[Nonviolenza] La biblioteca di Zorobabele. 81



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LA BIBLIOTECA DI ZOROBABELE
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Segnalazioni librarie e letture nonviolente
a cura del "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo
Supplemento a "La nonviolenza e' in cammino" (anno XXII)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com
Numero 81 del 14 maggio 2021

In questo numero:
1. Agnes Heller: Cosmopolitismo: filosofia, rifugio, destino
2. Paolo Favilli: Rodolfo Mondolfo

1. MAESTRE, AGNES HELLER: COSMOPOLITISMO: FILOSOFIA, RIFUGIO, DESTINO
[Dal sito di "Gariwo - La foresta dei Giusti" (it.gariwo.net) riprendiamo la seguente lezione magistrale di Agnes Heller, li' introdotta dalla seguente nota: "Pubblichiamo di seguito la lezione magistrale tenuta dalla filosofa ungherese Agnes Heller all'Universita' Statale di Milano il 24 ottobre 2018, all'interno di un progetto curato da Laura Boella, docente di Filosofia morale all'Universita' degli Studi di Milano". Traduzione di Laura Boella]

Dove siamo a casa? Nel luogo in cui siamo nati? O dove stiamo diventando adulti? O dove abbiamo trovato rifugio? O forse ovunque o da nessuna parte? Quando diciamo "casa", a che cosa ci riferiamo?
A un villaggio o a una citta', a una casa, a una strada, alla nostra prima scuola, ai nostri primi amici, a una lingua, a qualche abitudine? A luoghi e a persone che ci sono familiari, dove capiamo gli accenni senza spiegazioni e note a pie' di pagina? Il "calore" del cuore, e' questo il significato di casa? Memorie, belle e brutte?
Cosa intendo quando dico: Sto andando a casa? Intendo la mia strada, la mia casa o il ritorno al mio paese, alla citta' in cui sono nata, un luogo o memorie condivise? Cosa significa "essere esiliati"? Lasciare la terra natale, la mia "matrigna", fuggire la carestia, la persecuzione, la discriminazione come molti migranti che negli ultimi 200 anni hanno cercato la fortuna in America? O essere puniti con l'esilio, banditi dalla citta' amata, abbandonare la speranza del ritorno, come Ovidio, quando fu esiliato da Roma? O essere esiliati da una citta', da una patria amata che non esiste piu', come gli Ebrei che furono esiliati dalla citta' santa di Gerusalemme per quasi duemila anni, restando spesso alieni, stranieri nella loro terra natale? La nostra casa e' la terra in cui i nostri avi sono vissuti e che conosciamo a malapena, il luogo delle nostre origini?
La maggioranza delle persone hanno conservato questo sentimento originario, persino "arcaico", di "casa" anche nell'epoca della globalizzazione. Si puo' cambiare habitat molte volte, ma il luogo dell'"origine", delle prime esperienze, del primo amore, non ci lascia andare. Il primo dolore e' altrettanto importante del primo piacere, la prima paura altrettanto importante della prima speranza.
Tutti i bambini nascono stranieri e ci vuole tempo e sforzo per familiarizzarsi con le norme e le regole dell'ambiente, con le consuetudini e la lingua quanto basti per capire ed essere capiti, anche mai interamente. Questa prima esperienza viene ripetuta ogni volta che si cambia habitat. La ragazza di campagna che arriva per la prima volta in una grande citta' si sente a disagio, non sa come comportarsi, come parlare. Lo stesso vale per chiunque lasci il paese natale per un altro, qualunque sia la ragione. Egli e' uno straniero per gli altri e per se stesso, impegnato nel duro sforzo di comprendere gli usi linguistici, le azioni, le abitudini, gli altri abitanti di un mondo che sfida.
Per le persone che non condividono la vita quotidiana con la popolazione media di un luogo, di un paese o di una citta', ma vivono in comunita' o condividono un mondo spirituale con pochi altri, il luogo, l'habitat della loro dimora diventa sempre meno importante. Questa fu l'esperienza di alcuni nell'epoca dell'Ellenismo, quando alcuni costumi greci furono condivisi dalle classi superiori. Persone nate in luoghi diversi, figli di gente molto diversa, si sentivano "a casa" molto lontano gli uni dagli altri, parlavano tutti greco e quindi si sentivano familiari, visitavano i templi degli stessi dei, frequentavano gli stessi anfiteatri e i bagni comuni dei maschi, come tutti nell'impero ellenistico e romano. Alcuni di essi appartenevano a specifiche scuole filosofiche, tra cui quelle dei filosofi stoici. Essi avevano in comune la saggezza fondata sulla convinzione che la cosa migliore sia vivere in accordo con la natura. La Natura, il Cosmo sono gli stessi ovunque si metta piede. Percio' essi potevano vivere allo stesso modo in accordo con la natura ovunque. Essi non erano a casa in una citta' o in un'altra, ma nella natura, nel Cosmo. Si chiamavano infatti cittadini del Cosmo: cosmopoliti.
Il cosmopolitismo moderno affonda le radici in una visione del mondo completamente diversa, nell'universalismo filosofico, una visione che non venne neppure in mente agli antichi cosmopoliti.
Gli Illuministi non si pensavano come cittadini del Cosmo, bensi' del "genere umano". Non volevano condividere una cultura (bagni, templi, anfiteatri, lingua), ma un'"essenza", la "natura umana". La loro identita' poggiava sull'essere "esseri umani". Essere un essere umano era considerata una qualita' superiore in nobilta' rispetto a ogni cultura, costume, lingua e posto occupato nel mondo. Sarastro nel Flauto magico  dice di Tamino: "egli e' piu' di un principe, e' un Uomo". In accordo con l'Inno alla gioia, scritto da Schiller e messo in musica nella Nona sinfonia di Beethoven, dovremmo abbracciare milioni di persone, baciare il mondo intero.
La maggior parte delle Costituzioni elaborate nell'epoca dell'Illuminismo, a cominciare dalla Dichiarazione d'Indipendenza americana, affermavano che tutti gli uomini sono nati ugualmente liberi e che tutti sono dotati di ragione e coscienza. Percio' tutti hanno un eguale diritto alla vita e alla liberta' e a perseguire la felicita' nel modo a loro peculiare.
