[Nonviolenza] La biblioteca di Zorobabele. 98



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LA BIBLIOTECA DI ZOROBABELE
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Segnalazioni librarie e letture nonviolente
a cura del "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo
Supplemento a "La nonviolenza e' in cammino" (anno XXII)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com
Numero 98 del 31 maggio 2021

In questo numero:
Jean-Marie Muller: Gandhi, artigiano della nonviolenza

MAESTRI. JEAN-MARIE MULLER: GANDHI, ARTIGIANO DELLA NONVIOLENZA
[Da Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace, Plus - Pisa University Press, Pisa 2004 (traduzione italiana di Enrico Peyretti dell'edizione originale Le principe de non-violence. Parcours philosophique, Desclee de Brouwer, Paris 1995), riprendiamo il capitolo quattordicesimo: "Gandhi, artigiano della nonviolenza" (pp. 259-281). Ringraziamo di cuore Enrico Peyretti per averci messo a disposizione la sua traduzione e la casa editrice Plus - Pisa University Press per il suo consenso.
Jean-Marie Muller, filosofo francese, nato nel 1939 a Vesoul, docente, ricercatore, e' tra i più importanti studiosi del pacifismo e delle alternative nonviolente, oltre che attivo militante nonviolento. E' direttore degli studi presso l'Institut de Recherche sur la Resolution non-violente des Conflits (Irnc). In gioventu' ufficiale della riserva, fece obiezione di coscienza dopo avere studiato Gandhi. Ha condotto azioni nonviolente contro il commercio delle armi e gli esperimenti nucleari francesi. Nel 1971 fondo' il Man (Mouvement pour une Alternative Non-violente). Nel 1987 convinse i principali leader dell'opposizione democratica polacca che un potere totalitario, perfettamente armato per schiacciare ogni rivolta violenta, si trova largamente spiazzato nel far fronte alla resistenza nonviolenta di tutto un popolo che si sia liberato dalla paura. Tra le opere di Jean-Marie Muller: Strategia della nonviolenza, Marsilio, Venezia 1975; Il vangelo della nonviolenza, Lanterna, Genova 1977; Significato della nonviolenza, Movimento Nonviolento, Torino 1980; Momenti e metodi dell'azione nonviolenta, Movimento Nonviolento, Perugia 1981; Lessico della nonviolenza, Satyagraha, Torino 1992; Simone Weil. L'esigenza della nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1994; Desobeir a' Vichy, Presses Universitaires de Nancy, Nancy 1994; Vincere la guerra, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1999; Il principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004; Dictionnaire de la non-violence, Les Editions du Relie', Gordes 2005; Desarmer les dieux. Le christianisme et l'slam face a' la non-violence, Editions du Relie', Gordes 2009.
Enrico Peyretti (1935) e' uno dei maestri della cultura e dell'impegno di pace e di nonviolenza; e' stato presidente della Fuci tra il 1959 e il 1961; nel periodo post-conciliare ha animato a Torino alcune realta' ecclesiali di base; ha insegnato nei licei storia e filosofia; ha fondato con altri, nel 1971, e diretto fino al 2001, il mensile torinese "il foglio", che esce tuttora regolarmente; e' ricercatore per la pace nel Centro Studi "Domenico Sereno Regis" di Torino, sede dell'Ipri (Italian Peace Research Institute); e' stato membro del comitato scientifico del Centro Interatenei Studi per la Pace delle Universita' piemontesi, e dell'analogo comitato della rivista "Quaderni Satyagraha", edita a Pisa in collaborazione col Centro Interdipartimentale Studi per la Pace; e' membro del Movimento Nonviolento e del Movimento Internazionale della Riconciliazione; collabora a varie prestigiose riviste. Tra le opere di Enrico Peyretti: (a cura di), Al di la' del "non uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la guerra, Beppe Grande, Torino 1999; Dov'e' la vittoria?, Il segno dei Gabrielli, Negarine (Verona) 2005; Esperimenti con la verita'. Saggezza e politica di Gandhi, Pazzini, Villa Verucchio (Rimini) 2005; Il diritto di non uccidere. Schegge di speranza, Il Margine, Trento 2009; Dialoghi con Norberto Bobbio, Claudiana, Torino 2011; Il bene della pace. La via della nonviolenza, Cittadella, Assisi 2012; Elogio della gratitudine, Cittadella, Assisi 2015; e' disponibile nella rete telematica la sua fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia storica delle lotte nonarmate e nonviolente, di seguito riprodotta, che e' stata piu' volte riproposta anche su questo foglio; vari suoi interventi (articoli, indici, bibliografie) sono anche nei siti: www.serenoregis.org, www.ilfoglio.info e alla pagina web http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti Un'ampia bibliografia (ormai da aggiornare) degli scritti di Enrico Peyretti e' in "Voci e volti della nonviolenza" n. 68.
Mohandas K. Gandhi e' stato della nonviolenza il piu' grande e profondo pensatore e operatore, cercatore e scopritore; e il fondatore della nonviolenza come proposta d'intervento politico e sociale e principio d'organizzazione sociale e politica, come progetto di liberazione e di convivenza. Nato a Portbandar in India nel 1869, studi legali a Londra, avvocato, nel 1893 in Sud Africa, qui divenne il leader della lotta contro la discriminazione degli immigrati indiani ed elaboro' le tecniche della nonviolenza. Nel 1915 torno' in India e divenne uno dei leader del Partito del Congresso che si batteva per la liberazione dal colonialismo britannico. Guido' grandi lotte politiche e sociali affinando sempre piu' la teoria-prassi nonviolenta e sviluppando precise proposte di organizzazione economica e sociale in direzione solidale ed egualitaria. Fu assassinato il 30 gennaio del 1948. Sono tanti i meriti ed e' tale la grandezza di quest'uomo che una volta di piu' occorre ricordare che non va  mitizzato, e che quindi non vanno occultati limiti, contraddizioni, ed alcuni aspetti discutibili - che pure vi sono - della sua figura, della sua riflessione, della sua opera. Opere di Gandhi: essendo Gandhi un organizzatore, un giornalista, un politico, un avvocato, un uomo d'azione, oltre che una natura profondamente religiosa, i suoi scritti devono sempre essere contestualizzati per non fraintenderli; Gandhi considerava la sua riflessione in continuo sviluppo, e alla sua autobiografia diede significativamente il titolo Storia dei miei esperimenti con la verita'. In italiano l'antologia migliore e' Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi; si vedano anche: La forza della verita', vol. I, Sonda; Villaggio e autonomia, Lef; l'autobiografia tradotta col titolo La mia vita per la liberta', Newton Compton; La resistenza nonviolenta, Newton Compton; Civilta' occidentale e rinascita dell'India, Movimento Nonviolento (traduzione del fondamentale libro di Gandhi: Hind Swaraj; ora disponibile anche in nuova traduzione col titolo Vi spiego i mali della civilta' moderna, Gandhi Edizioni); La cura della natura, Lef; Una guerra senza violenza, Lef (traduzione del primo, e fondamentale, libro di Gandhi: Satyagraha in South Africa). Altri volumi sono stati pubblicati da Comunita': la nota e discutibile raccolta di frammenti Antiche come le montagne; da Sellerio: Tempio di verita'; da Newton Compton: e tra essi segnaliamo particolarmente Il mio credo, il mio pensiero, e La voce della verita'; Feltrinelli ha recentemente pubblicato l'antologia Per la pace, curata e introdotta da Thomas Merton. Altri volumi ancora sono stati pubblicati dagli stessi e da altri editori. I materiali della drammatica polemica tra Gandhi, Martin Buber e Judah L. Magnes sono stati pubblicati sotto il titolo complessivo Devono gli ebrei farsi massacrare?, in "Micromega" n. 2 del 1991 (e per un acuto commento si