[Nonviolenza] Telegrammi. 4112



TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 4112 del 22 maggio 2021
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXII)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com, sito: https://lists.peacelink.it/nonviolenza/

Sommario di questo numero:
1. Le vittime
2. Jean-Marie Muller: La violenza e la necessita'
3. Ripetiamo ancora una volta...
4. Segnalazioni librarie
5. La "Carta" del Movimento Nonviolento
6. Per saperne di piu'

1. L'ORA. LE VITTIME

Tutte le vittime muoiono per niente.

Coloro che le hanno fatte morire
siedono poi trionfanti
al tavolo dove si spartiscono le spoglie
si gettano di nuovo i dadi
si fa un altro giro del gioco dell'oca.

*

Salvare le vite e' il primo dovere
abolire tutti i poteri assassini
abolire tutte le ideologie assassine
abolire tutti gli eserciti e tutte le armi
soccorrere accogliere assistere ogni persona bisognosa di aiuto
avere a cuore la vita la dignita' i diritti di tutti gli esseri umani.

Riconoscere l'umanita' di ogni essere umano
riconoscere che siamo una sola umana famiglia
in un unico mondo vivente di cui siamo insieme parte e custodi
riconoscere che ogni io e' un tu che ogni tu e' un io
che tutte e tutti siamo un unico noi.

La guerra e' nemica dell'umanita'
ogni vittima ha il volto di Abele
salvare le vite e' il primo dovere.

*

Solo la nonviolenza puo' salvare l'umanita'.

Solo la nonviolenza si oppone a tutte le uccisioni
Solo la nonviolenza contrasta tutti i poteri assassini
Solo la nonviolenza contrasta tutte le ideologie assassine
Solo la nonviolenza si oppone alla violenza.

Non vi e' altra lotta contro la violenza che la nonviolenza
non vi e' altra solidarieta' con i diritti dei popoli e delle persone che la nonviolenza
non vi e' altra azione per la giustizia che la nonviolenza
non vi e' altro inveramento del bene che la nonviolenza
non vi e' altra speranza di salvezza comune che la nonviolenza.

Solo la nonviolenza puo' salvare l'umanita'.

*

Oppresse e opppressi di tutti i paesi, unitevi.
Condividere fra tutte e tutti tutto il bene e tutti i beni.
Non dissipare neppure una goccia di verita'.
Non soffocare nessun raggio di luce.
Prendersi cura di ogni ramo e di ogni foglia.
Chi salva una vita salva il mondo.
Salvare le vite e' il primo dovere.

2. MAESTRI. JEAN-MARIE MULLER: LA VIOLENZA E LA NECESSITA'
[Da Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace, Plus - Pisa University Press, Pisa 2004 (traduzione italiana di Enrico Peyretti dell'edizione originale Le principe de non-violence. Parcours philosophique, Desclee de Brouwer, Paris 1995), riprendiamo il capitolo sesto: "La violenza e la necessita'" (pp. 125-140). Ringraziamo di cuore Enrico Peyretti per averci messo a disposizione la sua traduzione e la casa editrice Plus - Pisa University Press per il suo consenso.
Jean-Marie Muller, filosofo francese, nato nel 1939 a Vesoul, docente, ricercatore, e' tra i più importanti studiosi del pacifismo e delle alternative nonviolente, oltre che attivo militante nonviolento. E' direttore degli studi presso l'Institut de Recherche sur la Resolution non-violente des Conflits (Irnc). In gioventu' ufficiale della riserva, fece obiezione di coscienza dopo avere studiato Gandhi. Ha condotto azioni nonviolente contro il commercio delle armi e gli esperimenti nucleari francesi. Nel 1971 fondo' il Man (Mouvement pour une Alternative Non-violente). Nel 1987 convinse i principali leader dell'opposizione democratica polacca che un potere totalitario, perfettamente armato per schiacciare ogni rivolta violenta, si trova largamente spiazzato nel far fronte alla resistenza nonviolenta di tutto un popolo che si sia liberato dalla paura. Tra le opere di Jean-Marie Muller: Strategia della nonviolenza, Marsilio, Venezia 1975; Il vangelo della nonviolenza, Lanterna, Genova 1977; Significato della nonviolenza, Movimento Nonviolento, Torino 1980; Momenti e metodi dell'azione nonviolenta, Movimento Nonviolento, Perugia 1981; Lessico della nonviolenza, Satyagraha, Torino 1992; Simone Weil. L'esigenza della nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1994; Desobeir a' Vichy, Presses Universitaires de Nancy, Nancy 1994; Vincere la guerra, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1999; Il principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004; Dictionnaire de la non-violence, Les Editions du Relie', Gordes 2005; Desarmer les dieux. Le christianisme et l'slam face a' la non-violence, Editions du Relie', Gordes 2009.
Enrico Peyretti (1935) e' uno dei maestri della cultura e dell'impegno di pace e di nonviolenza; e' stato presidente della Fuci tra il 1959 e il 1961; nel periodo post-conciliare ha animato a Torino alcune realta' ecclesiali di base; ha insegnato nei licei storia e filosofia; ha fondato con altri, nel 1971, e diretto fino al 2001, il mensile torinese "il foglio", che esce tuttora regolarmente; e' ricercatore per la pace nel Centro Studi "Domenico Sereno Regis" di Torino, sede dell'Ipri (Italian Peace Research Institute); e' stato membro del comitato scientifico del Centro Interatenei Studi per la Pace delle Universita' piemontesi, e dell'analogo comitato della rivista "Quaderni Satyagraha", edita a Pisa in collaborazione col Centro Interdipartimentale Studi per la Pace; e' membro del Movimento Nonviolento e del Movimento Internazionale della Riconciliazione; collabora a varie prestigiose riviste. Tra le opere di Enrico Peyretti: (a cura di), Al di la' del "non uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la guerra, Beppe Grande, Torino 1999; Dov'e' la vittoria?, Il segno dei Gabrielli, Negarine (Verona) 2005; Esperimenti con la verita'. Saggezza e politica di Gandhi, Pazzini, Villa Verucchio (Rimini) 2005; Il diritto di non uccidere. Schegge di speranza, Il Margine, Trento 2009; Dialoghi con Norberto Bobbio, Claudiana, Torino 2011; Il bene della pace. La via della nonviolenza, Cittadella, Assisi 2012; Elogio della gratitudine, Cittadella, Assisi 2015; e' disponibile nella rete telematica la sua fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia storica delle lotte nonarmate e nonviolente, di seguito riprodotta, che e' stata piu' volte riproposta anche su questo foglio; vari suoi interventi (articoli, indici, bibliografie) sono anche nei siti: www.cssr-pas.org, www.ilfoglio.info e alla pagina web http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti Un'ampia bibliografia (ormai da aggiornare) degli scritti di Enrico Peyretti e' in "Voci e volti della nonviolenza" n. 68.
Segnaliamo che le citazioni dal "Principe" di Machiavelli non riportano il testo originale, ma - come dichiarato nella nota 1 - ritraducono in italiano odierno il testo tradotto in francese usato da Muller. Segnaliamo anche che l'interpretazione della filosofia politica machiavelliana proposta da Muller sarebbe stata ovviamente ben diversa se avesse preso in esame anche le altre opere del Segretario Fiorentino, e particolarmente i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livo]

