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[Nonviolenza] La biblioteca di Zorobabele. 66
- Subject: [Nonviolenza] La biblioteca di Zorobabele. 66
- From: Centro di ricerca per la pace Centro di ricerca per la pace <centropacevt at gmail.com>
- Date: Thu, 29 Apr 2021 07:14:26 +0200
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LA BIBLIOTECA DI ZOROBABELE
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Segnalazioni librarie e letture nonviolente
a cura del "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo
Supplemento a "La nonviolenza e' in cammino" (anno XXII)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com
Numero 66 del 29 aprile 2021
In questo numero:
1. Giuseppe Vacca: Antonio Gramsci (2002) (parte terza)
2. Davide Brugnaro presenta "Humanitas mundi. Scritti su Karl Jaspers" di Hannah Arendt
1. MAESTRI. GIUSEPPE VACCA: ANTONIO GRAMSCI (2002) (PARTE TERZA)
[Dal sito www.treccani.it riproponiamo la seguente voce apparsa nel Dizionario biografico degli italiani]
Nel 1925 il G. era riuscito a rintracciare la cognata, Tania Schucht, che viveva a Roma appartata, e, come gia' accennato, aveva allacciato con lei un'intensa amicizia. Tania non era comunista e frequentava esuli russi socialisti rivoluzionari; si iscrisse al partito comunista bolscevico nel 1927, per poter assistere il G., ma quando egli, negli anni del carcere, sviluppo' la sua critica del bolscevismo, ne condivise le posizioni, cercando di difenderle dopo la sua morte. Subito dopo l'arresto del G., Tatiana e Sraffa, intimo amico dai tempi de L'Ordine nuovo, divennero i suoi punti di riferimento per le necessita' di ordine familiare e privato. Dal 1929 essi furono anche l'unico suo tramite con il partito e con Togliatti che assunse il compito di seguire personalmente le vicende del prigioniero.
Nel gennaio 1929 il G. aveva ottenuto il permesso di scrivere e l'8 febbraio comincio' la stesura dei Quaderni del carcere.
E' molto significativo il piano di studi che egli comunicava a Tania il 25 marzo: "Ho deciso di occuparmi prevalentemente e di prendere note su questi tre argomenti: I La storia italiana del secolo XIX, con speciale riguardo della formazione e dello sviluppo dei gruppi intellettuali; II La teoria della storia e della storiografia; III L'americanismo e il fordismo" (Lettere 1926-1935, p. 333).
Complessivamente i quaderni sono 33, 21 dei quali furono scritti a Turi. Dal 1931 il G. comincio' a rielaborare e raggruppare le sue "note" raccogliendole, secondo un criterio tematico, in "quaderni speciali"; nel contempo proseguiva nella stesura di "note sparse". Alla sua morte i quaderni furono presi in consegna dalla cognata che li custodi' presso l'ambasciata sovietica a Roma fino all'inoltro, a Mosca, alla moglie Giulia, alla fine del 1938. A Mosca essi vennero richiesti dal Komintern che, nel febbraio 1939, istitui' una commissione per lo studio e la valorizzazione dell'eredita' letteraria del G., dalla quale Tania, rientrata in Russia alla fine del 1938, fu ben presto esclusa. Regista dell'acquisizione e dei lavori della commissione fu Togliatti, che ne comincio' lo studio con l'intento di pubblicarli.
Ai Quaderni si affiancavano i manoscritti delle lettere, affidate anch'esse alla cura di Togliatti. Una prima edizione di queste era gia' pronta nel 1943, ma fu pubblicata dall'editore Einaudi soltanto nel 1947 anche per servire come viatico alla diffusione dei Quaderni che furono pubblicati dallo stesso editore in 6 voll., a cura di F. Platone e dello stesso Togliatti, dal 1948 al 1951, secondo i criteri tematici suggeriti dal G. (e probabilmente anche da Sraffa). Nel 1975, sempre presso Einaudi, ne venne pubblicata l'edizione critica curata da V. Gerratana che ripristinava l'ordine cronologico delle "note" e dei "quaderni speciali". Fin dalla prima edizione le Lettere e i Quaderni rivelarono alla cultura italiana e internazionale le qualita' dello scrittore e la figura del pensatore e del politico. L'edizione cronologica dei Quaderni ha contribuito ad accrescerne grandemente le traduzioni e lo studio nelle principali aree linguistiche del mondo dove, cosi' come in Italia, il G. e' considerato sempre piu' un classico del pensiero politico del Novecento.
Negli Appunti preparatori della relazione al I convegno di studi gramsciani (Roma, gennaio 1958) Togliatti avvertiva che "Gramsci fu un teorico della politica, ma soprattutto fu un politico pratico, cioe' un combattente". Nella politica, quindi, "e' da ricercarsi l'unita' della [sua] vita: il punto di partenza e il punto di arrivo". Questo criterio metodologico e' valido per risalire alle motivazioni della stesura dei Quaderni e ricostruirne il "programma di ricerca". Infatti, anche in quegli anni, nei quali era escluso dall'azione politica (dal 1927 il G. venne sostituito da Togliatti alla guida del partito), egli continuo' a battersi per le sue idee e per le sue posizioni. I Quaderni, dunque, vennero concepiti per proseguire, nel campo del pensiero, la lotta politica a cui non poteva piu' partecipare immediatamente e, quando si profilo' la fine della sua detenzione, il G. progettava di portarli con se' a Mosca per poterli utilizzare nelle battaglie politiche e culturali che si proponeva di dare anche all'interno del movimento comunista.
Dinanzi alla crisi del 1929-32 il Komintern, ormai del tutto subordinato agli interessi statali dell'URSS, abbandonava la "tattica di fronte unico" e teorizzava l'imminenza di una nuova ondata rivoluzionaria. I partiti comunisti, anche in un paese come l'Italia, dove il fascismo ormai trasformato in un regime totalitario ne impediva persino l'esistenza, dovevano lanciare un'offensiva diretta per la presa del potere. La socialdemocrazia era definita una punta avanzata della reazione (teoria del "socialfascismo") e considerata il nemico principale da combattere.