veda il saggio in proposito nel libro di Giuliano Pontara, Guerre, disobbedienza civile, nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1996). Opere su Gandhi: tra le biografie cfr. B. R. Nanda, Gandhi il mahatma, Mondadori; il recente accurato lavoro di Judith M. Brown, Gandhi, Il Mulino; il recente libro di Yogesh Chadha, Gandhi, Mondadori, e quello di Christine Jordis, Gandhi, Feltrinelli. Tra gli studi cfr. Johan Galtung, Gandhi oggi, Edizioni Gruppo Abele; Icilio Vecchiotti, Che cosa ha veramente detto Gandhi, Ubaldini; ed i volumi di Gianni Sofri: Gandhi e Tolstoj, Il Mulino (in collaborazione con Pier Cesare Bori); Gandhi in Italia, Il Mulino; Gandhi e l'India, Giunti. Cfr. inoltre: Dennis Dalton, Gandhi, il Mahatma. Il potere della nonviolenza, Ecig. Una importante testimonianza e' quella di Vinoba, Gandhi, la via del maestro, Paoline. Per la bibliografia cfr. anche Gabriele Rossi (a cura di), Mahatma Gandhi; materiali esistenti nelle biblioteche di Bologna, Comune di Bologna. Altri libri particolarmente utili disponibili in italiano sono quelli di Lanza del Vasto, William L. Shirer, Ignatius Jesudasan, George Woodcock, Giorgio Borsa, Enrica Collotti Pischel, Louis Fischer. Un'agile introduzione e' quella di Ernesto Balducci, Gandhi, Edizioni cultura della pace. Una interessante sintesi e' quella di Giulio Girardi, Riscoprire Gandhi, Anterem, Roma 1999. Tra le piu' recenti pubblicazioni segnaliamo le seguenti: Antonio Vigilante, Il pensiero nonviolento. Una introduzione, Edizioni del Rosone, Foggia 2004; Mark Juergensmeyer, Come Gandhi, Laterza, Roma-Bari 2004; Roberto Mancini, L'amore politico, Cittadella, Assisi 2005; Enrico Peyretti, Esperimenti con la verita'. Saggezza e politica di Gandhi, Pazzini, Villa Verucchio (Rimini) 2005; Fulvio Cesare Manara, Una forza che da' vita. Ricominciare con Gandhi in un'eta' di terrorismi, Unicopli, Milano 2006; Giuliano Pontara, L'antibarbarie. La concezione etico-politica di Gandhi e il XXI secolo, Ega, Torino 2006]

Scegliendo la resistenza nonviolenta, Gandhi intende dare prova di realismo. "Dal momento che il ricorso alle armi era impossibile e indesiderabile - egli scrive riferendo l'inizio della sua azione in India - il solo modo di resistenza vera al governo era il cessare di cooperare con esso. Cosi' arrivai all'espressione "non-collaborazione"" (1). Egli ha coscienza che l'azione degli Indiani per conquistare la loro indipendenza e' una prova di forza con gli Inglesi. Nel marzo 1922 non esita ad affermare che il dialogo tra gli Inglesi e gli Indiani e' impossibile, come il dialogo tra il gatto e il topo. "L'Inglese - egli scrive allora - e' generalmente arrogante; non ci comprende; si considera un essere superiore. Crede di essere al mondo per farci obbedire a lui. Conta sui suoi cannoni e sui suoi forti per proteggersi. Ci disprezza. Vuole forzarci a cooperare con lui, cioe' ad essere suoi schiavi. Bisogna vincere anche lui, non piegando le ginocchia davanti a lui, ma tenendoci a distanza, pero' senza odiarlo e senza fargli del male. Molestarlo sarebbe vile. Se ci rifiutiamo semplicemente di considerarci suoi schiavi e di rendergli omaggio, avremo fatto il nostro dovere. Un topo non puo' che evitare il gatto. Non puo' negoziare con lui fin quando non abbia limato le sue unghie e suoi denti" (2). Anche l'azione nonviolenta deve mettere la forza a servizio della giustizia: "E' un fatto indiscutibile che una richiesta senza il sostegno della forza e' inutile" (3).
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Il fine e i mezzi
Tuttavia, la necessita' di "forzare" l'avversario a riconoscere le esigenze della giustizia non giustifica tutti i mezzi. Nella ricerca della verita' come in quella dell'efficacia, la qualita' dei mezzi adoperati per arrivare al fine ricercato riveste un'importanza decisiva. "La definizione - scrive Gandhi - per quanto chiara, dello scopo che vogliamo raggiungere, e il nostro desiderio di arrivarci, non bastano a condurvici fin quando non conosceremo o non utilizzeremo i mezzi necessari. E' per questo che io mi sono dedicato soprattutto a preservare questi mezzi e a svilupparne l'uso. [...] Io credo che avanzeremo verso lo scopo nella misura esatta della purezza dei nostri mezzi" (4). E' importante che i mezzi utilizzati siano coerenti col fine ricercato: "I mezzi sono come il seme e il fine come l'albero. Il rapporto tra il fine e i mezzi e' cosi' inviolabile come quello tra l'albero e il seme. [...] Si raccoglie esattamente cio' che si e' seminato" (5). Mettendo cosi' in evidenza il legame organico che unisce il fine e i mezzi, Gandhi non afferma soltanto un principio filosofico e  morale, egli enuncia nello stesso tempo un principio strategico sul quale intende fondare l'efficacia della sua azione politica. La violenza e' inefficace perche', anche se utilizzata al servizio di una causa giusta, contiene una parte irriducibile di ingiustizia. "Dei moventi puri - afferma Gandhi - non possono mai giustificare un'azione impura o violenta" (6).
L'azione nonviolenta deve cercare la vittoria, ma il suo fallimento, sempre possibile, non le fa perdere senso: essa e' di per se stessa una vittoria. "La natura stessa della resistenza nonviolenta - scrive Gandhi - e' tale che i frutti del movimento sono contenuti nel movimento stesso" (7). Poiche' "per un lottatore, la lotta stessa e' una vittoria" (8), a condizione che non si inganni ne' sul fine ne' sui mezzi.
Cosi' due tipi di forza possono appoggiare le richieste" (9): c'e' anzitutto "la forza delle armi", ma Gandhi rifiuta di ricorrervi perche' ne giudica "malefici i risultati" (10). "Il secondo tipo di forza puo' esprimersi cosi': "Se voi non accedete alle nostre esigenze, noi non ricorreremo piu' a voi. Voi non potete governarci che fino a quando noi restiamo i governati; ma noi non intratterremo piu' alcuna relazione con voi"" (11). Cosi', il potere dei governanti puo' essere ridotto a niente se i governati rifiutano di sottomettersi alla loro autorita'. La costrizione diventa effettiva a partire dal momento in cui le azioni di non-collaborazione dei cittadini arrivano a prosciugare le sorgenti del potere del governo, in modo che questo non possa piu' farsi obbedire. Cosi', puo' stabilirsi un nuovo rapporto di forza che permette ai resistenti di ottenere il riconoscimento dei loro diritti.
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Il principio di non-collaborazione
Secondo Gandhi, cio' che fa la potenza dell'impero britannico nelle Indie, non e' tanto la capacita' di violenza degli Inglesi quanto la capacita' di rassegnazione degli Indiani. "Non sono tanto i fucili britannici - egli afferma - che sono responsabili della nostra soggezione, quanto la nostra cooperazione volontaria" (12). Percio', per liberarsi dal giogo che pesa su di loro, gli Indiani devono cessare ogni cooperazione col governo che li opprime. "Il governo - assicura Gandhi -, non ha alcun potere al di fuori della cooperazione volontaria o forzata del popolo. La forza che esso esercita, e' il nostro popolo che gliela conferisce tutta intera. Senza il nostro appoggio, centomila europei non potrebbero tenere neppure la settima parte dei nostri villaggi. [...] Il problema che noi abbiamo e' dunque opporre la nostra volonta' a quella del governo, o, in altre parole ritirargli la nostra cooperazione. Se noi ci mostriamo fermi nella nostra intenzione, il governo sara' forzato a piegarsi davanti alla nostra volonta', oppure a scomparire" (13). E' chiaro qui che il proposito di Gandhi non e' di convertire gli Inglesi - anche se, d'altra parte, egli non intende rinunciare a questo obiettivo - ma e' proprio di costringere il governo britannico.
