nucleari francesi. Nel 1971 fondo' il Man (Mouvement pour une Alternative Non-violente). Nel 1987 convinse i principali leader dell'opposizione democratica polacca che un potere totalitario, perfettamente armato per schiacciare ogni rivolta violenta, si trova largamente spiazzato nel far fronte alla resistenza nonviolenta di tutto un popolo che si sia liberato dalla paura. Tra le opere di Jean-Marie Muller: Strategia della nonviolenza, Marsilio, Venezia 1975; Il vangelo della nonviolenza, Lanterna, Genova 1977; Significato della nonviolenza, Movimento Nonviolento, Torino 1980; Momenti e metodi dell'azione nonviolenta, Movimento Nonviolento, Perugia 1981; Lessico della nonviolenza, Satyagraha, Torino 1992; Simone Weil. L'esigenza della nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1994; Desobeir a' Vichy, Presses Universitaires de Nancy, Nancy 1994; Vincere la guerra, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1999; Il principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004; Dictionnaire de la non-violence, Les Editions du Relie', Gordes 2005; Desarmer les dieux. Le christianisme et l'slam face a' la non-violence, Editions du Relie', Gordes 2009.
Enrico Peyretti (1935) e' uno dei maestri della cultura e dell'impegno di pace e di nonviolenza; e' stato presidente della Fuci tra il 1959 e il 1961; nel periodo post-conciliare ha animato a Torino alcune realta' ecclesiali di base; ha insegnato nei licei storia e filosofia; ha fondato con altri, nel 1971, e diretto fino al 2001, il mensile torinese "il foglio", che esce tuttora regolarmente; e' ricercatore per la pace nel Centro Studi "Domenico Sereno Regis" di Torino, sede dell'Ipri (Italian Peace Research Institute); e' stato membro del comitato scientifico del Centro Interatenei Studi per la Pace delle Universita' piemontesi, e dell'analogo comitato della rivista "Quaderni Satyagraha", edita a Pisa in collaborazione col Centro Interdipartimentale Studi per la Pace; e' membro del Movimento Nonviolento e del Movimento Internazionale della Riconciliazione; collabora a varie prestigiose riviste. Tra le opere di Enrico Peyretti: (a cura di), Al di la' del "non uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la guerra, Beppe Grande, Torino 1999; Dov'e' la vittoria?, Il segno dei Gabrielli, Negarine (Verona) 2005; Esperimenti con la verita'. Saggezza e politica di Gandhi, Pazzini, Villa Verucchio (Rimini) 2005; Il diritto di non uccidere. Schegge di speranza, Il Margine, Trento 2009; Dialoghi con Norberto Bobbio, Claudiana, Torino 2011; Il bene della pace. La via della nonviolenza, Cittadella, Assisi 2012; Elogio della gratitudine, Cittadella, Assisi 2015; e' disponibile nella rete telematica la sua fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia storica delle lotte nonarmate e nonviolente, di seguito riprodotta, che e' stata piu' volte riproposta anche su questo foglio; vari suoi interventi (articoli, indici, bibliografie) sono anche nei siti: www.serenoregis.org, www.ilfoglio.info e alla pagina web http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti Un'ampia bibliografia (ormai da aggiornare) degli scritti di Enrico Peyretti e' in "Voci e volti della nonviolenza" n. 68]

Per il fatto di essere giudicata irrazionale dalla gran parte dei nostri contemporanei, la nonviolenza non attira la loro attenzione ne' il loro interesse. Nel caso migliore, suscita la lontana simpatia di un certo numero di persone, senza che, tuttavia, queste abbandonino una estrema riserva nei suoi riguardi. Tutto accade come se le persone ragionevoli provassero, davanti agli altri, un certo pudore che le trattenesse dal prendere la nonviolenza sul serio.
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La necessita' di combattere la violenza irrazionale
Se la nonviolenza non cessa di sembrare cosi' irrazionale alla maggioranza, non e' perche' questa dubiti che essa corrisponda, in assoluto e dunque in astratto, all'esigenza morale dell'uomo ragionevole. Ma la violenza cosi' intesa resta un principio della morale pura, cioe' puramente formale, che non tiene conto delle realta' concrete del mondo storico nel quale l'uomo deve agire. Tutti riconoscono che il principio di nonviolenza e' universale, ma lo fanno solo per meglio sostenere che non potrebbe essere applicato nella storia se non quando tutti gli uomini fossero ragionevoli e scegliessero liberamente di rinunciare alla violenza, il che, propriamente, non si e' mai realizzato e certamente non lo sara' mai.
In queste condizioni, la maggioranza ritiene fondato pensare che la nonviolenza, pur esprimendo l'esigenza morale dell'individuo che cerca un senso alla sua esistenza nel mondo, non e' in grado di rispondere alla necessita' tecnica dell'azione efficace nella storia. Per questo la maggioranza resta convinta che solo la violenza risponde agli imperativi tecnici dell'azione politica mirante a costruire una societa' pacifica.
La ragione invocata dall'uomo "ragionevole" - da chi, almeno, si ritiene tale e come tale e' generalmente riconosciuto – per legittimare la violenza, e' che questa e' necessaria per contenere, allontanare e, per quanto possibile, eliminare la violenza degli uomini irragionevoli. E, in effetti,  poiche' l'uomo si comporta per natura piu' cedendo ai desideri della passione che sottomettendosi alle esigenze della ragione, esso e' piu' "cattivo" che "buono", piu' incline a fare il male che il bene. Volendo anzitutto soddisfare i suoi bisogni e desideri, e' naturalmente egoista; guarda l'altro come un avversario e un rivale, che e' necessario combattere. L'immagine dell'uomo buono per natura che sarebbe stato corrotto dalla societa', non e' che un mito. Quello che c'e', nel mondo reale, nella storia concreta, e' la violenza che ferisce e uccide l'umanita', la violenza col suo corteo di distruzioni, ingiustizie, sofferenze, disgrazie e morti. E questa violenza che pesa continuamente sugli uomini come una minaccia mortale, proviene sia dall'interno che dall'esterno della societa'. Dunque, per sopravvivere e per vivere, gli uomini hanno il dovere di organizzarsi per difendersi contro questa doppia minaccia.
