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[Nonviolenza] La biblioteca di Zorobabele. 88
- Subject: [Nonviolenza] La biblioteca di Zorobabele. 88
- From: Centro di ricerca per la pace Centro di ricerca per la pace <centropacevt at gmail.com>
- Date: Fri, 21 May 2021 08:32:05 +0200
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LA BIBLIOTECA DI ZOROBABELE
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Segnalazioni librarie e letture nonviolente
a cura del "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo
Supplemento a "La nonviolenza e' in cammino" (anno XXII)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com
Numero 88 del 21 maggio 2021
In questo numero:
Jean-Marie Muller: Principi dell'azione nonviolenta
MAESTRI. JEAN-MARIE MULLER: PRINCIPI DELL'AZIONE NONVIOLENTA
[Da Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace, Plus - Pisa University Press, Pisa 2004 (traduzione italiana di Enrico Peyretti dell'edizione originale Le principe de non-violence. Parcours philosophique, Desclee de Brouwer, Paris 1995), riprendiamo il capitolo quinto: "Principi dell'azione nonviolenta" (pp. 103-124). Ringraziamo di cuore Enrico Peyretti per averci messo a disposizione la sua traduzione e la casa editrice Plus - Pisa University Press per il suo consenso.
Jean-Marie Muller, filosofo francese, nato nel 1939 a Vesoul, docente, ricercatore, e' tra i più importanti studiosi del pacifismo e delle alternative nonviolente, oltre che attivo militante nonviolento. E' direttore degli studi presso l'Institut de Recherche sur la Resolution non-violente des Conflits (Irnc). In gioventu' ufficiale della riserva, fece obiezione di coscienza dopo avere studiato Gandhi. Ha condotto azioni nonviolente contro il commercio delle armi e gli esperimenti nucleari francesi. Nel 1971 fondo' il Man (Mouvement pour une Alternative Non-violente). Nel 1987 convinse i principali leader dell'opposizione democratica polacca che un potere totalitario, perfettamente armato per schiacciare ogni rivolta violenta, si trova largamente spiazzato nel far fronte alla resistenza nonviolenta di tutto un popolo che si sia liberato dalla paura. Tra le opere di Jean-Marie Muller: Strategia della nonviolenza, Marsilio, Venezia 1975; Il vangelo della nonviolenza, Lanterna, Genova 1977; Significato della nonviolenza, Movimento Nonviolento, Torino 1980; Momenti e metodi dell'azione nonviolenta, Movimento Nonviolento, Perugia 1981; Lessico della nonviolenza, Satyagraha, Torino 1992; Simone Weil. L'esigenza della nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1994; Desobeir a' Vichy, Presses Universitaires de Nancy, Nancy 1994; Vincere la guerra, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1999; Il principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004; Dictionnaire de la non-violence, Les Editions du Relie', Gordes 2005; Desarmer les dieux. Le christianisme et l'slam face a' la non-violence, Editions du Relie', Gordes 2009.
Enrico Peyretti (1935) e' uno dei maestri della cultura e dell'impegno di pace e di nonviolenza; e' stato presidente della Fuci tra il 1959 e il 1961; nel periodo post-conciliare ha animato a Torino alcune realta' ecclesiali di base; ha insegnato nei licei storia e filosofia; ha fondato con altri, nel 1971, e diretto fino al 2001, il mensile torinese "il foglio", che esce tuttora regolarmente; e' ricercatore per la pace nel Centro Studi "Domenico Sereno Regis" di Torino, sede dell'Ipri (Italian Peace Research Institute); e' stato membro del comitato scientifico del Centro Interatenei Studi per la Pace delle Universita' piemontesi, e dell'analogo comitato della rivista "Quaderni Satyagraha", edita a Pisa in collaborazione col Centro Interdipartimentale Studi per la Pace; e' membro del Movimento Nonviolento e del Movimento Internazionale della Riconciliazione; collabora a varie prestigiose riviste. Tra le opere di Enrico Peyretti: (a cura di), Al di la' del "non uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la guerra, Beppe Grande, Torino 1999; Dov'e' la vittoria?, Il segno dei Gabrielli, Negarine (Verona) 2005; Esperimenti con la verita'. Saggezza e politica di Gandhi, Pazzini, Villa Verucchio (Rimini) 2005; Il diritto di non uccidere. Schegge di speranza, Il Margine, Trento 2009; Dialoghi con Norberto Bobbio, Claudiana, Torino 2011; Il bene della pace. La via della nonviolenza, Cittadella, Assisi 2012; Elogio della gratitudine, Cittadella, Assisi 2015; e' disponibile nella rete telematica la sua fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia storica delle lotte nonarmate e nonviolente, di seguito riprodotta, che e' stata piu' volte riproposta anche su questo foglio; vari suoi interventi (articoli, indici, bibliografie) sono anche nei siti: www.cssr-pas.org, www.ilfoglio.info e alla pagina web http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti Un'ampia bibliografia (ormai da aggiornare) degli scritti di Enrico Peyretti e' in "Voci e volti della nonviolenza" n. 68]
La violenza e' anche un metodo d'azione che puo' sembrare necessario agli uomini di buona volonta' per difendere l'ordine stabilito quando questo garantisce la liberta', e per combattere il disordine stabilito quando questo mantiene l'oppressione. Ma se l'azione e' veramente necessaria, la violenza lo e' ugualmente? Certo, per detestabile che sia la violenza, non bisogna che il suo rifiuto conduca all'inazione che lascerebbe campo libero alla violenza dei malvagi. E' per questo che la violenza non merita soltanto una condanna, ma esige un'alternativa. E' dunque essenziale ricercare "un equivalente funzionale" della violenza, cioe' un metodo di azione nonviolenta che permetta di far fronte all'oppressione e all'aggressione. Fin quando la "fattibilita'" di un tale metodo non sara' stabilita, l'esigenza filosofica di nonviolenza si trovera' scartata dalla necessita' tecnica della violenza. Ma pure, fin quando l'esigenza filosofica di nonviolenza non sara' affermata chiaramente, si continuera' ad adattarsi alla violenza, e nessun altro metodo di azione sarà ricercato, il che costituisce una condizione sufficiente perché non ne sia trovato alcuno. L’esigenza filosofica incontra dunque il realismo politico per fondare la ricerca dei mezzi di una strategia dell'azione nonviolenta. Questi mezzi, pur esercitando sull'avversario una forza di reale costrizione, devono permettere di risolvere umanamente gli inevitabili conflitti umani senza ricorrere alla violenza omicida.
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La nonviolenza rompe l'equilibrio delle armi
L'estrema difficolta' che noi abbiamo a percepire la pertinenza del concetto di azione nonviolenta dipende principalmente da questo, che noi siamo abituati a concepire l'affrontamento tra due individui o tra due gruppi come un combattimento "ad armi uguali", dove i due avversari dispongono degli stessi mezzi o, almeno, di mezzi equivalenti. Ora, precisamente, quando uno dei due avversari rinuncia ad impiegare i mezzi violenti utilizzati dall'altro, la lotta appare totalmente ineguale e lo squilibrio di forze che sembra risultarne lascia intravedere la vittoria immediata e definitiva di colui che e' armato su colui che non lo e'. In altri termini, noi non immaginiamo un combattimento altrimenti che attraverso la messa in opera da parte dei due avversari di mezzi simmetrici. Ogni asimmetria, ogni dissimmetria delle armi e' immediatamente interpretata come uno svantaggio insuperabile, come una inferiorita' assoluta di colui che e' meno armato rispetto a colui che e' piu' armato.
Ora, il concetto di azione nonviolenta implica di per se' una dissimmetria tra i mezzi dell'aggressore e quelli dell'aggredito. Questa sola considerazione scompiglia i nostri riferimenti e ci disorienta. Colui che sceglie la nonviolenza ci sembra completamente disarmato di fronte a colui che non esita a scegliere la violenza. Ci sembra che egli abbia tutte le probabilita' di essere vinto. Sicuramente, come l'agnello che affronta il lupo, egli sara' messo a morte. E' vero che, se non si considera altro che gli strumenti tecnici di cui dispone l'uomo armato e quelli di cui non dispone l'uomo nonviolento, questo non e' in grado di resistere a quello. Dal punto di vista puramente teorico, la violenza puo' essere esercitata senza limiti dall'uomo armato sull'uomo nonviolento. Questa eventualita' non puo' essere esclusa, dal momento che e' tecnicamente possibile. Essa resta tuttavia astratta e non si realizzera' necessariamente. L'esperienza dimostra che essa, forse, non e' neppure la piu' probabile. Per apprezzare le probabilita' del passaggio all'atto dell'uomo armato, non bisogna prendere in considerazione soltanto i fattori tecnici, ma anche i fattori umani, psicologici, etici, sociali e politici. In realta', questi fattori sono suscettibili di imporre all'uomo armato dei limiti che egli non puo' superare senza maggiori inconvenienti per lui. Una violenza senza limiti sarebbe cieca in tutti i sensi dell'espressione. Essa costituirebbe una fuga in avanti che non corrisponderebbe ad alcun obiettivo razionale. E' per questo che, se essa e' tecnicamente possibile, non e' necessariamente la piu' probabile.
Ciascuno si arma per difendersi contro l'altro, ma ciascuno, ugualmente, considera l'armamento dell'altro come una minaccia. Cosi', l'armamento dell'uno necessita e giustifica l'armamento di tutti. Tuttavia, se ciascuno si arma solo per la sua difesa, da dove potra' mai venire l'offesa? In realta', il nostro armamento, che noi concepiamo come una protezione contro il nostro avversario, rischia fortemente di essere percepito da lui come una provocazione. D'altra parte, la ricerca continua dell'uguaglianza delle armi e dell'equilibrio delle forze provoca una corsa agli armamenti senza fine. Ne risulta che l'equilibrio e' ricercato a un livello sempre piu' elevato; percio' diventa sempre piu' instabile e rischia di rompersi sotto il solo effetto della legge di gravita'. Per se' stessa, la ricerca dell'uguaglianza delle armi favorisce lo scatenamento della violenza. La strategia dell'azione nonviolenta vuole mettere all'opera dei meccanismi di regolazione dei conflitti capaci di smorzarli e di farli evolvere verso una soluzione pacifica.
Chi rinuncia a possedere armi non esercita alcuna minaccia verso un avversario potenziale. Questo non ha dunque alcuna ragione di temere di essere aggredito. Egli si trova sprovvisto dell'argomento della legittima difesa, che serve sempre a giustificare l'uso delle armi. Presso un tale avversario, la risorsa che arma la volonta' di coloro che sono pronti a fare la guerra per rintuzzare ogni provocazione, e' esaurita. Dunque, il rischio che egli ricorra per primo alle armi per prevenire ogni aggressione, col pretesto che l'attacco e' la miglior difesa, e' notevolmente diminuito, se non ridotto a nulla. Se un conflitto sopravviene, e' allora possibile prendere il tempo di impegnarsi in negoziati che permettano di apprezzare correttamente l'oggetto della contesa, e di cercare quali potrebbero essere i termini di un accordo. Ma qui e' importante che colui che ha rinunciato alle armi della violenza dichiari pubblicamente la sua determinazione di resistere con tutti i mezzi dell'azione nonviolenta. Cio' gli deve permettere di tener testa al ricatto delle armi esercitato dall'avversario e di dissuaderlo dal decidere di passare all'atto. Certo, la probabilita' di un'aggressione non e' annullata – non ci si potrebbe accontentare di dire che l'avversario "non osera'" – ma quella probabilita', forse, non e' la piu' forte.
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"Chi vuole il fine vuole i mezzi"
"Il fine giustifica i mezzi" dice il proverbio, e questo vuol dire che giustifica tutti i mezzi. Certo, i mezzi sono giusti solo se, anzitutto, e' giusto il fine. Ma non basta che il fine sia giusto perche' i mezzi siano ugualmente giusti. Importa anche che i mezzi siano accordati al fine, coerenti con esso. Il mezzo della violenza, pur se impiegato per un fine giusto, contiene in se' stesso una parte irriducibile di ingiustizia che si ritrova nel fine. Se la scelta dei mezzi e' seconda rispetto al fine ricercato, non e' tuttavia secondaria; al contrario, e' primaria per raggiungere effettivamente il fine perseguito. Non si raccoglie, in definitiva, che cio' che si e' seminato, e chi semina violenza raccoglie morte.
Non soltanto i mezzi della violenza pervertono il fine, ma si sostituiscono ad esso. L'uomo che sceglie la violenza abbandona il fine che aveva prima invocato per andare a dar battaglia, e non se ne preoccupa piu', perche' il mezzo lo occupa interamente. Il mezzo diventa la prima delle sue preoccupazioni e il fine diventa la seconda, dunque l'ultima delle sue preoccupazioni. Egli certamente evochera' ancora il fine nella sua propaganda, ma non sara' che per giustificare il mezzo. Cosi', il mezzo non e' piu' al servizio del fine, ma e' il fine che e' messo al servizio del mezzo. "E' questo rovesciamento del rapporto fra il mezzo e il fine – scrive Simone Weil –, e' questa follia fondamentale che spiega tutto cio' che c'e' di insensato e sanguinoso lungo tutta la storia" (1).
Giustificare i mezzi con il fine e' fare della violenza un semplice mezzo tecnico, un utensile, uno strumento che deve essere giudicato secondo l'unico criterio dell'efficacia. La violenza non sarebbe ne' buona ne' cattiva, ma soltanto piu' o meno efficace. Essa esce cosi' dal campo dell'etica per entrare nel campo del pragmatismo. La violenza diventa allora eticamente neutra e soltanto la probabilita' della sua riuscita o del suo scacco permette di apprezzarne l'utilita'. La decisione che comanda l'azione non e' piu' una scelta ma soltanto un calcolo.
"Chi vuole il fine, vuole i mezzi", dice una altro proverbio il quale, purche' ben interpretato, esprime meglio del precedente la vera saggezza delle nazioni. Chi vuole la giustizia, vuole in effetti dei mezzi giusti. Chi vuole la pace vuole effettivamente dei mezzi pacifici. E' l'azione che e' importante, e non l'intenzione dell'attore. Ora, precisamente, il fine e' nell'ordine delle intenzioni, i mezzi sono nell'ordine dell'azione. Nulla e' piu' perverso di una morale dell'intenzione che giudica l'azione soltanto dalla qualita' della propria intenzione.