L'universalismo si fondava sul concetto di "legge naturale" e di "diritto naturale", su due finzioni. L'idea era che si dovesse accettare tali finzioni come verita' e metterle all'opera: esse sono vere solo per coloro che fanno assegnamento su di esse. Fu peraltro immediatamente evidente che, come disse Rousseau, tutti gli uomini nascono liberi, ma ovunque sono in catene.
L'idea del "genere umano universale", ossia l'idea di istituzionalizzare la nozione universale di "genere umano", corrisponde all'idea di un Commonwealth in cui il testo delle dichiarazioni (tutti gli uomini nascono liberi) e' lex lata (legge promulgata), ossia e' la legge di un paese, forse persino la legge di tutti i paesi. La prima (lex lata di un paese) e' l'idea repubblicana, la seconda (lex lata di tutti i paesi) e' l'idea cosmopolitica. I cosmopoliti sono percio' i cittadini di una citta' non ancora esistente, immaginaria. Essi si comportano come se la citta' universalmente umana esistesse, si pensano come i cittadini della citta' immaginaria. Essi sono i cosiddetti "Weltbuerger" (cittadini del mondo).
Nella filosofia di Kant il concetto universale di "genere umano" e' duplice. In primo luogo, corrisponde al "genere umano in noi", alla liberta' trascendentale da cui deriva l'imperativo categorico e come tale e' eterna (atemporale). In secondo luogo, si riferisce al genere umano empirico, ossia alla natura umana. Siamo autorizzati a presupporre che la natura umana si sviluppi verso la liberta', per il fine nascosto di un Commonwealth cosmopolitico, il sovra-Stato federale di tutte le repubbliche. Kant ricostruisce pertanto la storia da un "punto di vista cosmopolitico".
L'affermazione "sono un essere umano" e "sono un cittadino di un universo cosmopolitico" sono filosoficamente collegate, anche in formulazioni diverse. Solo in un contesto politico e sociale esse possono convergere e dichiarare la stessa cosa: essere un essere umano e' la suprema identita', rispetto alla quale tutte le altre identita' sono secondarie, come il particolare rispetto all'universale.
Dapprima, nel '700, prima della nascita del nazionalismo europeo, l'affermazione "sono un essere umano" significava che lo status e posizione sociale di una persona, paragonata all'"essere un essere umano", aveva un'importanza secondaria, o anche nulla. Uno nasce accidentalmente principe o schiavo, aristocratico o borghese, ma tutti apparteniamo al genere umano, siamo innanzitutto esseri umani. Si nasce accidentalmente in una famiglia cattolica o protestante, ma essenzialmente si e' esseri umani. Siamo tutti esseri umani.
La negazione delle determinazioni particolaristiche (religione, status sociale, famiglia) comparve praticamente prima dell'Illuminismo, come mostra la storia di Romeo e Giulietta che diedero la priorita' alla natura contro le determinazioni sociali. Eppure essi e altri implicati in analoghi conflitti non fecero mai riferimento al "genere umano", ma al loro corpo, alla loro personalita', soprattutto al loro amore. La loro casa era il loro amore. Nemmeno Spinoza si identificava con il "genere umano", bensi' con i liberi pensatori, con la comunita' dei filosofi, studiosi come lui. Essere un "umanista" significo' all'inizio essere istruiti nel pensiero e nella poesia latina antica, leggere Cicerone e avere di conseguenza una sorta di distanza nei confronti delle consuetudini, dei doveri e degli obblighi dell'ambiente che veniva sentito come "innaturale". L'uguaglianza di tutti i membri della specie homo sapiens non era un'opzione.
Il concetto di nazione (la nation) nacque nella Rivoluzione francese insieme all'istituzionalizzazione dell'universalismo nella Costituzione francese. Il posto delle determinazioni particolaristiche (padrone/schiavo, aristocratico/borghese, cattolico/luterano/calvinista), inizialmente negate dall'affermazione universale "tutti gli uomini nascono liberi", fu lentamente rimpiazzato, cioe' occupato, da una nuova determinazione particolaristica, quella della nazione.
L'ideologia della nazione, il nazionalismo divenne pressoche' dominante in Europa all'inizio dell'800 e ottenne la sua definitiva vittoria nella Prima guerra mondiale. Da questo momento, almeno in Europa, la risposta alla domanda: "che cosa sei innnanzitutto", non fu piu' "sono calvinista", "sono ebreo", e neppure "sono un essere umano", bensi' "sono francese, tedesco, ungherese ecc.".
Il contenuto sociale del cosmopolitismo cambio' radicalmente con l'avvento dei nazionalismi, benche' la sua funzione sia rimasta la stessa, cioe' la negazione di un'identita' particolaristica. Nel '700 cio' aveva significato la negazione del primato di un'identita' sociale particolaristica (non e' un principe, ma qualcosa di piu': un uomo), sebbene nessuno fosse costretto a sceglierne solo una tra di esse. Si poteva dire: Sono nato nobile, apprezzo l'eredita' della mia famiglia, ma sono innanzitutto un essere umano come tutti altri. Oppure sono nato scozzese e questo e' importante per me, ma come filosofo sono interessato a questioni universali, non alla Scozia.
A partire dall'800 e sempre piu' velocemente le persone furono tuttavia costrette a scegliere l'identita' nazionale come superiore a tutte le altre, soprattutto in Europa. Gli individui furono messi sotto pressione allo scopo di scegliere la loro identita' nazionale come identita' esclusiva e comprendente tutte le altre identita', in particolare dopo l'unificazione dello Stato italiano e di quello tedesco.
Prima gli Ebrei europei dovevano essere battezzati per venire accettati, sia pure a certe condizioni, dalla nazione ospite. Adesso essi devono identificarsi con le nazioni ospiti. A partire dall'800 gli ebrei non poterono piu' integrarsi in una nazione senza assimilarsi. L'assimilazione, ossia l'accettazione del nazionalismo della nazione ospite, divenne l'unica via per l'integrazione. Per quanto riguarda l'Ungheria l'assimilazione fu un obbligo non solo per gli Ebrei, ma anche per i Tedeschi e le altre nazionalita' che vivevano sotto la corona austroungarica. Si trattava di un aut-aut. O sei ungherese o sei ebreo, o sei ungherese o sei tedesco, non puoi essere entrambi.