Dal momento che l'uomo ragionevole ha preso coscienza del male oggettivo che e' la violenza, e' condotto a scegliere di combatterla per tentare di costruire un mondo in cui possano prevalere l'ordine, il diritto, la sicurezza, la giustizia e la pace, cioe' la nonviolenza. E l'unico mezzo tecnico che sembra capace di lottare efficacemente contro la violenza, e' la violenza. Per questo gli uomini ragionevoli hanno cercato di costruire uno Stato forte che disponga di tutti i mezzi della violenza necessaria, da un lato per costringere i nemici interni a sottomettersi alla legge, e, d'altro lato, per combattere i nemici esterni che volessero imporre loro la propria legge. Lo Stato si arroga allora il monopolio dell'impiego legittimo della violenza lasciando credere che lo fa per preparare il tempo della nonviolenza.
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La violenza legittimata dalla nonviolenza
Cosi' la violenza e' considerata dall'uomo ragionevole che vuole agire con efficacia nella storia, come il solo mezzo per realizzare la nonviolenza, che e' il fine della storia. Se si ammette che il fine giustifica i mezzi, la nonviolenza giustifica la violenza. Da quel momento, la violenza seconda, la contro-violenza, con la quale l'uomo ragionevole combatte la violenza primaria degli uomini irragionevoli, diventa essa stessa ragionevole. Anzi, l'uomo violento ha diritto di valersi di una morale superiore a quella dell'uomo nonviolento, perche', in definitiva, soltanto la violenza e' morale, dato che essa sola puo' realizzare la nonviolenza nella storia. La violenza viene cosi' legittimata dalla nonviolenza, e tutta la critica che il nonviolento e' pronto a rivolgere al violento viene ridotta a nulla, perche' il violento puo' fondatamente avvalersi dell'argomento stesso della nonviolenza per giustificare la propria azione nella storia. Dal momento che la nonviolenza e' l'argomento inconfutabile della violenza, questa diventa totalmente indiscutibile. E infatti non e' piu' discussa.
Si assiste allora all'inversione degli oneri. E', al contrario, il nonviolento che si trova colto in fallo dal violento, il quale lo accusa di farsi complice della violenza, di fare il suo gioco lasciandole libero corso, di abbandonare la storia in suo potere, poiche', di per se', la nonviolenza non offre alcun mezzo tecnico per combattere l'azione irragionevole di quelli che distruggono la pace della comunita'. Ancora, si accusa il nonviolento di cullarsi nell'ipocrisia, facendogli notare che e' liberissimo di parlare di nonviolenza solo in quanto puo' godere di una sicurezza personale e collettiva di cui e' debitore a quanti non hanno esitato, assumendo su di se' i piu' grandi rischi, a ricorrere alla violenza. Piu' di tutti gli altri, il nonviolento merita cosi' il rimprovero che Peguy rivolgeva ai discepoli di Kant, di avere le mani pure, ma di non avere mani. E, per riprendere ancora le parole di Peguy, l'uomo violento riconosce di avere mani nodose, callose, peccatrici, ma puo' vantarsi di avere qualche volta le mani piene (1). E', in realta', un cattivo processo alle intenzioni quello fatto al nonviolento quando lo si rimprovera di essere complice della violenza irragionevole col rifiutare di ricorrere alla violenza pretesa ragionevole. Il nonviolento conseguente ha coscienza del fatto che e' la violenza irragionevole che avvia l'ingranaggio della violenza, e il suo rifiuto della violenza e' anzitutto rifiuto della violenza primaria che genera l'ingiustizia. Egli e' altrettanto consapevole che il suo rifiuto non puo' ridursi a una condanna morale, e che egli deve esprimerlo in una azione nella storia.
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La nonviolenza come obbligo verso gli altri
Certo, l'esigenza di nonviolenza richiede all'individuo che si sforzi di astenersi – tenersi lontano – da ogni impiego della violenza, ma, nello stesso tempo, e ancora piu' fortemente, vuole da lui che lotti contro la violenza che impregna i rapporti umani entro la comunita' storica a cui egli appartiene. Insomma, l'adempimento della prima richiesta appare, agli occhi di chi sceglie la nonviolenza, come la condizione necessaria, benche' non sufficiente, all'adempimento della seconda. Il destino individuale dell'uomo non ha senso che legato al destino della sua comunita' e, al di la' di questa, ma attraverso questa, legato all'umanita' tutta intera. L'uomo che ha scelto la nonviolenza ha coscienza di non poter cercare il proprio appagamento in solitudine. Egli deve realizzare la nonviolenza in seno alla sua comunita', la' dove gli altri non sono nonviolenti, o almeno non lo sono tutti. In quanto esigenza morale, la nonviolenza e', nello stesso tempo e inseparabilmente, obbligo verso se' stessi e obbligo verso gli altri, in modo tale che e' inutile pretendere di stabilire una predominanza di un obbligo sull'altro. Nella vita, l'obbligo verso se' stessi non si esprime che nell'obbligo verso gli altri e si realizza nella relazione con gli altri.
La nonviolenza non puo' fondare una morale della pura intenzione, che porterebbe l'individuo a disinteressarsi delle conseguenze delle sue decisioni e dei suoi atti. E' proprio perche' si interessa delle conseguenze della violenza che l'uomo nonviolento la rifiuta. Come chiunque altro – e forse di piu' – il nonviolento e' cosciente del fatto che un'azione non e' morale soltanto per le sue intenzioni, ma anche, e in modo definitivo, per le sue conseguenze. L'uomo nonviolento non potrebbe ritirarsi dal mondo per salvarsi meglio dall'impurita' della violenza. Se abbandonasse il mondo, lo abbandonerebbe in realta' nelle mani di quelli che non hanno alcuno scrupolo ad agire con violenza; si farebbe in effetti complice dell'impero della violenza. E' nel mondo cosi' com'e', cioe' violento, che egli deve sforzarsi di vivere secondo l'esigenza di nonviolenza. Cio' che importa, riguardo alla morale che fonda l'esigenza di nonviolenza, non e' la purezza individuale del solitario che rifiuta di compromettersi con la realta' e rinuncia ad assumere le sue responsabilita' nella storia; cio' che importa e' il progresso effettivo della nonviolenza nelle relazioni tra le persone entro la societa'.