In definitiva, e' erroneo considerare l'azione dell'uomo come se non fosse che un mezzo in vista di un fine che sarebbe esteriore all'azione. L'azione umana ha gia' un proprio senso in se stessa e non solamente nel suo risultato. Questo non puo' essere ricercato "ad ogni costo", cioe' a qualunque prezzo. Bisogna, invece, guardare al prezzo, bisogna essere parsimoniosi. In altre parole, il primo risultato dell'azione e' l'azione stessa e, in cio', essa deve essere guardata come un fine in se'. L'azione politica non agisce con strumenti per fabbricare oggetti, ma per costruire il presente degli uomini; percio' il suo senso e' anzitutto nell'azione stessa , cioe' nei suoi mezzi e non nel suo fine. Fare il bene e' un bene in se', indipendentemente dal successo o dallo scacco dell'azione. Non che sia indifferente la riuscita o meno dell'azione – al contrario e' importante fare di tutto perche' essa riesca – ma l'efficacia non puo' essere il criterio determinante della decisione.
Nel momento dell'azione non siamo padroni che dei mezzi adoperati e non del fine ricercato o, piu' esattamente, non siamo padroni del fine se non mediante i mezzi. Il fine riguarda l'avvenire, solo i mezzi riguardano il presente. E' importante, dunque, che i mezzi siano "l'inizio del fine". Ma noi siamo sempre tentati di abbandonare il presente per fuggire e dirottarci nel futuro. "Non ci teniamo mai al tempo presente – notava Pascal -. Anticipiamo l'avvenire come troppo lento a venire, come per affrettare il suo corso. (...) Noi andiamo errando nei tempi che non sono nostri e non pensiamo affatto al solo tempo che ci appartiene. (...) Cerchiamo di sostenere il presente con l'avvenire, e pensiamo di disporre le cose che non sono in nostro potere, per un tempo dove non abbiamo alcuna sicurezza di arrivare. (...) Cosi' non viviamo mai, ma speriamo di vivere" (2). Cosi' l'uomo della violenza si fuorvia nel futuro: promette la giustizia, la pace, ma sempre per domani. Ogni giorno rinnova la stessa promessa e rinvia la giustizia e la pace all'indomani. E cosi' di seguito fino alla fine della storia. Ogni oggi e' pieno di violenze e di sofferenze, di distruzioni e di morti. Il presente dell'uomo non puo' essere considerato come un semplice mezzo per raggiungere un futuro che sarebbe il suo fine; egli e' per se stesso il proprio fine.
Cosi' l'uomo violento sacrifica il presente ad un avvenire incerto, riparandosi dietro un'ideologia che gli fa preferire l'astrazione di domani alla realta' di oggi. Di conseguenza, egli accetta di ricorrere a dei mezzi che contraddicono radicalmente il fine che pretende di perseguire, fine la cui realizzazione si trova incessantemente rinviata verso un futuro ipotetico. L'uomo della nonviolenza ha preso coscienza che e' essenzialmente del presente che deve rendere conto ed e' al presente che egli presta tutta la sua attenzione. Percio' egli ricerca dei mezzi che fin da oggi portino in se' stessi la realizzazione effettiva del fine perseguito. "La vera generosita' verso l'avvenire, scrive Albert Camus, consiste nel dare tutto al presente" (3).
Quando, nel 1978, Vaclav Havel vuole esprimere la filosofia politica che fonda la resistenza dei dissidenti contro l'ordine totalitario dell'impero sovietico, afferma che essa intende rifiutare ogni ricorso alla violenza per cambiare la societa'. Secondo lui, la ragione principale che giustifica questa scelta e' precisamente il fatto che i dissidenti vogliono conquistare fin da oggi la loro dignita' di uomini liberi, vivendo fin da ora secondo i valori che danno un senso alla loro esistenza, e che essi non intendono dar battaglia per fare venire dei domani ipotetici che permetterebbero loro, ma ben piu' tardi, di vivere secondo questi valori. "Questo rovesciamento - scrive Havel - di una visione politica astratta dell'avvenire a vantaggio dell'individuo concreto e della sua difesa attiva, "qui e ora", si accompagna dunque anche, in modo del tutto naturale, ad una avversione rinforzata verso ogni forma di violenza "in nome di un avvenire migliore"" (4).
Tuttavia, affinche' i mezzi messi in atto permettano di raggiungere il fine ricercato, non basta che siano nonviolenti, occorre che siano anche efficaci. Ma che cosa e' l'efficacia? E quale e' l'efficacia dell'efficacia? Quali sono i criteri che permettono di valutare e giudicare l'efficacia di una azione? La concezione di efficacia portata dall'ideologia dominante e' direttamente legata all'idea di violenza. Il paradigma dell'efficacia e' l'efficacia della violenza. Di modo che noi non immaginiamo un'efficacia che non sia violenta; attraverso il prisma deformante dell'ideologia della violenza, noi percepiamo nello stesso tempo l'efficacia della violenza e la violenza dell'efficacia. E, tuttavia, per se' stessa, la violenza, che e' un non-senso, e' un fattore di inefficacia. Se la finalita' dell'uomo e' dare un senso alla sua esistenza e alla sua storia, e' efficace l'azione che gli permette di realizzare questo senso. L'efficacia della nonviolenza e', anzitutto e in definitiva, dare senso all'azione umana. Ma rimane il fatto che la strategia dell'azione nonviolenta deve ricercare i mezzi tattici appropriati che permettano realmente di ridurre e, per quanto possibile, di eliminare le violenze dell'oppressione e dell'aggressione. L'azione nonviolenta deve ricercare la vittoria, anche se lo scacco, sempre possibile, non le fa perdere il suo senso.
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Il principio di non-cooperazione
Il piu' delle volte, nel corso di conflitti sociali e politici, la parte che possiede il potere, e che si trova dunque in posizione di forza, non accettera' l'intervento di alcun mediatore. Essa avanzera' il pretesto della legittimita' del suo potere – e' infatti nella natura stessa del potere, fosse anche il piu' detestabile, affermare la propria legittimita' – volendo mantenere i propri attributi e prerogative. In queste condizioni, la parte avversa, vittima dell'ingiustizia del potere, non avra' altra risorsa che agire direttamente per cambiare il rapporto di forza esistente allo scopo di far valere i suoi diritti.
Il principio essenziale della strategia nonviolenta e' la non-cooperazione. Esso poggia sull'analisi seguente: in una societa' cio' che costituisce la forza delle ingiustizie del disordine stabilito, e' la complicita', cioe' la cooperazione volontaria o passiva della maggioranza dei cittadini con le ideologie, le istituzioni, le strutture, i sistemi, i regimi e le leggi che generano e mantengono quelle ingiuste. La resistenza nonviolenta mira a rompere questa complicita' con l'organizzazione di azioni collettive di non-cooperazione.
Etienne de La Boetie (1530-1563) fu uno dei primi ad esprimere chiaramente l'efficacia potenziale di una politica di non-cooperazione nel suo Discorso sulla servitu' volontaria. Constatando che il potere di un tiranno poggia interamente sulla complicita' volontaria del popolo, egli chiede che gli si spieghi "come puo' accadere che tanti uomini, tante citta', tante nazioni talvolta sopportino tutto da un solo tiranno, il quale non ha altra potenza che quella che gli si da', non ha potere di nuocere loro se non fin quando essi vogliono sopportarlo, e non potrebbe far loro alcun male se essi non preferissero soffrire tutto da lui piuttosto che contraddirlo" (5).
In realta', e' il popolo stesso che offre al tiranno i mezzi di cui ha bisogno per opprimerlo. "Quello che il tiranno ha in piu' rispetto a voi – scrive La Boetie rivolgendosi a quelli che subiscono la tirannia – sono i mezzi che voi gli fornite per distruggervi. (...) Come fa ad avere tante mani per colpirvi, se non perche' le prende in prestito da voi? (...) Come puo' avere potere su di voi, se non con il vostro aiuto? (...) Che male potrebbe farvi, se voi non foste i ricettatori del ladro che vi deruba, i complici dell'omicida che vi uccide, e i traditori di voi stessi?" (6). Dunque, e' sufficiente che i soggetti al tiranno cessino di dargli la loro collaborazione perche' la tirannia crolli. "Voi potete liberarvene – afferma La Boetie – senza nemmeno tentare di farlo, ma soltanto provando a volerlo. Siate dunque risoluti a non servire piu' e sarete liberi. Io non voglio che vi scontriate con lui, ne' che lo smuoviate, ma soltanto non sostenetelo piu' e lo vedrete, come un grande colosso cui si toglie la base, cadere per il suo peso e andare in pezzi" (7). I tiranni sono capaci di tutte le crudelta' fin quando possono contare sulla cooperazione dei loro sottoposti, "ma se non si da' loro niente, se non li si obbedisce affatto, senza combatterli e senza colpirli, restano nudi e vinti: simili a quell'albero che, non ricevendo piu' linfa e alimento alla radice, ben presto non e' che rami secchi e morti" (8). L'americano Henry David Thoreau (1817-1862) espone lo stesso principio di non-cooperazione in un breve saggio intitolato La disobbedienza civile. Egli afferma che, per compiere il proprio dovere di cittadino, l'individuo non deve orientare il suo comportamento secondo gli obblighi della legge, ma secondo le esigenze della sua coscienza. "Io credo – afferma Thoreau - che noi dovremmo essere uomini prima e sudditi poi. Non e' affatto augurabile coltivare lo stesso rispetto per la legge e per il Bene" (9). Dunque, il dovere del cittadino non si riduce a votare per quello che egli stima giusto: "Anche votare per cio' che e' giusto – scrive Thoreau - e' non fare nulla per la giustizia. Si riduce ad esprimere fiaccamente il vostro desiderio che essa si affermi. Un saggio non abbandona la giustizia ai capricci del caso; neppure si augura che essa trionfi per il potere di una maggioranza. C'e' ben poca virtu' nell'azione delle masse umane" (10). L'uomo onesto non puo' aspettare che la maggioranza si sia anch'essa aggregata alla giustizia per agire conformemente alle sue esigenze: "Ogni uomo che ha ragione contro gli altri costituisce gia' una maggioranza di un voto" (11). Certo, per combattere un'ingiustizia del disordine stabilito, bisogna anzitutto mettere all'opera tutti i mezzi previsti dalla legge. Ma quando questi si rivelano inoperanti, allora diventa necessario passare sopra gli obblighi e i divieti della legge.
Il cittadino che intende prendersi le proprie responsabilita', non deve esitare a disobbedire allo Stato quando questo gli comanda di cooperare con l'ingiustizia. "Esistono delle leggi ingiuste: saremo d'accordo ad obbedirvi? - domanda Thoreau -. Tenteremo di emendarle obbedendo ad esse fino a che siamo arrivati ai nostri scopi, o le trasgrediremo subito?" (12). Ecco la sua risposta: "Se di natura sua la macchina governativa vuole fare di noi lo strumento dell'ingiustizia verso il nostro prossimo, allora io vi dico: infrangete la legge. Che la vostra vita sia un attrito per fermare la macchina. Bisogna che io vegli in ogni caso per non prestarmi al male che condanno" (13). Una minoranza di uomini giusti, se ha il coraggio di affrontare direttamente lo Stato e sfidarlo disobbedendo alle sue leggi ingiuste, puo' obbligarlo a cedere. "Una minoranza non puo' nulla fin quando si conforma alla maggioranza; allora non e' neppure una minoranza. Ma e' irresistibile quando fa ostruzionismo con tutto il suo peso. Se non c'e' alternativa a questo: tenere tutti i giusti in prigione oppure abbandonare la guerra e la schiavitu', lo Stato non esitera' a scegliere" (14). Jaures ci riferisce nella sua Storia socialista questa dichiarazione che Mirabeau fece all'Assemblea degli Stati di Provenza rivolgendosi a "tutti i gentiluomini e signorotti che volevano tenere sotto tutela la classe produttiva": "Guardatevi, non sdegnate questa gente che produce tutto, questo popolo che, per diventare formidabile, non avrebbe che da restare immobile". E Jaures nota che Mirabeau diede in questa occasione "la piu' potente e abbagliante formula di cio' che chiamiamo oggi sciopero generale" (15). Cosi' definito, lo sciopero generale di tutto un popolo, deciso a spezzare il giogo della tirannia e dell'oppressione che grava sulle sue spalle e a diventare padrone del proprio destino, e' l'illustrazione perfetta del principio di non-cooperazione.
Nel suo libro Riflessioni sulla violenza, Georges Sorel intende fare l'apologia della "violenza rivoluzionaria" e numerosi testi filosofici si riferiscono al pensiero di Sorel per comprendere meglio il fenomeno della violenza. Ma si tratta in realta' di un formidabile malinteso perche', affermando la necessita' della violenza per la liberazione del proletariato, Sorel non intende affatto incitare gli operai a lanciarsi in un confronto micidiale con gli eserciti della borghesia. Al contrario, lamenta vivamente che sia questa l'immagine evocata dalla parola rivoluzione, e rifiuta questa prospettiva, di cui afferma che appartiene al passato. Infatti scrive: "Per lungo tempo la Rivoluzione apparve come se fosse essenzialmente un seguito di guerre gloriose che un popolo, affamato di liberta' e trascinato dalle passioni piu' nobili, aveva sostenuto contro una coalizione di tutte le potenze dell'oppressione e dell'errore" (16). Ma, appoggiandosi soprattutto sui tragici avvenimenti della Comune del 1871, egli mostra che il proletariato ha dovuto distogliere la sua immaginazione e la sua ragione da ogni epopea guerriera. Egli rifiuta con forza "gli atti di barbarie che la superstizione dello Stato ha suggerito ai rivoluzionari del 1793" e vuole "sperare che una rivoluzione socialista perseguita da puri sindacalisti non sarebbe affatto sporcata dalle abominazioni che sporcarono le rivoluzioni borghesi" (17).