Quando si vuole concedere qualche interesse alla nonviolenza, generalmente si afferma che essa puo' essere la scelta degli individui nel condurre la loro vita personale, ma che non potrebbe essere la regola della vita politica, la quale ha necessita' di ricorrere alla violenza. Cosi', la violenza sarebbe inerente all'azione politica.
*
Machiavelli e la crudelta' ben impiegata
Niccolo' Machiavelli si trova in prima fila tra quelli che hanno affermato senza circonlocuzioni la necessita' di ricorrere alla violenza per governare la citta' degli uomini. Fra i consigli che dà al principe per mantenersi al potere, insiste a piu' riprese perche' egli non abbia alcuno scrupolo a mostrarsi crudele tanto quanto occorre. "Il principe – egli scrive – non deve affatto preoccuparsi di avere la cattiva reputazione di crudelta' per tenere tutti i suoi sudditi uniti e obbedienti" (1). Il male non e' nella crudelta', ma nella crudelta' "mal impiegata"; come corollario, si puo' chiamare "buona" la crudelta' ben impiegata, "se si puo' dire di avere cosi' tratto del bene dal male" (2). Machiavelli si preoccupa di non fare l'elogio della violenza, ne afferma soltanto la necessita' implacabile. Egli non contesta che la crudelta' e' "inumana" (3), vuol dire soltanto che essa e' necessaria nella misura in cui essa sola e' efficace.
Una delle caratteristiche maggiori di questa impresa di Machiavelli e' nel definire i criteri dell'efficacia dell'azione dal punto di vista dell'arte politica, al di fuori di ogni considerazione delle categorie morali del bene e del male. "Bisogna – egli afferma – che un principe abbia l'intendimento pronto a volgersi secondo cio' che gli comandano i venti della fortuna e le variazioni delle cose e a non allontanarsi dal bene, se puo', ma saper entrare anche nel male, se e' necessario" (4). Ma, secondo lui, il principe si trova molto piu' spesso davanti alla necessita' di dar prova di crudelta' che non davanti alla possibilita' di dar prova di bonta': "Se il principe vuole conservare i suoi Stati, e' spesso costretto a non essere buono" (5).
Machiavelli suggerisce che in definitiva la crudelta' e' meno crudele della bonta' che lascia libero corso alla violenza dei cattivi. Cosi', egli denuncia l'atteggiamento di «quelli che, per essere troppo misericordiosi, lasciano proseguire i disordini, dai quali nascono omicidi e rapine" (6). Volendo cosi' contenere la crudelta' degli uomini, egli lascia libero corso alla crudelta' dei principi, non dando loro altri limiti che gli inconvenienti che potrebbero risultarne per loro stessi.
Il principe che si desse per regola di condotta di comportarsi in tutte le circostanze come un uomo per bene costruirebbe la propria disfatta con le sue stesse mani. Prima di tutto, egli deve piegarsi alle costrizioni della necessità, quand'anche dovesse, per questo, mettere sotto i piedi le esigenze dell'umanita'. "C'e' una tale distanza – scrive Machiavelli – tra il modo in cui si vive e quello in cui si dovrebbe vivere, che colui che lascera' cio' che si fa per quello che si dovrebbe fare, impara piuttosto a perdersi che a conservarsi. Poiche', chi vuole fare interamente professione di uomo per bene, non puo' evitare la sua perdita in mezzo a tanti altri che non sono buoni. E' pure necessario al principe che si vuole conservare che egli impari a poter non essere buono e ad usare o non usare questa capacita' secondo la necessita'" (7).
Secondo Machiavelli, il potere politico poggia essenzialmente sul potere delle armi. "Tutti i profeti ben armati – egli constata – furono vincitori e i profeti disarmati sconfitti»8. Solo il potere delle armi permette al principe di comandare e di farsi obbedire, "perche', tra l'uomo armato e uno che non lo e', non c'e' nessun paragone e la ragione non vuole che uno ben armato obbedisca volentieri a uno disarmato" (9). Il principe deve curarsi di piu' di avere delle "buone armi" che delle "buone leggi", poiche' le leggi non hanno altra forza che quella delle armi (10). Certo, Machiavelli riconosce volentieri che e' nella natura degli uomini di essere governati dalle leggi, e che e' nella natura delle bestie di essere governate dalla forza, ma sostiene che gli uomini, in linea generale, devono essere governati come delle bestie. Il principe deve dunque essere "mezza bestia e mezzo uomo" (11). Egli deve unire l'astuzia delle volpe, per evitare le trappole delle reti, alla crudelta' del leone, per difendersi contro l'attacco dei lupi (12).
Secondo Machiavelli, sono buoni tutti i mezzi che permettono al principe di mantenere l'ordine tra i suoi sudditi: "Per le azioni di tutti gli uomini e specialmente dei principi (perché in questo caso non ci si può appellare ad altro giudice) si guarda quale e' stato il successo. Che un principe dunque si proponga come scopo di vincere, e di mantenere lo Stato: i mezzi saranno sempre stimati onorevoli e lodati da tutti" (13). La questione principale posta da Machiavelli, in definitiva l'unica, e' di sapere come un principe puo' ottenere la sottomissione dei suoi sudditi. A questa questione egli risponde senza esitazione: sono buoni tutti i mezzi che si rivelano efficaci per raggiungere questo fine.
Se il principe deve governare i suoi sudditi con mano di ferro, senza mai allentare le sue minacce, e' perche' "gli uomini alla fine si scoprono sempre cattivi, se non sono costretti dalla necessità ad essere buoni»14; e «perché si può dire generalmente una cosa di tutti gli uomini: che sono ingrati, mutevoli, dissimulatori, nemici del pericolo, avidi di guadagnare" (15). Tra il principe e i suoi sudditi, la diffidenza deve dunque essere assoluta. Machiavelli conclude "che poiche' gli uomini amano secondo la loro fantasia e temono a discrezione del principe, il principe prudente e ben avvertito si deve fondare su cio' che dipende da lui, non su cio' che dipende dagli altri; deve solamente stare attento a non essere odiato" (16).