Il cosmopolitismo offri' una via di fuga. Se uno non poteva o non voleva rispondere alla domanda scegliendo questa piuttosto che quella identita' nazionale, c'era un'altra possibilita': ne' questo ne' quello oppure entrambi, ma cio' non e' essenziale per me: io sono solo un essere umano. Sono nato In Germania, parlo tedesco... Sono nato ebreo accidentalmente e austriaco, ma prima di tutto e soprattutto sono nato come essere umano. Scelgo me stesso come essere umano, questo e' cio' essenzialmente mi definisce, in quanto la mia essenza (essere umano) non e' accidentale come lo e' l'essere nato ebreo e austriaco. Posso rifiutare tutte le mie determinazioni particolari, che rappresentano cio' che non sono. Io sono universale. Voi Austriaci siete quindi esseri umani come me, poiche' la nostra essenza e' la stessa. Percio' non ho bisogno di "assimilarmi".
Devo aggiungere che nelle societa' di classe l'assimilazione a una nazione significava sempre assimilazione a una classe particolare. Gli Ebrei ungheresi e tedeschi che decisero di assimilarsi lo fecero assimilandosi alla classe borghese o ai cosiddetti "latini" (lateiners), il ceto degli intellettuali di professione. La "classe operaia" inglese si assimilo' alla borghesia. Invece del cockney cercarono di parlare l'inglese del Re.
Nell'epoca della nascita delle nazioni e del nazionalismo, ancora prima della Prima guerra mondiale, il cosmopolitismo divento' una delle idee dominanti di una parte della borghesia europea, i cui interessi nel commercio con ogni possibile partner era molto piu' importante dell'interesse nazionale. Il pensiero cosmopolitico si diffuse anche tra gli intellettuali liberamente fluttuanti (vedi Karl Mannheim), perlopiu' "lateiners" provenienti dalle citta', che credevano nella "letteratura mondiale", nell'universalita' della cultua europea. Aderire al movimento dell'esperanto fu una delle preferenze cosmopolitiche.
Altri trovarono un'altra via per sfuggire all'assimilazione a una nazione: l'adesione all'internazionalismo. L'internazionalismo fu una versione proletaria del cosmopolitismo almeno tra i lavoratori manuali socialisti, per quanto fu favorita anche dagli intellettuali. Gli internazionalisti non potevano, ne' dovevano, assimilarsi a una nazione. Il loro compito era assimilarsi al proletariato mondiale, imparando da Marx che il proletariato non ha patria. Una terza via per sfuggire all'assimilazione a una nazione fu l'emigrazione verso un mondo nuovo, prima di tutto l'America, uno Stato dove il "popolo" non era diventato una "nazione".
La Prima guerra mondiale, il peccato originale dell'Europa, fu la vittoria dello Stato nazione contro il cosmopolitismo borghese e l'internazionalismo proletario. E' troppo nota la catastrofe che ne derivo'. Dopo Auschwitz, il simbolo del ventesimo secolo, nessuno pote' piu' proclamare orgogliosamente "sono un essere umano e nient'altro, perche' gli "esseri umani" finirono per compiere il male sulla scala piu' grande in tutta la storia umana. L'universalismo umanistico ha perso il suo potere di attrazione nei campi di concentramento.
Chi abbia letto il romanzo autobiografico di Stefan Zweig Abschied von gestern (Il mondo di ieri) avra' un'idea del destino dei cosmopoliti tra le due guerre. Zweig era un ebreo che pensava che fosse possibile evitare la scelta tra essere ebreo e assimilarsi alla nazione austriaca mediante l'adesione a istituzioni cosmopolitiche e la partecipazione a conferenze cosmopolitiche, alcune delle quali si tenevano nell'Inghilterra in cui egli fu sempre il benvenuto. Dopo l'Anschluss, quando tutti gli ebrei persero la cittadinanza austriaca, egli cerco' di fuggire in Inghilterra. La sua domanda d'ingresso fu rifiutata. Finche' ebbi un passaporto austriaco valido, egli scrive, ero considerato un cosmopolita. Dopo averlo perso, non ero piu' un cosmopolita benvenuto, ma un rifugiato non benvenuto. La storia finisce qui.
L'universalismo in filosofia oggi non e' piu' chiamato "cosmopolitico". Per "genere umano" non intendiamo piu' tutti gli Europei piu' il Nuovo Mondo, ne' lo consideriamo un'astrazione che felicemente possiamo abbracciare e baciare o il dovere universale insito nella ragione e nella coscienza di tutti noi. "Genere umano" sono diventate tutte le persone empiriche, nonche' le culture con cui condividiamo il globo, sia che simpatizziamo o no con esse, sia che esse condividano il nostro universalismo o lo rifiutino aggressivamente. Le utopie di una rivoluzione antropologica sono finite. Nessuno crede piu' nell'unificazione di liberta' trascendentale e natura umana (Kant), nell'unita' finale di "essenza generica" e esistenza individuale (Marx). La pace perpetua, la fine dell'alienazione e tutti sogni dell'eredita' universalistica sono diventati obsoleti.
L'universalismo, la fonte del moderno cosmopolitismo, non e' piu' considerato ne' un fatto (tutti gli uomini nascono liberi) ne' un sogno (la perfezione morale della razza umana), bensi' un compito: aiutare chi ha bisogno (bisogno di cibo, di acqua, di servizi sanitari, di educazione) e aiutare la gente che si trova in guerra. Perche'? Perche' sono tutti umani come noi, per nessun'altra ragione.
Il cosmopolitismo ha perso il suo potere filosofico e il suo messaggio esattamente in contemporanea con la fine della sua funzione di sostegno per chi cercava di sfuggire all'assimilazione obbligatoria a uno stato nazione o era costretto a servire qualche tipo di fondamentalismo. Non basta piu', per proteggersi dal fondamentalismo nazionalista o religioso dire: "Non sono questo o quello, ma qualcosa di superiore, un essere umano".
Cessando di esistere come filosofia e perdendo la sua funzione di sostegno, il cosmopolitismo e' diventato realta'.
Dove siamo a casa?