Certo, se il nonviolento rinuncia alla violenza, e' per evitare di farsi prendere in un ingranaggio che distruggerebbe la sua umanita'. Egli esige, senza doversene scusare, che si riconosca la legittimita' di questa preoccupazione, la quale, secondo lui, e' costitutiva dell'esigenza filosofica che da' senso e trascendenza alla sua vita. Ma se il nonviolento rinuncia alla violenza, lo fa anche, e inseparabilmente, con la preoccupazione di proteggere l'umanita' degli altri affinche' almeno non abbiano a soffrire per opera sua. Il rifiuto della violenza non e' un fine in se', non costituisce lo scopo che il nonviolento cerca di raggiungere. Il rifiuto della violenza non e' altro che la dimensione negativa della nonviolenza. La sua dimensione positiva e' fare progredire la nonviolenza, cioe' la giustizia, nelle relazioni umane. E' questo progresso lo scopo che il nonviolento cerca di raggiungere. E se non ignora che puo' essere condotto ad accettare di morire per non rinunciare alle convinzioni che danno un senso alla sua vita, egli fara' tutto cio' che dipende da lui per sfuggire a una tale situazione. Se deve coscientemente assumere il rischio di morire, non e' per proteggere la sua purezza, ma per combattere le ingiustizie che fanno violenza agli oppressi, e per rifiutare le menzogne con cui gli oppressori giustificano quelle ingiustizie.
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Rifiutare anzitutto la vilta'
Per decidere il proprio atteggiamento di fronte all'ingiustizia, l'uomo non si trova posto davanti all'alternativa violenza-nonviolenza; dal primo momento, e' un'altra la scelta che in realta' gli si offre: quella del rifiuto dell'azione. La scelta tra violenza e nonviolenza non esiste se non per colui che ha gia' scelto di agire contro l'ingiustizia. Il dibattito su violenza e nonviolenza, dunque, non puo' essere impostato correttamente se non e' rapportato a un terzo polo: quello dell'inazione, cioe' della fuga, della passivita', della rassegnazione, che si radica nella paura e si esprime nella vilta'. Ogni discussione su questo argomento e' falsata fin quando e' organizzata in rapporto a due poli soltanto (violenza-nonviolenza) e non a tre (vilta'-violenza-nonviolenza).
Bisogna riconoscere che chi ha scelto la violenza per combattere l'ingiustizia ha gia' dato prova di coraggio superando la sua paura e rifiutando di essere vile. Se la nonviolenza non e' anzitutto opposta alla vilta', incontrera' sempre incomprensione quando la si opporra' alla violenza. La questione "violenza-nonviolenza" non e' posta correttamente se non quando viene presentata la scelta tra due forme di resistenza contro l'ingiustizia e tra due forme di rischio davanti alla violenza avversaria. In entrambi i casi, l'atteggiamento puo' essere coraggioso e intrepido, l'intenzione buona e pura, la volonta' ferma e determinata. Questo non deve essere messo in discussione. La discussione deve essere su due forme di mezzi, di tecniche, di metodi d'azione, che devono essere giudicati non soltanto in funzione della loro moralita', ma anche in funzione della loro efficacia per raggiungere il fine ricercato.
Il nonviolento non ignora che la lotta contro la violenza deve essere efficace. Egli sa che non basta avere ragione contro la violenza, ma che bisogna averne ragione. Ma, precisamente, esiste una contraddizione irriducibile tra il mezzo tecnico della violenza e il fine morale della nonviolenza. L'uomo che si crede "ragionevolmente" realista intende assumere questa contraddizione sostenendo che gli e' imposta dalla necessita' tecnica dell'azione politica. E pretende che, in fin dei conti, poiche' solo la violenza permette di mettere in condizione di non nuocere gli uomini irragionevoli, essa e' necessaria per fare indietreggiare la violenza e far progredire la ragione nella storia reale degli uomini. Ma e' cosi' certo tutto questo?
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La violenza e' sempre irragionevole
Certo, non si puo' dare lo stesso giudizio morale sulla violenza dell'uomo irragionevole e la contro-violenza dell'uomo ragionevole, eppure questa resta una violenza e, come tale, non e' ragionevole. Non basta che la decisione di usare la violenza appaia ragionevole per far si' che l'azione violenta sia ragionevole. Ogni violenza contiene in se' una parte irriducibile di irrazionale. In astratto, si puo' decidere ragionevolmente di ricorrere alla violenza; in concreto, non si uccide mai ragionevolmente. La violenza puo' essere razionale, ma non e' mai ragionevole. Se e' vero che ogni uomo porta in se' l'esigenza di nonviolenza, per essere violento bisogna che egli sia "fuori di se'".
Se l'uomo ragionevole cerca l'appagamento sia nella coerenza del discorso sia nella coerenza della vita, la contro-violenza alla quale pensa di dover ricorrere sotto la forza della necessita', non puo' che scontentarlo nel piu' profondo di se'. Evidentemente, l'uomo ragionevole non puo' contentarsi della violenza che si pretende ragionevole. Questa spezza sia la coerenza del discorso sia quella della vita. Egli non puo' ignorare che, con l'essere violento, rinuncia, anche solo momentaneamente, ad avere un atteggiamento ragionevole. Non puo' non aver coscienza che si contraddice quando legittima il mezzo della violenza col fine della nonviolenza. Deve conservare la coscienza di questa contraddizione che tutte le ideologie dominanti si sforzano di occultare. Soprattutto, non deve darsi pace fin quando non arrivi a superare questa contraddizione.
Per quanto possa essere effettivamente necessaria, la violenza e' una necessita' tragica. Ogni violenza e' un fallimento drammatico per la comunita' degli uomini ragionevoli e nessuno di loro potrebbe lavarsi le mani e pretendersi innocente. Giustificare la violenza sotto la copertura della necessita', e' rendere la violenza effettivamente necessaria. E' gia' giustificare la violenza futura e chiudere l'avvenire nella necessita' della violenza. E' rifiutare in anticipo ogni inventivita', ogni creativita' che permetta di liberare l'avvenire dal passato. Il fatto che l'uomo ragionevole sia condotto, sotto la costrizione della necessita', a ricorrere lui stesso alla violenza per evitare una violenza peggiore, questo non puo' che determinarlo a fare in modo che, per l'avvenire, in una situazione simile e in circostanze paragonabili, non si trovi piu' prigioniero della stessa necessita'.