In definitiva, e' proprio dal dispotismo che Machiavelli elabora la sua dottrina politica, se il dispotismo e' la forma di governo in cui tutti i poteri sono conferiti a un solo uomo, senza che i cittadini possano avvalersi di un qualunque potere. Si e' detto che il Fiorentino era "il fondatore della scienza politica" - la formula e' di Raymond Aron (17) - ma, in realta', egli non ha fondato che la scienza politica del dispotismo.
Tutta l'opera di Machiavelli si situa al di fuori di quel progetto politico che chiamiamo democrazia, caratterizzato dalla partecipazione dei cittadini al potere politico. Si obietterà che la democrazia non era all’ordine del giorno né del tempo ne' del luogo in cui viveva Machiavelli. Si aggiungera' che il Fiorentino aveva colto esattamente i problemi politici che si ponevano in una penisola italiana in balia delle rivalita' belliche tra la Francia, la Spagna, la Germania e lo Stato pontificio. Si fara' ancora notare che, spettatore lucido e desolato di una Italia "senza capo, senza ordine, calpestata, saccheggiata, fatta a pezzi, percorsa dagli stranieri", egli non poteva che aver ragione nel dire che "essa attende colui che potra' essere il guaritore delle sue ferite e potra' mettere fine ai saccheggi di Lombardia, alle estorsioni di Napoli e Toscana, e la guarisca dalle sue piaghe, che gia' da lungo tempo colano in fistole" e che "essa prega Dio che le mandi qualcuno che la riscatti da queste crudelta' e barbare tirannie" (18). Ma, in realta', tutte le disgrazie dell'Italia che Machiavelli deplora, non sono forse dovute, per larga parte, ai comportamenti dei principi che mettono già in pratica i suoi consigli? Se tutti gli uomini sono così cattivi come dice il Fiorentino, i principi lo sono tanto quanto i loro sudditi. E' dunque ingannevole attendersi da loro che si servano di tutta la licenza loro concessa al solo scopo di assicurare, per il bene di tutti, la tranquillita' dell'ordine pubblico.
Forse i principi di cui parla Machiavelli permettono di stabilire un ordine poliziesco, ma non sono di alcuna utilita' per costruire un ordine democratico dove i cittadini possano vivere nella dignità di uomini liberi. Tuttavia, le riflessioni di Machiavelli sulla necessita' della violenza sono spesso guardate con benevolenza da quelli stessi che fanno professione di fede democratica. Tutto sembra avvenire come se i commentatori del Fiorentino avessero paura, prendendo qualche distanza dal suo "realismo", di meritare i rimproveri che si rivolgono a quelli che credono possibile agire in politica volendo rispettare i principi della morale.
Incontestabilmente, c'e' una logica rigorosa nelle analisi, i ragionamenti e i consigli di Machiavelli. Questa logica e' tanto piu' forte – e dunque tanto piu' seducente – perché afferma il suo pensiero così crudo con una freddezza imperturbabile e rifiuta ogni mascheramento che possa attenuarne la brutalita'. Egli la riconosce, e cosi' anticipa e disarma tutte le critiche. Non tergiversa e non biasima mai. E' cinico, ma lo rivendica alto e forte. La questione non e' accettare o rifiutare la sua logica, ma accettare o rifiutare le premesse a partire dalle quali egli la sviluppa. Per parte nostra, sono precisamente queste premesse che rifiutiamo.
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Hegel e l'apologia della guerra
La filosofia politica di Hegel illustra in maniera particolarmente significativa la tesi dominante secondo la quale la violenza e' il motore della storia. Hegel parte da questa constatazione: lasciati a sé stessi, gli individui si comportano secondo i loro interessi e i loro desideri particolari e non possono dunque che entrare in conflitto gli uni con gli altri. Lo "stato di natura", nel quale si trovano gli uomini in seno alla societa' civile, e' "lo stato della violenza" (19). E' uno stato selvaggio "legato alle passioni della brutalita' e agli atti di violenza" (20). E' per illusione che, nello stato di natura, l'individuo si crede libero. L'uomo non diventa libero che se, superando i suoi interessi particolari, agisce in vista dell'interesse generale il quale, in ogni societa', e' incarnato dallo Stato. "Si confonde – scrive Hegel – la liberta' con gli istinti, i desideri, le passioni, il capriccio e l'arbitrio degli individui particolari e si considera la loro limitazione come una limitazione della liberta'. Tutto al contrario, questa limitazione e' la condizione stessa della liberazione. Lo Stato e la societa' sono precisamente le condizioni nelle quali la liberta' si realizza" (21).
Cosi', l'uomo e' incapace di realizzare la sua liberta' da se' stesso. Hegel intende fare una critica radicale dell'individualismo morale nel quale l'uomo pretende di rifugiarsi per coltivare la sua personale virtù al riparo dai furori della storia. Egli stigmatizza l'individuo che "vale ai propri occhi come un essere eccellente": "Egli si gonfia e gonfia la testa degli altri, ma e' un rigonfiamento vuoto". A questo individualismo morale ingannevole, Hegel contrappone l'ideale del cittadino antico che legava il proprio destino a quello della citta': "La virtu' antica aveva un significato preciso e sicuro, perche' aveva il suo solido contenuto nella sostanza del popolo e si proponeva come scopo un bene effettivamente reale" (22). E' dunque integrandosi alla vita del popolo che l'individuo raggiunge il suo vero destino: "In un popolo libero, dunque, la ragione e' in verita' effettivamente realizzata; essa e' presenza dello spirito vivente" (23).