D'altra parte Sorel si erge vivamente contro i "socialisti parlamentari" che vorrebbero convincere gli operai che e' loro ormai possibile ottenere il riconoscimento dei loro diritti con il solo gioco della democrazia formale. Egli afferma che ormai e' soltanto nello sciopero generale che il proletariato deve porre il suo ideale e la sua speranza. Nel dire questo, non si preoccupa affatto di concepire l'organizzazione pratica di questa azione gigantesca: quello che gli importa e' mostrare che l'idea dello sciopero generale corrisponde alle aspirazioni profonde dell'anima operaia e che e' capace di mobilitare il proletariato nella lotta contro la borghesia. Per lui lo sciopero generale e' un mito e deve essere considerato come tale, ma egli pensa precisamente che solo la potenza di questo mito puo' creare il dinamismo necessario al movimento rivoluzionario. "Lo sciopero generale – egli scrive - e' il mito nel quale il socialismo si racchiude tutto intero, un'organizzazione di immagini capaci di evocare istintivamente tutti i sentimenti che corrispondono alle diverse manifestazioni della guerra intrapresa dal socialismo contro la societa' moderna. Gli scioperi hanno generato nel proletariato i sentimenti piu' nobili, i piu' profondi e i piu' mobilitanti che esso possieda. Lo sciopero generale li riunisce tutti in un quadro di insieme e, riunendoli, da' a ciascuno di essi il massimo di intensita'. (...) Noi otteniamo cosi' questa intuizione del socialismo che il linguaggio non poteva darci in maniera perfettamente chiara, e l'otteniamo in un insieme percepito istantaneamente" (18).
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La disobbedienza civile
Sarebbe vano, in nome di un ideale astratto di nonviolenza assoluta, concepire una societa' dove la giustizia e l'ordine possano essere assicurati dal libero concorso di ciascuno senza bisogno di ricorrere agli obblighi imposti dalla legge. La quale adempie una funzione sociale che non si puo' negare: obbligare i cittadini a un comportamento ragionevole, in modo che ne' l'arbitrio ne' la violenza possano avere libero corso. Non sarebbe dunque giusto considerare le costrizioni esercitate dalla legge soltanto come ostacoli alla liberta', perche' sono anche garanzie per la liberta'.
Il patto sociale mediante il quale i cittadini fanno un'alleanza per creare una societa' e' la costituzione. Questa, in linea di principio, e' fondata sul consenso di tutti i cittadini. La legge e' l'applicazione della costituzione. Percio' essa detta le condotte conformi al bene comune e da' al governo i mezzi per agire contro le manovre di quelli che non rispettano le clausole del patto sociale. Finche' la legge compie la sua funzione al servizio della giustizia, merita l'obbedienza dei cittadini. Ma quando copre, garantisce o genera essa stessa delle ingiustizie, merita la loro disobbedienza. L'obbedienza alla legge non libera i cittadini dalla loro responsabilita': quelli che si sottomettono a una legge ingiusta sono responsabili di tale ingiustizia. Poiche' cio' che fa l'ingiustizia non e' la legge ingiusta, ma l'obbedienza alla legge ingiusta. Secondo la dottrina ufficiale degli Stati che si dicono democratici, ogni cittadino, per il fatto che ha la possibilita' di votare in tutta liberta', deve sottomettersi alla volonta' universale. Ma non e' la legge che detta cio' che e' giusto, e' invece cio' che e' giusto che detta la legge. Cosi', quando c'e' conflitto fra la legge e la giustizia, bisogna scegliere la giustizia e disobbedire alla legge.
La democrazia esige cittadini responsabili e non cittadini disciplinati. "C'e' bisogno di molti indisciplinati – afferma Georges Bernanos – per fare un popolo libero" (19). La storia ci insegna che la democrazia e' molto piu' spesso minacciata dall'obbedienza cieca dei cittadini che dalla loro disobbedienza. Se l'obbedienza dei cittadini fa la forza dei regimi totalitari, la loro disobbedienza deve diventare il fondamento della resistenza a questi stessi regimi. "Abbiamo capito una grande verita' – scrive Vladimir Boukovski, a lungo prigioniero dei campi sovietici – che cioe' non e' il fucile, non sono i carri armati, non e' la bomba atomica che generano il potere, e il potere non poggia su queste cose. Il potere nasce dalla docilita' dell'uomo, dal fatto che accetta di obbedire. (...) Sappiamo dunque quale puo' essere la forza fulminante della non-sottomissione dell'uomo. E i potenti lo sanno anche loro" (20).
In quanto azione politica, la disobbedienza civile e' un'iniziativa collettiva. Non si tratta solo di definire il diritto all'obiezione di coscienza, fondato sull'obbligo della coscienza individuale di rifiutare obbedienza a una legge ingiusta; si tratta, al di la' di questo riconoscimento, di definire il diritto dei cittadini di disobbedire alla legge per affermare il loro potere e permettere alle proprie rivendicazioni di ottenere lo scopo. In tal caso, la disobbedienza civile non esprime la protesta morale dell'individuo di fronte alla legge ingiusta, ma la volonta' politica di una comunita' di cittadini che intendono esercitare il loro potere.
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Prendere la parola per dire la verita'
Poiche' la prima complicita' con la menzogna e l'ingiustizia e' il tacere, la prima azione di non-cooperazione sara' rompere tale silenzio e prendere pubblicamente la parola al fine di far valere le richieste della verita' e le rivendicazioni della giustizia. La presa di parola e' gia' una presa di potere. Con essa viene spezzato il monopolio della parola rivendicato dai poteri stabiliti. Dal momento in cui l'individuo prende la parola per contestare l'ordine stabilito e protestare contro la sua ingiustizia, egli puo' cedere alla sollecitazione della violenza. Precisamente per il fatto che la parola violenta trasgredisce deliberatamente le norme del discorso conformista, che pretende giustificare l'ingiustizia, essa puo' apparire all'uomo in rivolta come una contestazione radicale dell'ordine stabilito. Allora, per meglio esprimere il suo rifiuto, egli cerchera' di esprimersi in un linguaggio altro da quello dell'ordine che egli contesta. Rispettare le convenienze di linguaggio stabilite dalla societa', sarebbe ancora accettare di sottomettersi alle sue leggi. Il grido dell'uomo in rivolta sara' dunque una bestemmia: egli vorra' essere sacrilego. Esprimendo rumorosamente la sua collera, il suo disprezzo e il suo odio per la societa', avra' il senso di liberarsi dalle costrizioni che volevano obbligarlo a tacere.
Ma, in realta', c'e' una contraddizione radicale tra la parola e la violenza: l'una cessa al punto in cui comincia l'altra. Una parola che diviene violenza si nega come parola. E' dunque un errore decisivo passare sopra alle esigenze della ragione pur di denunciare le cattive ragioni alle quali i potenti hanno fatto ricorso per tentare di mascherare le ingiustizie dell'ordine stabilito. Solo il discorso ragionevole e' capace di portare alla luce i sofismi, le contraddizioni e le menzogne dei discorsi ufficiali mediante i quali e' intimato ai cittadini di approvare in silenzio.
La pacificazione della parola e' una delle esigenze della nonviolenza. Inoltre, la pedagogia della parola nonviolenta e' molto piu' operativa di quella del grido violento. L'autorita' di una parola viene dalla sua giustezza e non dalla sua violenza. Cosi' l'opinione pubblica offre una piu' grande ricettivita' ad un parola pacificata che ad una parola violenta che viene ad aggredirla. La parola ragionevole e l'azione nonviolenta si rinforzano l'una con l'altra, la parola sottolineando il significato dell'azione e viceversa. In modo che, al momento piu' intenso della lotta, la parola diviene azione e l'azione diventa parola.
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La sfida dei dissidenti
Il 12 febbraio 1974, qualche ora prima che gli agenti del KGB venissero a bussare alla sua porta per arrestarlo Alessandro Solgenitzin firma l'ultimo testo che scrivera' in terra russa prima della sua espulsione. In questo testo (21), l'autore di Arcipelago Gulag, si rivolge direttamente ai suoi concittadini per chiamarli a resistere contro l'oppressione che pesa su di essi. Piu' precisamente, egli chiede loro di rifiutare ogni cooperazione con le menzogne su cui poggia l'ordine totalitario della societa' sovietica. Egli fa la seguente analisi: cio' che fa la forza della violenza dello Stato totalitario e' che egli beneficia della collaborazione della maggioranza dei cittadini che si rassegnano e si sottomettono per paura di perdere certi vantaggi promessi a quelli che tacciono. "La violenza - egli scrive - non puo' nascondersi che dietro la menzogna. La menzogna non puo' vivere che mediante la violenza. La violenza non mette tutti i giorni la sua mano pesante su tutte le spalle: essa non esige da noi che l'obbedienza alla menzogna, la partecipazione quotidiana alla menzogna. E' la sola lealta' che esige da noi. La chiave piu' semplice e la piu' accessibile della nostra liberazione, che noi abbiamo trascurato finora, sta nella non-partecipazione personale alla menzogna". Per Solgenitzin, questo cammino di resistenza e' il solo che sia accessibile a tutti. Certo, non e' facile ed e' seminato di trabocchetti, ma "diventera' piu' facile e piu' breve per noi tutti se noi lo intraprenderemo con uno sforzo comune e in ranghi serrati. Se noi siamo delle migliaia, essi non potranno piu' niente contro di noi". Solgenitzin avverte i suoi concittadini che, se essi non hanno il coraggio civico di assumere il rischio di questa resistenza, diventeranno essi stessi gli artefici dell'oppressione che subiscono: "Se restiamo prigionieri della nostra paura, - scrive - dovremo smettere di lamentarci che ci soffocano, perche' siamo noi stessi che lo facciamo".
Ma, in definitiva, Solgenitzin resta convinto che lo spirito umano e' capace di arginare l'ondata selvaggia della violenza. "Non si deve accettare - egli afferma in un altro testo - l'idea che il corso mortifero della storia sia irreversibile e che lo Spirito sicuro di se stesso non possa agire sulla forza piu' potente del mondo. [...] Solo l'inflessibilita' dello spirito umano, fermamente eretto sulla linea mobile della violenza che si annuncia, e che dice, pronto al sacrificio e alla morte: "Non un passo di piu'!", solo questa inflessibilita' dello spirito e' la vera difesa della pace privata, della pace universale e di tutta l'umanita'" (22). Gia' liberando se stesso dalla tutela della menzogna e osando dire apertamente la verita', Solgenitzin ha aperto una breccia nell'accerchiamento totalitario che assediava il suo popolo. Condannandolo all'esilio, i dirigenti dell'Unione Sovietica confessavano la loro debolezza. "Perche' Solgenitzin e' stato espulso dalla sua patria?" si e' chiesto Vaclav Havel nel 1978. "Sicuramente - egli risponde - non in quanto detentore di un potere effettivo dal quale un qualunque rappresentante del regime avrebbe potuto sentirsi minacciato di perdere il suo posto. La sua espulsione rappresenta qualcosa d'altro: il tentativo disperato di ostruire questa terribile sorgente di verita', di cui nessuno poteva valutare in anticipo quali cambiamenti avrebbe potuto provocare nella coscienza della societa', ne' a quali scombussolamenti politici questi cambiamenti avrebbero potuto un giorno condurre" (23).
Vaclav Havel s'impegnera' lui stesso nella dissidenza rifiutando di cooperare con la menzogna. Secondo lui, il compito fondamentale di quelli che intendono opporsi alle ideologie rigide e alle burocrazie anonime consiste nel lasciarsi guidare dalla propria ragione e "nel servire in ogni circostanza la verita' in quanto esperienza esistenziale" (24). Lo Stato totalitario vuole costringere l'individuo a sottomettersi a un rituale sociale che lo obbliga a vivere nella menzogna. Certo, non e' obbligato a credere a tutte le mistificazioni che giustificano questo rituale, ma deve comportarsi come se ci credesse. "Questo lo obbliga gia' - nota Havel - a vivere nella menzogna. E' sufficiente che abbia accettato di vivere con essa e in essa. Poiche', con questo atto, egli gia' sostiene il sistema, lo compie, lo fa, egli e' il sistema" (25).
Non c'e' coesistenza possibile tra "la vita nella menzogna", e "la vita nella verita'". Ogni manifestazione di questa costituisce una reale minaccia per quella, perche' la spoglia della sua apparenza ingannevole che sola le permette di sussistere. E' per questo che la vita nella verita' non e' soltanto una "dimensione esistenziale" che permette all'individuo di recuperare la propria identita' e di riconciliarsi con la propria umanita'; "essa ha anche una dimensione politica" (26) che permette al cittadino di lottare efficacemente contro il sistema totalitario. La vita nella verita' costituisce una reale forza di contestazione, una vera forza di opposizione, un autentico contro-potere che affronta il potere stabilito. Certo, questo potere non permettera' che si arrivi impunemente a sfidarlo apertamente e usera' tutti i mezzi di cui dispone per far tacere i ribelli, ma non ha la possibilita' di riacciuffare una sola parola che si sia liberata dal suo dominio. Dal momento che e' pronunciata da un uomo libero, essa e' detta una volta per sempre e rimane attiva. Le persecuzioni che possono abbattersi sul suo autore non fanno che darle piu' forza. Essa non cessera' di risuonare nella coscienza di tutti di quelli che vivono nella menzogna. Quali che siano i compromessi che questi hanno accettato, una parola di verita' non puo' non raggiungere in qualche parte di loro il loro desiderio represso di vivere nella dignita'. E' per questo che "essi possono in ogni momento - almeno teoricamente - essere raggiunti dalla forza della verita'" (27). Benche' nessuno possa prevederlo prima, e' legittimo pensare che questa forza di opposizione acquistera' sufficiente ampiezza per esprimersi attraverso un movimento politico che arrivi a rivaleggiare direttamente col potere effettivo. E' cosi' che Vaclav Havel, dopo lunghi anni di vagabondaggio e di erramenti nella dissidenza, diventera' presidente della Repubblica cecoslovacca.