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Il mezzo della violenza contraddice il fine della nonviolenza
Del resto, la contraddizione tra il fine della nonviolenza e il mezzo della violenza non e' soltanto teorica, e' anche tecnica. Non esiste solo nei principi astratti, ma si ritrova nei risultati concreti dell'azione, ed e' di natura tale da compromettere gravemente l'efficacia della violenza. In definitiva, piu' forte di tutto e' la contraddizione tra il mezzo e il fine. Il piu' delle volte, e' la violenza quella che progredisce. La violenza dell'uomo ragionevole viene a dare delle buone ragioni alla violenza dell'uomo irragionevole, il quale potra' sempre pretendere di difendere una causa giusta che giustifica la sua azione. Di fatto, qual e' l'uomo che non pretende che la sua violenza sia ragionevole? La storia non e' forse piena di violenze coperte e ricoperte con l'argomento della ragione, ma che hanno fatto regredire la ragione?
La violenza sfugge a chi la mette in atto. Non rimane nelle mani di chi vuole afferrarla per usarla. Letteralmente, gli scappa di mano e non obbedisce che alle proprie leggi. Sviluppa la propria logica e diventa autonoma. Per questo, chi ha optato per la violenza non puo' restare padrone delle conseguenze dei suoi atti. Queste gli sfuggono largamente. La violenza e' un ingranaggio, un meccanismo. Dapprima, la violenza dell'uomo irragionevole giustifica la violenza dell'uomo ragionevole, poi, di ritorno, la violenza dell'uomo ragionevole giustifica quella dell'uomo irragionevole. Cosi', la legittimazione della violenza e' uno dei fattori decisivi che arrivano a rendere la violenza necessaria. La violenza e' una concatenazione: crea da se' la propria fatalita'. L'uomo ragionevole imita la violenza compiuta dall'uomo irragionevole, mentre l'uomo irragionevole imita la legittimazione della violenza elaborata dall'uomo ragionevole, in modo tale che, in definitiva, che si tratti di comportamenti o di discorsi, si stabilisce una perfetta reciprocita' tra l'uomo ragionevole e l'uomo irragionevole.
Certo, la tesi per cui la violenza dell'uomo ragionevole e' necessaria per lottare contro la violenza dell'uomo irragionevole sembra appoggiarsi su argomenti forti. Ma, al contrario di cio' che e' generalmente ammesso, ci sembra che sia piu' forte in teoria che in pratica. La storia di ieri e di oggi ci mostra che l'applicazione di questa tesi ha generalmente provocato lo scatenarsi di violenze che non erano per niente necessarie. La storia contraddice troppo spesso e troppo profondamente quella tesi per poter dire che essa rimanga a fondamento della regola di condotta degli uomini ragionevoli. In realta', la storia non funzione come quella tesi pretende. Invece di spegnere la violenza dell'uomo irragionevole come l'acqua spegne il fuoco, la violenza dell'uomo ragionevole non arriva forse, il piu' delle volte, ad alimentarla come il legno alimenta la fiamma? Questa domanda merita di essere rivolta all'uomo ragionevole. Piu' esattamente, deve porsela da se' l'uomo ragionevole.
La storia prova che, il piu' delle volte, il mezzo della violenza si sostituisce al fine della nonviolenza. Il mezzo cancella il fine. Dire che la nonviolenza e' il fine della storia, ma che questa necessita e giustifica i mezzi della violenza, significa rinviare la nonviolenza alla fine della storia, ma di una storia senza fine. Significa mettere la nonviolenza fuori dalla storia e consacrare la violenza nella storia. Quindi privare la storia di un fine, cioe' di un senso.
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La violenza e' un meccanismo cieco
Gli uomini ragionevoli che decidono di ricorrere alla violenza raramente eseguono essi stessi la loro decisione. Danno ad altri l'ordine dell'esecuzione. Ora, non e' affatto sicuro che questi abbiano coscienza di dover operare per la nonviolenza, e che prendano le precauzioni necessarie per agire di conseguenza. A dire il vero, non ne hanno neppure la possibilita'. L'intenzione ragionevole che e' all'origine della loro azione tende a scomparire per l'effetto meccanico della violenza. Teoricamente, essi hanno la missione di agire per la nonviolenza; concretamente, nella logica stessa della tecnica che devono applicare, essi agiscono per la violenza. Gli agenti esecutivi della violenza hanno la sola preoccupazione di essere efficaci e non hanno il tempo di perdersi in considerazioni morali. Per la sua stessa brutalita', il meccanismo della violenza e' cieco. Esso conduce quasi sempre quelli che agiscono con violenza ad andare ben al di la' di cio' che e' necessario per la razionalita' in base alla quale e' stato deciso di utilizzare la violenza. Questa si caratterizza per il fatto che occupa tutto lo spazio nel quale agisce. Essa colpisce allora tutto cio' che si trova in questo spazio, ed e' illusorio pensare che sopprimera' soltanto il male. La violenza che si da' lo scopo di preparare il tempo della nonviolenza finisce quasi sempre per generare la violenza pura, cioe' la violenza per la violenza.
Cosi', la contraddizione tra la nonviolenza del fine e la violenza del mezzo si sviluppa e si amplifica smisuratamente nello spazio politico, che e' immenso, separando chi decide la violenza da chi la esegue. L'uomo politico pretende di decidere ragionevolmente di ricorrere alla violenza per difendere l'ordine o ristabilire la pace e giustifica la sua decisione invocando i piu' alti valori morali dell'umanita'. Ma, anzitutto, per mettere in atto la violenza bisogna chiamare degli uomini ad essere violenti. L'appello alla violenza puo' pretendere di fondarsi sulla ragione ma, per essere inteso, fa appello piu' alla passione che alla ragione. In realta', e' la passione, molto piu' della ragione, che arma il braccio di chi esegue la violenza. La violenza, dunque, ha bisogno di una propaganda che si rivolge piu' alla passione che alla ragione. Cio' che importa, nell'esecuzione della violenza, non e' piu' la morale degli uomini, ma soltanto il loro morale. Poiche' non sono ragionevoli, bisogna che gli uomini violenti siano convinti di avere ragione per ottenere, costi quel che costa, che gli altri si arrendano alla loro ragione. E per meglio sostenere il morale di quelli che mettono in atto la violenza ci si da' daffare a convincerli che svolgono il compito piu' giusto e piu' nobile che ci sia. L'ideologia ha la funzione di rendere innocente la violenza cancellando in essa ogni contraddizione tra i suoi mezzi e il fine che la giustifica. Ma la violenza non e' mai in-nocente, perche' contiene una parte irriducibile di nocumento (le due parole hanno la stessa radice: nocere, nuocere). Onorare la violenza non e' soltanto disonorare se' stessi, ma e' soprattutto disonorare le vittime della violenza. Considerata in se' stessa, la violenza e' sempre disonorante. Dire che e' necessaria non contraddice questa affermazione, ma, al contrario, la rinforza. Infatti non e' mai onorevole per l'uomo trovarsi prigioniero della necessita', soprattutto quando questa lo costringe a far uso di violenza verso altri uomini. L'onore dell'uomo resta la nonviolenza, anche quando la necessita' lo costringe a ricorrere alla violenza. E' di decisiva importanza che nel momento stesso in cui, sotto la pressione delle circostanze, l'uomo crede di non poter fare altro che impiegare la violenza, egli si ricordi che non c'e' onore per lui che nella nonviolenza. Le ragioni per cui l'uomo ricorre alla violenza possono essere onorevoli, ma non per questo cio' rende onorevole la violenza.