E' nell'organizzazione dello Stato che il popolo costruisce la sua unita'. "Cio' che noi chiamiamo Stato – scrive Hegel – e' l'individuo spirituale, il popolo, nella misura in cui si è strutturato in sé stesso e forma un tutto organico»24. Senza l'organizzazione dello Stato, il popolo non e' che una folla abbandonata alle sue passioni: "Il maggior numero, considerato come una giustapposizione di individui isolati, - e' questo cio' che si intende facilmente per popolo – costituisce certo un insieme, ma soltanto in quanto folla – una massa informe i cui movimenti e azioni non sarebbero che elementari, privi di ragione, selvaggi e spaventosi" (25).
Lo Stato e' l'incarnazione oggettiva nella storia sia dell'esigenza razionale, sia dell'esigenza universale e dell'esigenza etica, che ogni individuo porta in se'. "Il fondamento dello Stato – scrive Hegel – è la forza della ragione che diventa effettiva in quanto volonta'" (26). E' col divenire membro dello Stato che l'individuo accede all'esistenza libera e ragionevole. "Lo Stato e' la realta' in cui [l'individuo] trova la sua liberta' e gode della sua liberta'. [...] E' solamente nello Stato che l'uomo ha un'esistenza conforme alla Ragione" (27). Contro l'arbitrio che prevale nello stato di natura, la legge esprime oggettivamente le esigenze della ragione universale e, di conseguenza, il cittadino, liberato dai suoi istinti particolari, riconosce lui stesso nella legge le esigenze della propria ragione. "Solo la volonta' che obbedisce alla legge e' libera, perche' obbedisce a se' stessa" (28).
Gli Stati, che hanno ciascuno la loro individualita' propria, si comportano tra loro come degli "individui" particolari, cioe' rivaleggiano gli uni con gli altri difendendo degli interessi particolari e perseguendo degli scopi particolari. "Poiche' il rapporto degli Stati tra loro – scrive Hegel – ha per principio la loro rispettiva sovranita', essi si trovano gli uni verso gli altri nello stato di natura" (29). Percio', la guerra e' inevitabile: "Nella rivalita' che oppone gli Stati gli uni agli altri, quando le volonta' particolari di questi Stati non arrivano a regolare le loro vertenze con dei negoziati, non c'e' che la guerra che possa decidere tra loro" (30).
L'attore della storia non e' l'uomo singolo e solitario, ma il popolo, e questo, per affermare la propria individualita', non puo' non opporsi ad altri popoli. In questa relazione necessariamente conflittuale, se vuole salvaguardare la sua liberta', il popolo deve affrontare la prova della guerra. I popoli che cadono in schiavitu' sono quelli che non hanno avuto il coraggio di fare la guerra: "La loro liberta' e' morta per la paura di morire" (31). Per Hegel, la guerra e' dunque una necessita' vitale per un popolo libero, di piu': una necessita' etica, una necessita' spirituale. La guerra e' il momento privilegiato in cui lo spirito del popolo si manifesta nella storia perche', a quel momento, tutti gli individui si distolgono dai loro interessi e dai loro piaceri privati per perseguire uno stesso scopo, che tocca l'universale.
Il dovere dell'individuo e' difendere lo Stato contro i suoi nemici che ne minacciano la sovranita'. Anzitutto, questo e' un suo interesse proprio, perche' e' lo Stato che, con le sue leggi e istituzioni, gli garantisce la sicurezza. Ma soprattutto, prendendo consapevolmente il rischio di morire per difendere lo Stato, l'individuo realizza il suo destino di uomo libero. L'individuo non accede alla liberta' che accettando "la lotta per la vita e per la morte": "E' soltanto col rischiare la propria vita che si conserva la propria liberta'. [...] Allo stesso modo, ogni individuo deve tendere alla morte dell'altro quando rischia la sua vita" (32). Ma la guerra non e' l'opera dell'odio, e' l'opera dell'onore. "E' senza collera che si da' la morte. [...] L'arma da fuoco e' la scoperta della morte generale, indifferente, impersonale, e cio' che spinge a dare la morte e' l'onore nazionale, non il desiderio di attentare a un individuo" (33). La morte che l'individuo incontra in guerra e' una morte eroica, non e' la morte naturale dell'animale, ma la morte sensata dell'uomo che sacrifica i suoi beni particolari e la sua vita stessa per difendere il bene universale.
Quando gli individui della comunita' sono tentati di seguire degli scopi particolari - "quelli delle acquisizioni e del godimento" - e quando tendono cosi' a distaccarsi dal tutto, il governo ha il dovere di vegliare a "non lasciare che si disgreghi il tutto e lo spirito svanisca" (34). E il modo migliore di restaurare l'unita' del tutto e' la guerra. "Nello stato di guerra – scrive Hegel – la vanita' delle cose e dei beni temporali, che, ordinariamente, da' luogo soltanto a dei propositi edificanti, e' presa sul serio" (35). E' grazie alla guerra che "si conserva la salute etica dei popoli": "Come il movimento dei venti preserva le acque dei laghi dalla putrefazione in cui le ridurrebbe una quiete durevole, cosi' farebbe per i popoli una pace durevole e, a fortiori, una pace perpetua" (36).
Tutti i cittadini devono essere pronti a sacrificare la loro vita per difendere la sovranita' dello Stato: "Se lo Stato esige il sacrificio della vita, l'individuo vi deve acconsentire" (37). Tuttavia, nella realta', si forma una classe particolare, incaricata di assicurare la conservazione e l'indipendenza dello Stato: e' la "classe militare". Essa e' la "classe universale", che ha il dovere di "sacrificarsi". Essa e', per eccellenza, "la classe del coraggio" (38).