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La forza dell'umorismo
Tra le ragioni per le quali i dissidenti dell'Europa centrale hanno potuto far fronte con onore a molti avvenimenti dolorosi, Vaclav Havel ha sottolineato l'importanza del loro senso dell'umorismo. "Potrebbe essere - egli dice - che noi non siamo in grado di assumere i nostri compiti storici e di fare il sacrificio che la nostra situazione ci chiede, se non esistesse questa presa di distanza riguardo alla realta' e a noi stessi" (28). E parla dello stupore degli stranieri che non riescono a comprendere come essi siano capaci di sopportare tali prove e nello stesso tempo non smettano di riderne. Per lui, questo senso dell'umorismo era precisamente cio' che permetteva loro di affrontare con serenita' la gravita' della situazione: "Se - egli afferma - non si deve ridursi nella propria serieta' al punto di diventare ridicoli, bisogna avere il senso dell'umorismo e dell'autoironia. Quando li si perde, la nostra attivita' perde anche, paradossalmente, di serieta'" (29).
Questi pensieri di Vaclav Havel non sono affatto casuali ed e' importante riflettere sul significato dell'umorismo domandandosi se non esista per caso una corrispondenza per cui esso si accorderebbe con la nonviolenza. La parola umorismo e' ripresa dall'inglese humour, che proviene dal latino humor, umore, che significa un elemento liquido. Umore ha anzitutto designato un liquido organico del corpo umano, poi il carattere, perche' un tempo si faceva dipendere questo dalla composizione degli "umori" del corpo umano (i quattro umori principali sono il sangue, la bile, l'atrabile e la flemma). Umore ebbe allora due usi antinomici, talvolta significando la disposizione allo scherzo (il buon umore), talvolta la disposizione alla irritazione (il cattivo umore). L'inglese humour riprese il primo di questi significati ed e' arrivato ad integrarsi come tale nella lingua francese [e cosi' in quella italiana, nella quale si dice la stessa cosa dicendo anche che uno "ha spirito" - n.d.tr.].
Questo ritorno indietro per rintracciare la formazione della parola umorismo ci permette di meglio scoprirne il significato. Colui che prende un atteggiamento di umorismo di fronte agli avvenimenti e' colui che si trova in una situazione in cui tutto dovrebbe concorrere a disporlo all'irritazione e che, contro ogni attesa, rovescia il corso normale delle cose e decide di disporsi spontaneamente allo scherzo. E' colui che, viste le circostanze, dovrebbe essere di cattivo umore e che decide invece di essere di buon umore. E' colui che, di fronte alle difficolta' della sua vita, e' determinato a non essere di umor nero, a non farsi del sangue cattivo ne' della bile, a rifiutare ogni atteggiamento atrabiliare, ma, al contrario, a conservare il sangue freddo, a non perdere la sua flemma e a fare buon viso a cattiva sorte.
Secondo Freud, che ci ha lasciato su questo argomento delle riflessioni penetranti, il piacere dell'umorismo proviene dalla "economia di investimento di sentimento" (30), da una "economia di investimento affettivo" (31). In generale - egli precisa - noi diamo prova di umorismo "a spese dell'irritazione, invece di irritarci" (32). Colui che ha spirito, quando si trova in una situazione in cui normalmente ci si puo' aspettare che si mostri profondamente colpito, "che vada in collera, che si lamenti, che manifesti dolore, che si spaventi, forse anche che si disperi", invece, "non manifesta nessuna di queste emozioni, ma fa uno battuta" (33).
Freud decide di considerare l'umorismo "alla luce di un progetto di difesa" che ha lo scopo di "sfuggire alla costrizione della sofferenza" (34), di "prevenire la nascita del dispiacere" (35) e lo concepisce come "la piu' alta di queste realizzazioni di difesa" (36). Cio' che vuole esprimere colui che ricorre all'umorismo per far fronte a una situazione che comporta per lui un pericolo reale, potrebbe tradursi cosi': "Io sono troppo grande, o grandioso, perche' questa cosa mi tocchi in maniera penosa" (37). Cosi', con l'umorismo, l'io intende riaffermare la sua invincibilita', la sua invulnerabilita' di fronte ai pericoli esterni: "L'io si rifiuta di lasciarsi offendere, di lasciarsi costringere alla sofferenza dalle occasioni che si incontrano nella realta'; egli sostiene fermamente che i traumi venuti dal mondo esterno non possono raggiungerlo; di piu', egli mostra che quelli non sono per lui che occasione per un guadagno di piacere" (38). Cosi', l'umorismo e' un metodo di resistenza contro le avversita': "L'umorismo non e' rassegnato, esso sfida" (39).
Permettendo all'individuo di difendersi contro l'irritazione, la paura e la sofferenza, l'umorismo gli offre la possibilita' di proteggersi contro l'odio e la violenza. D'altra parte, l'umorismo possiede in se' stesso una formidabile forza di contagio, un immenso potere di convinzione. Lo spettatore-uditore che guarda e comprende l'umorista si trova disposto a seguirlo nella via che egli ha preso e risponde volentieri al suo invito di venire a condividere il suo piacere umoristico.
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"Mettere insieme la giustizia e la forza"
Si conoscono le formule incisive di Pascal sulla giustizia e la forza (40): "Bisogna mettere insieme la giustizia e la forza, e percio' fare che cio' che e' giusto sia forte, o che cio' che e' forte sia giusto" (298). Queste formule definiscono perfettamente l'ambizione della nonviolenza: si tratta in effetti di "mettere insieme la giustizia e la forza". E poiche' l'azione violenta contiene in se' una parte irriducibile di ingiustizia, solo la forza dell'azione nonviolenta puo' essere giusta. Ma e' chiaro che Pascal non pensa affatto alla nonviolenza scrivendo i suoi Pensieri.
Qual e' esattamente il suo pensiero? Egli constata anzitutto che "la giustizia senza la forza e' impotente", che "la giustizia senza forza e' contraddetta, perche' ci sono sempre dei malvagi" (298). Cosi', egli rifiuta con ragione l'idealismo che pretende che esista una "forza della giustizia". Pascal fa una seconda constatazione: "La forza senza la giustizia e' tirannica", "la forza senza la giustizia e' accusata" (298). Quando Pascal usa qui la parola "forza", e' in realta' di "violenza" che egli vuole parlare: e' in effetti la violenza che e' accusata di essere tirannica quando si esercita a scapito della giustizia. La forza nonviolenta, quanto ad essa, non ha in nessun modo i mezzi della tirannia. Ma, se dunque si tratta di violenza, come fare che cio' che e' violento sia realmente giusto? Piu' esattamente, e' possibile fare che cio' che e' violento sia realmente giusto? Pascal ha chiara coscienza della difficolta'. Del resto, egli non pensa che si sia risolta la difficolta', ma che la si abbia soltanto aggirata: "Non si e' potuto – egli scrive – dare la forza alla giustizia, perche' la forza ha contraddetto la giustizia e ha detto che era lei che era giusta. E cosi', non potendo fare che cio' che e' giusto sia forte, si e' fatto che cio' che e' forte sia giusto" (298). Pascal riconosce cosi' che la violenza non puo' dare la forza alla giustizia perche' la violenza contraddice la giustizia. Non e' dunque possibile mettere insieme la giustizia e la violenza, a meno che non si pretenda, ma contro la verita', che la violenza e' giusta. E' precisamente quello che e' stato fatto: si e' giustificata la violenza. Ed e' cosi' che la "forza", cioe' la violenza, e' "la regina del mondo" (303) o, piu' precisamente, che essa ne e' "il tiranno" (311).
Ma Pascal non si inganna: la giustizia imposta dalla violenza non e' la vera giustizia. La giustizia che regna nella societa', e' soltanto quella che e' definita dal "costume", dalla "moda": "Come la moda fa il consenso, cosi' essa fa la giustizia" (309). Sono dunque "i costumi" che impongono agli uomini i criteri e le norme della giustizia, ed e' per questo che essa e' cosi' mutevole secondo il tempo e il luogo. In realta', noi non conosciamo la vera giustizia perche', se la conoscessimo, "non prenderemmo per regola di giustizia il seguire i costumi del paese" (297). Cosi' l'ordine stabilito tiene il posto della giustizia: "La giustizia e' cio' che e' stabilito: e cosi' tutte le nostre leggi stabilite saranno necessariamente ritenute giuste senza essere esaminate, poiche' sono stabilite" (312). Se gli uomini obbediscono alle leggi, e' perche' vi sono forzati dalla violenza di cui dispongono i principi che li governano. Cosi', il diritto che regna nella societa' e' "il diritto della spada", "perche' la spada da' un vero diritto" (878). Pascal riconosce cosi' la necessita' di fondare la giustizia sulla violenza della spada, affinche' gli uomini vedano che la giustizia e la violenza stanno proprio insieme e, nel sottomettersi alla violenza, credano di sottomettersi alla giustizia. "Altrimenti – egli fa notare – si vedrebbe la violenza da una parte e la giustizia dall'altra" (878). Pascal stima allora che gli uomini debbano sottomettersi al diritto della spada, perche' se no sarebbe la guerra civile che e' "il piu' grande dei mali" (320), e perche' bisogna mantenere la pace che e' "il bene supremo" (219). Ma egli sa benissimo che l'ordine stabilito non corrisponde affatto alle esigenze della vera giustizia. Infatti, egli non ignora che in "una giustizia vera", non c'e' "nessuna violenza" (878).
Certo, noi non potremmo condividere le scelte politiche di Pascal riguardo all'organizzazione della societa'. In definitiva, col pretesto di preferire l'ordine ingiusto al disordine, egli si rassegna all'ingiustizia e, invocando la corruzione della natura umana, predica l'obbedienza del popolo a un potere di cui la violenza e la menzogna sono le principali fondamenta. Cio' che ci interessa qui e' l'analisi dei fatti presentata da Pascal, perche' ci sembra di una grande lucidita'. Spesso, in effetti, tutto avviene proprio come egli dice, anche se questo va male: la violenza fonda l'ordine stabilito e, in effetti, e' ingannare il popolo fargli credere che questo ordine corrisponda alle esigenze della giustizia.
Le riflessioni di Pascal ci aiutano cosi' a comprendere meglio che solo il metodo dell'azione nonviolenta permette di mettere insieme la giustizia e la forza senza contraddire la giustizia, che solo la nonviolenza puo' dare la forza alla giustizia. Optare per la nonviolenza, e' rifiutare di fare che cio' che e' violento sia giusto e fare invece che cio' che e' giusto sia forte.
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Note
1. Simone Weil, Oppression et liberte', Paris, Gallimard, 1955, p. 95; tra. it. Oppressione e liberta', Comunita', Milano 1956.
2. Pascal, Pensieri, 172 (numerazione dell'edizione Brunschvig).
3. Albert Camus, L'homme revolte', Paris, Gallimard, 1951, coll. Idees, p. 365; tr. it. L'uomo in rivolta, in Opere, Bompiani, Milano 1988.
4. Vaclav Havel, Essais politiques, Paris, Calmann-Levy, 1989, p. 127. In italiano si trova il libro di Havel Il potere dei senza potere, Garzanti, Milano 1991 (n.d.tr.).
5. Etienne de La Boetie, Discours de la servitude volontaire, Paris, Payot, 1978, p. 174-175, tr. it. Discorso sulla servitu' volontaria, a c. di Luigi Geninazzi, Jaka Book, Milano 1979, p. 64.
6. Idem ibidem, p. 181-182; tr. it. cit., p. 72.
7. Idem ibidem, p. 183; tr. it. cit., p. 73.
8. Idem ibidem, p. 180, tr. it. cit., p. 70.
9. Henry David Thoreau, Le desobeissance civile, Paris, J.-J. Pauvert, 1967, p. 57; tr. it. Walden, ovvero la vita nei boschi e il saggio La disobbedienza civile, a c. di Marisa Bulgheroni, Arnoldo Mondadori editore, Milano 1970.
10. Ibidem, p. 67.
11. Iibidem, p. 76.
12. Ibidem, p. 72.
13. Ibidem, p. 74.
14. Ibidem, p. 80.
15. Jean Jaures, Histoire socialiste de la Revolution française, 1, La Constituante, Paris, Editions Sociales, 1969, p. 136.
16. Georges Sorel, Reflexions sur la violence, Paris, Editions Marcel Riviere et Cie, 1972, p. 112; tr. it. Riflessioni sulla violenza, in Scritti politici, Utet, Torino 1963.
17. Idem ibidem, p. 138-139.
18. Idem ibidem, p. 153-154.
19. Geroges Bernanos, Les enfants humilies, Paris, Gallimard, 1949, p. 77.
20. Vladimir Boukovski, Et le vent reprend ses tours, Paris, Robert Laffont, 1978, p. 35.
21. Questo testo e' stato pubblicato nella rivista Combat non-violent, n. 47, 20 maggio 1974.
22. Alexandre Soljenitsyne, Lettre aux dirigeants sovietiques, Paris, Le Seuil, 1974, p. 110.
23. Vaclav Havel, Essais politiques, op. cit., p. 91.
24. Ibidem, p. 243.
25. Ibidem, p. 77.
26. Ibidem, p. 88.
27. Ibidem, p. 90.
28. Vaclav Havel, Interrogatoire a' distance, Paris, Editions de l'Aube, 1988, p. 101.
29. Ibidem, p. 102.
30. Sigmund Freud, Le mot d'esprit et sa relation a' l'inconscient, Paris, Gallimard, 1993, Folio Essais, p. 411; tr. it. Il motto di spirito e la le sue relazioni con l'inconscio, in Opere, a cura di C. Musatti, Boringhieri, Torino 1966 segg.
31. Sigmund Freud, L'inquietante etrangete' et autres essais, Paris, Gallimard, 1993, Folio Essais, p. 321; tr. it.: Il perturbante in Opere, vol. IX, a cura di C. Musatti, Boringhieri, Torino (1977), pp. 81 ss.