Il rifiuto di collaborare con l'ingiustizia e' nello stesso tempo un'esigenza etica che obbliga l'individuo a non essere lui stesso complice del male, e un principio strategico che gli permette di lottare contro l'ingiustizia. Il cittadino non potrebbe addurre a pretesto la costrizione della legge per giustificare la sua cooperazione con l'ingiustizia. "La disobbedienza civile - afferma Gandhi - e' un diritto imprescrittibile di ogni cittadino. Egli non puo' rinunciarvi senza cessare di essere un uomo. [...] Far cessare la disobbedienza civile sarebbe voler imprigionare la coscienza" (14). L'esigenza della coscienza deve prevalere sulla costrizione della legge, perche' "la legge della maggioranza non ha niente da dire la' dove deve pronunciarsi la coscienza" (15). La virtu' cardinale del cittadino non e' l'obbedienza, ma la responsabilita': "Se un governo commette una grave ingiustizia, il cittadino deve ritirargli la sua collaborazione in tutto o in parte, in modo da impedire ai dirigenti di perpetuare i loro misfatti" (16).
Gandhi deplora che, per una parte essenziale e il piu' delle volte decisiva, l'educazione si basa sul dovere di obbedienza all'autorita' e condiziona cosi' il bambino in modo che diventa un cittadino sottomesso e irresponsabile. Egli accusa le scuole "dove si insegna ai bambini a considerare l'obbedienza allo Stato come superiore all'obbedienza alla loro coscienza, e dove essi sono corrotti dalle false dottrine relative al patriottismo, al dovere di obbedienza ai superiori, cosicche' cadono facilmente sotto la magia del governo" (7). Il cittadino da' prova di vilta' quando cerca la sua sicurezza e tranquillita' personali in cambio della sottomissione incondizionata allo Stato. Egli deve avere il coraggio di disobbedirgli ogni volta che lo Stato gli ordina di partecipare ad una ingiustizia. "La disobbedienza civile - scrive Gandhi - e' una rivolta, ma senza alcuna violenza. Chi si impegna a fondo nella resistenza civile semplicemente non tiene alcun conto dell'autorita' dello Stato. Diventa un fuorilegge che si attribuisce il diritto di passare sopra ad ogni legge dello Stato contraria alla morale" (18).
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La costrizione dell'azione nonviolenta
Gandhi pensa che l'oppressione subita dagli Indiani non viene tanto dalla cattiveria personale degli Inglesi quanto dalle malefatte del sistema coloniale britannico. Percio' intende combattere questo sistema istituzionale e legislativo. "La nostra non-collaborazione - egli afferma - non ce l'ha ne' con gli Inglesi ne' con l'Occidente, ma col sistema che gli Inglesi ci hanno imposto" (19). Cosi', la lotta nonviolenta consiste nello sradicare il male senza eliminare il malfattore: "Io mi do da fare, dice Gandhi, per braccare il male dovunque si trovi, ma senza mai nuocere a chi ne e' responsabile" (20). Se non e' possibile convincere o convertire il malfattore, bisogna allora renderlo incapace di commettere il male privandolo dei sostegni senza i quali diventa impotente. "La nostra resistenza all'oppressione britannica - egli assicura - non significa che noi vogliamo del male al popolo britannico. Noi cerchiamo di convertirlo, non di batterlo sul campo di battaglia. La nostra rivolta contro l'autorita' britannica e' disarmata. Ma, che noi convertiamo o no i britannici, noi siamo decisi a rendere la loro dominazione impossibile per mezzo della non-collaborazione nonviolenta. E' un metodo invincibile per la sua stessa natura. E' basato sulla conoscenza del fatto che nessun depredatore puo' arrivare ai suoi scopi senza un certo grado di collaborazione volontaria o forzata da parte della sua vittima" (21).
La resistenza nonviolenta consiste dunque proprio nel mettere l'avversario fuori dalla possibilita' di nuocere ritirando ogni collaborazione con lui. "Immaginate un popolo intero, scrive Gandhi, che rifiuta di conformarsi alle leggi in vigore ed e' pronto a sopportare le conseguenze di questa insubordinazione. Tutto il meccanismo legislativo ed esecutivo si troverebbe d'un sol colpo completamente paralizzato" (22). Dunque, e' l'unione che fa la forza, e non soltanto la giustezza della causa. Per questo il resistente nonviolento "deve mobilitare l'opinione pubblica contro il male che ha deciso di sopprimere, con una agitazione estesa e intensa. Quando l'opinione pubblica e' convenientemente sollevata contro un abuso sociale, i piu' grandi stessi non osano piu' esercitare tale abuso o dargli pubblicamente il loro appoggio. Una opinione pubblica cosciente e intelligente e' l'arma piu' potente del resistente nonviolento" (23). Ad un giornalista che gli domanda qual e' la pressione che egli spera di esercitare sulle autorita' britanniche organizzando il movimento di resistenza, Gandhi risponde: "Io credo che se la popolazione gli ritira improvvisamente il sostegno fin nei piu' piccoli particolari, il governo si trovera' in un vicolo cieco" (24). La non-collaborazione e' dunque proprio un metodo politico che mira a neutralizzare l'avversario prima ancora che egli rinunci da se stesso all'ingiustizia che sta commettendo. "Per ottenere riparazione all'ingiustizia - scrive Gandhi - noi dobbiamo rifiutare di attendere che il colpevole abbia preso coscienza della sua iniquita'. Non bisogna che, per paura di soffrire noi stessi o di veder soffrire altri, noi restiamo suoi complici. Al contrario, bisogna combattere il male cessando di dare il nostro apporto al malfattore in maniera diretta o indiretta" (25).
Certo, Gandhi sa per esperienza che lo Stato non manchera' di ricorrere ai mezzi di cui dispone per combattere e tentare di spezzare il movimento che resiste alla sua autorita', ma e' convinto che il popolo, purche' resti unito, e' capace di far fallire questa repressione. "Nessuna polizia e nessun esercito - afferma - puo' far cedere la volonta' di tutto un popolo risoluto a resistere fino al limite della sue forze" (26). E se lo Stato non puo' arrivare a spezzare l'energia del movimento di resistenza, non avra' piu' altra via d'uscita che cercare una soluzione negoziata del conflitto.
In definitiva, Nehru da' prova della piu' grande lucidita' quando scrive: "Qualsiasi fosse la parte che la conversione dell'avversario aveva nello spirito del suo autore, la nonviolenza, nella pratica, era anche proprio un'arma, uno strumento potente di costrizione, anche se questa costrizione si esercitava nella maniera piu' civile e meno riprovevole" (27).