Chi vive ancora nel piccolo villaggio in cui e' nato nel senso della sua famiglia e degli amici d'infanzia? Le persone sepolte nel cimitero del villaggio sono forse ancora i suoi avi, membri della famiglia, genitori o qualcuno degli amici e compagni di scuola? Cio' che i sociologi chiamano "mobilita'" mostra che siamo tutti en route, in cammino da un luogo all'altro, da un ambiente a un altro, da un paese all'altro, da un continente all'altro o almeno da un villaggio a una citta' e da una citta' a un'altra citta'. Le notizie che potrebbero raggiungerci piu' velocemente dell'umana velocita' d'un tempo a piedi, a cavallo, in carrozza, in treno, sono diventate indipendenti dal trasporto umano e ci raggiungono per telegramma, telefono, televisione, internet: siamo arrivati alla simultaneita'. Il cosmopolitismo in quanto realta' significa che siamo a casa in tutti i luoghi in cui soggiorniamo per un po' di tempo. Siamo dunque a casa da nessuna parte, siamo ovunque stranieri.
Dove siamo a casa condividiamo storie con i nostri familiari, con gli amici e condividiamo la narrazione storica con il nostro popolo e la nostra nazione. Abbiamo un passato condiviso, o meglio, le storie condivise ci consentono di avere memorie comuni che ci permettono di condividere il passato.
Il passato condiviso viene comunemente definito memoria culturale. Tutte le culture hanno la loro memoria culturale, condivisa da altri oppure no. I popoli europei, per esempio, hanno memorie condivise e memorie che non lo sono. Le prime sono rappresentate normalmente da testi e istituzioni, insieme a tutte le interpretazioni e comprensioni che ne vengono date. I popoli europei condividono due narrazioni fondamentali: da un lato, la Bibbia e, dall'altro, la filosofia e le istituzioni greco-romane. Non e' necessario mettere una nota a pie' di pagina quando si nomina il giardino dell'Eden, l'arca di Noe', Gesu' sulla croce per un verso e la democrazia, la repubblica o il senato per l'altro. Culture differenti hanno memorie culturali differenti. Il presente e' intriso di memorie culturali, collettive o personali, e il passato e' la quarta dimensione nella vita di qualsiasi gruppo di persone, di qualsiasi religione o nazione. Ogni nazionalista puo' raccontare la sua versione delle storie passate, ogni credente puo' raccontare la sua, ogni citta', famiglia, villaggio ha la propria.
Allora, che ne e' del cosmopolitismo? Che tipo di storia possiamo raccontare sul "genere umano in quanto tale"? Dopo Auschwitz e il Gulag non possiamo piu' credere nella storia, un tempo prediletta, del progresso della razza umana verso uno happy end. C'e' solo una storia del globo condivisa, quella dei cosmopoliti.
La nostra e' l'epoca di una pratica cosmopolita che ha abolito l'idea di cosmopolitismo. Potendo spostarci da un luogo all'altro e avere informazioni su persone che abitano molto lontano, potendo sapere qualcosa delle loro credenze e costumi solo accendendo la televisione o guardando su internet, noi pratichiamo il cosmopolitismo. Tuttavia, dato che l'informazione ha poco a che vedere con le forme di vita, non siamo cosmopoliti. I cosmopoliti dell'Ellenismo o dell'Impero Romano condividevano una cultura e fino a un certo punto cio' fu vero per i cosmopoliti dell'800, mentre coloro che praticano oggi il cosmopolitismo non ne condividono nessuna.
L'idea di universalismo sostituisce il cosmopolitismo con l'idea dei diritti umani. I "diritti umani" e' l'idea trascendentale del cosmopolitismo condivisa come tale da tutte le culture con cui condividiamo la Terra/globo. E' vero che l'idea di universalismo fu accettata e riconosciuta nella Dichiarazione dei Diritti Umani delle Nazioni Unite e sottoscritta dalla maggioranza degli Stati sul nostro pianeta.
Tuttavia la tesi di Rousseau ha trovato una conferma, questa volta sulla scena globale: "tutti gli uomini nascono liberi, ma ovunque sono in catene". Le nazioni, i paesi, le culture, le istituzioni politiche del genere umano empirico sono reciprocamente differenti come la loro memoria culturale e la loro pratica politica. L'idea trascendentale dei diritti umani e la realta' empirica delle culture, in particolare di quelle politiche, si trovano molto spesso in rotta di collisione.
Ripeto: la maggioranza delle persone sul nostro pianeta sta praticando il cosmopolitismo senza cosmopolitismo. Dove sono a casa quelle persone? In due luoghi o due mondi: nel mondo delle loro esperienze personali e nel mondo delle idee.
Viviamo in un mondo in cui persone di differenti tradizioni, lingue differenti, religioni e costumi differenti possono condividere lo stesso habitat. Il Nuovo Mondo li aveva accolti tutti in una coesistenza definita erroneamente "multiculturalismo", in quanto il termine suggerisce un'identita' collettiva condivisa, che tuttavia non e' tale. Gli Stati nazione europei – e non solo loro – si trovano davanti a una sfida, quella di praticare il cosmopolitismo. Persone di tradizioni, costumi, religioni, storie, idee differenti entrano in massa nel territorio europeo. Abbracciare l'intero genere umano nella poesia o comprendere l'imperativo del genere umano dentro di noi e' piu' facile che inserire persone empiricamente differenti nel nostro habitat. Gli Europei si trovano oggi ad affrontare questa sfida.
Ho detto che l'idea dei diritti umani dichiarata dalle Nazioni Unite e sottoscritta da tutti i governi della terra opera come un'idea trascendentale, accettata, ma non ancora messa in pratica nella maggior parte dei Paesi della Terra. Essa puo' avvicinarsi alla realta' empirica, per quanto senza una totale legittimazione empirica, solo in Stati in cui i diritti dei cittadini vengono messi in pratica e non solo formalmente riconosciuti, cioe' solo nelle democrazie liberali. Tuttavia, anche se riconosciuti, come possono essere praticati empiricamente? Uno de maggiori conflitti dell'Europa contemporanea consiste nella collisione tra diritti umani e diritti dei cittadini, una collisione tra un'idea trascendentale e una empirica che non puo' essere risolta, ma puo' essere gestita, tenuta in equilibrio. Non sappiamo ancora come l'Europa gestira' questa sfida.
Finora ho parlato delle cosiddette identita', narrazioni, idee e istituzioni collettive, siano esse religiose, nazionali, universali o locali. Ho detto pero' poco dell'identita' personale in relazione alla storia del cosmopolitismo.
Ci sono due tipi di identita' personale: una soggettiva e una oggettiva.