32. Sigmund Freud, Le mot d'esprit et sa relation a' l'inconscient, op. cit., p. 404.
33. Sigmund Freud, L'inquietante etrangete' et autres essais, op. cit., p. 322.
34. Idem ibidem, p. 324.
35. Sigmund Freud, Le mot d'esprit et sa relation a' l'inconscient, op. cit., p. 407.
36. Ibidem.
37. Ibidem, p. 408.
38. Sigmund Freud, L'inquietante etrangete' et autres essais, op. cit., p. 323.
39. Ibidem, p. 324.
40. Indichiamo tra parentesi il numero dei Pensieri secondo la numerazione dell'edizione Brunschvicg.
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LA BIBLIOTECA DI ZOROBABELE
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Segnalazioni librarie e letture nonviolente
a cura del "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo
Supplemento a "La nonviolenza e' in cammino" (anno XXII)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com
Numero 88 del 21 maggio 2021
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Numero 88 del 21 maggio 2021
In questo numero:
Jean-Marie Muller: Principi dell'azione nonviolenta
MAESTRI. JEAN-MARIE MULLER: PRINCIPI DELL'AZIONE NONVIOLENTA
[Da Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace, Plus - Pisa University Press, Pisa 2004 (traduzione italiana di Enrico Peyretti dell'edizione originale Le principe de non-violence. Parcours philosophique, Desclee de Brouwer, Paris 1995), riprendiamo il capitolo quinto: "Principi dell'azione nonviolenta" (pp. 103-124). Ringraziamo di cuore Enrico Peyretti per averci messo a disposizione la sua traduzione e la casa editrice Plus - Pisa University Press per il suo consenso.
Jean-Marie Muller, filosofo francese, nato nel 1939 a Vesoul, docente, ricercatore, e' tra i più importanti studiosi del pacifismo e delle alternative nonviolente, oltre che attivo militante nonviolento. E' direttore degli studi presso l'Institut de Recherche sur la Resolution non-violente des Conflits (Irnc). In gioventu' ufficiale della riserva, fece obiezione di coscienza dopo avere studiato Gandhi. Ha condotto azioni nonviolente contro il commercio delle armi e gli esperimenti nucleari francesi. Nel 1971 fondo' il Man (Mouvement pour une Alternative Non-violente). Nel 1987 convinse i principali leader dell'opposizione democratica polacca che un potere totalitario, perfettamente armato per schiacciare ogni rivolta violenta, si trova largamente spiazzato nel far fronte alla resistenza nonviolenta di tutto un popolo che si sia liberato dalla paura. Tra le opere di Jean-Marie Muller: Strategia della nonviolenza, Marsilio, Venezia 1975; Il vangelo della nonviolenza, Lanterna, Genova 1977; Significato della nonviolenza, Movimento Nonviolento, Torino 1980; Momenti e metodi dell'azione nonviolenta, Movimento Nonviolento, Perugia 1981; Lessico della nonviolenza, Satyagraha, Torino 1992; Simone Weil. L'esigenza della nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1994; Desobeir a' Vichy, Presses Universitaires de Nancy, Nancy 1994; Vincere la guerra, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1999; Il principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004; Dictionnaire de la non-violence, Les Editions du Relie', Gordes 2005; Desarmer les dieux. Le christianisme et l'slam face a' la non-violence, Editions du Relie', Gordes 2009.
Enrico Peyretti (1935) e' uno dei maestri della cultura e dell'impegno di pace e di nonviolenza; e' stato presidente della Fuci tra il 1959 e il 1961; nel periodo post-conciliare ha animato a Torino alcune realta' ecclesiali di base; ha insegnato nei licei storia e filosofia; ha fondato con altri, nel 1971, e diretto fino al 2001, il mensile torinese "il foglio", che esce tuttora regolarmente; e' ricercatore per la pace nel Centro Studi "Domenico Sereno Regis" di Torino, sede dell'Ipri (Italian Peace Research Institute); e' stato membro del comitato scientifico del Centro Interatenei Studi per la Pace delle Universita' piemontesi, e dell'analogo comitato della rivista "Quaderni Satyagraha", edita a Pisa in collaborazione col Centro Interdipartimentale Studi per la Pace; e' membro del Movimento Nonviolento e del Movimento Internazionale della Riconciliazione; collabora a varie prestigiose riviste. Tra le opere di Enrico Peyretti: (a cura di), Al di la' del "non uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la guerra, Beppe Grande, Torino 1999; Dov'e' la vittoria?, Il segno dei Gabrielli, Negarine (Verona) 2005; Esperimenti con la verita'. Saggezza e politica di Gandhi, Pazzini, Villa Verucchio (Rimini) 2005; Il diritto di non uccidere. Schegge di speranza, Il Margine, Trento 2009; Dialoghi con Norberto Bobbio, Claudiana, Torino 2011; Il bene della pace. La via della nonviolenza, Cittadella, Assisi 2012; Elogio della gratitudine, Cittadella, Assisi 2015; e' disponibile nella rete telematica la sua fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia storica delle lotte nonarmate e nonviolente, di seguito riprodotta, che e' stata piu' volte riproposta anche su questo foglio; vari suoi interventi (articoli, indici, bibliografie) sono anche nei siti: www.cssr-pas.org, www.ilfoglio.info e alla pagina web http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti Un'ampia bibliografia (ormai da aggiornare) degli scritti di Enrico Peyretti e' in "Voci e volti della nonviolenza" n. 68]
La violenza e' anche un metodo d'azione che puo' sembrare necessario agli uomini di buona volonta' per difendere l'ordine stabilito quando questo garantisce la liberta', e per combattere il disordine stabilito quando questo mantiene l'oppressione. Ma se l'azione e' veramente necessaria, la violenza lo e' ugualmente? Certo, per detestabile che sia la violenza, non bisogna che il suo rifiuto conduca all'inazione che lascerebbe campo libero alla violenza dei malvagi. E' per questo che la violenza non merita soltanto una condanna, ma esige un'alternativa. E' dunque essenziale ricercare "un equivalente funzionale" della violenza, cioe' un metodo di azione nonviolenta che permetta di far fronte all'oppressione e all'aggressione. Fin quando la "fattibilita'" di un tale metodo non sara' stabilita, l'esigenza filosofica di nonviolenza si trovera' scartata dalla necessita' tecnica della violenza. Ma pure, fin quando l'esigenza filosofica di nonviolenza non sara' affermata chiaramente, si continuera' ad adattarsi alla violenza, e nessun altro metodo di azione sarà ricercato, il che costituisce una condizione sufficiente perché non ne sia trovato alcuno. L’esigenza filosofica incontra dunque il realismo politico per fondare la ricerca dei mezzi di una strategia dell'azione nonviolenta. Questi mezzi, pur esercitando sull'avversario una forza di reale costrizione, devono permettere di risolvere umanamente gli inevitabili conflitti umani senza ricorrere alla violenza omicida.
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La nonviolenza rompe l'equilibrio delle armi
L'estrema difficolta' che noi abbiamo a percepire la pertinenza del concetto di azione nonviolenta dipende principalmente da questo, che noi siamo abituati a concepire l'affrontamento tra due individui o tra due gruppi come un combattimento "ad armi uguali", dove i due avversari dispongono degli stessi mezzi o, almeno, di mezzi equivalenti. Ora, precisamente, quando uno dei due avversari rinuncia ad impiegare i mezzi violenti utilizzati dall'altro, la lotta appare totalmente ineguale e lo squilibrio di forze che sembra risultarne lascia intravedere la vittoria immediata e definitiva di colui che e' armato su colui che non lo e'. In altri termini, noi non immaginiamo un combattimento altrimenti che attraverso la messa in opera da parte dei due avversari di mezzi simmetrici. Ogni asimmetria, ogni dissimmetria delle armi e' immediatamente interpretata come uno svantaggio insuperabile, come una inferiorita' assoluta di colui che e' meno armato rispetto a colui che e' piu' armato.
Ora, il concetto di azione nonviolenta implica di per se' una dissimmetria tra i mezzi dell'aggressore e quelli dell'aggredito. Questa sola considerazione scompiglia i nostri riferimenti e ci disorienta. Colui che sceglie la nonviolenza ci sembra completamente disarmato di fronte a colui che non esita a scegliere la violenza. Ci sembra che egli abbia tutte le probabilita' di essere vinto. Sicuramente, come l'agnello che affronta il lupo, egli sara' messo a morte. E' vero che, se non si considera altro che gli strumenti tecnici di cui dispone l'uomo armato e quelli di cui non dispone l'uomo nonviolento, questo non e' in grado di resistere a quello. Dal punto di vista puramente teorico, la violenza puo' essere esercitata senza limiti dall'uomo armato sull'uomo nonviolento. Questa eventualita' non puo' essere esclusa, dal momento che e' tecnicamente possibile. Essa resta tuttavia astratta e non si realizzera' necessariamente. L'esperienza dimostra che essa, forse, non e' neppure la piu' probabile. Per apprezzare le probabilita' del passaggio all'atto dell'uomo armato, non bisogna prendere in considerazione soltanto i fattori tecnici, ma anche i fattori umani, psicologici, etici, sociali e politici. In realta', questi fattori sono suscettibili di imporre all'uomo armato dei limiti che egli non puo' superare senza maggiori inconvenienti per lui. Una violenza senza limiti sarebbe cieca in tutti i sensi dell'espressione. Essa costituirebbe una fuga in avanti che non corrisponderebbe ad alcun obiettivo razionale. E' per questo che, se essa e' tecnicamente possibile, non e' necessariamente la piu' probabile.
Ciascuno si arma per difendersi contro l'altro, ma ciascuno, ugualmente, considera l'armamento dell'altro come una minaccia. Cosi', l'armamento dell'uno necessita e giustifica l'armamento di tutti. Tuttavia, se ciascuno si arma solo per la sua difesa, da dove potra' mai venire l'offesa? In realta', il nostro armamento, che noi concepiamo come una protezione contro il nostro avversario, rischia fortemente di essere percepito da lui come una provocazione. D'altra parte, la ricerca continua dell'uguaglianza delle armi e dell'equilibrio delle forze provoca una corsa agli armamenti senza fine. Ne risulta che l'equilibrio e' ricercato a un livello sempre piu' elevato; percio' diventa sempre piu' instabile e rischia di rompersi sotto il solo effetto della legge di gravita'. Per se' stessa, la ricerca dell'uguaglianza delle armi favorisce lo scatenamento della violenza. La strategia dell'azione nonviolenta vuole mettere all'opera dei meccanismi di regolazione dei conflitti capaci di smorzarli e di farli evolvere verso una soluzione pacifica.
Chi rinuncia a possedere armi non esercita alcuna minaccia verso un avversario potenziale. Questo non ha dunque alcuna ragione di temere di essere aggredito. Egli si trova sprovvisto dell'argomento della legittima difesa, che serve sempre a giustificare l'uso delle armi. Presso un tale avversario, la risorsa che arma la volonta' di coloro che sono pronti a fare la guerra per rintuzzare ogni provocazione, e' esaurita. Dunque, il rischio che egli ricorra per primo alle armi per prevenire ogni aggressione, col pretesto che l'attacco e' la miglior difesa, e' notevolmente diminuito, se non ridotto a nulla. Se un conflitto sopravviene, e' allora possibile prendere il tempo di impegnarsi in negoziati che permettano di apprezzare correttamente l'oggetto della contesa, e di cercare quali potrebbero essere i termini di un accordo. Ma qui e' importante che colui che ha rinunciato alle armi della violenza dichiari pubblicamente la sua determinazione di resistere con tutti i mezzi dell'azione nonviolenta. Cio' gli deve permettere di tener testa al ricatto delle armi esercitato dall'avversario e di dissuaderlo dal decidere di passare all'atto. Certo, la probabilita' di un'aggressione non e' annullata – non ci si potrebbe accontentare di dire che l'avversario "non osera'" – ma quella probabilita', forse, non e' la piu' forte.
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"Chi vuole il fine vuole i mezzi"
"Il fine giustifica i mezzi" dice il proverbio, e questo vuol dire che giustifica tutti i mezzi. Certo, i mezzi sono giusti solo se, anzitutto, e' giusto il fine. Ma non basta che il fine sia giusto perche' i mezzi siano ugualmente giusti. Importa anche che i mezzi siano accordati al fine, coerenti con esso. Il mezzo della violenza, pur se impiegato per un fine giusto, contiene in se' stesso una parte irriducibile di ingiustizia che si ritrova nel fine. Se la scelta dei mezzi e' seconda rispetto al fine ricercato, non e' tuttavia secondaria; al contrario, e' primaria per raggiungere effettivamente il fine perseguito. Non si raccoglie, in definitiva, che cio' che si e' seminato, e chi semina violenza raccoglie morte.
Non soltanto i mezzi della violenza pervertono il fine, ma si sostituiscono ad esso. L'uomo che sceglie la violenza abbandona il fine che aveva prima invocato per andare a dar battaglia, e non se ne preoccupa piu', perche' il mezzo lo occupa interamente. Il mezzo diventa la prima delle sue preoccupazioni e il fine diventa la seconda, dunque l'ultima delle sue preoccupazioni. Egli certamente evochera' ancora il fine nella sua propaganda, ma non sara' che per giustificare il mezzo. Cosi', il mezzo non e' piu' al servizio del fine, ma e' il fine che e' messo al servizio del mezzo. "E' questo rovesciamento del rapporto fra il mezzo e il fine – scrive Simone Weil –, e' questa follia fondamentale che spiega tutto cio' che c'e' di insensato e sanguinoso lungo tutta la storia" (1).
Giustificare i mezzi con il fine e' fare della violenza un semplice mezzo tecnico, un utensile, uno strumento che deve essere giudicato secondo l'unico criterio dell'efficacia. La violenza non sarebbe ne' buona ne' cattiva, ma soltanto piu' o meno efficace. Essa esce cosi' dal campo dell'etica per entrare nel campo del pragmatismo. La violenza diventa allora eticamente neutra e soltanto la probabilita' della sua riuscita o del suo scacco permette di apprezzarne l'utilita'. La decisione che comanda l'azione non e' piu' una scelta ma soltanto un calcolo.
"Chi vuole il fine, vuole i mezzi", dice una altro proverbio il quale, purche' ben interpretato, esprime meglio del precedente la vera saggezza delle nazioni. Chi vuole la giustizia, vuole in effetti dei mezzi giusti. Chi vuole la pace vuole effettivamente dei mezzi pacifici. E' l'azione che e' importante, e non l'intenzione dell'attore. Ora, precisamente, il fine e' nell'ordine delle intenzioni, i mezzi sono nell'ordine dell'azione. Nulla e' piu' perverso di una morale dell'intenzione che giudica l'azione soltanto dalla qualita' della propria intenzione.