Nel luglio del 1929 questa linea venne imposta anche al PCd'I che vi si adeguo', sebbene riluttante, abbandonando la politica impostata dal G. fra 1924 e 1926. Informato degli avvenimenti il G. vi si oppose fermamente, difendendo, nelle conversazioni che intratteneva con i compagni a Turi, la prospettiva della costituente; nel "collettivo" del carcere questo provoco' aspre reazioni e il G. venne emarginato. Eguale sorte egli subi' nella stampa del partito, dalla quale il suo nome scomparve fino al maggio 1933. Per i vertici del partito comunista sovietico e del Komintern, sempre piu' monopolizzati dalla elite staliniana, egli era un eretico e tale rimase anche dopo che la "tattica di fronte unico" venne formalmente restaurata e il VII congresso dell'Internazionale (luglio 1935) lancio' la politica dei "fronti popolari". E' impossibile comprendere i Quaderni senza tenere conto della coeva involuzione dell'URSS e del movimento comunista: una eclisse di cui il G. si propose di indagare soprattutto le origini teoriche e a cui penso' di ovviare elaborando un nuovo pensiero e un nuovo programma per reagire anche alla propria sconfitta.
Il "programma di ricerca" dei Quaderni muove dalla necessita' di fissare innanzi tutto una interpretazione valida delle crisi: la crisi del 1929, ma anche la crisi del dopoguerra e la guerra stessa come mancata risposta a una crisi precedente. Mentre il movimento comunista internazionale basava la sua politica (e la sua stessa ragion d'essere) sulla teoria della "crisi generale del capitalismo", nel febbraio 1933 il G. scrisse che, nello studiare gli avvenimenti "che si prolungano in forma catastrofica dal 1929 ad oggi [...] occorrera' combattere chiunque voglia [trovare di essi] una causa o un'origine unica", poiche' si tratta invece di un "processo complesso", rispetto al quale "semplificare significa snaturare e falsificare". Se poi ci si pone il problema del suo inizio, si puo' affermare che "tutto il dopoguerra e' crisi" e "per alcuni (e forse non a torto) la guerra stessa e' una manifestazione della crisi". Infatti, "una delle contraddizioni fondamentali", che spiega l'origine delle crisi, e' che "mentre la vita economica ha come premessa necessaria [...] il cosmopolitismo, la vita statale si e' sempre piu' sviluppata nel senso del "nazionalismo", del "bastare a se stessi", ecc. Uno dei caratteri piu' appariscenti della "attuale crisi", dunque, e' nient'altro che l'esasperazione dell'elemento nazionalistico dell'economia". Se una conclusione generale se ne vuole trarre, si puo' dire che le crisi scaturiscono dal contrasto fra il cosmopolitismo dell'economia e il nazionalismo della politica. Esso puo' generare le guerre, come nel caso del 1914-18, oppure spingere le classi dirigenti ad adeguare gli spazi della politica a quelli dell'economia, dando vita anche a "combinazioni regionali" (cioe' a unioni sovranazionali) di "gruppi di nazioni".
Ma la Grande Guerra era stata originata anche dai mutamenti maturati, dal 1870 in poi, nella societa' civile; e da questo punto di vista essa rappresentava una "frattura storica" non sanata perche', come abbiamo visto, aveva intensificato quei mutamenti, suscitando una soggettivita' incoercibile delle masse. Sommandosi alle conseguenze della Rivoluzione russa e della pressione che la potenza americana cominciava a esercitare sulla "struttura del mondo", essa domandava una nuova organizzazione dell'economia e della politica mondiale, in mancanza delle quali la crisi dello Stato-nazione avrebbe assunto una dimensione catastrofica.
Nell'ambito di questa analisi, l'affermazione del G. che anche "i raggruppamenti progressivi e innovatori" non sono in grado di dare una risposta alla crisi dello Stato chiama in causa i caratteri dell'URSS staliniana. Essa appare al G. una forma di "cesarismo" (sia pure progressivo), nel quale i contenuti dell'egemonia "del nuovo gruppo sociale che ha fondato il nuovo tipo di Stato" sono ancora "prevalentemente di ordine economico"; la "distruzione" procede separatamente dalla "ricostruzione"; pertanto "gli elementi di superstruttura non possono che essere scarsi e il loro carattere sara' di previsione e di lotta, ma con elementi di "piano" ancora scarsi". Su queste basi il proletariato, pur avendo dato vita a un proprio Stato, non puo' procedere alla formazione dei suoi intellettuali, ne' elaborare una nuova egemonia. L'"esperimento russo" si rivela, cosi', inespansivo, non ha (o non ha ancora) valori universali da proporre, come del resto e' naturale se l'URSS ha scelto l'autoisolamento.
Queste analisi implicavano, quindi, un mutamento di giudizio sulla rilevanza storica della Rivoluzione d'ottobre. Per caratterizzare la fase attuale della politica mondiale il G. introduceva un nuovo paradigma, e alla categoria di "stabilizzazione relativa" sostituiva quella di "rivoluzione passiva" (De Felice, 1977). Il concetto e' tratto dal Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 di V. Cuoco e compare fra le prime note dei Quaderni; ma "l'espressione del Cuoco - scrive il G. nel 1933 - non e' che uno spunto, poiché il concetto e' completamente modificato e arricchito" per essere applicabile a "ogni epoca complessa di rivolgimenti storici". Esso e' proposto come "criterio di interpretazione [di tali rivolgimenti] in assenza di altri elementi attivi in modo dominante": vale a dire, come un criterio valido a tratteggiare un mutamento "organico" che pero' si verifica in maniera "molecolare" poiche' le forze che dovrebbero rappresentare l'antitesi storica non sono in grado di assolvere al loro ufficio e quindi i cambiamenti si verificano sotto la direzione delle vecchie classi dominanti.
L'attore principale della "rivoluzione passiva", a livello mondiale, sono gli Stati Uniti d'America. Riprendendo temi ai quali gia' L'Ordine nuovo settimanale aveva dedicato attenzione, come quello del taylorismo, fin dalle prime note dei Quaderni il G. propone una lettura lungimirante dell'"americanismo". Nel 1934, rielaborando queste analisi nel Quaderno 22 (Americanismo e fordismo), egli si domanda se il nuovo industrialismo americano rappresenti un fatto progressivo e se sia destinato a espandersi mondialmente. La risposta all'uno e all'altro interrogativo e' positiva. Il G. osserva che "col peso implacabile della sua produzione economica" l'America "costringera' l'Europa a un rivolgimento della sua assise economico-sociale troppo antiquata". Proprio quando il destino dell'Europa sembra segnato dall'alternativa drammatica fra fascismo e bolscevismo, il G. pensa invece che, adattando la "regolazione fordista" ai rapporti fra capitale e lavoro, e con la creazione di una economia dei consumi, la societa' europea possa essere riorganizzata su nuove basi democratiche, piu' diffuse e piu' ampie. L'"americanismo" e il "fordismo" sono quindi i fenomeni che davvero fanno epoca e disegnano le alternative del futuro. E si tratta di una "rivoluzione passiva" perche', dal punto di vista storico, il passaggio dall'"individualismo economico" a una "economia programmatica" e' del massimo interesse per le classi subalterne; esse si mostrano pero' incapaci di "iniziativa storica" su questo terreno e sono quindi gli Stati Uniti d'America a promuovere una trasformazione storicamente necessaria; il mutamento avviene sotto la direzione di nuovi gruppi capitalistici.