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La violenza strumentalizza l'uomo
Cosi', in fondo alla catena degli ordini e delle obbedienze, dei sicari eseguono il lavoro sporco della violenza, che non e' per niente ragionevole ed e' la negazione stessa dei valori in nome dei quali si suppone che essi agiscano. A questa estremita' della catena, l'esecutore non e' piu' che uno strumento al servizio della violenza, un congegno meccanico, un puro strumento tecnico. A questo punto, tutto concorre a far si' che l'uomo si trovi privato della sua umanita'. E' una delle caratteristiche della violenza strumentalizzare l'uomo che la esercita. E questa strumentalizzazione e' una disumanizzazione. Nel suo libro La liberte' pour quoi faire?, Georges Bernanos descrive cosi' i rapporti che "l'uomo con la mitraglia" intrattiene con la sua arma: "La mitraglia spara ad un cenno del padrone dell'uomo con la mitraglia, e ad un cenno di questo padrone l'uomo con la mitraglia spara su qualunque cosa. (...) Nell'uomo con la mitraglia di cui parlo non e' la mitraglia l'accessorio, ma l'uomo. L'uomo di cui parlo e' a servizio della mitraglia e non la mitraglia a servizio dell'uomo, non e' "l'uomo con la mitraglia", ma "la mitraglia con l'uomo"" (2).
Tutto comincia dunque con l'esaltazione della nobilta' di una causa e tutto finisce con l'accettazione delle violenze piu' ignobili. Si vanta la grandezza del sacrificio di quelli che accettano di morire per la causa, ma in realta' quegli stessi ricevono l'incarico di uccidere per la causa. Tutta la "logica" della violenza consiste precisamente nell'uccidere per non morire. E poiche' gli uomini vogliono furiosamente vivere, furiosamente uccidono. Mentre il poeta esalta la gloria di quelli che muoiono "nelle battaglie campali (...) con tutto l'apparato dei grandi funerali" (3), mentre il filosofo disserta sulla necessita' per l'uomo ragionevole di ricorrere alla violenza per preparare una terra di nonviolenza, mentre l'uomo politico magnifica il dovere patriottico dei cittadini di difendere l'onore degli uomini liberi, mentre il generale celebra il coraggio del soldato che sfida tutti i pericoli e corre i piu' grandi rischi per la salvezza della nazione, mentre il gran sacerdote invoca la benedizione del dio degli eserciti su quanti sono pronti a sacrificare la loro vita per compiere il loro dovere, colui che la miseria della vita ha costretto a fare delle armi il suo mestiere, o che la forza della propaganda ha costretto ad arruolarsi, l'uomo di truppa, di prima fila – proprio l'uomo con la mitraglia, perche', in quasi tutte le guerre, malgrado l'automazione e la sofisticazione dei sistemi d'arma, e' lui che ha l'ultima parola – addestrato per la battaglia, trascinato a non far caso ai sentimenti, agguerrito per dimenticare la paura, indurito per interiorizzare la crudelta' della guerra, e' lui che si trova direttamente a confronto con la violenza che lo strumentalizza e lo disumanizza. No, non e' vero che l'uomo di truppa, di prima fila, si comporta da uomo ragionevole! Nell'ubriacatura della violenza, egli non ha che disprezzo per tutti quei valori esaltati dall'uomo "ragionevole" per giustificare la guerra. Cosi', l'uomo di truppa, di prima fila, e' la materia prima dei versi del poeta, dei trattati del filosofo, dei discorsi del politico, dei proclami del generale, delle preghiere del gran sacerdote e, piu' tardi, dei racconti dello storico, ma e' prima di tutto la vittima di tutti costoro.
Si obiettera' che l'uomo "ragionevole" che ha deciso di usare la violenza non ha voluto il lavoro sporco del soldato. Certo, ma ha voluto il processo che lo ha provocato per concatenazione meccanica. Quel lavoro non e' che la conseguenza inevitabile, praticamente inevitabile, della sua decisione, ed egli non puo' rifiutare di assumerne la responsabilita'. Probabilmente sarebbe ingiusto fare un processo alle intenzioni dell'uomo ragionevole che ha deciso l'impiego della violenza per difendere un causa giusta. La sua intenzione e' forse pura, ma egli non si e' interessato con sufficiente attenzione alle conseguenze della sua decisione, delle quali pretende di non essere responsabile. In realta', la violenza e' fondata su una morale dell'intenzione che esclude il piu' delle volte una morale della responsabilita'. Di nuovo, l'onere e' invertito. Quale che possa essere l'intenzione – che in effetti puo' essere pura – di colui che ha deciso di ricorrervi, la violenza non e' mai un grande fatto, ma e' sempre un lavoro sporco.
La storia dimostra che, quasi sempre, si passa dalla legittimazione della violenza, considerata come una necessita' tecnica, alla sua giustificazione, onorata come una virtu' morale. Si costruisce allora una ideologia, che occulta e alla fine sopprime ogni contraddizione tra il fine e il mezzo dell'azione violenta. Se la nonviolenza e' effettivamente il fine della storia, allora l'uomo ragionevole e' sfidato a inventare dei mezzi nonviolenti per agire nella storia.