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"La marcia del sale
Per fare apparire la fattibilita' della nonviolenza come "metodo politico destinato a risolvere dei problemi politici", la cosa migliore e' analizzare la campagna di non-collaborazione organizzata da Gandhi nel 1930. Il 31 dicembre 1929 a mezzanotte, il Congresso nazionale dell'India si era pronunciato solennemente per l'indipendenza e aveva deciso di organizzare una campagna di disobbedienza civile per arrivare a questo scopo. Gandhi decide allora di sfidare il governo britannico chiedendo agli Indiani di disobbedire apertamente alla legge che li costringeva a pagare una tassa sul sale. Il 2 marzo 1930, egli lancia un ultimatum al vicere', Lord Irwin, nel quale afferma: "Se l'India deve vivere come una nazione, se si vuole arrestare il processo che conduce il suo popolo a morire lentamente di fame, bisogna trovare immediatamente un rimedio che possa soccorrerlo. Non e' piu' questione di convincere con degli argomenti. Il problema trovera' da se' una soluzione per opera di una delle due forze che si affrontano. Di fronte a degli argomenti, convincenti o no, la Gran Bretagna difendera' il suo commercio e i suoi interessi in India utilizzando tutte le forze di cui dispone. L'India, di conseguenza, deve accumulare una forza sufficiente per potere liberarsi da se' dalla stretta della morte. [...] Il partito della violenza sta guadagnando terreno e lo fa sentire lui stesso. Il suo scopo e' lo stesso del mio. Ma io sono convinto che esso non puo' arrivare a soccorrere i milioni di Indiani che soffrono in silenzio. La mia convinzione sempre piu' profonda e' che niente altro che la nonviolenza, purche' sia incontaminata, possa dare scacco alla violenza organizzata del governo britannico. Molti pensano che la nonviolenza non e' una forza attiva. La mia esperienza, benche' limitata, mostra che essa puo' essere una forza molto attiva. La mia intenzione e' di mettere in moto questa forza tanto contro la violenza organizzata dell'autorita' britannica, quanto contro la violenza disorganizzata del partito crescente della violenza. Restare tranquillamente seduti sarebbe allentare le briglie a queste due violenze. Avendo una fede incondizionata e incrollabile nella nonviolenza, io sarei colpevole se attendessi piu' a lungo. Questa nonviolenza si esprimera' attraverso la disobbedienza civile. [...] La mia ambizione e' nientemeno che convertire il popolo britannico con la nonviolenza e, cosi', di fargli prendere coscienza del torto che ha commesso contro l'India. Io non cerco di fare un torto al vostro popolo. Io voglio anche servirlo, come voglio servire il mio popolo. [...] Se il popolo mi segue, come spero, le sofferenze che sopportera', a meno che la Gran Bretagna decida molto in fretta di ritornare sui suoi passi, basteranno per toccare i cuori piu' induriti. L'organizzazione della disobbedienza civile avra' per scopo di combattere i mali come quelli che ho gia' enumerato. [...] Io vi domando di tracciare un cammino per mettere fine immediatamente a questi mali, e di aprire cosi' la via ad una vera conferenza che riunisca uomini uguali tra loro. [...] Ma se voi non vedete alcun rimedio a questi mali e se la mia lettera non tocca il vostro cuore, allora l'undici di questo mese, con tutti i compagni che potranno unirsi a me, intraprendero' la violazione delle disposizioni di legge sul sale" (28).
Cosi' Gandhi riafferma la sua ambizione di convertire gli Inglesi, ma l'azione di disobbedienza civile che egli progetta mira a costringere il governo britannico a soddisfare le rivendicazioni degli Indiani. Egli lo dice esplicitamente in un discorso che pronuncera' il 10 marzo, due giorni prima del lancio della campagna: "Supponiamo - afferma - che dieci persone in ciascuno dei settecentomila villaggi dell'India decidano di fabbricare del sale e di disobbedire cosi' alla legge. Che cosa pensate che questo governo potra' fare? Anche il peggiore dittatore che voi possiate immaginare non arriverebbe a disperdere dei reggimenti di resistenti civili pacifici facendo parlare i cannoni. Per poco che voi decidiate di attivarvi, vi assicuro che sarete capaci di stancare questo governo in molto poco tempo" (29).
Il vicere' non si lascera' per nulla convincere ne' commuovere dall'ultimatum di Gandhi e gli fara' rispondere che si rammarica che egli "adotti una linea di condotta che non puo' che sboccare nella violazione della legge e nel mettere in pericolo la pace pubblica" (30). Presa conoscenza di questa risposta, Gandhi esclamera': "Io domandavo in ginocchio un pezzo di pane e, invece, ho ricevuto una pietra!" (31). Il 12 marzo, il giorno stesso dell'inizio della campagna, rispondera' in questi termini al vicere': "La sola legge che la nazione conosce e' la volonta' degli amministratori britannici, la sola pace pubblica che la nazione conosce e' la pace di una prigione pubblica. L'India non e' che una vasta prigione. Ebbene, io ricuso questa legge e considero come un dovere sacro spezzare la monotonia lugubre della pace imposta alla nazione, che ferisce il suo cuore privandola della liberta'" (32).
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Gandhi ribelle all'impero britannico
Il 12 marzo 1930 al mattino, Gandhi lascia la citta' di Ahmenabad alla testa di settantanove marciatori. Si propone di raggiungere il villaggio di Dandi, sul bordo dell'oceano Indiano, a circa 390 chilometri di distanza. Durante la marcia, Gandhi trova il tempo di scrivere degli articoli per il suo giornale Young India. Il 27 marzo, pubblica un articolo dal titolo "Il dovere della slealta'". Egli afferma in particolare: "Oggi, lo Stato e' una istituzione che, per chiunque lo conosce, non merita lealta'. E' corrotto. Molte leggi che regolano la condotta delle persone sono inumane. [...] Questo sistema di governo e' apertamente basato sullo sfruttamento senza pieta' di milioni di Indiani. [...] Perciò, e' un dovere per chi ha coscienza del male terribile fatto dal sistema di governo dell'India, di essere sleale e di predicare apertamente la slealta'. [...] E' un dovere per tutti quelli che hanno preso coscienza della natura malefica di questo sistema distruggerlo senza tardare. E' chiaramente loro dovere correre tutti i rischi per arrivare a questo scopo" (33).
Dopo venticinque giorni di marcia, Gandhi e i suoi compagni raggiungono Dandi il 5 aprile 1930. L'indomani, alle 8,30 del mattino, va sul bordo dell'oceano e raccoglie un po' di sale lasciato dalle onde sulla spiaggia. A partire da questo momento, e' un ribelle all'impero britannico. Egli lancia allora la parola d'ordine della disobbedienza civile a tutti gli Indiani, domandando loro di procurarsi illegalmente il sale. L'8 aprile dichiara: "Oggi tutto l'onore dell'India e' simboleggiato da un pugno di sale nella mano dei resistenti nonviolenti. Il pugno che tiene questo sale puo' essere spezzato, ma questo sale non sara' restituito volontariamente" (34). Gli Indiani prendono parte con entusiasmo a questa insurrezione pacifica. Nehru riferira' dello stupore suscitato da Gandhi, che aveva avuto il genio di "trovare il gesto che colpiva la moltitudine e di condurla ad agire nell'ordine e nella disciplina" (35). La disobbedienza civile e' estesa ad altri campi. "Il vicere' - raccontera' Nehru - ci facilito' il compito su questo punto, pubblicando delle ordinanze che ci proibivano questa o quella forma di attivita'. Meno le ordinanze bastavano a controllare la situazione, piu' se ne pubblicavano di nuove. Era un circolo vizioso" (36).
Le autorita' che, all'inizio, avevano creduto piu' prudente non intervenire, procedono ormai a numerosi arresti. Il I maggio, Gandhi scrive al vicere' per comunicargli la sua intenzione di invadere ed appropriarsi dei depositi di sale di Dharasana. Il governo decide di reagire rapidamente e, il 5 maggio, mette Gandhi in stato d'arresto. Il raid su Dharasana e' effettuato il 21 maggio da circa duemila volontari. Essi devono subire la repressione feroce dei poliziotti che li colpiscono a colpi di bastone con un sovrappiu' di brutalita'. Ci sono due morti e piu' di trecento feriti.
Le prigioni sono ben presto sovrappopolate da circa 80.000 ribelli. "Dal punto di vista politico - nota Louis Fischer nel suo libro Vita del Mahatma Gandhi - la situazione era insostenibile" per le autorita' britanniche (37). Per tentare di riprendere l'iniziativa, Lord Irwin crede di dover fare un gesto: permette ai principali dirigenti del Congresso, che si trovano incarcerati in diversi luoghi, di recarsi nella prigione di Gandhi per potere consultarsi con altri leaders indiani piu' moderati. Questi colloqui hanno luogo dal 13 al 15 agosto 1930, ma non danno alcun risultato. Tuttavia provocano la collera di Wiston Churchill, che ironizza: "Il governo dell'India ha messo Gandhi in prigione ed e' venuto a sedersi dietro la porta della sua cella chiedendo il suo aiuto per superare le proprie difficolta'" (38). Il governo di Londra comprende pero' che non puo' padroneggiare la situazione senza accettare di negoziare direttamente con i dirigenti del Congresso, e suggerisce al vicere' di rimetterli in liberta'. Il 25 gennaio 1931 Lord Irwin decide di liberare Gandhi e molti dei suoi compagni. "Il mio governo - afferma in un comunicato - non mette alcuna condizione a questa liberazione, perche' noi pensiamo che la speranza di ristabilire la pace poggia essenzialmente sulla possibilita' di tenere delle discussioni con gli interessati in condizioni di totale liberta'" (39).