Rispetto all'"economia di comando" dell'URSS staliniana - e' questo il pensiero del G. - l'"economia programmatica" e' una forma superiore di economia di piano poiche' non sopprime il mercato, ma lo regola politicamente sulla base di un "compromesso" tra le classi fondamentali, e dunque non e' coercitiva ma espansiva. In quest'ottica il fascismo appare l'"agente" della "rivoluzione passiva" in Europa poiche' interpreta la necessita' delle vecchie classi dominanti di mantenere sotto il proprio controllo il passaggio dall'"individualismo economico" a una "economia programmatica", evitando un compromesso con la classe operaia e stroncandone l'autonomia per arginare l'influenza della Rivoluzione d'ottobre. Ma il G. non esclude che nella gabbia dello Stato corporativo si formino le premesse di una "economia programmatica" destinata a liberarsi dalle strutture dello Stato totalitario. E nella politica economica del fascismo dei primi anni Trenta vede il formarsi delle prime basi dell'"economia mista", che implichera' prima o poi un compromesso democratico.
Nel pensiero del G. le categorie analitiche sono correlate alle categorie strategiche. Al concetto di "rivoluzione passiva" corrisponde, in politica, quello di "guerra di posizione". Posta questa correlazione egli ripensa la storia dell'ultimo cinquantennio. Il passaggio dalla "guerra manovrata" alla "guerra di posizione" richiedeva non solo una visione diversa della "via al potere", ma anche una concezione dello Stato ben piu' sofisticata di quella elaborata da Lenin in Stato e rivoluzione. Sul primo punto il pensiero del G. e' ormai chiaro: prima di conquistare lo Stato il proletariato deve aver creato una sua egemonia nella societa' civile. Quanto allo Stato, il G. propone una revisione della "concezione dello Stato secondo la funzione produttiva delle classi", basata sulle varieta' nazionali dei rapporti fra politica ed economia, e sull'interdipendenza fra i fattori dello sviluppo nazionale e il campo delle forze internazionali. Essa e' elaborata sull'esempio del Risorgimento italiano, il quale dimostra che essendo "limitate" e "represse" le basi dello sviluppo capitalistico, la spinta all'unificazione del mercato nazionale si era manifestata come "riflesso dello sviluppo internazionale che manda alla periferia le sue correnti ideologiche, nate sulla base dello sviluppo produttivo dei paesi piu' progrediti", per cui "il gruppo portatore delle nuove idee non [era stato] il gruppo economico, ma il ceto degli intellettuali". Questo vuol dire che, sebbene lo Stato sia sempre espressione di una classe o di un'alleanza di classi dominanti che attraverso la sua creazione si unificano, la relazione fra lo Stato e la classe dominante non e' "facilmente determinabile" come in "un rapporto di mezzo e fine" (Quaderni, p. 1360). Lo "Stato-classe", quindi, non puo' essere concepito come se fra lo Stato e la classe dominante vi sia una relazione lineare e meccanica, in quanto l'equilibrio delle forze necessario a garantire la stabilita' dello Stato tanto sul piano interno quanto sul piano internazionale rende necessario un "compromesso" fra le classi fondamentali. Insomma, per il G. "Stato e' tutto il complesso di attivita' pratiche e teoriche con cui la classe dirigente giustifica e mantiene il suo dominio non solo ma riesce a ottenere il consenso attivo dei governati" (ibid., p. 1765). Questa concezione evidentemente supera o quanto meno modifica radicalmente la teoria della "dittatura del proletariato".
La rielaborazione delle categorie analitiche e strategiche mira a riformulare i problemi della "rivoluzione mondiale", non certo a rinunciarvi. Il G. riprende quindi il tema (marxiano e leniniano) dell'"estinzione dello Stato" e lo reinterpreta in modo originale. Sul piano nazionale esso si traduce in quello dei rapporti fra governanti e governati. Con accenti che manifestano la sua frequentazione degli elitisti (G. Mosca e R. Michels soprattutto) il G. sottolinea che "tutta la scienza e l'arte politica si basano [sul] fatto primordiale, irriducibile" dell'esistenza in qualunque tipo di Stato di "governanti e governati, dirigenti e diretti". La distinzione fra essi non e' eliminabile. Si pone invece il problema di creare le condizioni perche' fra loro non prevalgano rapporti di dominio, ma si instaurino relazioni comunicative. Il problema puo' essere impostato solo nella prospettiva del comunismo. Cioe', scrive il G., "nel formare i dirigenti e' fondamentale la premessa: si vuole che ci siano sempre governanti e governati oppure si vogliono creare le condizioni in cui la necessita' dell'esistenza di questa divisione sparisca? cioe' si parte dalla premessa della perpetua divisione del genere umano o si crede che essa sia solo un fatto storico, rispondente a certe condizioni?" (ibid., p. 1752).
Sul piano internazionale il problema dell'"estinzione dello Stato" e' legato al modo in cui il proletariato e il suo partito impostano la politica nazionale: "Una classe di carattere internazionale in quanto guida strati sociali strettamente nazionali (intellettuali) e anzi spesso meno ancora che nazionali, particolaristi e municipalisti (i contadini), deve "nazionalizzarsi" [...]. Occorre pertanto studiare esattamente la combinazione di forze nazionali che la classe internazionale dovra' dirigere e sviluppare secondo la prospettiva e le direttive internazionali" (ibid., p. 1729).
Interpretare correttamente questa "combinazione" vuol dire svolgere un "lavorio continuo per sceverare l'elemento "internazionale" e "unitario" nella realta' nazionale e localistica": questa "e' in realta' l'azione politica concreta, l'attivita' sola produttiva di progresso storico" (ibid., p. 1635).