Il fatto che, nel passato, il piu' delle volte, l'uomo ragionevole abbia combattuto le violenze dell'oppressione e dell'aggressione mediante l'azione violenta, dimostra la necessita' dell'azione, ma non prova la fatalita' della violenza. Certo, nella misura in cui il mezzo tecnico della violenza e' stato l'unico utilizzato per tentare di vincere le violenze irrazionali, esso era l'unico a poter dare la prova di una certa efficacia. E noi dobbiamo riconoscere che, talvolta, il suo effetto benefico nella storia e' stato piu' forte del suo aspetto malefico. Era meglio, allora, agire con questo mezzo che non agire per nulla. E' vero che il nonviolento e' anche lui erede delle lotte violente condotte nel passato, e che anche lui beneficia delle loro conquiste. Egli custodisce la memoria di queste lotte, ma cio' non lo obbliga affatto a pensare che la violenza resti oggi una necessita'. Al contrario, se e' davvero il fine della nonviolenza che ha giustificato in passato il mezzo della violenza, allora non soltanto egli ha il diritto, ma oggi ha il dovere di interrogarsi per sapere se non esistono altri mezzi che non siano in contraddizione con il fine ricercato. La questione che si pone oggi all'uomo ragionevole e' di sapere se non e' possibile inventare un'altra storia sperimentando un'altra tecnica d'azione, diversa dalla violenza.
E' vero che non basta che la nonviolenza risponda all'esigenza morale che obbliga il filosofo, e' necessario anche che essa soddisfi la necessita' tecnica che s'impone al politico. Ma e' anche un'esigenza morale, per l'uno e per l'altro, domandarsi se l'opzione per la nonviolenza non permetta di scoprire una tecnica che permetta di agire in modo ragionevole e responsabile nella storia. Per sfuggire al circolo vizioso in cui la riflessione filosofica e il pensiero politico si sono trovati chiusi per secoli, conviene nello stesso tempo rifiutare la fondatezza morale della violenza e fare un inventario delle possibilita' tecniche della nonviolenza.
Certo, ogni uomo "ragionevole" riconosce che la violenza non deve essere che la extrema ratio, l'ultimo argomento, e che non deve essere utilizzata che come ultima risorsa, quando tutti gli altri mezzi siano stati usati, ma inutilmente; egli concorda che bisogna ricorrere alla violenza il meno possibile e solo in caso di stretta necessita' e che, in questo caso, bisogna ancora scegliere la violenza minore. Insomma, l'uomo "ragionevole" afferma che l'agire umano deve mettersi risolutamente nella dinamica di un risparmio di violenza. Chi ha optato per la nonviolenza potra' accettare di sottoscrivere tali affermazioni, ma a condizione che gli "altri mezzi", cioe' i mezzi dell'azione nonviolenta, siano effettivamente provati. Ora, bisogna ben riconoscerlo, quelli che affermano la necessita' della violenza, generalmente non hanno mai provato la nonviolenza. Una cosa e' dire: bisogna ricorrere alla violenza il meno possibile; altra cosa e' dire: bisogna ricorrere alla nonviolenza il piu' possibile. Se l'uomo non si prepara a mettere in atto i mezzi dell'azione nonviolenta ogni volta che e' possibile, allora la violenza sara' ogni volta necessaria. Non si puo' fare davvero risparmio di violenza se non facendo risolutamente la scelta della nonviolenza. Il risparmio di violenza non e' possibile che nella dinamica della nonviolenza.
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La necessita' di costringere
L'azione ragionevole, il cui scopo e' combattere la violenza nella storia, non puo' ridursi al dialogo e alla discussione che mirano a far tornare alla ragione gli uomini irragionevoli. Cio' che caratterizza la violenza e' proprio il rifiuto del dialogo e della discussione. Certo, il violento rimane un uomo "ragionevole" nel senso che rimane suscettibile di esser fatto ragionare, rimane capace di intendere ragioni. Non e' dunque inutile tentare di farlo ragionare. Ma, il piu' delle volte, la violenza lo rendera' sordo agli argomenti della ragione. Nella misura in cui il discorso ragionevole non avra' presa sul violento, diventera' impossibile persuaderlo a rinunciare alla violenza. Allora, l'azione ragionevole contro la violenza non potra' essere che un'azione di costrizione sul violento. Per ottenere che la nonviolenza possa prevalere nei rapporti umani entro la comunita', sara' illusorio rimettersi alla buona volonta' degli uni e degli altri. E' necessario creare delle istituzioni di governo che dispongano di mezzi di costrizione per fare rispettare la legge, e cio' implica in particolare l'istituzione di una "forza pubblica", di una polizia e di un sistema giudiziario. Sarebbe irrealistico pretendere, in nome della nonviolenza, di organizzare una societa' senza un governo al quale siano riconosciuti il diritto e i mezzi per costringere i cittadini. Senza un tale governo, e' lasciato campo libero nella societa' all'organizzazione di consorterie e mafie, che non avranno alcuno scrupolo a prendere in ostaggio i cittadini con la minaccia costante dei peggiori mezzi di violenza. La questione, allora, e' di sapere se ogni costrizione e' necessariamente violenta, oppure se non e' possibile mettere in atto delle costrizioni nonviolente. Prima di rispondere, bisogna interrogare la nonviolenza.
La questione che si pone oggi all'uomo responsabile e' questa: la nonviolenza puo' fondare solo un atteggiamento morale davanti alla storia, oppure puo' fondare un atteggiamento responsabile nella storia? La nonviolenza condanna l'uomo a rifiutare ogni azione e ad abbandonare la storia, sia che egli vada a vivere nel deserto sia che accetti di morire nel mondo, oppure gli permette di trasformare il mondo? Non sarebbe ragionevole rispondere immediatamente in modo affermativo, ma sarebbe ancora meno ragionevole rispondere definitivamente in modo negativo. Del resto, esiste una storia della nonviolenza, che e' anche la storia delle lotte contro la violenza degli "uomini irragionevoli". E' sorprendente che questa storia non abbia maggiormente attirato l'attenzione degli uomini ragionevoli che raccomandano e giustificano la violenza (4).
E' vero che una morale dell'intenzione pura che fosse fondata solo sul rifiuto di uccidere, permetterebbe di morire degnamente, ma non di vivere. La questione e' dunque di sapere se la nonviolenza puo' o no fondare una morale concreta, storica, una morale dell'azione, una saggezza pratica, che permetta all'uomo non soltanto di morire per le sue convinzioni, ma anche di vivere per esse. Poiche' non si tratta di proclamare in faccia alla storia l'esigenza universale di nonviolenza, ma di realizzarla dentro la storia che e' violenta.