Il 17 febbraio 1931 Gandhi arriva al palazzo del vicere' per incontrare Lord Irwin. Churchill, a suo modo, non s'inganna sulla portata storica dell'avvenimento. "E' uno spettacolo spaventoso e nauseante – dichiara - vedere il signor Gandhi, questo avvocato sedizioso che ora gioca a fare il fachiro, salire mezzo nudo gli scalini del palazzo del vicere' per parlamentare da pari a pari col rappresentante dell'imperatore, mentre continua a sfidarci organizzando e guidando una campagna di disobbedienza civile" (40).
Gandhi e Irwin firmano il 5 marzo 1931 il Patto di New Delhi. Molti Indiani - e tra loro molti leaders del Congresso, con Nehru in prima fila - ritengono che Gandhi si e' mostrato fin troppo conciliante col vicere'. Probabilmente non hanno torto, perche', in effetti, la campagna di disobbedienza civile aveva posto Gandhi in posizione di forza ed egli era in grado di ottenere dal suo avversario maggiori concessioni. Tuttavia, pur riconoscendo che il patto che ha concluso col governo non e' il risultato di un "cambiamento d'animo" (41) da parte dei dirigenti britannici, Gandhi pensa che le clausole dell'accordo raggiunto costituiscano un buon compromesso. Se l'indipendenza non e' ancora conquistata, egli pensa di poter affermare che si e' aperta una nuova porta verso la liberta' (42).
Cosi' la mobilitazione dei cittadini in una resistenza nonviolenta permette di esercitare una vera costrizione su chi ha il potere di decidere. Ma c'e' un altro elemento essenziale in ogni strategia di azione nonviolenta. Sfidando apertamente il potere dell'oppressore, osando fronteggiarlo col dominare ogni paura, disobbedendo ai suoi ordini, accettando di soffrire senza pensare a vendicarsi, l'oppresso dimostra a se stesso che e' un essere degno e libero, si riabilita ai propri occhi, riprende potere sulla propria vita. A questo punto, qualunque sia la potenza materiale che puo' permettere all'oppressore di imporre la sua legge all'oppresso ancora per qualche tempo, l'oppresso ha gia' recuperato la sua liberta'. Cio' che di decisivo la campagna di disobbedienza civile del 1930 ha dato al popolo indiano, e' stato il ritrovare la propria dignita'. Da allora, la sua indipendenza, anche se non era ancora scritta nel patto concluso tra Gandhi e l'autorita' britannica, era gia' scritta nella storia. Il poeta Rabindranath Tagore sapra' perfettamente evocare questa vittoria conseguita allora dal suo popolo: "Gli Inglesi hanno ora compreso che l'uomo europeo ha definitivamente perduto il suo antico prestigio morale in Asia. Ormai, non e' piu' considerato come il campione di lealta' nel mondo e come l'esponente dei principi alti, ma come il difensore della supremazia della razza occidentale e lo sfruttatore di quanti sono fuori dalle sue frontiere. In realta', per l'Europa, questa e' una grave disfatta morale. Infatti, benche' l'Asia sia ancora materialmente debole e incapace di difendersi contro un'aggressione quando i suoi interessi vitali sono minacciati, non e' meno vero che che essa puo' permettersi di guardare l'Europa dall'alto, mentre in passato la guardava dal basso" (43).
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La violenza e' preferibile alla vilta'
Gandhi e' convinto che la nonviolenza e' l'arma piu' potente per ottenere giustizia, ma, se non avesse disimparato a credere nell'efficacia della violenza, probabilmente non avrebbe esitato a prendere le armi per combattere l'imperialismo britannico che opprimeva il suo popolo. "Io sono dell'avviso – afferma - che quelli che credono alla violenza imparino a maneggiare le armi. Io preferirei sicuramente che l'India avesse ricorso alle armi per difendere il suo onore piuttosto che vederla diventare o restare vilmente testimone impotente del proprio disonore" (44). Egli non avrebbe dunque esitato a "correre il rischio della violenza piuttosto che vedere castrare tutto un popolo" (45). Chi ha paura di assumere il rischio della violenza e' incapace di assumere quello della nonviolenza: "Mentre non c'e' alcuna speranza di vedere un vile diventare nonviolento, questa speranza non e' vietata ad un uomo violento" (46). Infatti, la nonviolenza e' una resistenza, un fare fronte, una lotta, un combattimento. Per questo, essa e' piu' lontana dalla vilta', dalla passivita' e dalla rassegnazione che dalla violenza. "La nonviolenza - afferma Gandhi - suppone prima di tutto che si sia capaci di battersi. Ma, nello stesso tempo, bisogna coscientemente e deliberatamente reprimere ogni desiderio di vendetta. Ma non e' meno vero che, in ogni caso, la vendetta vale piu' di una sottomissione puramente passiva. [...] Ma superiore a tutto e' il perdono. La vendetta e' anche una debolezza, nata dalla paura reale o immaginaria di subire un torto" (47).
Di fronte all'ingiustizia, le ideologie dominanti che affermano la necessita' della violenza pretendono di imporre la scelta obbligata tra violenza e vilta'. L'argomento sempre avanzato per giustificare la violenza, argomento che si pretende al di sopra di ogni sospetto, e' che la violenza e' necessaria per lottare contro la violenza. Questo argomento implica un corollario: rinunciare alla violenza giusta e' lasciare libero corso alla violenza ingiusta. Dunque, il rifiuto della violenza, al quale generalmente si riduce la nonviolenza, non puo' essere che effetto di vilta'. Fin tanto che il dibattito e' chiuso nel dilemma violenza-vilta', l'individuo non puo' che sentirsi obbligato a scegliere la violenza. Certo, uno puo' rifiutare la violenza per vilta', cioe' per paura dei rischi che essa implica. Ma questo rifiuto e' proprio l'opposto della nonviolenza raccomandata da Gandhi. "La mia nonviolenza – egli afferma - non autorizza a fuggire il pericolo e a lasciare senza protezione quelli che ci sono cari. Se bisogna scegliere tra la violenza e la fuga paurosa, io non posso che preferire la violenza alla codardia" (48). Per questo e' importante uscire dal dilemma che ci ingiunge di scegliere tra la violenza e la vilta'.
In realta', davanti alla violenza ingiusta, l'uomo non e' posto davanti a due, ma a tre possibilita': la vilta', la violenza, la nonviolenza. Qui il pensiero di Gandhi e' senza ambiguita': meglio la violenza che la vilta', ma meglio la nonviolenza che la violenza. "In verita' – scrive - io credo che se si dovesse assolutamente scegliere tra la vilta' e la violenza, consiglierei la violenza. [...] Ma io credo che la nonviolenza e' infinitamente superiore alla violenza" (49). Quando apprende che gli uomini di un villaggio sono fuggiti per sottrarsi alla polizia che saccheggiava le loro case e molestava le loro donne, e che, cosi' facendo, hanno creduto di dar prova di nonviolenza, Gandhi e' tutto vergognoso che si sia potuto fraintendere a tal punto il senso del suo insegnamento: "Avrei voluto – dira' - vederli interporsi come uno scudo tra i piu' forti che minacciavano e i piu' deboli che essi avevano il dovere di proteggere. Senza il minimo spirito di vendetta, avrebbero dovuto prendere su di se' tutte le sofferenze della lotta, anche a costo di farsi uccidere, e mai fuggire davanti alla tempesta. Ci sarebbe voluto gia' un certo coraggio a difendere a viva forza i propri beni, il proprio onore, la propria religione. Sarebbe stato ancora piu' nobile assicurarne la difesa senza rendere male per male. Ma era indegno, immorale e disonorevole abbandonare il proprio posto e, per salvare la pelle, lasciare tutto in balia dei malfattori" (50).