Da questa impostazione deriva anche l'indirizzo politico che il movimento operaio deve seguire in Italia. Il problema fondamentale da risolvere, scrive il G. in un passo cruciale del Quaderno sul Risorgimento italiano, riguarda "il basso saggio individuale del reddito nazionale". La responsabilita' della debole competitivita' internazionale dell'Italia, che da esso consegue, e' "della classe economica dominante" che basa "l'azienda economica [...] essenzialmente sullo sfruttamento di rapina delle classi lavoratrici e produttrici" (ibid., pp. 1990 s.). Solo il proletariato, dunque, puo' essere l'interprete di una combinazione virtuosa degli elementi nazionali e internazionali dello sviluppo del paese, poiche' esso e' interessato alla crescita del reddito nazionale ed e' consapevole che senza crearne le condizioni interne non e' possibile mutare la collocazione internazionale dell'Italia. Ma e' necessario che la sua prospettiva sia quella di "collaborare a ricostruire il mondo economicamente in modo unitario".
Come abbiamo visto, la funzione egemonica del proletariato e' resa possibile dalla scissione ormai matura fra capitalismo e industrialismo, che ora viene interpretata in una prospettiva piu' ampia. L'industrialismo di tipo americano crea una "standardizzazione del modo di pensare e di operare [che] assume estensioni nazionali o addirittura continentali", per cui "l'uomo collettivo odierno si forma [...] essenzialmente dal basso in alto, sulla base della posizione occupata dalla collettivita' nel mondo della produzione" (ibid., p. 862). Su queste basi si pone quindi il problema della formazione di una "nuova volonta' collettiva nazionale e popolare". "E' il problema che modernamente si esprime in termini di partito o di coalizione di partiti" (ibid., p. 1058), poiche' il partito politico e' un "elemento di societa' complessa", un organismo "gia' dato dallo sviluppo storico [...] nel quale gia' [ha avuto] inizio il concretarsi di una volonta' collettiva riconosciuta e affermatasi parzialmente nell'azione" (ibid., p. 1558).
Per suscitare una nuova volonta' collettiva nazionalpopolare il partito della classe operaia deve saper risolvere un problema teorico fondamentale: "come nasce il movimento storico sulla base della struttura"? (ibid., p. 1422). Il paragrafo 17 del Quaderno su Machiavelli, fondamentale per la concezione gramsciana della "scienza della politica e della storia", esordisce affermando: "E' il problema dei rapporti tra struttura e superstrutture che bisogna impostare esattamente e risolvere per giungere a una giusta analisi delle forze che operano nella storia di un determinato periodo e determinare il loro rapporto" (ibid., pp. 1578 s.). A tal fine egli ricorre al concetto ricardiano di "mercato determinato", al quale attribuisce un valore decisivo nella elaborazione della base filosofica del materialismo storico: "mercato determinato" equivale a dire "determinato rapporto di forze sociali in una determinata struttura dell'apparato di produzione", rapporto garantito (cioe' reso permanente) da una determinata superstruttura politica, morale, giuridica (ibid., p. 1477).
Vale a dire che per rispondere alla domanda "come nasce il movimento storico" sono da indagare i rapporti fra Stato e mercato e le relazioni internazionali di entrambi, al fine di determinare quale tipo di "fusione" fra struttura e superstrutture si sia prodotta (o si voglia produrre) in un determinato paese, e quindi quali siano le particolarita' del "sistema egemonico" dominante. Attingendo a G. Sorel il G. introduce, a tale proposito, il concetto di "blocco storico" e abbandona la coppia concettuale struttura-sovrastruttura per sostituirvi il tema della "analisi delle situazioni" e dei "rapporti di forza".
Ma per svolgere correttamente l'"analisi delle situazioni" "occorre muoversi nell'ambito di due principii: 1 quello che nessuna societa' si pone dei compiti per la cui soluzione non esistano gia' le condizioni necessarie e sufficienti o esse non siano almeno in via di apparizione e di sviluppo; 2 e quello che nessuna societa' si dissolve e puo' essere sostituita se prima non ha svolto tutte le forme di vita che sono implicite nei suoi rapporti". Sono i principi della filosofia della praxis, sintetizzati da Marx nella Prefazione a Per la critica dell'economia politica, ai quali il G. attribuisce un valore fondamentale poiche' fondano una teoria della storia capace di spiegare qualunque evento della vita economica, politica, scientifica, intellettuale e morale. La filosofia della praxis e' la sola filosofia che ritraduca cosi' il problema speculativo delle "prime categorie della logica di Hegel", cioe' come e' concepibile il "movimento" in astratto, nella elaborazione di una gnoseologia realistica e integrale della storia. Per attingere la capacita' di analizzare storicamente ogni aspetto della realta', soprattutto se intende trasformarla, il partito politico deve quindi avere un suo indirizzo filosofico e questo non puo' essere che la filosofia della praxis.
Elemento vitale del partito politico e' l'unita' di teoria e pratica. Questo, pero', non e' un problema filosofico ma, secondo il G., una "quistione" che deve "essere impostata storicamente, e cioe' come un aspetto della quistione politica degli intellettuali" (ibid., p. 1386). Egli si pone quindi il problema di elaborare una teoria generale della funzione e del ruolo degli intellettuali (a essa sono dedicate le note raggruppate nel Quaderno 10), il cui concetto principale e' quello di "intellettuale organico". Esso sta a indicare che gli intellettuali, contrariamente a come generalmente si autorappresentano, non costituiscono "un gruppo sociale autonomo ed indipendente", ma "ogni gruppo sociale, nascendo sul terreno originario di una funzione essenziale nel mondo della produzione economica, si crea insieme, organicamente, uno o piu' ceti di intellettuali che gli danno omogeneita' e consapevolezza della propria funzione non solo nel campo economico, ma anche in quello sociale e politico" (ibid., p. 1513). Le funzioni degli intellettuali sono eminentemente "organizzative e connettive", e dipendono dal ruolo che essi hanno in rapporto al mondo della produzione, all'organizzazione della societa' e dello Stato. L'intellettuale organico per eccellenza della societa' moderna e' l'imprenditore capitalista, il quale nello svolgimento del suo ruolo si pone problemi organizzativi che non riguardano soltanto la produzione, ma anche la societa' e lo Stato. Il partito politico del proletariato non puo' assolvere la sua missione se non dando vita a suoi gruppi intellettuali, che oltre a risolvere i problemi connessi alla sua unita' e autonomia, siano capaci di dar forma all'organizzazione complessiva dello Stato e dell'economia che esso intende creare. Una funzione intellettuale "specializzata" deve essere dedicata all'elaborazione dei valori universali e del tipo di civilta' a cui esso tende: "Percio' - scrive il G. - si puo' dire che i partiti sono gli elaboratori delle nuove intellettualita' integrali e totalitarie, cioe' il crogiolo dell'unificazione di teoria e pratica intesa come processo storico" (ibid., p. 1387).