L'identita' soggettiva non e' altro che la memoria di una persona, la narrazione raccontata a se stessa e agli altri sulla propria vita, intrecciando in un modo o nell'altro molteplici lampi di memoria, ogni volta in modo diverso. Tutti noi abbiamo un accesso privilegiato alla nostra propria memoria, alla nostra identita' soggettiva. Riveliamo qualcosa della nostra storia vissuta alle persone che vogliamo, in occasioni e circostanze che desideriamo.
Nessun universalismo puo' sostituire le esperienze singolari. Per esempio, l'adesione alle idee cosmopolitiche potrebbe trasformarsi nell'adesione ai "diritti umani", ma cio' non cambierebbe le nostre precedenti illuminazioni della memoria, sebbene in generale possa cambiare la loro interpretazione. Questa casa soggettiva, la nostra memoria, e' fortemente influenzata dalle credenze collettive condivise e dalle narrazioni culturali. Nonostante questo, essa resta unica e propria di ogni soggetto. Se uno vive in un mondo che accoglie differenti culture nello stesso habitat, l'esperienza vissuta soggettiva di un bambino introiettera' questa differenza come "naturale", come avvenne alla fine dell'800 nel villaggio ungherese dove visse mio padre.
Contrariamente all'identita' soggettiva di una persona, l'identita' oggettiva si costituisce attraverso lo sguardo degli altri. Dapprima attraverso il modo in cui vediamo il loro volto e comprendiamo il loro nome, poi attraverso l'esperienza che facciamo con loro. In un mondo molto tradizionale le due identita' possono combaciare. Semplificando, ci si vede come ci vedono gli altri. Gli stranieri con una forte tendenza all'assimilazione tendono a nascondere la loro identita' soggettiva per aderire all'immagine che lo sguardo degli altri accetta come migliore.
Nella situazione della pratica del cosmopolitismo una persona puo' scegliere (date le altre condizioni) un mondo in cui la sua identita' soggettiva aderisca al meglio a quella oggettiva qualora sia facile per lei guardare bene negli occhi gli altri. Cio' e' gia' oggi possibile solo nelle comunita' professionali e a volte in quelle ideologiche (testo incompleto).
A un certo punto della sua vita un individuo moderno sceglie se stesso come persona coinvolta in un'idea o in un'altra, in una professione o in un'altra: diventare un pittore, uno scienziato, un filosofo, un cantante, un giudice, un commerciante, un agricoltore ecc., un socialista, un liberale, un conservatore ecc. Le professioni, gli interessi, la lingua condivisa garantiscono una reciproca comprensione.
Se si fa in contemporanea una conferenza filosofica a Tokio, a Teheran, a New York, a Parigi, a rio de Janeiro, a Gerusalemme, a Melbourne, le domande degli studenti saranno esattamente le stesse in tutto il mondo. Se si visita la Biennale a Venezia, sarebbe difficile indovinare, a meno di guardare la firma, se la tela sia stata dipinta in Argentina, in Colombia, in Sud Africa, negli Stati Uniti o a Berlino. I microbiologi si interessano a problemi molto simili contemporaneamente in tutto il globo. Cose analoghe si possono dire per l'intrattenimento. La stessa pop music e' popolare in culture diverse, dove e' permesso eseguirla (in caso contrario, la si esegue illegalmente).
Se la domanda "dove siamo a casa" puo' essere sostituita da un'altra: "dove, in qual cerchia ci capiamo l'un l'altro senza note a margine?", dove condividiamo un linguaggio anche se non riusciamo a capire il linguaggio quotidiano altrui, dove e' possibile una comprensione reciproca ignorando il retroterra dell'altro, dove nessuno e' uno straniero? Ecco la risposta: l'artista nella comunita' degli artisti e un certo tipo di storici, il filosofo nella comunita' dei filosofi, gli scienziati nella comunita' della loro scienza particolare, il musicista nella comunita' degli esperti di musica, i tecnici di ogni genere con i tecnici di ogni genere. Lasciatemi aggiungere i tifosi del calcio con gli altri tifosi, quelli del cricket con altri tifosi del cricket ecc. ecc. Che cosa sei? Scienziato, filosofo, giocatore di cricket, padre di famiglia, femminista, pittore ecc. ecc.
L'universo cosmopolitico dell'alta cultura, delle religioni, dell'intrattenimento, compresi i programmi televisivi condivisi, internet, gli smart phones, che cosa ci ricordano? In prima istanza i cosmopoliti che frequentavano gli stessi teatri, assistevano alle stesse tragedie, potevano discutere di filosofia in greco, condividevano la nudita' dei bagni e frequentavano templi simili. Essi erano a casa ovunque nel mondo, ma non erano in grado di produrre effetti, di influenzare il mondo empirico da nessuna parte.
Certo, i mondi sono sempre retti da identificazioni socio-politiche particolari, religiose, nazionali, culturali, politiche, "naturali", che sono le condizioni delle nostre prime esperienze con le persone, con la distinzione di giusto e sbagliato, con la vista dei fiumi, delle montagne e del mare a cui eravamo abituati da piccoli, nonche' con la memoria delle ninne nanne, delle canzoni, del primo amore e della prima disperazione. Piu' tardi l'interpretazione di queste memorie puo' cambiare insieme ai nostri sentimenti, che rimangono in ogni caso li'.
Il sentimento di essere uno "straniero" nel mondo, in tutti i mondi, il sentimento che Freud ha definito il "disagio della civilta'", e' forse meno doloroso in un universo cosmopolitico di quanto lo sia in un mondo che esclude gli altri, ma puo' essere anche piu' forte. Ogni membro singolare del genere umano ha impronte digitali uniche e quindi memorie uniche. Per questo motivo molto si e' potuto, si puo' e si potra' dire sul futuro. Il genere umano non ha pero' impronte digitali, ne' una memoria collettiva e va bene. Niente tuttavia puo' essere conosciuto e detto sul suo futuro.

2. MAESTRI. PAOLO FAVILLI: RODOLFO MONDOLFO
[Dal Dizionario Biografico degli Italiani, Vol. 75 (2011) nel sito www.treccani.it]

Rodolfo Mondolfo nacque a Senigallia il 20 agosto 1877, da Vito e da Sigismonda Padovani, in una famiglia ebraica benestante. Dopo gli studi liceali si trasferi' a Firenze dove, dal 1895 al 1899, frequento' la sezione di filosofia e filologia dell'Istituto di studi superiori e pratici.