Alla testa dei popoli che fanno la guerra per salvaguardare la loro liberta', si trovano "i grandi uomini", che sono degli eroi. Agli occhi di Hegel, il grande uomo e' incarnato, nella storia, da Alessandro Magno, Cesare e Napoleone. Cioe', l'eroe hegeliano e' anzitutto un guerriero. Certo, i grandi uomini, trascinati dalle loro passioni, non hanno sempre rispettato i principi della morale: "Perseguendo i loro grandi interessi, i grandi uomini hanno spesso trattato leggermente, senza riguardo, altri interessi in se' venerabili e anche dei diritti sacri. E' una maniera di comportarsi sicuramente esposta al biasimo morale. Ma la loro posizione e' tutt'altra. Una cosi' grande figura schiaccia necessariamente parecchi fiori innocenti, rovina parecchie cose sul suo passaggio" (39). Hegel deride i maestri di scuola che osano giudicare i grandi uomini come degli "uomini immorali" (40): cosi' non fanno che abbassarsi al punto di vista dei camerieri degli eroi, per i quali non c'e' nessun eroe. Certo, i grandi uomini hanno mirato ai loro interessi propri, ma, quasi loro malgrado, essi "hanno avuto la fortuna di essere gli agenti di uno scopo che costituisce una tappa nel cammino progressivo dello spirito universale" (41). Cosi', pur lasciandosi guidare dalle loro passioni, essi hanno compiuto l'opera della ragione: "Si puo' chiamare astuzia della Ragione il fatto che essa lascia agire le passioni a loro piacere" (42). Le guerre, cosi', hanno sempre un senso e contribuiscono a far progredire la storia verso il suo compimento; esse "non avvengono se non la' dove il corso delle cose le rende necessarie; in ogni maniera i semi germogliano di nuovo e le chiacchiere tacciono davanti alla serieta' del movimento ciclico della storia" (43).
La storia mondiale e' "lo sviluppo necessario dei momenti della ragione", e' dunque "la realizzazione dello spirito universale" (44). La filosofia hegeliana della storia e' fondamentalmente ottimista, ma e' proprio il suo ottimismo che ci fa problema, in quanto finisce per giustificare l'ingiustificabile. La guerra stessa, con il suo male e le sue sciagure, e' considerata come un momento necessario della storia, la quale, malgrado le crisi e le contraddizioni che possono momentaneamente trattenere il suo corso, procede verso il suo scopo. L'idealismo di Hegel si identifica, in definitiva, con il cinismo. Egli non vede la violenza in tutto il suo orrore, non guarda la guerra e i suoi disastri, ma vuol vedere al di la' della guerra, considera sempre la storia nel suo divenire e crede di scorgervi il cammino in avanti dello spirito del mondo. L'uccisione non e' un crimine, dato che si inscrive nel senso della storia, e sarebbe vano compatire la disgrazia delle vittime innocenti. In questa prospettiva, la storia non sa che farsene della virtu' dell'uomo singolo, delle sue esigenze morali e delle sue rivendicazioni di felicita', perche' conta solo l'efficacia dell'azione che accelera il corso degli eventi. La legge della storia e' puramente e semplicemente la legge del piu' forte, cioe' del piu' violento. Il vincitore ha sempre ragione, perche' e' il vincitore.
In realta', il discorso di Hegel che esalta il coraggio di chi accetta di sacrificare i suoi beni e i suoi interessi particolari per la difesa dello Stato, non ha niente di originale. Hegel, in definitiva, non fa che riprendere l'ideologia che domina da secoli i popoli e le societa', ma, cosi' facendo, la consacra, e rafforza la sua presa sulle intelligenze e le mentalita'. Del resto, conviene riconoscere la parte di verita' contenuta nel discorso hegeliano quando afferma che l'atteggiamento dell'uomo che assume il rischio di morire per difendere la liberta' della sua comunita' e' altamente morale. E' vero che, in molte circostanze storiche, la guerra e' stata l'occasione per l'uomo di dimostrare il piu' grande coraggio e la piu' grande moralita', anche se cio' non deve far dimenticare che l'uomo di guerra puo' dar prova – e spesso da' prova – della piu' grande ferocia e della piu' grande vigliaccheria. "La guerra – scriveva Alain – e' da temere per questo: perche' si nutre di sentimenti che hanno bella apparenza, alcuni dei quali sono anche rispettabili" (45). Ma la moralita' soggettiva del guerriero non puo' occultare l'immoralita' oggettiva della guerra.
Chi valuta la storia non puo' negare che, per secoli, la partecipazione dell'individuo alla guerra e' stata costitutiva del legame sociale e che, in un tale contesto, tutte le virtu' di cui l'uomo ha potuto dar prova si sono trovate anch'esse legate alla guerra. Rifiutare la guerra non impone affatto, evidentemente, di rinnegare queste virtu'. La storia e' questa e noi tutti ne siamo gli eredi, dunque alla fine i beneficiari. Probabilmente non era fatale che andasse cosi', anche se, il piu' delle volte, al momento preciso in cui la storia si determinava, troppo pesanti sono stati i condizionamenti perche' potesse andare diversamente. Del resto, e' abbastanza vano sognare una storia che non sia la nostra. Cio' che importa oggi e' fare in modo che vada diversamente. Col nostro distacco e la ri-flessione che ce lo permette, noi lo possiamo fare, e dunque dobbiamo farlo.
L'eroismo di cui il guerriero puo' dar prova non permette di dimenticare il carattere omicida della guerra. Il guerriero non e' sempre un criminale, ma la guerra e' sempre un crimine. Invece di legittimare la guerra per il coraggio del guerriero, bisogna delegittimarla per il crimine della violenza. Che la storia degli uomini sia violenta, cio' dovrebbe soltanto insegnarci che gli uomini sono irragionevoli, ed e' un artificio insensato dell'intelligenza voler riconciliare la storia, dunque la violenza, con la ragione. In questa ottica, l'esaltazione della guerra a cui si lascia andare Hegel, quando afferma che essa e' la piu' alta manifestazione dello spirito nella storia, e' piu' di un errore di pensiero: e' una colpa contro lo spirito. E come tale deve essere denunciata.