Queste affermazioni scaturiscono dalla osservazione del "rilievo" e dell'"importanza" "che hanno nel mondo moderno i partiti politici nell'elaborazione e nella diffusione delle concezioni del mondo in quanto essenzialmente [ne] elaborano l'etica e la politica conforme" (ibid.). Esse si collegano alle riflessioni suscitate dalla lettura della Storia d'Europa nel secolo XIX del Croce. Il G. riflette sulla identificazione di filosofia e politica, e di filosofia e ideologia, a cui Croce era giunto con la pubblicazione della Storia nel 1932, e soprattutto sul concetto di "religione della liberta'". Per il G., Croce rappresenta "il momento attuale dello sviluppo storico mondiale dell'idealismo" e quindi costituisce il principale termine di confronto della filosofia della praxis. Rifare, rispetto al Croce, il lavoro critico che Marx aveva sviluppato rispetto a Hegel e', sul piano filosofico, il compito che il movimento comunista si sarebbe dovuto proporre. Ma tale compito non puo' svolgersi solo nel campo intellettuale, deve essere svolto anche sul terreno storico-politico. L'ufficio della filosofia della praxis e' quello di risolvere la frattura fra intellettuali e semplici, e quindi il suo sviluppo non puo' essere che "teorico-pratico". E' il tema della "riforma intellettuale e morale", che dovrebbe preparare l'avvento mondiale del socialismo con un movimento storico culturale analogo a quello che fu per la Rivoluzione francese l'Illuminismo, ma che deve avere il carattere nazionale e popolare della Riforma protestante.
In ultima analisi la lotta per l'egemonia mondiale si sviluppa attraverso il confronto fra due idee diverse della liberta', che vogliono avere entrambe il valore di "religioni", religioni laiche, sostitutive di quelle rivelate. In questa luce la "religione della liberta'" crociana appare al G. incongruente e limitata. A livello popolare la religione che il liberalismo ha effettivamente propagandato e diffuso e' stata il nazionalismo (ibid., pp. 1230 s.). Invece "la diffusione della filosofia della praxis e' [...] una riforma intellettuale e morale che compie su scala nazionale cio' che il liberalismo non e' riuscito a compiere che per ristretti ceti della popolazione" (p. 1292). Si propone cosi' anche sul terreno filosofico la contrapposizione fra nazionalismo e cosmopolitismo. Infatti, la "riforma intellettuale e morale" e' legata necessariamente "a un programma di riforma economica" volta all'"elevamento civile degli strati depressi della societa'" e a un mutamento nella loro "posizione sociale e nel mondo economico" (ibid., p. 1561).
Secondo il G. i principi fondamentali della filosofia della praxis, sintetizzati da Marx nella Prefazione a Per la critica dell'economia politica, erano stati arricchiti dall'opera politica di Lenin con la creazione di un nuovo Stato e la realizzazione del "principio teorico-pratico dell'egemonia" (ibid., pp. 1249 s.). Ma la situazione del marxismo era ben lungi dal corrispondere a essi. Dopo aver ripercorso criticamente la storia delle sue diverse correnti e messo in luce nel Quaderno 11 soprattutto il primitivismo del "marxismo sovietico", egli giunge alla conclusione che nella lotta fra capitalismo e comunismo il terreno filosofico e' quello decisivo. La mancanza di autonomia filosofica del marxismo esistente (marxismo "in combinazione") documenta la subalternita' del movimento operaio a livello mondiale, malgrado l'evento epocale della Rivoluzione d'ottobre e l'esistenza dell'URSS. La filosofia della praxis sviluppata nei Quaderni attraverso l'elaborazione degli elementi basilari di una "scienza della politica e della storia" (di cui abbiamo ricostruito solo i capisaldi e illustrato le principali innovazioni concettuali e di lessico) mira quindi a porre le basi di un programma futuro.
(Parte terza - segue)
2. LIBRI. DAVIDE BRUGNARO PRESENTA "HUMANITAS MUNDI. SCRITTI SU KARL JASPERS" DI HANNAH ARENDT
[Dal sito http://universa.padovauniversitypress.it riprendiamo la seguente recensione apparsa su "Universa", vol. 6, n. 2 (2017)]
Hannah Arendt, Humanitas mundi. Scritti su Karl Jaspers, Mimesis Edizioni, 2015, pp. 102.
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Al nome di Heidegger si accompagnano un'eredita' filosofica e una serie di questioni personali e politiche che lo legano ad Arendt, il peso delle quali rischia di mettere in ombra l'altro grande maestro dell'intellettuale tedesca: Karl Jaspers. Il testo qui presentato, a cura di Rosalia Peluso – che, nella sua approfondita Introduzione, ricostruisce e interpreta finemente le fila che intrecciano le vite dei due pensatori – aiuta a porre rimedio a questo problema, raccogliendo tre interessanti scritti arendtiani su Jaspers nella loro prima traduzione italiana.
Quello di Arendt con Jaspers e' un rapporto fondamentale che, nel corso del tempo, assume diverse configurazioni: se, inizialmente, lei e' soltanto allieva di lui a Heidelberg, in seguito fra i due si instaura una relazione d'amicizia e un profondo sodalizio intellettuale. Il loro carteggio rappresenta una testimonianza dell'intensita' e dell'evoluzione di questo scambio; per citare soltanto due questioni per Arendt cruciali, e' con Jaspers che ella si confronta sulla questione del male, nelle sue dimensioni della radicalita' e della banalita', cosi' come e' l'opera I grandi filosofi che nel 1957 stimola quella rilettura di Kant che e' all'origine della peculiare interpretazione del problema del giudizio. Una vicinanza spirituale che pero' non si e' mai tramutata in riverenza, lasciando spazio anche alla contrapposizione, la quale puo' manifestarsi soltanto se in un rapporto vi e' reciproco e autentico riconoscimento delle due singolarita'; prova ne sia la perplessita' di Arendt nei confronti dell'idea di una "essenza tedesca", cui Jaspers faceva riferimento nel sottotitolo del suo scritto su Max Weber (1933), o nei confronti della ricerca delle origini del nazismo, in relazione alla Schuldfrage (1946).
Il primo contributo, Jaspers cittadino del mondo?, fu pubblicato per la prima volta nel 1957 nella raccolta The Philosophy of Karl Jaspers e ristampato undici anni dopo in Men in Dark Times con l'aggiunta del punto interrogativo; tale aggiunta segnala il rifiuto arendtiano dell'equivalenza fra l'essere cittadino del mondo e l'essere cittadino del proprio paese, l'affermazione di una differenza la cui negazione significherebbe per lei nient'altro che sradicamento.