L'atmosfera della prima formazione del M. puo' considerasi, lato sensu, positivista: uno fra i suoi punti di riferimento, P. Villari, indubbiamente positivista, era tuttavia, nella impostazione del suo pensiero, lontanissimo dalla rappresentazione di maniera di quel movimento: nel saggio La storia e la scienza  (1891) Villari articola un impianto metodologico sostanzialmente aperto, per nulla coincidente con lo "scientismo" storiografico. Un terreno poi, quello di Villari, certamente contiguo, in qualche punto addirittura compenetrato, con quello che contemporaneamente venivano arando studiosi che cercavano di coniugare la "storia come scienza" con il socialismo militante, proprio attraverso il riferimento privilegiato alla concezione materialistica della storia; terreno su cui anche il M. si sarebbe trovato. Lato sensu soprattutto perche' il suo maestro di filosofia, F. Tocco, con il quale discusse la tesi di laurea su E. Bonnot de Condillac, nel 1899, maestro anche di G. Gentile, filosofo speculativo principe dell'idealismo italiano, difficilmente puo' essere considerato positivista.
Gli anni fiorentini furono importanti nella formazione politica del M.; tramite il fratello, Ugo Guido, di due anni piu' anziano, entro' in contatto con un gruppo di studenti e giovani laureati che si riunivano nella casa di Ernesta Bittanti, futura moglie di Cesare Battisti. Si formo' cosi', insieme con A. Galletti, G. Salvemini, G. Mondaini, lo stesso Battisti, una comunita' in cui studio e passione politica convivevano alimentandosi vicendevolmente, portando il M., agli inizi del secolo, a un'intensa collaborazione con la Critica sociale di F. Turati, la piu' importante rivista del socialismo italiano.
La collaborazione del M. – proseguita fino alla chiusura del periodico, nel 1926, e ripresa nel secondo dopoguerra – tocco' i piu' vari argomenti: dai temi direttamente politici a questioni concernenti il mondo dell'insegnamento e della laicita' della scuola, dalle recensioni a questioni relative alla morale sessuale.
Contemporaneamente il M. passava dall'esperienza di insegnante nei licei (Potenza, Ferrara e Mantova) a quella di insegnante universitario: dapprima (1904) a Padova, come incaricato a sostituire R. Ardigo', poi (1910-14) come titolare di storia della filosofia a Torino, e infine, dal 1914, a Bologna, sempre sulla cattedra di storia della filosofia.
Il salto di qualita' del M. nel dibattito filosofico italiano si ebbe nel contesto della teorizzata fine del socialismo (Croce, 1911) e della collocazione "in soffitta" del marxismo (Giolitti, 1911). In realta' proprio in quel lasso di tempo era in corso un'operazione dallo spessore teorico tutt'altro che irrilevante, di cui il M. fu protagonista, tesa a una "ricostruzione" del marxismo come "filosofia del socialismo".
La riflessione del M. sul marxismo come "filosofia del socialismo" partiva non tanto dall'ambito del positivismo, quanto piuttosto dall'atmosfera di crisi del positivismo: "Il viaggio dall'illuminismo al marxismo, da Hobbes a Engels – avverte Garin (Tra due secoli..., p. 223) –, non fu per Mondolfo una pacifica passeggiata nel mondo delle idee sotto la guida di Roberto Ardigo'. Fu un'esigenza emergente dalle lotte politiche e dal travaglio socialista alla vigilia della guerra italo-turca che lo porto' ad affrontare il chiarimento teorico delle posizioni di L.A. Feuerbach, K. Marx, Fr. Engels e F. Lassalle, e questo nella ormai comune atmosfera di crisi del positivismo, ovunque diffusa". Vi sono alcuni aspetti di questo viaggio, per lo meno di quello nel "mondo delle idee", che sono in grado di fornire utili indicazioni sulla qualita' del suo "integralismo marxista". Ardigo', "guida" cui egli fa riferimento, gli permette di "integrare" idealismo e positivismo in un "realismo", offrendogli cosi' una risposta al problema della duplicita' della conoscenza. Questo meccanismo di "integrazione" il M. lo avrebbe utilizzato nella costruzione della sua "filosofia del socialismo", che non a caso ebbe un carattere di compattezza e di sistematicita' in gran parte assente, per esempio, nella elaborazione di A. Labriola. La "ricostruzione" mondolfiana del marxismo comincio', infatti, con l'"integrazione" in quel processo del "vero" Feuerbach, da lui sottratto al materialismo. E lo stesso Engels, che pure nell'AntiDuehring ha usato le espressioni piu' assolute di monismo materialistico, a parere del M. non puo' davvero considerarsi materialista: Engels, per il M., ha usato solo una "terminologia" materialistica, ma la sua opposizione all'"idealismo speculativo" si determina per quella "filosofia della praxis" che e' la negazione di ogni filosofia materialista. E soprattutto la dialettica, "forma e condizione della intellegibilita' del reale" anche per Engels, dovrebbe essere di per se stessa antidoto principe contro ogni forma di materialismo. Quindi, "integrazione", come elemento di "costruzione sistematica", "dialettica" come negazione di "materialismo" caratterizzano un progetto filosofico che intende dare risposte ai problemi posti da una stagione della storia del socialismo nei suoi rapporti con la societa' e la cultura italiane.
Di fatto pero', il periodo dal 1908 al 1912, durante il quale il M. elaboro' il nucleo centrale della propria lettura marxista, non puo' considerarsi del tutto omogeneo: il passaggio da una prospettiva di crescita (1908), a una di crisi (1911) spiega, per lo meno in parte, come nell'oscillazione del M. tra una teoria del socialismo basata su "analisi economico-sociale e analisi storico-empirica" e una riflessione basata su una "coscienza puramente filosofica", sia infine quest'ultima a prevalere. Vi e' tuttavia un aspetto di "omogeneita'" che trascende il periodo considerato e che fa meglio comprendere anche l'importanza del progetto del M. e della sua realizzazione. Quando, nel 1908, il M. intervenne su Critica sociale dopo che il congresso di Firenze del Partito socialista italiano (PSI) ebbe sancito l'egemonia dei riformisti sul partito, lo fece soprattutto per esorcizzare quella "fine del marxismo" evocata allora non solo dal Corriere della sera, ma soprattutto tacitamente accettata in molti ambienti del riformismo.