Gandhi non disconosce che la violenza e' stata spesso l'arma della liberta': "Le pagine della storia – constata - sono rosse del sangue versato da quelli che lottano per la liberta'" (51). Gandhi non condanna questi combattenti, ma gli sembra che sia venuto il tempo di uscire da questa spirale di violenza nella quale si sono lasciati trascinare oppressori ed oppressi. Egli osserva che i soldati della liberta' che hanno fatto ricorso alle armi di distruzione per combattere l'oppressione si sono lasciati accecare dalla violenza. E' convinto che, per arrivare alla liberta', il cammino della violenza e' in realta' una deviazione seminata di insidie e di pericoli che il realismo comanda di evitare. Egli vuole che il suo popolo prenda la via breve della nonviolenza. E' persuaso che gli Indiani non hanno bisogno di ricorrere alle armi della violenza per conquistare la liberta'. "Una nazione di 350 milioni di persone non ha bisogno del pugnale dell'assassino, non ha bisogno del veleno, della spada, della lancia e del fucile. Le basta avere la propria volonta', essere capace di dire "no", e questa nazione oggi sta imparando a dire no" (52).
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La violenza puo' apparire necessaria
Gandhi e' consapevole che la nonviolenza dell'uomo non puo' essere assoluta: "Fintantoche' non siamo dei puri spiriti, la nonviolenza perfetta e' teorica come la linea retta di Euclide" (53). Solo per vivere, l'uomo e' costretto a compiere certi atti di violenza. "Il fatto stesso che mangia, beve, si muove, implica necessariamente una parte di violenza, di distruzione di vita, per quanto minima" (54). Tuttavia, l'uomo deve limitarsi alla stretta necessita'. Cosi', per parte sua, Gandhi rifiuta di mangiare carne per rispetto della vita degli animali. Egli assegna la piu' grande importanza alla protezione della vacca raccomandata dall'induismo: cio' "significa la protezione di tutte le creature di Dio" (55), "e' la protezione di ogni vita, di tutto cio' che nel mondo e' debole e impotente" (56).
L'individuo non puo' neppure pretendere di vivere senza alcun compromesso con tutte le ingiustizie sociali del disordine stabilito, che sono altrettante violenze strutturali. "Da quando l'uomo vive in societa', non puo' che essere complice di certe forme di violenza" (57). Se dunque e' impossibile all'uomo evitare ogni violenza, "allora, si pone una questione: qual e' il limite da non superare?" (58). Gandhi si guarda bene dal dare una risposta formale che si imponga a tutti in tutte le situazioni. Cio' che importa, per ciascuno, e' sforzarsi di allontanare il piu' possibile la soglia della violenza. Egli riconosce che puo' accadere di trovarsi in una situazione in cui non si potra' fare altro che ricorrere alla violenza per evitare il peggio. E' anche possibile di essere indotti ad uccidere "per proteggere quelli di cui si ha il dovere di curarsi" (59): "Cosi', se un uomo diventa pazzo furioso e si precipita con una spada per uccidere tutti quelli che incontra e nessuno osa prenderlo vivo, chiunque uccide questo pazzo omicida meritera' la riconoscenza della comunita' e sara' considerato un uomo buono con i suoi simili" (60). Ma neppure questa violenza e' una fatalita', e Gandhi aggiunge subito: "C'e' tuttavia un'eccezione, se si puo' dir cosi'. Il saggio che puo' placare la furia di quest'uomo pericoloso non ha il diritto di ucciderlo. Ma noi non parliamo qui di persone che hanno quasi raggiunto la perfezione. Noi pensiamo al dovere della societa', degli esseri umani comuni e imperfetti" (61).
Alcuni saranno forse tentati di pensare che riconoscendo la necessita' di ricorrere alla violenza per evitare il peggio, Gandhi si allinei, in definitiva, alla tesi classica della legittima difesa cosi' come e' presentata da tutte le dottrine morali fondate sul diritto naturale. In realta', non e' affatto vero. Resta in effetti una differenza radicale tra il pensiero di Gandhi e queste dottrine, in quanto queste fanno del ricorso alla violenza per difendersi da un'aggressione la regola generale e ignorano totalmente le possibilita' pratiche dell'azione nonviolenta; anzi, senza nemmeno conoscerle, ne affermano l'inefficacia. Di modo che, anche quando queste dottrine ritengono per principio che la violenza deve essere solo l'ultimo mezzo, in concreto non offrono alcuna altra risorsa, e la violenza s'impone allora praticamente come la sola possibilita' di far fronte ad un'aggressione. Gandhi, al contrario, e' persuaso che la nonviolenza offre effettivamente la possibilita' di risolvere pacificamente i conflitti che si devono affrontare. Cosi', egli sottolinea che non si deve ricorrere alla violenza se non "quando cio' sara' inevitabile e soltanto dopo piena e matura riflessione, dopo aver esaurito tutti i mezzi per non ricorrervi" (62). Qui, una tale frase non appartiene piu' alla retorica. Infine, quando riconosce che la violenza puo' apparire necessaria, Gandhi si guarda bene dall'entrare nei processi di legittimazione che la giustificano. La necessita' della violenza non sopprime l'esigenza della nonviolenza.
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Liberare l'India da uno Stato indiano
Lungo tutta la sua lotta per l'indipendenza dell'India, una delle maggiori preoccupazioni di Gandhi e' stata non solo di combattere la tutela statale dell'impero britannico, ma di permettere al popolo indiano di governarsi da se', senza ricorrere ai meccanismi di costrizione violenta che caratterizzano il metodo di governo statale. Secondo lui, il miglior mezzo dato agli Indiani per resistere al governo britannico e levargli ogni potere, e' l'imparare a governarsi da se', cioe' diventare autonomi. Questa e' anche una delle principali ragioni per le quali egli raccomanda la nonviolenza come mezzo di resistenza. E' persuaso, infatti, che quelli che consigliano la violenza per combattere gli Inglesi, non saprebbero fare altrimenti, se arrivassero a vincere, che governare l'India con la violenza: "Quando saranno riusciti a cacciare gli Inglesi e a prendere il loro posto al potere, chiederanno a tutti noi di obbedire alla loro legge" (63). Prendere il potere col fucile equivale a condannarsi ad esercitarlo col fucile. Per questo il movimento di resistenza organizzato da Gandhi non ha tanto per scopo finale di prendere il potere agli Inglesi, quanto di organizzare il potere degli Indiani. Cosi', la strategia dell'azione nonviolenta non mira a prendere il potere per il popolo, ma vuole, da subito, organizzare la presa del potere da parte del popolo. "L'indipendenza, afferma Gandhi, e' imparare a dirigere se stessi; di conseguenza, questo dipende da noi. [...] Ora, voi avrete senza dubbio capito perche' il nostro primo scopo non dev'essere la cacciata degli Inglesi" (64). Bisogna dunque che gli Indiani imparino a non volere "alcuna tirannia: ne' quella delle legge inglese, ne' quella della legge indiana" (65). Gli Indiani non ci guadagneranno nulla a cambiare il dominio dello Stato Britannico con il dominio di uno Stato indiano. "Se in definitiva, scrive Gandhi, il solo cambiamento atteso non riguarda altro che il colore dell'uniforme militare, non abbiamo davvero bisogno di fare tutte queste storie. In quel caso, in ogni modo, non si tiene conto del popolo. Sara' sfruttato quanto, se non di piu', nell'attuale stato di cose" (66).
Per questo, mentre organizza la non-collaborazione col sistema coloniale, Gandhi organizza un "programma costruttivo", col quale si sforza di mobilitare gli Indiani perche' partecipino direttamente alla gestione dei loro affari. Il programma costruttivo consiste, mentre si combattono le istituzioni, le strutture e le leggi che generano l'ingiustizia, nel proporre altre istituzioni, altre strutture e altre leggi che diano una soluzione costruttiva ai diversi problemi, e nel cominciare a metterle in atto per dare la prova concreta della loro fattibilita'. Piuttosto che limitarsi ad esigere dal potere avversario una soluzione giusta al conflitto in corso, si tratta di cominciare da se' a immettere questa soluzione nella realta'. Secondo Gandhi, esiste una "connessione necessaria tra il programma costruttivo e la disobbedienza civile" (67), ed egli non esita ad affermare: "Il corpo della nonviolenza si sloga se non ha una fede viva nel programma costruttivo" (68).