Lo scritto si pone in risposta a Origine e senso della storia (1949) e discute in chiave politica l'idea jaspersiana di umanita' e di ordine mondiale. L'interpretazione del filosofo di Oldenburg si inserisce nel quadro della riflessione tedesca sulla storia mondiale o universale (Weltgeschichte), ma la sua individuazione di un asse storico in grado di fornire a tutte le nazioni una struttura comune – ossia il ricorso a un criterio di carattere empirico, capace quindi di garantirne verificabilita' e condivisione – ne attesta l'originalita' rispetto alle altre filosofie della storia. Tale criterio, poiche' preserva la pluralita' delle differenti origini, potrebbe rappresentare il fondamento di un'unita' di tutti gli uomini non riducibile all'uniformita' meramente superficiale della dissoluzione di ogni tradizione nazionale.
Se Kant aveva proiettato in un futuro lontano la possibilita', sorretta dalla speranza, di un accordo dell'umanita' come risultato della storia – connessa ad un'idea di progresso che Arendt rifiutava e che vedeva contraddire la sua filosofia morale, al cui centro stava l'individuo e la sua dignita' – Jaspers, invece, pensava all'unita' dell'umanita' come realta' presente. Nell'idea jaspersiana di un ordine mondiale costituito su base federativa da stati che rinunciano alla loro sovranita' in favore di decisioni, procedure e garanzie comuni, Arendt vede il significato autenticamente politico e la realizzazione pratica del cosmopolitismo kantiano (tant'e' che, nell'intervista rilasciata ad Adelbert Reif nel 1970 e contenuta in Crises of the Republic, Arendt sosterra' la fecondita' dell'assetto federale, in cui il potere si muove non verticalmente ma orizzontalmente, per la formazione di un nuovo concetto di stato).
La comparsa del genere umano come tangibile realta' politica segna l'inizio della "storia dell'umanita'" a cui possiamo prepararci soltanto attraverso la jaspersiana "filosofia dell'umanita'" (p. 79), la quale insiste sulla pluralita' e al cui centro vi e' l'idea di comunicazione; in quest'ultima Arendt vede una modalita' di pensiero che non tende ne' ad autoaffermarsi in maniera tirannica, ne' a ripiegarsi su di se' in maniera solipsistica, tentando di piegare nelle proprie maglie il mondo, in un caso, o dimenticandosi di esso, nell'altro. Questo tipo di pensiero, l'indagine sul quale costituisce per Arendt una preoccupazione teorica centrale, trova in Jaspers – cosi' come in Socrate – un'espressione concreta e un vivo esempio. Esistenza e ragione sono, per il filosofo, i due poli inscindibili del nostro essere: "l'esistenza si chiarisce soltanto attraverso la ragione e la ragione riceve il proprio contenuto soltanto dall'esistenza" – riporta Arendt da un passo di Reason and Existenz (uno dei pochi che ha segnato a matita nella sua copia personale del libro, regalatole da Jaspers e oggi custodito presso la Stevenson Library del Bard College, New York). Per la prima volta la comunicazione non e' seconda rispetto al pensiero, in quanto sua estrinsecazione, ma nel dominio esistenziale coincide con la verita': in altre parole, la verita' e' essa stessa comunicativa, cioe' sostanza esistenziale chiarita e articolata dalla ragione.
Il secondo scritto, Il futuro della Germania, e' invece la premessa all'edizione americana del 1967 dell'opera di Jaspers Wohin treibt die Bundesrepublik?, nella quale egli denuncia come non vi sia stata nessuna reale cesura col passato dopo il 1945 e come permangano nella Germania post-bellica condizioni pericolose per la democrazia (la "oligarchia dei partiti" e la contrazione dell'opposizione parlamentare). Arendt, nella sua premessa, riconosce che il testo lancia un segnale d'allarme sulle sinistre similitudini fra Bonn e Weimar, ossia sulla possibilita' che il governo della Germania occidentale possa scivolare verso una dittatura; ella mette infatti in guardia dal risorgente nazionalismo e dall'impotenza di quella parte di popolazione disposta a guardare in faccia la realta', considerando questo testo – di cui sottolinea l'eloquente divario fra il successo editoriale e le aspre critiche ricevute – uno dei piu' importanti contributi alla riflessione politica del tempo.
Il terzo e ultimo contributo, tratto da Erinnerungen an Karl Jaspers e intitolato Jaspers a ottantacinque anni, e' stato scritto nel 1968 in occasione dell'ottantacinquesimo compleanno dell'amico e pubblicato nel 1974. Fedelta' e gratitudine sono le parole usate "per dirsi addio" (p. 53) che costituiscono il fulcro filosofico attorno al quale ruota il breve testo. Nella gratitudine Arendt individua la tonalita' fondamentale della filosofia e della vita di Jaspers. Momento privilegiato per accedere a questa esperienza e' la vecchiaia, vero e proprio stato di grazia in cui poter beneficiare di quell'"io senza eta'" del pensiero e in cui la vita appare finalmente come un tutto. Gratitudine significa per Arendt amor mundi, ossia riconoscenza rivolta al miracolo dell'esser-nati e di vivere, un atteggiamento che pone non tanto l'uomo al centro del mondo, quanto il mondo al centro della vita umana. La fedelta', invece, e' per Jaspers "il segno della verita'": puo' cioe' essere considerato vero soltanto cio' a cui abbiamo potuto mantenerci fedeli fino alla fine della nostra esistenza, cio' che permane identico nel tempo; e senza tale fedelta', per Arendt, la verita' e' inconoscibile e inconsistente per la vita.
Gia' nel saggio del 1946 What is Existenz Philosophy? la pensatrice aveva mostrato apprezzamento per la filosofia dell'esistenza del maestro, per quel modo di filosofare in cui non e' in gioco il raggiungimento di risultati, ma il rischiaramento dell'esistenza – mai isolata, ma tale solo nella comunicazione e nella relazione con altre esistenze. E' poi il 1958 quando Arendt introduce Jaspers, destinatario di un'importante onorificenza, in qualita' di Laudatorin. In quell'occasione si capisce quale posizione speciale egli occupasse nella lista degli uomini capaci di tener accesa la luce della ragione nei "tempi bui": egli non ha mai fatto proprio il pregiudizio heideggeriano in base al quale la chiarezza della sfera pubblica renderebbe piatta ogni cosa, e per cui quindi il filosofo dovrebbe starne alla larga; al contrario, per lui la filosofia, come la politica, riguarda ogni uomo. Egli ha a cuore l'umanita' del mondo, l'humanitas mundi, ed e' questo che per Arendt ha un significato rilevante politicamente.