A ragione N. Bobbio sostiene che, per il M., "lo studio del pensiero filosofico di Marx e di Engels fu un modo di fare i conti col revisionismo in entrambe le sue dimensioni» e che "dal punto di vista teorico, Mondolfo non appartiene alla storia del revisionismo" (Introduzione a R. Mondolfo, Umanesimo di Marx, pp. XXX, XXXII). Forse sarebbe piu' giusto definire quella del M. come la "filosofia del riformismo", ma proprio quel marxismo "integrale" di cui si e' detto, cosi' caratteristico della sua "filosofia del socialismo", rende problematica anche quella definizione.
Per il M. nel socialismo si riscontra "l'assenza di un'anima teorica, di una direttiva filosofica", c'e' dunque "bisogno di un orientamento filosofico" (R. Mondolfo, Rovistando in soffitta), questa chiara affermazione programmatica apparve sulla Critica sociale nel 1911, ma ci sono scarsi dubbi che tale impostazione non fosse anche alla base del suo primo importante studio "ricostruttivo" di un "orientamento filosofico" marxista: La filosofia del Feuerbach e le critiche del Marx (Prato 1909). La struttura analitica della "filosofia del socialismo" fu, dunque, delineata nel breve periodo che corre dal 1909 al 1912, ed ebbe ai suoi estremi le opere teoriche piu' significative del M.: appunto il saggio su Feuerbach e quello su Engels (Il materialismo storico in Federico Engels, Genova 1912).
L'"orientamento filosofico", secondo il M., e' necessario tanto ai riformisti quanto ai rivoluzionari: i primi hanno ritenuto "la teoria superata nella pratica" e dunque hanno disdegnato di rifar mai i conti con la filosofia, mentre i secondi non hanno mai davvero riflettuto su quella "filosofia volontaristica" alla quale pure dicevano d'ispirarsi. E allora "nessuna tendenza, vecchia o nuova, che sorga nel partito socialista, potra' mai prescindere da quella necessita' preliminare che Marx ed Engels per i primi sentirono: la necessità di fare i conti con la filosofia" (cfr. Socialismo e filosofia, in L'Unita', 1913). L'"integralismo" metodologico del M. risponde anche alla necessita' di una ricollocazione delle "tendenze" tradizionali di fronte alla nuova esigenza di teoresi che dovra' informare la filosofia per tutto il socialismo.
Questo nucleo forte della "filosofia del socialismo" elaborato negli anni 1908-13, originale approccio alla teorica marxiana, venne ripreso, sviluppato, e messo a confronto con i nuovi problemi a partire dalla crisi del primo dopoguerra. Non casualmente gia' nel 1919 il M. raccolse in volume i suoi studi marxisti degli anni prebellici (Sulle orme di Marx, Bologna) poi ristampato nel 1923 in edizione accresciuta per la "Biblioteca di studi sociali", collana diretta dallo stesso M. per l'editore Cappelli.
Questa nuova edizione del libro (la terza: ne era uscita una seconda nel 1920) e' la dimostrazione dell'interesse intorno a una sistematica teorica che si confronta con il nuovo della crisi postbellica, mantenendo il nucleo analitico originale. Di particolare interesse e attualita' risultano l'analisi della rivoluzione russa e dell'inizio dell'esperienza sovietica: il M., il quale pure aveva costruito un'interpretazione antideterministica del marxismo, che aveva messo l'accento sulle possibilita' creative della praxis, e' nettissimo nel condannare, proprio in nome di Marx, quello che considera il volontarismo assoluto di Lenin. In Russia, per il M., non era presente alcuna fra quelle condizioni necessarie per una trasformazione rivoluzionaria cosi' come Marx le aveva indicate. "L'azione rivoluzionaria di Lenin [spezzava] bruscamente il legame dialettico tra condizioni oggettive e coscienza soggettiva [scindeva] la coscienza rivoluzionaria dal senso storico" (Bobbio, cit., pp. XXXIX-XL). Il giovane A. Gramsci era intervenuto con veemenza nel dibattito fin dalla prima edizione del libro (cfr. L'Ordine nuovo, 15 maggio 1919) accusando il M. di "marxismo professorale", di "amore grammaticale" per la rivoluzione: in sostanza di voler sottoporre i grandi sconvolgimenti storici alla pietra di paragone del "senso filologico dell'erudito". Non c'e' dubbio che la tendenza a sottoporre gli "slittamenti" della storia nel letto di Procuste della correttezza secondo testi, nella linearita' di una teoria da quei testi desunta, si dimostri euristicamente sterile. Non c'e' dubbio, altresi', che, nel giudizio storico sui settant'anni dell'esperienza sovietica, il percorso del M. dietro le orme di Marx debba comunque essere tenuto in attenta considerazione.
La "Biblioteca di studi sociali" si configuro', in quel periodo, come il luogo privilegiato dove assumevano maggiore spessore riflessivo gli intensi dibattiti di quel dopoguerra. Il M. interveniva non solo nella Critica sociale di Turati, ma anche su L'Unita' di Salvemini, Energie nuove e poi La Rivoluzione liberale di P. Gobetti, Quarto Stato di P. Nenni e C. Rosselli. Tale ampio sistema di relazioni, aperto a tutti i contributi critici, si rispecchiava appunto nella "Biblioteca di studi sociali", un vero e proprio carrefour di itinerari. Esemplarmente, tra gli ultimi titoli della collana figurano La rivoluzione liberale di Gobetti e i Saggi intorno alla concezione materialistica della storia di A. Labriola curati da L. Dal Pane: una coniugazione tra rigore teorico e apertura ai problemi nuovi che l'affermazione definitiva del regime fascista cancello' dal discorso pubblico italiano.
Dopo il 1926 e fino al 1938, il  M. fu, ovviamente, impossibilitato a continuare quel tipo di discorso pubblico; non chiuse pero' la riflessione sui temi del marxismo e del socialismo pubblicando in sede accademica alcuni lavori di messa a punto storico-critica su tali questioni. In particolare fu piuttosto intensa la sua collaborazione con l'Enciclopedia italiana.