In definitiva, e' erroneo considerare l'azione dell'uomo come se non fosse che un mezzo in vista di un fine che sarebbe esteriore all'azione. L'azione umana ha gia' un proprio senso in se stessa e non solamente nel suo risultato. Questo non puo' essere ricercato "ad ogni costo", cioe' a qualunque prezzo. Bisogna, invece, guardare al prezzo, bisogna essere parsimoniosi. In altre parole, il primo risultato dell'azione e' l'azione stessa e, in cio', essa deve essere guardata come un fine in se'. L'azione politica non agisce con strumenti per fabbricare oggetti, ma per costruire il presente degli uomini; percio' il suo senso e' anzitutto nell'azione stessa , cioe' nei suoi mezzi e non nel suo fine. Fare il bene e' un bene in se', indipendentemente dal successo o dallo scacco dell'azione. Non che sia indifferente la riuscita o meno dell'azione – al contrario e' importante fare di tutto perche' essa riesca – ma l'efficacia non puo' essere il criterio determinante della decisione.
Nel momento dell'azione non siamo padroni che dei mezzi adoperati e non del fine ricercato o, piu' esattamente, non siamo padroni del fine se non mediante i mezzi. Il fine riguarda l'avvenire, solo i mezzi riguardano il presente. E' importante, dunque, che i mezzi siano "l'inizio del fine". Ma noi siamo sempre tentati di abbandonare il presente per fuggire e dirottarci nel futuro. "Non ci teniamo mai al tempo presente – notava Pascal -. Anticipiamo l'avvenire come troppo lento a venire, come per affrettare il suo corso. (...) Noi andiamo errando nei tempi che non sono nostri e non pensiamo affatto al solo tempo che ci appartiene. (...) Cerchiamo di sostenere il presente con l'avvenire, e pensiamo di disporre le cose che non sono in nostro potere, per un tempo dove non abbiamo alcuna sicurezza di arrivare. (...) Cosi' non viviamo mai, ma speriamo di vivere" (2). Cosi' l'uomo della violenza si fuorvia nel futuro: promette la giustizia, la pace, ma sempre per domani. Ogni giorno rinnova la stessa promessa e rinvia la giustizia e la pace all'indomani. E cosi' di seguito fino alla fine della storia. Ogni oggi e' pieno di violenze e di sofferenze, di distruzioni e di morti. Il presente dell'uomo non puo' essere considerato come un semplice mezzo per raggiungere un futuro che sarebbe il suo fine; egli e' per se stesso il proprio fine.
Cosi' l'uomo violento sacrifica il presente ad un avvenire incerto, riparandosi dietro un'ideologia che gli fa preferire l'astrazione di domani alla realta' di oggi. Di conseguenza, egli accetta di ricorrere a dei mezzi che contraddicono radicalmente il fine che pretende di perseguire, fine la cui realizzazione si trova incessantemente rinviata verso un futuro ipotetico. L'uomo della nonviolenza ha preso coscienza che e' essenzialmente del presente che deve rendere conto ed e' al presente che egli presta tutta la sua attenzione. Percio' egli ricerca dei mezzi che fin da oggi portino in se' stessi la realizzazione effettiva del fine perseguito. "La vera generosita' verso l'avvenire, scrive Albert Camus, consiste nel dare tutto al presente" (3).
Quando, nel 1978, Vaclav Havel vuole esprimere la filosofia politica che fonda la resistenza dei dissidenti contro l'ordine totalitario dell'impero sovietico, afferma che essa intende rifiutare ogni ricorso alla violenza per cambiare la societa'. Secondo lui, la ragione principale che giustifica questa scelta e' precisamente il fatto che i dissidenti vogliono conquistare fin da oggi la loro dignita' di uomini liberi, vivendo fin da ora secondo i valori che danno un senso alla loro esistenza, e che essi non intendono dar battaglia per fare venire dei domani ipotetici che permetterebbero loro, ma ben piu' tardi, di vivere secondo questi valori. "Questo rovesciamento - scrive Havel - di una visione politica astratta dell'avvenire a vantaggio dell'individuo concreto e della sua difesa attiva, "qui e ora", si accompagna dunque anche, in modo del tutto naturale, ad una avversione rinforzata verso ogni forma di violenza "in nome di un avvenire migliore"" (4).
Tuttavia, affinche' i mezzi messi in atto permettano di raggiungere il fine ricercato, non basta che siano nonviolenti, occorre che siano anche efficaci. Ma che cosa e' l'efficacia? E quale e' l'efficacia dell'efficacia? Quali sono i criteri che permettono di valutare e giudicare l'efficacia di una azione? La concezione di efficacia portata dall'ideologia dominante e' direttamente legata all'idea di violenza. Il paradigma dell'efficacia e' l'efficacia della violenza. Di modo che noi non immaginiamo un'efficacia che non sia violenta; attraverso il prisma deformante dell'ideologia della violenza, noi percepiamo nello stesso tempo l'efficacia della violenza e la violenza dell'efficacia. E, tuttavia, per se' stessa, la violenza, che e' un non-senso, e' un fattore di inefficacia. Se la finalita' dell'uomo e' dare un senso alla sua esistenza e alla sua storia, e' efficace l'azione che gli permette di realizzare questo senso. L'efficacia della nonviolenza e', anzitutto e in definitiva, dare senso all'azione umana. Ma rimane il fatto che la strategia dell'azione nonviolenta deve ricercare i mezzi tattici appropriati che permettano realmente di ridurre e, per quanto possibile, di eliminare le violenze dell'oppressione e dell'aggressione. L'azione nonviolenta deve ricercare la vittoria, anche se lo scacco, sempre possibile, non le fa perdere il suo senso.
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Il principio di non-cooperazione
Il piu' delle volte, nel corso di conflitti sociali e politici, la parte che possiede il potere, e che si trova dunque in posizione di forza, non accettera' l'intervento di alcun mediatore. Essa avanzera' il pretesto della legittimita' del suo potere – e' infatti nella natura stessa del potere, fosse anche il piu' detestabile, affermare la propria legittimita' – volendo mantenere i propri attributi e prerogative. In queste condizioni, la parte avversa, vittima dell'ingiustizia del potere, non avra' altra risorsa che agire direttamente per cambiare il rapporto di forza esistente allo scopo di far valere i suoi diritti.
Il principio essenziale della strategia nonviolenta e' la non-cooperazione. Esso poggia sull'analisi seguente: in una societa' cio' che costituisce la forza delle ingiustizie del disordine stabilito, e' la complicita', cioe' la cooperazione volontaria o passiva della maggioranza dei cittadini con le ideologie, le istituzioni, le strutture, i sistemi, i regimi e le leggi che generano e mantengono quelle ingiuste. La resistenza nonviolenta mira a rompere questa complicita' con l'organizzazione di azioni collettive di non-cooperazione.
Etienne de La Boetie (1530-1563) fu uno dei primi ad esprimere chiaramente l'efficacia potenziale di una politica di non-cooperazione nel suo Discorso sulla servitu' volontaria. Constatando che il potere di un tiranno poggia interamente sulla complicita' volontaria del popolo, egli chiede che gli si spieghi "come puo' accadere che tanti uomini, tante citta', tante nazioni talvolta sopportino tutto da un solo tiranno, il quale non ha altra potenza che quella che gli si da', non ha potere di nuocere loro se non fin quando essi vogliono sopportarlo, e non potrebbe far loro alcun male se essi non preferissero soffrire tutto da lui piuttosto che contraddirlo" (5).
In realta', e' il popolo stesso che offre al tiranno i mezzi di cui ha bisogno per opprimerlo. "Quello che il tiranno ha in piu' rispetto a voi – scrive La Boetie rivolgendosi a quelli che subiscono la tirannia – sono i mezzi che voi gli fornite per distruggervi. (...) Come fa ad avere tante mani per colpirvi, se non perche' le prende in prestito da voi? (...) Come puo' avere potere su di voi, se non con il vostro aiuto? (...) Che male potrebbe farvi, se voi non foste i ricettatori del ladro che vi deruba, i complici dell'omicida che vi uccide, e i traditori di voi stessi?" (6). Dunque, e' sufficiente che i soggetti al tiranno cessino di dargli la loro collaborazione perche' la tirannia crolli. "Voi potete liberarvene – afferma La Boetie – senza nemmeno tentare di farlo, ma soltanto provando a volerlo. Siate dunque risoluti a non servire piu' e sarete liberi. Io non voglio che vi scontriate con lui, ne' che lo smuoviate, ma soltanto non sostenetelo piu' e lo vedrete, come un grande colosso cui si toglie la base, cadere per il suo peso e andare in pezzi" (7). I tiranni sono capaci di tutte le crudelta' fin quando possono contare sulla cooperazione dei loro sottoposti, "ma se non si da' loro niente, se non li si obbedisce affatto, senza combatterli e senza colpirli, restano nudi e vinti: simili a quell'albero che, non ricevendo piu' linfa e alimento alla radice, ben presto non e' che rami secchi e morti" (8). L'americano Henry David Thoreau (1817-1862) espone lo stesso principio di non-cooperazione in un breve saggio intitolato La disobbedienza civile. Egli afferma che, per compiere il proprio dovere di cittadino, l'individuo non deve orientare il suo comportamento secondo gli obblighi della legge, ma secondo le esigenze della sua coscienza. "Io credo – afferma Thoreau - che noi dovremmo essere uomini prima e sudditi poi. Non e' affatto augurabile coltivare lo stesso rispetto per la legge e per il Bene" (9). Dunque, il dovere del cittadino non si riduce a votare per quello che egli stima giusto: "Anche votare per cio' che e' giusto – scrive Thoreau - e' non fare nulla per la giustizia. Si riduce ad esprimere fiaccamente il vostro desiderio che essa si affermi. Un saggio non abbandona la giustizia ai capricci del caso; neppure si augura che essa trionfi per il potere di una maggioranza. C'e' ben poca virtu' nell'azione delle masse umane" (10). L'uomo onesto non puo' aspettare che la maggioranza si sia anch'essa aggregata alla giustizia per agire conformemente alle sue esigenze: "Ogni uomo che ha ragione contro gli altri costituisce gia' una maggioranza di un voto" (11). Certo, per combattere un'ingiustizia del disordine stabilito, bisogna anzitutto mettere all'opera tutti i mezzi previsti dalla legge. Ma quando questi si rivelano inoperanti, allora diventa necessario passare sopra gli obblighi e i divieti della legge.
Il cittadino che intende prendersi le proprie responsabilita', non deve esitare a disobbedire allo Stato quando questo gli comanda di cooperare con l'ingiustizia. "Esistono delle leggi ingiuste: saremo d'accordo ad obbedirvi? - domanda Thoreau -. Tenteremo di emendarle obbedendo ad esse fino a che siamo arrivati ai nostri scopi, o le trasgrediremo subito?" (12). Ecco la sua risposta: "Se di natura sua la macchina governativa vuole fare di noi lo strumento dell'ingiustizia verso il nostro prossimo, allora io vi dico: infrangete la legge. Che la vostra vita sia un attrito per fermare la macchina. Bisogna che io vegli in ogni caso per non prestarmi al male che condanno" (13). Una minoranza di uomini giusti, se ha il coraggio di affrontare direttamente lo Stato e sfidarlo disobbedendo alle sue leggi ingiuste, puo' obbligarlo a cedere. "Una minoranza non puo' nulla fin quando si conforma alla maggioranza; allora non e' neppure una minoranza. Ma e' irresistibile quando fa ostruzionismo con tutto il suo peso. Se non c'e' alternativa a questo: tenere tutti i giusti in prigione oppure abbandonare la guerra e la schiavitu', lo Stato non esitera' a scegliere" (14). Jaures ci riferisce nella sua Storia socialista questa dichiarazione che Mirabeau fece all'Assemblea degli Stati di Provenza rivolgendosi a "tutti i gentiluomini e signorotti che volevano tenere sotto tutela la classe produttiva": "Guardatevi, non sdegnate questa gente che produce tutto, questo popolo che, per diventare formidabile, non avrebbe che da restare immobile". E Jaures nota che Mirabeau diede in questa occasione "la piu' potente e abbagliante formula di cio' che chiamiamo oggi sciopero generale" (15). Cosi' definito, lo sciopero generale di tutto un popolo, deciso a spezzare il giogo della tirannia e dell'oppressione che grava sulle sue spalle e a diventare padrone del proprio destino, e' l'illustrazione perfetta del principio di non-cooperazione.
Nel suo libro Riflessioni sulla violenza, Georges Sorel intende fare l'apologia della "violenza rivoluzionaria" e numerosi testi filosofici si riferiscono al pensiero di Sorel per comprendere meglio il fenomeno della violenza. Ma si tratta in realta' di un formidabile malinteso perche', affermando la necessita' della violenza per la liberazione del proletariato, Sorel non intende affatto incitare gli operai a lanciarsi in un confronto micidiale con gli eserciti della borghesia. Al contrario, lamenta vivamente che sia questa l'immagine evocata dalla parola rivoluzione, e rifiuta questa prospettiva, di cui afferma che appartiene al passato. Infatti scrive: "Per lungo tempo la Rivoluzione apparve come se fosse essenzialmente un seguito di guerre gloriose che un popolo, affamato di liberta' e trascinato dalle passioni piu' nobili, aveva sostenuto contro una coalizione di tutte le potenze dell'oppressione e dell'errore" (16). Ma, appoggiandosi soprattutto sui tragici avvenimenti della Comune del 1871, egli mostra che il proletariato ha dovuto distogliere la sua immaginazione e la sua ragione da ogni epopea guerriera. Egli rifiuta con forza "gli atti di barbarie che la superstizione dello Stato ha suggerito ai rivoluzionari del 1793" e vuole "sperare che una rivoluzione socialista perseguita da puri sindacalisti non sarebbe affatto sporcata dalle abominazioni che sporcarono le rivoluzioni borghesi" (17).