Cio' che secondo Arendt distingue Jaspers dagli altri filosofi di professione – come nota giustamente la curatrice – e' stato l'abbandono dell'atteggiamento di sospetto, se non di aperta ostilita', nei confronti della sfera pubblica che ha caratterizzato buona parte della tradizione filosofica. Egli e' stato interprete di un'idea di filosofia aperta e comunicativa in cui "vita e pensiero sono due facce della stessa medaglia" (p. 97). Quel che infatti puo' fare una "filosofia dell'umanita'" e' riconoscere gli human affairs come uno dei grandi domini in cui la vita umana trova non soltanto espressione ma soprattutto significato. Con Jaspers la filosofia abbandona la sua torre d'avorio, rinuncia cioe' ad essere prestazione di un individuo nel suo isolamento per diventare una pratica tra uomini, perde l'arroganza nei confronti della vita comune per farsi – scrive Arendt – "ancilla vitae" (p. 74). E l'insegnamento che Arendt pare trarre dalla condotta dell'amico Jaspers e' che questa modalita' di orientare pubblicamente il pensiero filosofico costituisce, forse, l'unica possibilita' di mantenere salda la propria capacita' di giudizio.
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Bibliografia
Hannah Arendt, Che cos'e' la filosofia dell'esistenza?, trad. it., a cura di Sante Maletta, Jaca Book, 1998.
Hannah Arendt, Crises of the Republic, Harcourt Brace Jovanovich, 1972.
Hannah Arendt, Karl Jaspers, Carteggio. 1926-1969. Filosofia e politica, trad. it., Feltrinelli, 1989.
Karl Jaspers, Reason and Existenz, translated with an Introduction by William Earle, The Noonday Press, 1955.
Karl Jaspers, Hannah Arendt, Verita' e umanita'. Discorsi per il conferimento del premio per la pace dei librai tedeschi 1958, trad. it., a cura di Attilio Bragantini, Mimesis Edizioni, 2014.
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a cura del "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo
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Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com
Numero 66 del 29 aprile 2021
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Numero 66 del 29 aprile 2021
In questo numero:
1. Giuseppe Vacca: Antonio Gramsci (2002) (parte terza)
2. Davide Brugnaro presenta "Humanitas mundi. Scritti su Karl Jaspers" di Hannah Arendt
1. MAESTRI. GIUSEPPE VACCA: ANTONIO GRAMSCI (2002) (PARTE TERZA)
[Dal sito www.treccani.it riproponiamo la seguente voce apparsa nel Dizionario biografico degli italiani]
Nel 1925 il G. era riuscito a rintracciare la cognata, Tania Schucht, che viveva a Roma appartata, e, come gia' accennato, aveva allacciato con lei un'intensa amicizia. Tania non era comunista e frequentava esuli russi socialisti rivoluzionari; si iscrisse al partito comunista bolscevico nel 1927, per poter assistere il G., ma quando egli, negli anni del carcere, sviluppo' la sua critica del bolscevismo, ne condivise le posizioni, cercando di difenderle dopo la sua morte. Subito dopo l'arresto del G., Tatiana e Sraffa, intimo amico dai tempi de L'Ordine nuovo, divennero i suoi punti di riferimento per le necessita' di ordine familiare e privato. Dal 1929 essi furono anche l'unico suo tramite con il partito e con Togliatti che assunse il compito di seguire personalmente le vicende del prigioniero.
Nel gennaio 1929 il G. aveva ottenuto il permesso di scrivere e l'8 febbraio comincio' la stesura dei Quaderni del carcere.
E' molto significativo il piano di studi che egli comunicava a Tania il 25 marzo: "Ho deciso di occuparmi prevalentemente e di prendere note su questi tre argomenti: I La storia italiana del secolo XIX, con speciale riguardo della formazione e dello sviluppo dei gruppi intellettuali; II La teoria della storia e della storiografia; III L'americanismo e il fordismo" (Lettere 1926-1935, p. 333).
Complessivamente i quaderni sono 33, 21 dei quali furono scritti a Turi. Dal 1931 il G. comincio' a rielaborare e raggruppare le sue "note" raccogliendole, secondo un criterio tematico, in "quaderni speciali"; nel contempo proseguiva nella stesura di "note sparse". Alla sua morte i quaderni furono presi in consegna dalla cognata che li custodi' presso l'ambasciata sovietica a Roma fino all'inoltro, a Mosca, alla moglie Giulia, alla fine del 1938. A Mosca essi vennero richiesti dal Komintern che, nel febbraio 1939, istitui' una commissione per lo studio e la valorizzazione dell'eredita' letteraria del G., dalla quale Tania, rientrata in Russia alla fine del 1938, fu ben presto esclusa. Regista dell'acquisizione e dei lavori della commissione fu Togliatti, che ne comincio' lo studio con l'intento di pubblicarli.
Ai Quaderni si affiancavano i manoscritti delle lettere, affidate anch'esse alla cura di Togliatti. Una prima edizione di queste era gia' pronta nel 1943, ma fu pubblicata dall'editore Einaudi soltanto nel 1947 anche per servire come viatico alla diffusione dei Quaderni che furono pubblicati dallo stesso editore in 6 voll., a cura di F. Platone e dello stesso Togliatti, dal 1948 al 1951, secondo i criteri tematici suggeriti dal G. (e probabilmente anche da Sraffa). Nel 1975, sempre presso Einaudi, ne venne pubblicata l'edizione critica curata da V. Gerratana che ripristinava l'ordine cronologico delle "note" e dei "quaderni speciali". Fin dalla prima edizione le Lettere e i Quaderni rivelarono alla cultura italiana e internazionale le qualita' dello scrittore e la figura del pensatore e del politico. L'edizione cronologica dei Quaderni ha contribuito ad accrescerne grandemente le traduzioni e lo studio nelle principali aree linguistiche del mondo dove, cosi' come in Italia, il G. e' considerato sempre piu' un classico del pensiero politico del Novecento.