Nel migliore dei casi, c'e' una profonda ambivalenza della guerra: puo' essere manifestazione di coraggio, ma e' sempre dimostrazione di violenza omicida. E se quello e' onorevole, questa e' criminale. Tocca alla filosofia rovesciare il ragionamento che l'ideologia ha fatto prevalere nel corso dei secoli, secondo il quale la guerra e' onorevole benche' insegni l'omicidio: bisogna affermare che la guerra e' criminale benche' possa essere opera del coraggio. Bisogna sciogliere dalla guerra la retorica sul coraggio e il sacrificio di se', per legarla alla resistenza nonviolenta. Allora tutto e' nell'ordine, e il filosofo puo' affermare che, in effetti, l'individuo che supera i suoi interessi e i suoi desideri privati, accettando di sacrificare i suoi beni particolari e la sua vita stessa per assumere il rischio della morte nella difesa della liberta', persegue il bene universale, realizza nella storia l'opera della ragione e compie il suo destino di essere spirituale.
Dopo aver ricordato che un libellista, scusatosi dicendo: "Bisogna bene che io viva", si era attirato questa replica: "Non ne vedo la necessita'", Hegel enuncia questa massima: "La vita non e' necessaria, di fronte all'esigenza superiore della liberta'" (46). Questa massima, che agli occhi di Hegel detta la condotta dell'eroe violento, detta ancora di piu' la condotta del saggio nonviolento.
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Max Weber e le due etiche
La tesi sviluppata nel 1919 da Max Weber nel suo breve saggio La politica come professione illustra bene l'ideologia secondo la quale la violenza e' una necessita' insuperabile per chiunque intenda impegnarsi nell'azione politica. Il corollario immediato e' che chi vuole rifiutare la violenza deve per forza rinunciare alla politica. "Il mezzo decisivo in politica – afferma Weber categoricamente – e' la violenza" (47). "Chi vuol fare politica – egli precisa - si compromette con delle potenze diaboliche che sono in agguato in ogni violenza" (48). L'esigenza fondamentale dell'amore e della bonta' proibisce l'omicidio, ma, con cio' stesso, proibisce di intraprendere le vie della politica: "Se l'etica a-cosmica dell'amore ci dice: "Non resistere al male con la forza", l'uomo politico al contrario dice: "Tu devi opporti al male con la forza, se no sei responsabile del suo trionfo"" (49).
Weber pone a questo punto la distinzione, destinata a un grande avvenire, tra due etiche "totalmente differenti e irriducibilmente opposte": ogni attivita' umana "puo' orientarsi secondo l'etica della responsabilita' o secondo l'etica della convinzione" (50). Chi agisce secondo l'etica della responsabilita' intende "rispondere delle conseguenze prevedibili dei suoi atti" (51), mentre "il partigiano dell'etica della convinzione non si sentira' "responsabile" che della necessita' di vegliare sulla fiamma della pura dottrina perche' non si spenga" (52). "A dire il vero – insiste Weber – se c'e' un problema di cui l'etica assoluta non si occupa, e' proprio quello che riguarda le conseguenze!" (53). Certo, Weber non disprezza l'atteggiamento di chi intende regolare la sua condotta secondo il precetto dell'"etica assoluta", che gli chiede di offrire l'altra guancia "immediatamente, senza chiedere all'altro perche' crede di doverlo colpire". Un tale atteggiamento "ha un senso e esprime una dignita'" per colui che vuole essere un santo e intende "vivere come Gesu'": "Etica senza dignita', si dira'. Si', eccetto che per il santo" (54).
Il ragionamento di Max Weber si rinchiude cosi' nell'antinomia dell'irrealismo del rifiuto assoluto della violenza e del realismo della sua accettazione. Ma parlare in questo modo in termini di assoluto e' introdurre nelle premesse un errore di ragionamento che si ritrovera' necessariamente nelle conclusioni. Certo, si puo' sempre immaginare un uomo che si da' per regola di condotta di essere fedele in ogni circostanza ai precetti dell'etica assoluta senza curarsi delle conseguenze dei suoi atti. Ma questa e' una pura ipotesi di scuola. Pretendere poi che quest'uomo sia un santo, e' farsi una ben strana idea della santita'. Affermare con Max Weber che quell'uomo intende "vivere come Gesu'", e' dare uno strano giudizio sull'atteggiamento del sapiente di Nazareth. Se Gesu' si fosse religiosamente astenuto dall'intromettersi nella vita politica della societa' in cui viveva, certamente non sarebbe stato condannato a morte dalla coalizione dei poteri stabiliti. E quando e' schiaffeggiato da un soldato che gli rimprovera di essere stato insolente verso il gran sacerdote, egli non offre l'altra guancia "immediatamente, senza chiedere all'altro perche' crede di doverlo colpire". Tutto al contrario, lo interpella direttamente: "Se ho parlato male – gli dice – dimostra dove e' il male. Ma se ho parlato bene, perche' mi percuoti?" (5)5. Mai Gesu' di Nazareth ci e' presentato come un uomo che agisce senza curarsi delle conseguenze dei suoi atti per occuparsi solamente di mantenere la purezza di una qualche dottrina.
Evidentemente, uno che si riferisce all'assoluto, che non e' di questo mondo, ignora la realta' di questo mondo e abbandona ogni responsabilita' verso di esso. In effetti, diventa irresponsabile. Ma non serve a niente dissertare su un tale atteggiamento. Di un uomo che fugge le sue responsabilita', evidentemente non si puo' dire altro che e' un irresponsabile. Ma un tale atteggiamento non puo' servire di riferimento per definire la condotta di chi ha optato per la nonviolenza, ben determinato ad assumere tutte le sue responsabilita' in questo mondo. Max Weber enuncia una verita' evidente quando si applica a rifiutare l'idealismo di uno la cui sola preoccupazione e' applicare, senza riflettere alle conseguenze dei suoi atti, i precetti dell'etica assoluta dell'amore a-cosmico. L'uomo, in effetti, puo' rifiutare ogni violenza e ignorare le conseguenze dei suoi atti, ma cio' non autorizza ad affermare che l'uomo responsabile e' necessariamente violento, e non permette di concluderne che l'atteggiamento nonviolento e' necessariamente irresponsabile.