Gandhi ritiene che le scuole e le universita' dell'India sono poste "sotto l'influenza di un governo che ha volontariamente spogliato la nazione del suo onore e di conseguenza e' dovere della nazione ritirarne i figli" (69). Ma una simile politica di non-collaborazione ha senso solo se la nazione si fa carico essa stessa dell'educazione dei figli. "Abbandonare le scuole attuali - scrive Gandhi - e' avere coscienza che noi siamo capaci di organizzare il nostro insegnamento malgrado difficolta' himalayane" (70).
A piu' riprese Gandhi si ritira volontariamente dalle controversie politiche in cui ristagna la lotta per l'indipendenza, per dedicarsi a dei compiti concreti di promozione sociale in mezzo alla popolazione indiana, cominciando dai piu' poveri. "Io non cerco - egli ripete - di liberare l'India soltanto dal giogo inglese. Sono deciso a liberarla da tutte le forme di servitu' che pesano su di lei" (71). Cosi', egli si sforza di organizzare la lotta contro la disoccupazione, l'intoccabilita', il matrimonio dei bambini, l'alcolismo, la mancanza di igiene della popolazione, la superstizione delle masse, eccetera. "Per Gandhi - osserva il suo biografo B. R. Nanda - la liberazione politica dipendeva da una rigenerazione sociale ed economica del paese, che non si poteva raggiungere altrimenti che con gli sforzi del popolo stesso" (72).
E' in questa prospettiva che bisogna capire il movimento del khadi (stoffa indigena) per il quale Gandhi organizza in tutta l'India la filatura e tessitura a mano. L'arcolaio - che figura tuttora sulla bandiera nazionale indiana - ha in effetti un significato direttamente legato alla lotta per l'indipendenza. Esso diventa, nelle mani degli Indiani, un'arma economica e politica che si dimostra di grande efficacia. Legato al boicottaggio dei tessuti inglesi, l'arcolaio diventa il simbolo dell'indipendenza economica, che esso comincia a realizzare concretamente e costituisce di per se stesso una sfida politica al potere straniero. Con la filatura a mano, migliaia di Indiani si sottraggono alla disoccupazione e alla miseria. Soprattutto - come ha sottolineato Nehru - quel sistema contribuisce a "restituire a molta gente fiducia e rispetto di se'" (73). Il movimento del khadi permette anche di avvicinare il villaggio e la citta' e cosi' rafforza l'unita' di tutti gli Indiani nella lotta per la loro dignita'.
Gandhi, quindi, non punta a costruire uno Stato indiano sul modello dello Stato britannico che combatte. Al contrario, afferma che la filosofia politica della nonviolenza implica una critica radicale dello Stato, nella misura in cui la violenza e' costitutiva di questo. "Lo Stato - egli scrive - rappresenta la violenza in una forma intensificata e organizzata. L'individuo ha un'anima, ma lo Stato che e' una macchina senz'anima non puo' essere sottratto alla violenza perche' e' proprio ad essa che deve la sua esistenza" (74). Egli auspica quindi che la coesione della societa' indiana che nascera' dall'indipendenza si basi non sulla costrizione esercitata dallo Stato sugli individui, ma sulla responsabilita' e l'autonomia di questi. Per lui, l'autonomia dell'India "significa la presa di coscienza da parte di ogni abitante di villaggio che egli stesso e' l'artefice del proprio destino" (75). In una vera democrazia, ogni cittadino deve essere "l'architetto del proprio governo" (76). "L'autonomia individuale - egli precisa - suppone uno sforzo continuo per restare indipendente dall'influenza esercitata dal governo, che sia straniero o nazionale" (77).
La condizione perfetta della societa' sarebbe quella in cui nessuna costrizione fosse esercitata sui cittadini: "Sarebbe uno stato di anarchia illuminata. In un tale paese, ognuno sarebbe padrone di se stesso. Ognuno governerebbe se stesso in modo da non disturbare il proprio vicino" (78). Una simile anarchia implicherebbe di per se' "la scomparsa dello Stato" (79). Ma Gandhi e' consapevole che si tratta di un ideale irraggiungibile dagli uomini. "Nella vita - egli osserva - non si realizza mai completamente l'ideale. Da cui l'affermazione ben nota di Thoreau che il miglior governo e' quello che governa di meno" (80).
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Democrazia e nonviolenza
Gandhi e' convinto che esiste un legame organico tra democrazia e nonviolenza: "Io credo – afferma - che la vera democrazia non puo' risultare che dalla nonviolenza" (81). Poiche' una societa' democratica non puo' essere una societa' senza conflitti, si tratta di sforzarsi di gestirli secondo i principi e i metodi della nonviolenza. In definitiva, soltanto la dinamica della nonviolenza permette di coniugare ordine e giustizia. "La vera democrazia o l'autonomia delle masse - scrive Gandhi - non potra' mai essere realizzata con dei mezzi menzogneri e violenti, per la semplice ragione che il corollario naturale del loro impiego e' l'eliminazione di ogni opposizione con la soppressione o lo sterminio degli avversari. Cio' non puo' consentire l'avvento della liberta' individuale. Questa non puo' svilupparsi pienamente se non sotto un regime di reale nonviolenza" (82). Secondo Gandhi, la democrazia occidentale e' solamente formale. E ha certamente dei buoni motivi per pensare che "non e' con dei metodi democratici che l'Inghilterra si e' impadronita dell'India" (83). Del resto, non e' neppure con mezzi democratici che essa l'ha governata. La vera democrazia non si realizzera' che quando la violenza, come metodo di governo, sara' delegittimata. "Se l'India - scrive Gandhi - vuole evolvere verso la democrazia, non deve fare alcun compromesso con la violenza e la menzogna" (84). Egli e' persuaso che una rivoluzione violenta non puo' arrivare a stabilire la democrazia. Riferendosi nello stesso tempo alla rivoluzione francese e a quella russa, egli scrive: "Sono convinto che nella misura stessa in cui queste lotte erano condotte con la violenza, esse hanno fallito la realizzazione dell'ideale democratico. Nella democrazia che io penso, una democrazia fondata sulla non-collaborazione (85), ci sara' la stessa liberta' per tutti" (86). Mediante l'organizzazione delle azioni di non-collaborazione e la messa in atto del programma costruttivo, che offrono ad ogni individuo la possibilita' di esprimere il suo potere di cittadino e di assumersi la propria responsabilita', la lotta nonviolenta, di per se stessa, permette agli Indiani di imparare a governarsi da soli. Gandhi spera di dimostrare cosi' che "la vera indipendenza non verra' dalla presa del potere da parte di alcuni, ma dal potere che tutti avranno di opporsi agli abusi dell'autorita'. In altre parole, si dovra' arrivare all'indipendenza inculcando nelle masse la convinzione che hanno la possibilita' di controllare l'esercizio dell'autorita' e di tenerla a bada" (87). Perche' l'India diventi realmente autonoma, piuttosto che costituire uno Stato forte, Gandhi pensa che bisogna permettere ad ogni villaggio di diventare autonomo: "L'indipendenza, afferma, deve cominciare alla base. Cosi' ogni villaggio sara' una repubblica" (88).
Nel 1946, alla vigilia dell'indipendenza, Gandhi dichiara: "La nostra nonviolenza ci ha condotti fino alle porte dell'indipendenza. Vi dovremo rinunciare quando avremo superato questa soglia? Per parte mia, sono fermamente convinto che la nonviolenza dei forti, come io la penso, offre i mezzi piu' efficaci per far fronte tanto ad una aggressione esterna quanto ad un disordine interno, allo stesso modo in cui ci ha permesso di conquistare l'indipendenza" (89). Ma aggiunge subito di sapere che l'India non e' ancora arrivata a conquistare la nonviolenza dei forti. Percio' egli concede che, quando l'India sara' liberata dal giogo britannico, sara' necessario mantenere una forza di polizia. Questa, pero', sara' concepita in modo totalmente differente dalla polizia inglese. "Sara' composta di uomini che crederanno alla nonviolenza" (90). Peraltro, Gandhi riconosce che in certe occasioni sara' forse necessario che essi ricorrano alla violenza per mantenere l'ordine, se si verifica che non possano fare diversamente.