D'altra parte Sorel si erge vivamente contro i "socialisti parlamentari" che vorrebbero convincere gli operai che e' loro ormai possibile ottenere il riconoscimento dei loro diritti con il solo gioco della democrazia formale. Egli afferma che ormai e' soltanto nello sciopero generale che il proletariato deve porre il suo ideale e la sua speranza. Nel dire questo, non si preoccupa affatto di concepire l'organizzazione pratica di questa azione gigantesca: quello che gli importa e' mostrare che l'idea dello sciopero generale corrisponde alle aspirazioni profonde dell'anima operaia e che e' capace di mobilitare il proletariato nella lotta contro la borghesia. Per lui lo sciopero generale e' un mito e deve essere considerato come tale, ma egli pensa precisamente che solo la potenza di questo mito puo' creare il dinamismo necessario al movimento rivoluzionario. "Lo sciopero generale – egli scrive - e' il mito nel quale il socialismo si racchiude tutto intero, un'organizzazione di immagini capaci di evocare istintivamente tutti i sentimenti che corrispondono alle diverse manifestazioni della guerra intrapresa dal socialismo contro la societa' moderna. Gli scioperi hanno generato nel proletariato i sentimenti piu' nobili, i piu' profondi e i piu' mobilitanti che esso possieda. Lo sciopero generale li riunisce tutti in un quadro di insieme e, riunendoli, da' a ciascuno di essi il massimo di intensita'. (...) Noi otteniamo cosi' questa intuizione del socialismo che il linguaggio non poteva darci in maniera perfettamente chiara, e l'otteniamo in un insieme percepito istantaneamente" (18).
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La disobbedienza civile
Sarebbe vano, in nome di un ideale astratto di nonviolenza assoluta, concepire una societa' dove la giustizia e l'ordine possano essere assicurati dal libero concorso di ciascuno senza bisogno di ricorrere agli obblighi imposti dalla legge. La quale adempie una funzione sociale che non si puo' negare: obbligare i cittadini a un comportamento ragionevole, in modo che ne' l'arbitrio ne' la violenza possano avere libero corso. Non sarebbe dunque giusto considerare le costrizioni esercitate dalla legge soltanto come ostacoli alla liberta', perche' sono anche garanzie per la liberta'.
Il patto sociale mediante il quale i cittadini fanno un'alleanza per creare una societa' e' la costituzione. Questa, in linea di principio, e' fondata sul consenso di tutti i cittadini. La legge e' l'applicazione della costituzione. Percio' essa detta le condotte conformi al bene comune e da' al governo i mezzi per agire contro le manovre di quelli che non rispettano le clausole del patto sociale. Finche' la legge compie la sua funzione al servizio della giustizia, merita l'obbedienza dei cittadini. Ma quando copre, garantisce o genera essa stessa delle ingiustizie, merita la loro disobbedienza. L'obbedienza alla legge non libera i cittadini dalla loro responsabilita': quelli che si sottomettono a una legge ingiusta sono responsabili di tale ingiustizia. Poiche' cio' che fa l'ingiustizia non e' la legge ingiusta, ma l'obbedienza alla legge ingiusta. Secondo la dottrina ufficiale degli Stati che si dicono democratici, ogni cittadino, per il fatto che ha la possibilita' di votare in tutta liberta', deve sottomettersi alla volonta' universale. Ma non e' la legge che detta cio' che e' giusto, e' invece cio' che e' giusto che detta la legge. Cosi', quando c'e' conflitto fra la legge e la giustizia, bisogna scegliere la giustizia e disobbedire alla legge.
La democrazia esige cittadini responsabili e non cittadini disciplinati. "C'e' bisogno di molti indisciplinati – afferma Georges Bernanos – per fare un popolo libero" (19). La storia ci insegna che la democrazia e' molto piu' spesso minacciata dall'obbedienza cieca dei cittadini che dalla loro disobbedienza. Se l'obbedienza dei cittadini fa la forza dei regimi totalitari, la loro disobbedienza deve diventare il fondamento della resistenza a questi stessi regimi. "Abbiamo capito una grande verita' – scrive Vladimir Boukovski, a lungo prigioniero dei campi sovietici – che cioe' non e' il fucile, non sono i carri armati, non e' la bomba atomica che generano il potere, e il potere non poggia su queste cose. Il potere nasce dalla docilita' dell'uomo, dal fatto che accetta di obbedire. (...) Sappiamo dunque quale puo' essere la forza fulminante della non-sottomissione dell'uomo. E i potenti lo sanno anche loro" (20).
In quanto azione politica, la disobbedienza civile e' un'iniziativa collettiva. Non si tratta solo di definire il diritto all'obiezione di coscienza, fondato sull'obbligo della coscienza individuale di rifiutare obbedienza a una legge ingiusta; si tratta, al di la' di questo riconoscimento, di definire il diritto dei cittadini di disobbedire alla legge per affermare il loro potere e permettere alle proprie rivendicazioni di ottenere lo scopo. In tal caso, la disobbedienza civile non esprime la protesta morale dell'individuo di fronte alla legge ingiusta, ma la volonta' politica di una comunita' di cittadini che intendono esercitare il loro potere.
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Prendere la parola per dire la verita'
Poiche' la prima complicita' con la menzogna e l'ingiustizia e' il tacere, la prima azione di non-cooperazione sara' rompere tale silenzio e prendere pubblicamente la parola al fine di far valere le richieste della verita' e le rivendicazioni della giustizia. La presa di parola e' gia' una presa di potere. Con essa viene spezzato il monopolio della parola rivendicato dai poteri stabiliti. Dal momento in cui l'individuo prende la parola per contestare l'ordine stabilito e protestare contro la sua ingiustizia, egli puo' cedere alla sollecitazione della violenza. Precisamente per il fatto che la parola violenta trasgredisce deliberatamente le norme del discorso conformista, che pretende giustificare l'ingiustizia, essa puo' apparire all'uomo in rivolta come una contestazione radicale dell'ordine stabilito. Allora, per meglio esprimere il suo rifiuto, egli cerchera' di esprimersi in un linguaggio altro da quello dell'ordine che egli contesta. Rispettare le convenienze di linguaggio stabilite dalla societa', sarebbe ancora accettare di sottomettersi alle sue leggi. Il grido dell'uomo in rivolta sara' dunque una bestemmia: egli vorra' essere sacrilego. Esprimendo rumorosamente la sua collera, il suo disprezzo e il suo odio per la societa', avra' il senso di liberarsi dalle costrizioni che volevano obbligarlo a tacere.
Ma, in realta', c'e' una contraddizione radicale tra la parola e la violenza: l'una cessa al punto in cui comincia l'altra. Una parola che diviene violenza si nega come parola. E' dunque un errore decisivo passare sopra alle esigenze della ragione pur di denunciare le cattive ragioni alle quali i potenti hanno fatto ricorso per tentare di mascherare le ingiustizie dell'ordine stabilito. Solo il discorso ragionevole e' capace di portare alla luce i sofismi, le contraddizioni e le menzogne dei discorsi ufficiali mediante i quali e' intimato ai cittadini di approvare in silenzio.
La pacificazione della parola e' una delle esigenze della nonviolenza. Inoltre, la pedagogia della parola nonviolenta e' molto piu' operativa di quella del grido violento. L'autorita' di una parola viene dalla sua giustezza e non dalla sua violenza. Cosi' l'opinione pubblica offre una piu' grande ricettivita' ad un parola pacificata che ad una parola violenta che viene ad aggredirla. La parola ragionevole e l'azione nonviolenta si rinforzano l'una con l'altra, la parola sottolineando il significato dell'azione e viceversa. In modo che, al momento piu' intenso della lotta, la parola diviene azione e l'azione diventa parola.
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La sfida dei dissidenti
Il 12 febbraio 1974, qualche ora prima che gli agenti del KGB venissero a bussare alla sua porta per arrestarlo Alessandro Solgenitzin firma l'ultimo testo che scrivera' in terra russa prima della sua espulsione. In questo testo (21), l'autore di Arcipelago Gulag, si rivolge direttamente ai suoi concittadini per chiamarli a resistere contro l'oppressione che pesa su di essi. Piu' precisamente, egli chiede loro di rifiutare ogni cooperazione con le menzogne su cui poggia l'ordine totalitario della societa' sovietica. Egli fa la seguente analisi: cio' che fa la forza della violenza dello Stato totalitario e' che egli beneficia della collaborazione della maggioranza dei cittadini che si rassegnano e si sottomettono per paura di perdere certi vantaggi promessi a quelli che tacciono. "La violenza - egli scrive - non puo' nascondersi che dietro la menzogna. La menzogna non puo' vivere che mediante la violenza. La violenza non mette tutti i giorni la sua mano pesante su tutte le spalle: essa non esige da noi che l'obbedienza alla menzogna, la partecipazione quotidiana alla menzogna. E' la sola lealta' che esige da noi. La chiave piu' semplice e la piu' accessibile della nostra liberazione, che noi abbiamo trascurato finora, sta nella non-partecipazione personale alla menzogna". Per Solgenitzin, questo cammino di resistenza e' il solo che sia accessibile a tutti. Certo, non e' facile ed e' seminato di trabocchetti, ma "diventera' piu' facile e piu' breve per noi tutti se noi lo intraprenderemo con uno sforzo comune e in ranghi serrati. Se noi siamo delle migliaia, essi non potranno piu' niente contro di noi". Solgenitzin avverte i suoi concittadini che, se essi non hanno il coraggio civico di assumere il rischio di questa resistenza, diventeranno essi stessi gli artefici dell'oppressione che subiscono: "Se restiamo prigionieri della nostra paura, - scrive - dovremo smettere di lamentarci che ci soffocano, perche' siamo noi stessi che lo facciamo".
Ma, in definitiva, Solgenitzin resta convinto che lo spirito umano e' capace di arginare l'ondata selvaggia della violenza. "Non si deve accettare - egli afferma in un altro testo - l'idea che il corso mortifero della storia sia irreversibile e che lo Spirito sicuro di se stesso non possa agire sulla forza piu' potente del mondo. [...] Solo l'inflessibilita' dello spirito umano, fermamente eretto sulla linea mobile della violenza che si annuncia, e che dice, pronto al sacrificio e alla morte: "Non un passo di piu'!", solo questa inflessibilita' dello spirito e' la vera difesa della pace privata, della pace universale e di tutta l'umanita'" (22). Gia' liberando se stesso dalla tutela della menzogna e osando dire apertamente la verita', Solgenitzin ha aperto una breccia nell'accerchiamento totalitario che assediava il suo popolo. Condannandolo all'esilio, i dirigenti dell'Unione Sovietica confessavano la loro debolezza. "Perche' Solgenitzin e' stato espulso dalla sua patria?" si e' chiesto Vaclav Havel nel 1978. "Sicuramente - egli risponde - non in quanto detentore di un potere effettivo dal quale un qualunque rappresentante del regime avrebbe potuto sentirsi minacciato di perdere il suo posto. La sua espulsione rappresenta qualcosa d'altro: il tentativo disperato di ostruire questa terribile sorgente di verita', di cui nessuno poteva valutare in anticipo quali cambiamenti avrebbe potuto provocare nella coscienza della societa', ne' a quali scombussolamenti politici questi cambiamenti avrebbero potuto un giorno condurre" (23).
Vaclav Havel s'impegnera' lui stesso nella dissidenza rifiutando di cooperare con la menzogna. Secondo lui, il compito fondamentale di quelli che intendono opporsi alle ideologie rigide e alle burocrazie anonime consiste nel lasciarsi guidare dalla propria ragione e "nel servire in ogni circostanza la verita' in quanto esperienza esistenziale" (24). Lo Stato totalitario vuole costringere l'individuo a sottomettersi a un rituale sociale che lo obbliga a vivere nella menzogna. Certo, non e' obbligato a credere a tutte le mistificazioni che giustificano questo rituale, ma deve comportarsi come se ci credesse. "Questo lo obbliga gia' - nota Havel - a vivere nella menzogna. E' sufficiente che abbia accettato di vivere con essa e in essa. Poiche', con questo atto, egli gia' sostiene il sistema, lo compie, lo fa, egli e' il sistema" (25).
Non c'e' coesistenza possibile tra "la vita nella menzogna", e "la vita nella verita'". Ogni manifestazione di questa costituisce una reale minaccia per quella, perche' la spoglia della sua apparenza ingannevole che sola le permette di sussistere. E' per questo che la vita nella verita' non e' soltanto una "dimensione esistenziale" che permette all'individuo di recuperare la propria identita' e di riconciliarsi con la propria umanita'; "essa ha anche una dimensione politica" (26) che permette al cittadino di lottare efficacemente contro il sistema totalitario. La vita nella verita' costituisce una reale forza di contestazione, una vera forza di opposizione, un autentico contro-potere che affronta il potere stabilito. Certo, questo potere non permettera' che si arrivi impunemente a sfidarlo apertamente e usera' tutti i mezzi di cui dispone per far tacere i ribelli, ma non ha la possibilita' di riacciuffare una sola parola che si sia liberata dal suo dominio. Dal momento che e' pronunciata da un uomo libero, essa e' detta una volta per sempre e rimane attiva. Le persecuzioni che possono abbattersi sul suo autore non fanno che darle piu' forza. Essa non cessera' di risuonare nella coscienza di tutti di quelli che vivono nella menzogna. Quali che siano i compromessi che questi hanno accettato, una parola di verita' non puo' non raggiungere in qualche parte di loro il loro desiderio represso di vivere nella dignita'. E' per questo che "essi possono in ogni momento - almeno teoricamente - essere raggiunti dalla forza della verita'" (27). Benche' nessuno possa prevederlo prima, e' legittimo pensare che questa forza di opposizione acquistera' sufficiente ampiezza per esprimersi attraverso un movimento politico che arrivi a rivaleggiare direttamente col potere effettivo. E' cosi' che Vaclav Havel, dopo lunghi anni di vagabondaggio e di erramenti nella dissidenza, diventera' presidente della Repubblica cecoslovacca.
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La forza dell'umorismo
Tra le ragioni per le quali i dissidenti dell'Europa centrale hanno potuto far fronte con onore a molti avvenimenti dolorosi, Vaclav Havel ha sottolineato l'importanza del loro senso dell'umorismo. "Potrebbe essere - egli dice - che noi non siamo in grado di assumere i nostri compiti storici e di fare il sacrificio che la nostra situazione ci chiede, se non esistesse questa presa di distanza riguardo alla realta' e a noi stessi" (28). E parla dello stupore degli stranieri che non riescono a comprendere come essi siano capaci di sopportare tali prove e nello stesso tempo non smettano di riderne. Per lui, questo senso dell'umorismo era precisamente cio' che permetteva loro di affrontare con serenita' la gravita' della situazione: "Se - egli afferma - non si deve ridursi nella propria serieta' al punto di diventare ridicoli, bisogna avere il senso dell'umorismo e dell'autoironia. Quando li si perde, la nostra attivita' perde anche, paradossalmente, di serieta'" (29).