Colui che sceglie l'azione nonviolenta – ma Max Weber ignora questa categoria! – non ha per scopo di mantenere accesa la fiamma della pura dottrina della nonviolenza, ma di cercare la giustizia con dei mezzi che non siano in contraddizione con essa. Egli intende assumere pienamente la responsabilita' delle conseguenze dei suoi atti. Chi ha optato per l'azione nonviolenta e' consapevole che non ha senso pretendere di vivere una nonviolenza assoluta (dal latino ab-soluta, cioe' slegata dalla realta') e sa che egli deve incessantemente imparare a vivere una nonviolenza re-lativa (cioe', legata alla realta'). Parlare di nonviolenza assoluta porta necessariamente a rifiutare la nonviolenza come un atteggiamento irrealista. Anche Albert Camus non ha saputo evitare questa trappola, quando scrive in L'uomo in rivolta: "La nonviolenza assoluta fonda negativamente l'oppressione e le sue violenze" (56). Se la nonviolenza non puo' pretendere di essere assoluta, vuole pero' essere radicale (da radix, radice), cioe' vuole sradicare la violenza, la vuole estirpare (dal latino stirps, sinonimo di radix), vuole sforzarsi di fare deperire la violenza distruggendo le sue radici culturali, ideologiche, sociali e politiche.
Per Max Weber "[Lo Stato moderno] si puo' definire sociologicamente solo mediante il mezzo specifico che e' proprio ad esso come ad ogni raggruppamento politico, cioe' la violenza fisica" (57). Certo, la violenza non e' l'unico mezzo a cui lo Stato ricorre, ma essa e' il suo "mezzo specifico". In altri termini, la violenza e' il "mezzo normale del potere" (58). Cosi', la violenza fisica e' il fondamento stesso dell'ordine che lo Stato ha il compito di stabilire in seno alla citta' politica degli uomini: "Lo Stato consiste in un rapporto di dominio dell'uomo fondato sul mezzo della violenza legittima (cioe' sulla violenza che e' considerata legittima). Lo Stato non puo' dunque esistere se non a condizione che gli uomini dominati si sottomettano all'autorita' ogni volta rivendicata dai dominatori" (59). Le ragioni per cui gli uomini accettano di obbedire a degli altri uomini sono numerose e varie, ma, tra esse, Max Weber pone la paura di un castigo e la speranza di una ricompensa quaggiu' oppure nell'altro mondo.
Non si puo' disconoscere il rigore dell'analisi e del ragionamento di Max Weber. Dal momento che egli definisce l'ordine politico da stabilire tra gli uomini come un rapporto di dominio, per cui quelli che comandano mantengono nella sottomissione quelli che obbediscono, e' naturale che egli arrivi a fare della violenza il mezzo specifico dell'esercizio del potere politico. Nessuno dubita, infatti, che il mezzo della violenza sia coerente col fine del dominio. Dunque, non e' sulla scelta del mezzo che dobbiamo interrogarci, ma sulla scelta del fine. La questione e' sapere se gli uomini non possono avere insieme un'ambizione diversa da quella di stabilire tra loro dei rapporti di dominio-sottomissione, di comando-obbedienza; se non hanno la vocazione a concepire un altro progetto politico, che fondi un ordine sociale non fondato sulla violenza. Ci sembra proprio che queste domande richiedano delle risposte diverse da quelle a cui, col pretesto del realismo, si rassegna Max Weber.
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Note
1. Nicolas Machiavel, Le Prince, Paris, Le Livre de Poche, 1962, p. 117; originale italiano (qui reso in lingua odierna) in innumerevoli edizioni.
2. Ibidem, p. 66.
3. Ibidem, p. 120.
4. Ibidem, p. 126.
5. Ibidem, p. 137.
6. Ibidem, p. 117.
7. Ibidem, p. 109-110.
8. Ibidem, p. 46.
9. Ibidem, p. 104.
10. Ibidem, p. 85.
11. Ibidem, p. 124.
12. Ibidem.
13. Ibidem, p. 126.
14. Ibidem, p. 165-166.
15. Ibidem, p. 118.
16. Ibidem, p. 121.
17. Raymond Aron, prefazione al Prince, de Nicolas Machiavel, op. cit., p. 7.
18. Nicolas Machiavel, Le prince, op. cit., p. 178.
19. Hegel, Principes de la philosophie du droit, Paris, Librairie philosophique J. Vrin, 1989, p. 138; tr. it. dell'originale Lineamenti di filosofia del diritto, a c. di F. Messineo, Laterza, Bari 1965.
20. Hegel, La raison dans l'histoire, Paris, Union general d'editions, 1998, coll. 10/18, p. 141.
21. Ibidem, p. 143.
22. Hegel, Phenomenologie de l'esprit, Paris, Aubier, 1992, Bibliotheque philosophique, tome I, p. 319; tr. it. dell'originale Fenomenologia dello spirito, a c. di E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze 1960.
23. Ibidem, p. 292.
24. Hegel, La raison dans l'histoire, op. cit., p. 139.
25. Hegel, Principes de la philosophie du droit, op. cit., p. 310.
26. Ibidem, p. 260.
27. Hegel, La raison dans l'histoire, op. cit., p. 135-136.
28. Ibidem, p. 140.
29. Hegel, Principes de la philosophie du droit, op. cit., p. 330.
30. Ibidem, p. 331.
31. Ibidem, p. 325.
32. Hegel, Phenomenologie de l'esprit, tome I, op. cit., p. 159.
33. Hegel, Principes de la philosophie du droit, op. cit., p. 328.
34. Hegel, Phenomenologie de l'esprit, tome II, Paris, Aubier, 1992, Bibliotheque philodophique, p. 23.
35. Hegel, Principes de la philosophie du droit, op. cit., p. 324.
36. Ibidem, p. 324-325.
37. Ibidem, p. 123.
38. Ibidem, p. 327.
39. Hegel, La raison dans l'histoire, op. cit., p. 129.
40. Ibidem, p. 127.
41. Ibidem, p. 123.
42. Ibidem, p. 129.
43. Hegel, Principes de la philosophie du droit, op. cit., p. 326.
44. Ibidem, p. 334.
45. Alain, Convulsions de la force, op. cit., p. 93.
46. Hegel, Principes de la philosophie du droit, op. cit., p. 165.
47. Max Weber, Le savant et le politique, Paris, Plon, UGE, coll. 10/18, 1979, p. 173. In italiano il saggio La politica come professione e' contenuto in Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino 1971 e seguenti.
48. Ibidem, p. 180.
49. Ibidem, p. 170.
50. Ibidem, p. 172.
51. Ibidem.
52. Ibidem, p. 173.
53. Ibidem, p. 171.
54. Ibidem, p. 170.
55. Vangelo secondo Giovanni, 18, 19-24.
56. Albert Camus, L'homme revolte', op. cit., 349.
57. Max Weber, Le savant et le politique, op. cit., p. 100.
58. Ibidem.
59. Ibidem, p. 101.