Per quel che riguarda l'esercito, Gandhi non pensa che sia possibile sopprimerlo dall'oggi al domani. Certo, vuole sperare che gli Indiani siano capaci di difendersi da un'aggressione straniera opponendo una resistenza nonviolenta e vuole prepararli a questo. Ma, se non arriva a far loro condividere la sua convinzione, essi non avranno altra possibilita' che prepararsi a difendersi coi mezzi della violenza. Anche qui, Gandhi intende dar prova di realismo, e soprattutto non vuole che sia per debolezza che gli Indiani rinunciano alla violenza. Per lui, "il peggior crimine dei Britannici e' di avere disarmato e castrato tutto un popolo" (91).
La principale condizione richiesta perche' una societa' possa essere governata secondo la legge della nonviolenza, e' che nel piu' gran numero i cittadini abbiano fatto personalmente la scelta della nonviolenza per orientare il loro comportamento personale, sociale e politico. Gandhi non ignora che e' estremamente difficile che questa condizione diventi un fatto. Percio' egli giudica irrealistico pensare che un governo possa diventare interamente nonviolento. "Oggi - scrive nel 1940 - io non concepisco una simile eta' dell'oro. Ma credo nella possibilita' di una societa' in cui la nonviolenza sia predominante. E lavoro per questo" (92). Ma finche' la cultura di una societa' sara' dominata dall'ideologia della violenza, questa societa' non potra' essere governata che secondo la logica della violenza. Perche' una societa' sia retta secondo la dinamica della nonviolenza, bisogna che la sua cultura sia penetrata dalla filosofia della nonviolenza. Dunque, la mutazione necessaria alle nostre societa' e' il passaggio da una cultura della violenza ad una cultura della nonviolenza. E' precisamente questa la sfida - ed e' una sfida formidabile - alla quale siamo confrontati in questa fine del XX secolo.
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Note
1. Autobiographie, ou mes experiences de verite', op. cit., p. 618; tr. it. cit.
2. La Jeune Inde, op. cit., pp. 352-353.
3. Resistance non-violente, op. cit., p. 21.
4. Lettres a' l'ashram, op. cit., p. 108.
5. Tous les hommes sont freres, op. cit., p. 149; cfr M. K. Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, op. cit., pp. 44-45.
6. Citato da Jean Herbert, op. cit., p. 83.
7. Satyagraha in South Africa, Ahmenabad, Navaijvan Publishing House, 1961, pp. 182-183.
8. Ibidem, p. 259.
9. Resistance non-violente, op. cit., p. 21-22.
10. Ibidem, p. 22.
11. Ibidem.
12. Tous les hommes sont freres, op. cit., p. 247.
13. La Jeune Inde, op. cit., p. 195.
14. Tous les hommes sont freres, op. cit., pp. 235-236.
15. Ibidem, p. 247.
16. Ibidem, p. 250.
17. Citato da Jean Herbert, op. cit., pp. 133-134.
18. Tous les hommes sont freres, op. cit., p. 251.
19. Ibidem, p. 208.
20. Ibidem, p. 142.
21. Citato da G. G. Tendulkar, Mahatma: Life of Mohandas Karamchand Gandhi, op. cit., t. 6, p.35.
22. Tous les hommes sont freres, op. cit., p. 240.
23. Resistance non-violente, op. cit., p. 71-72.
24. Ibidem, p. 134.
25. Tous les hommes sont freres, op. cit., p. 250.
26. Ibidem, p. 240.
27. Pandit Nehru, Ma vie et mes prisons, op. cit., p. 69.
28. Citato da G. G. Tendulkar, Mahatma: Life of  Mohandas Karamchand Gandhi, t. 3, op. cit., p. 17-18.
29. Ibidem, p. 22.
30. Ibidem, p. 19.
31. Ibidem. E' possibile che qui Gandhi pensi al paragone fatto da Gesu' nel vangelo di Matteo 7.9, che conosceva.
32. Ibidem.
33. Ibidem, p. 25-26.
34. Ibidem, p. 32.
35. Pandit Nehru, Ma vie et mes prisons, op. cit., p. 193.
36. Ibidem, p. 195.
37. Louis Fischer, The Life of Mahatma Gandhi, New York 1950; La vie du Mahatma Gandhi, Paris, Calmann-Levy, 1952, p. 255; tr. it. dell'edizione ridotta La vita di Gandhi, La Nuova Italia, Firenze 1971.
38. Citato da G.G.Tendulkar, Mahatma: Life of Mohandas Karamchand Gandhi, t. 3, op. cit., p. 46.
39. Ibidem, p. 49.
40. Ibidem, p. 53.
41. Ibidem, p. 76.
42. Ibidem, p. 64.
43. Citato da Louis Fischer, La vie du Mahatma Gandhi, op. cit. p. 253.
44. La Jeune Inde, op. cit. p. 106; cfr Teoria e pratica della nonviolenza, cit., p. 19.
45. Tous les hommes sont freres, op. cit., p. 179.
46. Ibidem, p. 178.
47. All Men are Brothers, op. cit., p. 131.
48. Citato da Jean Herbert, op. cit., p. 94.
49. La Jeune Inde, op. cit. p. 106; cfr Teoria e pratica della nonviolenza, cit., pp. 18-19.
50. Tous les hommes sont freres, op. cit., p. 179.
51. Citato da Jean Herbert, op. cit., p. 144.
52. Ibidem. p. 145.
53. Tous les hommes sont freres, op. cit., p. 164; cfr M. K. Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, op. cit., pp. 75-78.
54. Citato da Jean Herbert, op. cit., p. 91.
55. Ibidem, p. 111.
56. Ibidem.
57. Tous les hommes sont freres, op. cit., p. 167.
58. Ibidem, p. 176.
59. Lettres a' l'ashram, op. cit., p. 118.
60. Citato da Jean Herbert, op. cit., p. 93; cfr M. K. Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, op. cit., p. 69.
61. Ibidem; cfr M. K. Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza,  cit., p. 70.
62. Lettres a' l'ashram, op. cit., p. 119.
63. Leur civilisation et notre delivrance, Paris, Denoel, 1957, p. 144.
64. Ibidem, pp. 116-117.
65. Ibidem, pp. 170-171.
66. Tous les hommes sont freres, op. cit., p. 240.
67. Citato da Suzanne Lassier, op. cit., p. 170.
68. Ibidem.
69. La Jeune Inde, op. cit. p. 133.
70. Ibidem, p. 134.
71. Tous les hommes sont freres, op. cit., p. 241.
72. B. R. Nanda, Gandhi, Sa vie, ses idees, son action politique en Afrique du Sud et en Inde, Verviers (Belgique), Marabout Universite', 1968, p. 108-109; di questo Autore esiste la tr. it. di Mahatma Gandhi. A Biography by Oxford University Press, col titolo Gandhi il Mahatma, Oscar Mondadori, Milano 1984.
73. Pandit Nehru, Ma vie et mes prisons, op. cit., p. 368.
74. Tous les hommes sont freres, op. cit., p. 246.
75. Ibidem, p. 239.
76. Democracy: Real and Deceptive, Ahmenabad, Navajivan Publishing House, 1961, p. 72.
77. Tous les hommes sont freres, op. cit., p. 246.
78. Ibidem, p. 238.
79. Ibidem.
80. Ibidem.
81. Ibidem.
82. Democracy: Real and Deceptive, op. cit., p. 7.
83. Ibidem, p. 11.
84. The Mind of Mahatma Gandhi, p. 348.
85. S'intende: non-collaborazione con il male e l'ingiustizia [nota del traduttore].
86. Democracy: Real and Deceptive, op. cit., p. 20.
87. Tous les hommes sont freres, op. cit., p. 239.
88. Democracy: Real and Deceptive, op. cit., p. 73.
89. The Mind of Mahatma Gandhi, op. cit., p. 155.
90. Democracy: Real and Deceptive, op. cit., p. 26; cfr Teoria e pratica della nonviolenza,  cit., pp. 142-144.
91. Citato da Jean Herbert, op. cit., p. 158.
92. Democracy: Real and Deceptive, op. cit., pp. 10-11.

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LA BIBLIOTECA DI ZOROBABELE
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Supplemento a "La nonviolenza e' in cammino" (anno XXII)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com
Numero 98 del 31 maggio 2021
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