Tra le altre redasse voci che potevano risultare politicamente impegnative, come Materialismo storico, Comunismo, Socialdemocrazia, Socialismo, Labriola. Il tutto in quell'atmosfera impregnata di nicodemismo, asetticita' scientifica, legami di amicizia personale, fraintendimenti voluti, che caratterizzo' le iniziative culturali del fascismo di cui furono protagonisti tanto Gentile che G. Volpe.
Nello stesso periodo, tuttavia, prendeva forma una nuova fase della biografia intellettuale del M.: quella dello studioso del "pensiero antico" a un livello di eccellenza; assai probabile che questa nuova fase fosse strettamente legata a un clima politico che non permetteva, se non nei limiti di cui si e' detto, di coltivare il "pensiero moderno" nei termini nei quali il M. l'aveva praticato per venticinque anni. Certo la monumentale Storia del pensiero antico (Roma 1929), costruita con testi greci e latini appositamente tradotti dall'autore, e' dimostrazione di un rapporto con il mondo classico non esploso all'improvviso; piuttosto, quello che puo' far considerare la pubblicazione un "nuovo inizio" e' il fatto che da allora la dimensione dell'antichistica divenne il luogo primo dell'impegno intellettuale del Mondolfo.
Nel 1932 e nel 1938 uscirono, curati dal M., i due grossi volumi sul pensiero antico di E. Zeller (Origini, caratteri e periodi della filosofia greca, Firenze); mentre nel 1935 fu pubblicata la chiarificazione metodologica del M. (I problemi del pensiero antico, Bologna); contemporaneamente apparve una lunga serie di articoli sugli autori oggetto delle grandi monografie.
Nel 1938 le leggi razziali costrinsero il M. all'emigrazione oltreoceano, e questo suo "secondo inizio" contribui' in maniera non secondaria a introdurlo nell'insegnamento universitario argentino; ottenne, infatti, la cattedra di greco antico presso l'Universita' di Cordoba, dove si trattenne dal 1940 al 1948; dal 1948 al 1952 insegno' storia della filosofia antica all'Universita' di Tucuman.
Dopo la caduta del fascismo e la fine della guerra, il M. inizio' una fase di pendolarismo tra Italia e Argentina. Fu reintegrato nel ruolo dei professori universitari e nella cattedra di storia della filosofia dell'Universita' di Bologna, ma non vi ristabili' la propria residenza. Mantenne, in quegli anni, una operosita' impressionante.
Tra il 1950 e il 1960 uscirono una ventina di volumi in italiano e in spagnolo e qualche decina di articoli. Insieme con nuovi studi di storia della filosofia antica, curo' la riedizione di vecchi lavori rimettendo in circolo i suoi antichi studi marxisti. Riprese e continuo' fino a tardissima eta' la sua collaborazione a Critica sociale.
Il M. mori' a Buenos Aires il 16 luglio 1976.
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Per una bibliografia di riferimento degli scritti del M. dal 1899 al 1975 (465 titoli) si rimanda a Bibliografía completa de los escritos de R. M., in appendice a R. M. maestro insigne de filosofía y humanidad, Tucuman 1992, pp. 71-94. Per le piu' recenti raccolte, si veda: Umanesimo di Marx. Studi filosofici 1908-1966, a cura e con introduzione di N. Bobbio, Torino 1968; R. M. interprete della coscienza moderna. Scritti 1903-1931, con Introduzione (pp. IX-LVI) e per cura di R. Medici, Bologna 1991; Educazione e socialismo, a cura di T. Pironi, Manduria-Bari-Roma 2005.
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Fonti e bibliografia: Al momento della partenza per l'esilio argentino, il M. consegno' le sue carte al militante socialista Enrico Bassi, alla cui morte, nel 1987, l'archivio passo' a Firenze, presso la Fondazione di studi storici Filippo Turati: il fondo e' inventariato in S. Vitali, Il Fondo Enrico Bassi presso la Fondazione "Filippo Turati" di Firenze, in Rass. degli Archivi di Stato, LIII (1993), 2-3, pp. 275-293; le carte del periodo posteriore sono a Milano, Universita' degli studi, Biblioteca del dipartimento di filosofia, Fondo R. M. Per il complesso archivistico, si vedano: Le carte di R. M. nell'Archivio Bassi, a cura di S. Vitali, in Fondazione di studi storici Filippo Turati, Firenze; Universita' degli studi di Milano, Dipartimento di filosofia Arch. R. M., Inventari, a cura di S. Vitali - P. Giordanetti, Roma 1996, pp. 1-290, 503-639.
Pressoche' tutta la letteratura sul socialismo e sul marxismo italiani dedica al M. spazi piu' o meno ampi. In questa sede si fa riferimento solo ai lavori nei quali il M. e' l'oggetto principale di studio: L. Vernetti, R. M. e la filosofia della prassi, Napoli 1966; Critica sociale, 20 dic. 1967 (numero monografico dedicato al M.); D.F. Pro', R. M., I-II, Buenos Aires 1967-68 (con bibl. estesa sul M. di 490 voci); E. Bassi, R. M. nella vita e nel pensiero socialista, Bologna 1968; G. Marramao, Marxismo e revisionismo in Italia (dalla "Critica sociale" al dibattito sul leninismo), Bari 1971, passim; E. Garin, Filosofia e marxismo nell'opera di R. M., Firenze 1979; Pensiero antico e pensiero moderno in R. M., a cura di A. Santucci, Bologna 1979; M.P. Falcone, Individuo e societa': l'itinerario filosofico del primo M., in Trimestre, XIV (1981), pp. 271-281; E. Garin, R. M., in Id., Tra due secoli. Socialismo e filosofia in Italia dopo l'Unita', Bari 1983, pp. 204-234; R. Medici, R. M.: forza e violenza nella storia (1915-1923), in Filosofia e scienza a Bologna tra il 1860 e il 1920, a cura di G. Oldrini - W. Tega, Bologna 1990, pp. 225-244; M. Pasquini - G. Del Vecchio, Il kantismo giuridico e la sua incidenza nell'elaborazione di R. M., Citta di Castello 1999;  R. M.: 1877-1976, a cura di G. Crinella, Urbino 2006; R. M.: 1877-1976, Fabriano 2006; C. Calabro', Il socialismo mite: R. M. tra marxismo e democrazia, Firenze  2007; Il movimento operaio italiano, Dizionario biografico, III, sub. voce.

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Segnalazioni librarie e letture nonviolente
a cura del "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo
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Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com
Numero 81 del 14 maggio 2021
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