3. REPETITA IUVANT. RIPETIAMO ANCORA UNA VOLTA...

... ripetiamo ancora una volta che occorre un'insurrezione nonviolenta delle coscienze e delle intelligenze per contrastare gli orrori piu' atroci ed infami che abbiamo di fronte, per affermare la legalita' che salva le vite, per richiamare ogni persona ed ogni umano istituto ai doveri inerenti all'umanita'.
Occorre opporsi al maschilismo, e nulla e' piu' importante, piu' necessario, piu' urgente che opporsi al maschilismo - all'ideologia, alle prassi, al sistema di potere, alla violenza strutturale e dispiegata del maschilismo: poiche' la prima radice di ogni altra violenza e oppressione e' la dominazione maschilista e patriarcale che spezza l'umanita' in due e nega piena dignita' e uguaglianza di diritti a meta' del genere umano e cosi' disumanizza l'umanita' intera; e solo abolendo la dominazione maschilista e patriarcale si puo' sconfiggere la violenza che opprime, dilania, denega l'umanita'; solo abolendo la dominazione maschilista e patriarcale l'umanita' puo' essere libera e solidale.
Occorre opporsi al razzismo, alla schiavitu', all'apartheid. Occorre far cessare la strage degli innocenti nel Mediterraneo ed annientare le mafie schiaviste dei trafficanti di esseri umani; semplicemente riconoscendo a tutti gli esseri umani in fuga da fame e guerre, da devastazioni e dittature, il diritto di giungere in salvo nel nostro paese e nel nostro continente in modo legale e sicuro. Occorre abolire la schiavitu' in Italia semplicemente riconoscendo a tutti gli esseri umani che in Italia si trovano tutti i diritti sociali, civili e politici, compreso il diritto di voto: la democrazia si regge sul principio "una persona, un voto"; un paese in cui un decimo degli effettivi abitanti e' privato di fondamentali diritti non e' piu' una democrazia. Occorre abrogare tutte le disposizioni razziste ed incostituzionali che scellerati e dementi governi razzisti hanno nel corso degli anni imposto nel nostro paese: si torni al rispetto della legalita' costituzionale, si torni al rispetto del diritto internazionale, si torni al rispetto dei diritti umani di tutti gli esseri umani. Occorre formare tutti i pubblici ufficiali e in modo particolare tutti gli appartenenti alle forze dell'ordine alla conoscenza e all'uso delle risorse della nonviolenza: poiche' compito delle forze dell'ordine e' proteggere la vita e i diritti di tutti gli esseri umani, la conoscenza della nonviolenza e' la piu' importante risorsa di cui hanno bisogno.
Occorre opporsi a tutte le uccisioni, a tutte le stragi, a tutte le guerre. Occorre cessare di produrre e vendere armi a tutti i regimi e i poteri assassini; abolire la produzione, il commercio, la disponibilita' di armi e' il primo necessario passo per salvare le vite e per costruire la pace, la giustizia, la civile convivenza, la salvezza comune dell'umanita' intera. Occorre abolire tutte le organizzazioni armate il cui fine e' uccidere. Occorre cessare immediatamente di dissipare scelleratamente ingentissime risorse pubbliche a fini di morte, ed utilizzarle invece per proteggere e promuovere la vita e il benessere dell'umanita' e dell'intero mondo vivente.
Occorre opporsi alla distruzione di quest'unico mondo vivente che e' la sola casa comune dell'umanita' intera, di cui siamo insieme parte e custodi. Non potremo salvare noi stessi se non rispetteremo e proteggeremo anche tutti gli altri esseri viventi, se non rispetteremo e proteggeremo ogni singolo ecosistema e l'intera biosfera.
Opporsi al male facendo il bene.
Opporsi alla violenza con la scelta nitida e intransigente della nonviolenza.
Oppresse e oppressi di tutti i paesi, unitevi nella lotta per la comune liberazione e la salvezza del'umanita' intera.
Salvare le vite e' il primo dovere.

4. SEGNALAZIONI LIBRARIE

Letture
- "MicroMega" nn. 2-3, aprile 2021, MicroMega Edizioni, Roma 2021, pp. 208 + 208, euro 24. Due volumi monografici su "Trentacinque anni di scrittura e di impegno 1986-2021", il vol. n. 2: "Testimonianze", il vol. n. 3: "Antologia".
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Riedizioni
- Luciano Dottarelli, Freud. Un filosofo dietro al divano, Annulli Editori, Grotte di Castro (Vt) 2015, 2021, pp. 126, euro 12.

5. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO

Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli.

6. PER SAPERNE DI PIU'

Indichiamo i siti del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org e www.azionenonviolenta.it ; per contatti: azionenonviolenta at sis.it
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TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 4112 del 22 maggio 2021
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXII)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com , sito: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/
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