Bisogna dunque studiare la "fattibilita'" della nonviolenza come metodo, come tecnica d'azione. Per questo, bisogna domandarsi se la nonviolenza puo' fondare un atteggiamento pratico, una regola di condotta, un comportamento che siano coerenti e vitali, cioe' che offrano, all'individuo come alla comunita', una reale promessa di durata. Certo, la nonviolenza assoluta restera' sempre, per l'individuo come per la comunita', un ideale fuori di portata, ma la questione e' di sapere se la nonviolenza puo' diventare un ideale pratico, cioe' se e' possibile definire una pratica effettiva ispirata a questo ideale. In altre parole, una pratica della nonviolenza offre sufficienti probabilita' di riuscita cosi' da poter essere scelta dall'uomo ragionevole che non ha soltanto voglia di morire bene, ma che ha proprio voglia di vivere? Piu' precisamente, bisogna domandarsi con quali probabilita' la pratica della nonviolenza e' capace di riuscire a contenere e riassorbire la violenza nei rapporti umani. Certo, esistono delle probabilita' di fallimento, che possono comportare la morte dell'individuo e anche quella della comunita'. Ma lo stesso vale per la violenza, perche' vale puramente e semplicemente per la vita. Vivere, e' ad ogni istante rischiare di morire. E le probabilita' di fallimento della violenza sono, tutto sommato, abbastanza considerevoli. Ma l'ideologia della violenza, che domina le nostre mentalita', postula nello stesso tempo lo scacco della nonviolenza e il successo della violenza. E' questo doppio postulato che ci sembra ragionevole mettere in discussione.
La grande debolezza della nonviolenza e' che la violenza e' perfettamente organizzata e che la nonviolenza e' perfettamente disorganizzata. Le potenzialita' della nonviolenza non potranno essere attuate nella storia che nella misura in cui le societa' saranno determinate a metterle all'opera a livello istituzionale. Per questo, e' necessario che una maggioranza di cittadini sia convinta che la nonviolenza e' non soltanto augurabile, ma altrettanto possibile.
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Le "chances" dell'azione nonviolenta
Riprendendo il concetto di "chance" definito da Max Weber nel suo Essai sur quelques categories de la sociologie comprehensive, bisogna domandarsi se esiste oggettivamente una probabilita' per cui l'azione nonviolenta possa riuscire nella storia delle comunita' umane. "Tra le ragioni dell'attivita', una estremamente importante e comprensibile  – scrive Max Weber – consiste precisamente nell'esistenza oggettiva di questo genere di possibilita', cio' che vuol dire la probabilita' piu' o meno grande, esprimibile in un "giudizio oggettivo di possibilita'", indicante che si puo' a buon diritto far conto su queste attese" (5).
Ognuno orienta il suo comportamento in funzione del comportamento degli altri, ciascuno agisce re-agendo all'azione degli altri. Bisogna dunque domandarsi come gli altri reagiranno di fronte all'azione nonviolenta. L'individuo che agisce secondo i principi, le regole e i mezzi della nonviolenza coltiva la speranza che gli altri si comporteranno in modo che la sua azione riesca. Ma, al di la' delle attese soggettive dell'individuo che agisce, cio' che si rivelera' decisivo per il successo o il fallimento della sua azione, sono le possibilita' oggettive che gli altri si comportino secondo le sue attese. Commentando Max Weber, Julien Freund scrive: "La nozione di “chance” e' dunque legata alla categoria di possibilita' oggettiva, il che significa che, nelle condizioni oggettive date, e' probabile che gli uomini agiranno in una maniera prevedibile con approssimazione" (6).
Affinche' l'attore che ha scelto la nonviolenza riesca nella sua impresa, bisogna che gli altri considerino in pratica che il comportamento che si attende da loro e' "valido", cioe' ha un senso per loro, qualunque sia il motivo per cui lo terranno. Essi potranno adottare quel comportamento perche' lo stimeranno corrispondente ad un "valore" a cui decideranno di aderire, ma potranno ugualmente adottarlo stimandolo piu' conforme al loro interesse. Si puo' ragionevolmente pensare che via via che si sviluppera' nella comunita' una cultura della nonviolenza, sempre piu' numerosi individui orienteranno il loro comportamento secondo le attese dell'azione nonviolenta, perche' riconosceranno che quel comportamento corrisponde ad un "valore" che da' loro un senso.
Poiche' l'azione nonviolenta non ha luogo che in una situazione di conflitto, cio' che l'attore nonviolento attende dagli altri e' che essi orientino il loro comportamento accettando di entrare essi stessi nella dinamica della risoluzione nonviolenta del conflitto in corso. Ma conviene precisare che "gli altri" non sono solamente gli avversari, sono anche "tutti gli altri", cioe' tutti i membri della comunita' che non si sentono – o non si sentono ancora – implicati nel conflitto. Cio' che l'attore nonviolento attende da loro, e' che si implichino essi stessi nella risoluzione del conflitto riconoscendo che il comportamento atteso da loro ha un senso per loro. Insomma, cio' che l'attore nonviolento spera e' che sara' possibile arrivare a quella che Max Weber chiama una "intesa" (7) tra tutti i membri della comunita'. La questione e' dunque di sapere se l'attore nonviolento puo' ragionevolmente pensare che esistano delle "chances", cioe' delle possibilita' oggettive, che gli altri si comportino in modo che la sua azione crei le condizioni di un'intesa durevole. L'ideologia dominante afferma che queste possibilita' praticamente non esistono, ma e' una affermazione ideologica e non un giudizio sociologico fondato sulla valutazione razionale delle possibilita' oggettive di riuscita dell'azione nonviolenta. Per contro, la stessa ideologia afferma che le possibilita' di riuscita dell'azione violenta nella storia delle comunita' umane sono molto grandi, ma, di nuovo, si tratta molto piu' di una affermazione ideologica che di una valutazione sociologica. In realta', e' ragionevole pensare che le possibilita' di riuscita della violenza sono molto meno grandi di quel che dice l'ideologia dominante, e che le possibilita' della nonviolenza sono molto piu' grandi di quanto essa pretende. Inoltre, in molte situazioni, si puo' ragionevolmente stimare che le possibilita' di riuscita della nonviolenza siano piu' grandi di quelle della violenza. In effetti, numerose esperienze hanno dimostrato che degli individui, ma anche delle comunita', possono orientare il loro comportamento secondo le attese di quelli che agiscono secondo i principi, le regole e i mezzi della nonviolenza. Cio' significa che l'azione nonviolenta ha realmente delle possibilita' di riuscire, cioe' di condurre ad una intesa durevole degli individui e delle comunita' che si trovavano prima in una situazione di disaccordo e di conflitto. In altri termini, esiste oggettivamente una probabilita' che l'azione nonviolenta possa riuscire. Queste possibilita' e questa probabilita' devono essere valutate in funzione delle condizioni concrete in cui l'azione si sviluppa e i fattori che intervengono sono allora molteplici.