Questi pensieri di Vaclav Havel non sono affatto casuali ed e' importante riflettere sul significato dell'umorismo domandandosi se non esista per caso una corrispondenza per cui esso si accorderebbe con la nonviolenza. La parola umorismo e' ripresa dall'inglese humour, che proviene dal latino humor, umore, che significa un elemento liquido. Umore ha anzitutto designato un liquido organico del corpo umano, poi il carattere, perche' un tempo si faceva dipendere questo dalla composizione degli "umori" del corpo umano (i quattro umori principali sono il sangue, la bile, l'atrabile e la flemma). Umore ebbe allora due usi antinomici, talvolta significando la disposizione allo scherzo (il buon umore), talvolta la disposizione alla irritazione (il cattivo umore). L'inglese humour riprese il primo di questi significati ed e' arrivato ad integrarsi come tale nella lingua francese [e cosi' in quella italiana, nella quale si dice la stessa cosa dicendo anche che uno "ha spirito" - n.d.tr.].
Questo ritorno indietro per rintracciare la formazione della parola umorismo ci permette di meglio scoprirne il significato. Colui che prende un atteggiamento di umorismo di fronte agli avvenimenti e' colui che si trova in una situazione in cui tutto dovrebbe concorrere a disporlo all'irritazione e che, contro ogni attesa, rovescia il corso normale delle cose e decide di disporsi spontaneamente allo scherzo. E' colui che, viste le circostanze, dovrebbe essere di cattivo umore e che decide invece di essere di buon umore. E' colui che, di fronte alle difficolta' della sua vita, e' determinato a non essere di umor nero, a non farsi del sangue cattivo ne' della bile, a rifiutare ogni atteggiamento atrabiliare, ma, al contrario, a conservare il sangue freddo, a non perdere la sua flemma e a fare buon viso a cattiva sorte.
Secondo Freud, che ci ha lasciato su questo argomento delle riflessioni penetranti, il piacere dell'umorismo proviene dalla "economia di investimento di sentimento" (30), da una "economia di investimento affettivo" (31). In generale - egli precisa - noi diamo prova di umorismo "a spese dell'irritazione, invece di irritarci" (32). Colui che ha spirito, quando si trova in una situazione in cui normalmente ci si puo' aspettare che si mostri profondamente colpito, "che vada in collera, che si lamenti, che manifesti dolore, che si spaventi, forse anche che si disperi", invece, "non manifesta nessuna di queste emozioni, ma fa uno battuta" (33).
Freud decide di considerare l'umorismo "alla luce di un progetto di difesa" che ha lo scopo di "sfuggire alla costrizione della sofferenza" (34), di "prevenire la nascita del dispiacere" (35) e lo concepisce come "la piu' alta di queste realizzazioni di difesa" (36). Cio' che vuole esprimere colui che ricorre all'umorismo per far fronte a una situazione che comporta per lui un pericolo reale, potrebbe tradursi cosi': "Io sono troppo grande, o grandioso, perche' questa cosa mi tocchi in maniera penosa" (37). Cosi', con l'umorismo, l'io intende riaffermare la sua invincibilita', la sua invulnerabilita' di fronte ai pericoli esterni: "L'io si rifiuta di lasciarsi offendere, di lasciarsi costringere alla sofferenza dalle occasioni che si incontrano nella realta'; egli sostiene fermamente che i traumi venuti dal mondo esterno non possono raggiungerlo; di piu', egli mostra che quelli non sono per lui che occasione per un guadagno di piacere" (38). Cosi', l'umorismo e' un metodo di resistenza contro le avversita': "L'umorismo non e' rassegnato, esso sfida" (39).
Permettendo all'individuo di difendersi contro l'irritazione, la paura e la sofferenza, l'umorismo gli offre la possibilita' di proteggersi contro l'odio e la violenza. D'altra parte, l'umorismo possiede in se' stesso una formidabile forza di contagio, un immenso potere di convinzione. Lo spettatore-uditore che guarda e comprende l'umorista si trova disposto a seguirlo nella via che egli ha preso e risponde volentieri al suo invito di venire a condividere il suo piacere umoristico.
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"Mettere insieme la giustizia e la forza"
Si conoscono le formule incisive di Pascal sulla giustizia e la forza (40): "Bisogna mettere insieme la giustizia e la forza, e percio' fare che cio' che e' giusto sia forte, o che cio' che e' forte sia giusto" (298). Queste formule definiscono perfettamente l'ambizione della nonviolenza: si tratta in effetti di "mettere insieme la giustizia e la forza". E poiche' l'azione violenta contiene in se' una parte irriducibile di ingiustizia, solo la forza dell'azione nonviolenta puo' essere giusta. Ma e' chiaro che Pascal non pensa affatto alla nonviolenza scrivendo i suoi Pensieri.
Qual e' esattamente il suo pensiero? Egli constata anzitutto che "la giustizia senza la forza e' impotente", che "la giustizia senza forza e' contraddetta, perche' ci sono sempre dei malvagi" (298). Cosi', egli rifiuta con ragione l'idealismo che pretende che esista una "forza della giustizia". Pascal fa una seconda constatazione: "La forza senza la giustizia e' tirannica", "la forza senza la giustizia e' accusata" (298). Quando Pascal usa qui la parola "forza", e' in realta' di "violenza" che egli vuole parlare: e' in effetti la violenza che e' accusata di essere tirannica quando si esercita a scapito della giustizia. La forza nonviolenta, quanto ad essa, non ha in nessun modo i mezzi della tirannia. Ma, se dunque si tratta di violenza, come fare che cio' che e' violento sia realmente giusto? Piu' esattamente, e' possibile fare che cio' che e' violento sia realmente giusto? Pascal ha chiara coscienza della difficolta'. Del resto, egli non pensa che si sia risolta la difficolta', ma che la si abbia soltanto aggirata: "Non si e' potuto – egli scrive – dare la forza alla giustizia, perche' la forza ha contraddetto la giustizia e ha detto che era lei che era giusta. E cosi', non potendo fare che cio' che e' giusto sia forte, si e' fatto che cio' che e' forte sia giusto" (298). Pascal riconosce cosi' che la violenza non puo' dare la forza alla giustizia perche' la violenza contraddice la giustizia. Non e' dunque possibile mettere insieme la giustizia e la violenza, a meno che non si pretenda, ma contro la verita', che la violenza e' giusta. E' precisamente quello che e' stato fatto: si e' giustificata la violenza. Ed e' cosi' che la "forza", cioe' la violenza, e' "la regina del mondo" (303) o, piu' precisamente, che essa ne e' "il tiranno" (311).
Ma Pascal non si inganna: la giustizia imposta dalla violenza non e' la vera giustizia. La giustizia che regna nella societa', e' soltanto quella che e' definita dal "costume", dalla "moda": "Come la moda fa il consenso, cosi' essa fa la giustizia" (309). Sono dunque "i costumi" che impongono agli uomini i criteri e le norme della giustizia, ed e' per questo che essa e' cosi' mutevole secondo il tempo e il luogo. In realta', noi non conosciamo la vera giustizia perche', se la conoscessimo, "non prenderemmo per regola di giustizia il seguire i costumi del paese" (297). Cosi' l'ordine stabilito tiene il posto della giustizia: "La giustizia e' cio' che e' stabilito: e cosi' tutte le nostre leggi stabilite saranno necessariamente ritenute giuste senza essere esaminate, poiche' sono stabilite" (312). Se gli uomini obbediscono alle leggi, e' perche' vi sono forzati dalla violenza di cui dispongono i principi che li governano. Cosi', il diritto che regna nella societa' e' "il diritto della spada", "perche' la spada da' un vero diritto" (878). Pascal riconosce cosi' la necessita' di fondare la giustizia sulla violenza della spada, affinche' gli uomini vedano che la giustizia e la violenza stanno proprio insieme e, nel sottomettersi alla violenza, credano di sottomettersi alla giustizia. "Altrimenti – egli fa notare – si vedrebbe la violenza da una parte e la giustizia dall'altra" (878). Pascal stima allora che gli uomini debbano sottomettersi al diritto della spada, perche' se no sarebbe la guerra civile che e' "il piu' grande dei mali" (320), e perche' bisogna mantenere la pace che e' "il bene supremo" (219). Ma egli sa benissimo che l'ordine stabilito non corrisponde affatto alle esigenze della vera giustizia. Infatti, egli non ignora che in "una giustizia vera", non c'e' "nessuna violenza" (878).
Certo, noi non potremmo condividere le scelte politiche di Pascal riguardo all'organizzazione della societa'. In definitiva, col pretesto di preferire l'ordine ingiusto al disordine, egli si rassegna all'ingiustizia e, invocando la corruzione della natura umana, predica l'obbedienza del popolo a un potere di cui la violenza e la menzogna sono le principali fondamenta. Cio' che ci interessa qui e' l'analisi dei fatti presentata da Pascal, perche' ci sembra di una grande lucidita'. Spesso, in effetti, tutto avviene proprio come egli dice, anche se questo va male: la violenza fonda l'ordine stabilito e, in effetti, e' ingannare il popolo fargli credere che questo ordine corrisponda alle esigenze della giustizia.
Le riflessioni di Pascal ci aiutano cosi' a comprendere meglio che solo il metodo dell'azione nonviolenta permette di mettere insieme la giustizia e la forza senza contraddire la giustizia, che solo la nonviolenza puo' dare la forza alla giustizia. Optare per la nonviolenza, e' rifiutare di fare che cio' che e' violento sia giusto e fare invece che cio' che e' giusto sia forte.
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Note
1. Simone Weil, Oppression et liberte', Paris, Gallimard, 1955, p. 95; tra. it. Oppressione e liberta', Comunita', Milano 1956.
2. Pascal, Pensieri, 172 (numerazione dell'edizione Brunschvig).
3. Albert Camus, L'homme revolte', Paris, Gallimard, 1951, coll. Idees, p. 365; tr. it. L'uomo in rivolta, in Opere, Bompiani, Milano 1988.
4. Vaclav Havel, Essais politiques, Paris, Calmann-Levy, 1989, p. 127. In italiano si trova il libro di Havel Il potere dei senza potere, Garzanti, Milano 1991 (n.d.tr.).
5. Etienne de La Boetie, Discours de la servitude volontaire, Paris, Payot, 1978, p. 174-175, tr. it. Discorso sulla servitu' volontaria, a c. di Luigi Geninazzi, Jaka Book, Milano 1979, p. 64.
6. Idem ibidem, p. 181-182; tr. it. cit., p. 72.
7. Idem ibidem, p. 183; tr. it. cit., p. 73.
8. Idem ibidem, p. 180, tr. it. cit., p. 70.
9. Henry David Thoreau, Le desobeissance civile, Paris, J.-J. Pauvert, 1967, p. 57; tr. it. Walden, ovvero la vita nei boschi e il saggio La disobbedienza civile, a c. di Marisa Bulgheroni, Arnoldo Mondadori editore, Milano 1970.
10. Ibidem, p. 67.
11. Iibidem, p. 76.
12. Ibidem, p. 72.
13. Ibidem, p. 74.
14. Ibidem, p. 80.
15. Jean Jaures, Histoire socialiste de la Revolution française, 1, La Constituante, Paris, Editions Sociales, 1969, p. 136.
16. Georges Sorel, Reflexions sur la violence, Paris, Editions Marcel Riviere et Cie, 1972, p. 112; tr. it. Riflessioni sulla violenza, in Scritti politici, Utet, Torino 1963.
17. Idem ibidem, p. 138-139.
18. Idem ibidem, p. 153-154.
19. Geroges Bernanos, Les enfants humilies, Paris, Gallimard, 1949, p. 77.
20. Vladimir Boukovski, Et le vent reprend ses tours, Paris, Robert Laffont, 1978, p. 35.
21. Questo testo e' stato pubblicato nella rivista Combat non-violent, n. 47, 20 maggio 1974.
22. Alexandre Soljenitsyne, Lettre aux dirigeants sovietiques, Paris, Le Seuil, 1974, p. 110.
23. Vaclav Havel, Essais politiques, op. cit., p. 91.
24. Ibidem, p. 243.
25. Ibidem, p. 77.
26. Ibidem, p. 88.
27. Ibidem, p. 90.
28. Vaclav Havel, Interrogatoire a' distance, Paris, Editions de l'Aube, 1988, p. 101.
29. Ibidem, p. 102.
30. Sigmund Freud, Le mot d'esprit et sa relation a' l'inconscient, Paris, Gallimard, 1993, Folio Essais, p. 411; tr. it. Il motto di spirito e la le sue relazioni con l'inconscio, in Opere, a cura di C. Musatti, Boringhieri, Torino 1966 segg.
31. Sigmund Freud, L'inquietante etrangete' et autres essais, Paris, Gallimard, 1993, Folio Essais, p. 321; tr. it.: Il perturbante in Opere, vol. IX, a cura di C. Musatti, Boringhieri, Torino (1977), pp. 81 ss.
32. Sigmund Freud, Le mot d'esprit et sa relation a' l'inconscient, op. cit., p. 404.
33. Sigmund Freud, L'inquietante etrangete' et autres essais, op. cit., p. 322.
34. Idem ibidem, p. 324.
35. Sigmund Freud, Le mot d'esprit et sa relation a' l'inconscient, op. cit., p. 407.
36. Ibidem.
37. Ibidem, p. 408.
38. Sigmund Freud, L'inquietante etrangete' et autres essais, op. cit., p. 323.
39. Ibidem, p. 324.
40. Indichiamo tra parentesi il numero dei Pensieri secondo la numerazione dell'edizione Brunschvicg.
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LA BIBLIOTECA DI ZOROBABELE
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Segnalazioni librarie e letture nonviolente
a cura del "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo
Supplemento a "La nonviolenza e' in cammino" (anno XXII)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com
Numero 88 del 21 maggio 2021
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