Max Weber precisa che la validita' di una regola sociale deve essere fondata sulla "valutazione pratica media delle possibilita' del comportamento umano" (8). Cosi', per stabilire la validita' della nonviolenza come regola normativa dell'attivita' comunitaria, bisogna potere ragionevolmente stimare che esiste una probabilita' media che gli individui conformeranno il loro comportamento alle attese della nonviolenza. Questa ipotesi ci sembra fondata, ma conviene verificarla. Del resto, fare la scelta politica della nonviolenza non e' partire dall'ideale della nonviolenza per sforzarsi di metterlo in pratica – tale compito si rivela in effetti impossibile – ma e', al contrario, partire dalla realta' della violenza per tentare di trasformarla poco a poco mettendo in opera, dove e' effettivamente possibile, i metodi dell'azione nonviolenta – e allora appaiono molte possibilita' che sono altrettante "chances" per la nonviolenza.
Certo, nell'immediato, le forze della nonviolenza non sono in grado di opporsi efficacemente alle forze della violenza che si scatenano ai quattro angoli del mondo. Quando, in un determinato territorio, sono riuniti tutti i fattori di esplosione della violenza, essa esplode effettivamente e l'irreparabile sopravviene senza che nessuno possa pretendere di evitarlo. Perche' e' gia' troppo tardi. L'azione deve essere intrapresa ben prima che si produca l'esplosione. Certamente, non c'e' alcuna fatalita' in questo scatenamento della violenza contro l'uomo, perche' non e' assolutamente fatale che i fattori che provocano la violenza siano riuniti, ma, dal momento che lo sono per responsabilita' degli uomini, diventa inevitabile che la violenza si scateni. Probabilmente, ne' i mezzi della violenza ne' quelli della nonviolenza potranno spegnere l'incendio delle paure, delle passioni e degli odi. Sara' necessario che questi si consumino e  si spengano da soli. Il sistema della violenza che ha dominato le societa' per secoli non ha finito di gettare il suo veleno mortale nel nostro presente, ma anche, probabilmente, nel nostro avvenire. Sforzandoci di smantellare quel sistema, dovremo prendere atto della parte di violenza irreparabile che esso continua a generare.
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La nonviolenza e' piu' realista della violenza
Noi non abbiamo mai certezze quando si tratta di valutare le conseguenze delle nostre azioni; in larga misura sono imprevedibili e ci sfuggono. Questo e' vero tanto per l'azione violenta quanto per l'azione nonviolenta e ci deve portare a dar prova della piu' grande prudenza nelle nostre decisioni. Questa prudenza ci obbliga a calcolare cio' che le conseguenze delle nostre azioni possono implicare di irreparabile e irrimediabile. Qui si vede che la prudenza ci consiglia di evitare l'azione violenta e di preferire l'azione nonviolenta. Poiche', secondo ogni probabilita', quella contiene in se' piu' conseguenze irreversibili di questa. Riguardo alla prudenza, che fonda la saggezza pratica dell'uomo ragionevole, la violenza appare come una im-prudenza, cioe' una mancanza di previsione delle conseguenze che essa comporta, nostro malgrado. D'altronde, non bisogna giudicare soltanto le conseguenze immediate della violenza. Bisogna tentare di prevedere e valutare anche le sue conseguenze lontane, quelle che puo' produrre in altri luoghi e tempi. L'efficacia della violenza non deve essere giudicata nell'istante, ma nella durata. La contro-violenza puo' avere degli effetti immediati che lasciano pensare che abbia diminuito la quantita' di violenza nella storia. Ma, col tempo, si rischia di scoprire che ha delle conseguenze indirette negative, degli effetti secondari perversi e che in definitiva ha aumentato la quantita' di violenza nel mondo. A questo riguardo, la nonviolenza offre piu' garanzie per preservare l'avvenire.
Cio' che distingue chi ha scelto la nonviolenza da chi si adatta alla violenza, non e' un piu' grande idealismo riguardo alla nonviolenza, ma un piu' grande realismo riguardo alla violenza. Poiche' la violenza, in definitiva, e' una utopia. Nel suo significato etimologico, la u-topia e' cio' che non esiste in alcun luogo. Ora, precisamente, se la violenza esiste dappertutto, in nessun luogo essa raggiunge il fine che pretende di giustificarla. Mai, da nessuna parte, la violenza realizza la giustizia tra gli uomini; mai, in alcun luogo, la violenza apporta una soluzione umana agli inevitabili conflitti umani che costituiscono la trama della storia.
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Note
1. Charles Peguy, Victor Marie, Comte Hugo, Oeuvres en prose (1909-1914), Paris, Gallimard, 1961, Bibliotheque de la Pleiade, p. 827.
2. Georges Bernanos, La liberte' pour quoi faire?, Paris, Gallimard, 1953, p. 227; tr. it. di Gennaro Auletta, Rivoluzione e liberta', ed. Borla, Torino 1963.
3. Charles Peguy, "Eve", Oeuvres poetiques en prose, Paris, Gallimard, 1937, Bibliotheque de la Pleiade, p. 1026. Cerco di rendere la rima dell'originale francese: batailles – funerailles (n.d.t.).
4. Vedi in appendice Difesa senza guerra. Bibliografia storica delle lotte nonviolente.
5. Max Weber, Essais sur la theorie de la science, Paris, Plon, 1992, Presses Pocket, p. 321.
6. Julien Freund, Sociologie de Max Weber, Paris, PUF, 1966, p. 104.
7. Max Weber, Essais sur la theorie de la science, op. cit., p. 341.
8. Ibidem, p. 324.

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Numero 99 del primo giugno 2021
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