Negli Appunti preparatori della relazione al I convegno di studi gramsciani (Roma, gennaio 1958) Togliatti avvertiva che "Gramsci fu un teorico della politica, ma soprattutto fu un politico pratico, cioe' un combattente". Nella politica, quindi, "e' da ricercarsi l'unita' della [sua] vita: il punto di partenza e il punto di arrivo". Questo criterio metodologico e' valido per risalire alle motivazioni della stesura dei Quaderni e ricostruirne il "programma di ricerca". Infatti, anche in quegli anni, nei quali era escluso dall'azione politica (dal 1927 il G. venne sostituito da Togliatti alla guida del partito), egli continuo' a battersi per le sue idee e per le sue posizioni. I Quaderni, dunque, vennero concepiti per proseguire, nel campo del pensiero, la lotta politica a cui non poteva piu' partecipare immediatamente e, quando si profilo' la fine della sua detenzione, il G. progettava di portarli con se' a Mosca per poterli utilizzare nelle battaglie politiche e culturali che si proponeva di dare anche all'interno del movimento comunista.
Dinanzi alla crisi del 1929-32 il Komintern, ormai del tutto subordinato agli interessi statali dell'URSS, abbandonava la "tattica di fronte unico" e teorizzava l'imminenza di una nuova ondata rivoluzionaria. I partiti comunisti, anche in un paese come l'Italia, dove il fascismo ormai trasformato in un regime totalitario ne impediva persino l'esistenza, dovevano lanciare un'offensiva diretta per la presa del potere. La socialdemocrazia era definita una punta avanzata della reazione (teoria del "socialfascismo") e considerata il nemico principale da combattere.
Nel luglio del 1929 questa linea venne imposta anche al PCd'I che vi si adeguo', sebbene riluttante, abbandonando la politica impostata dal G. fra 1924 e 1926. Informato degli avvenimenti il G. vi si oppose fermamente, difendendo, nelle conversazioni che intratteneva con i compagni a Turi, la prospettiva della costituente; nel "collettivo" del carcere questo provoco' aspre reazioni e il G. venne emarginato. Eguale sorte egli subi' nella stampa del partito, dalla quale il suo nome scomparve fino al maggio 1933. Per i vertici del partito comunista sovietico e del Komintern, sempre piu' monopolizzati dalla elite staliniana, egli era un eretico e tale rimase anche dopo che la "tattica di fronte unico" venne formalmente restaurata e il VII congresso dell'Internazionale (luglio 1935) lancio' la politica dei "fronti popolari". E' impossibile comprendere i Quaderni senza tenere conto della coeva involuzione dell'URSS e del movimento comunista: una eclisse di cui il G. si propose di indagare soprattutto le origini teoriche e a cui penso' di ovviare elaborando un nuovo pensiero e un nuovo programma per reagire anche alla propria sconfitta.
Il "programma di ricerca" dei Quaderni muove dalla necessita' di fissare innanzi tutto una interpretazione valida delle crisi: la crisi del 1929, ma anche la crisi del dopoguerra e la guerra stessa come mancata risposta a una crisi precedente. Mentre il movimento comunista internazionale basava la sua politica (e la sua stessa ragion d'essere) sulla teoria della "crisi generale del capitalismo", nel febbraio 1933 il G. scrisse che, nello studiare gli avvenimenti "che si prolungano in forma catastrofica dal 1929 ad oggi [...] occorrera' combattere chiunque voglia [trovare di essi] una causa o un'origine unica", poiche' si tratta invece di un "processo complesso", rispetto al quale "semplificare significa snaturare e falsificare". Se poi ci si pone il problema del suo inizio, si puo' affermare che "tutto il dopoguerra e' crisi" e "per alcuni (e forse non a torto) la guerra stessa e' una manifestazione della crisi". Infatti, "una delle contraddizioni fondamentali", che spiega l'origine delle crisi, e' che "mentre la vita economica ha come premessa necessaria [...] il cosmopolitismo, la vita statale si e' sempre piu' sviluppata nel senso del "nazionalismo", del "bastare a se stessi", ecc. Uno dei caratteri piu' appariscenti della "attuale crisi", dunque, e' nient'altro che l'esasperazione dell'elemento nazionalistico dell'economia". Se una conclusione generale se ne vuole trarre, si puo' dire che le crisi scaturiscono dal contrasto fra il cosmopolitismo dell'economia e il nazionalismo della politica. Esso puo' generare le guerre, come nel caso del 1914-18, oppure spingere le classi dirigenti ad adeguare gli spazi della politica a quelli dell'economia, dando vita anche a "combinazioni regionali" (cioe' a unioni sovranazionali) di "gruppi di nazioni".
Ma la Grande Guerra era stata originata anche dai mutamenti maturati, dal 1870 in poi, nella societa' civile; e da questo punto di vista essa rappresentava una "frattura storica" non sanata perche', come abbiamo visto, aveva intensificato quei mutamenti, suscitando una soggettivita' incoercibile delle masse. Sommandosi alle conseguenze della Rivoluzione russa e della pressione che la potenza americana cominciava a esercitare sulla "struttura del mondo", essa domandava una nuova organizzazione dell'economia e della politica mondiale, in mancanza delle quali la crisi dello Stato-nazione avrebbe assunto una dimensione catastrofica.
Nell'ambito di questa analisi, l'affermazione del G. che anche "i raggruppamenti progressivi e innovatori" non sono in grado di dare una risposta alla crisi dello Stato chiama in causa i caratteri dell'URSS staliniana. Essa appare al G. una forma di "cesarismo" (sia pure progressivo), nel quale i contenuti dell'egemonia "del nuovo gruppo sociale che ha fondato il nuovo tipo di Stato" sono ancora "prevalentemente di ordine economico"; la "distruzione" procede separatamente dalla "ricostruzione"; pertanto "gli elementi di superstruttura non possono che essere scarsi e il loro carattere sara' di previsione e di lotta, ma con elementi di "piano" ancora scarsi". Su queste basi il proletariato, pur avendo dato vita a un proprio Stato, non puo' procedere alla formazione dei suoi intellettuali, ne' elaborare una nuova egemonia. L'"esperimento russo" si rivela, cosi', inespansivo, non ha (o non ha ancora) valori universali da proporre, come del resto e' naturale se l'URSS ha scelto l'autoisolamento.
Queste analisi implicavano, quindi, un mutamento di giudizio sulla rilevanza storica della Rivoluzione d'ottobre. Per caratterizzare la fase attuale della politica mondiale il G. introduceva un nuovo paradigma, e alla categoria di "stabilizzazione relativa" sostituiva quella di "rivoluzione passiva" (De Felice, 1977). Il concetto e' tratto dal Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 di V. Cuoco e compare fra le prime note dei Quaderni; ma "l'espressione del Cuoco - scrive il G. nel 1933 - non e' che uno spunto, poiché il concetto e' completamente modificato e arricchito" per essere applicabile a "ogni epoca complessa di rivolgimenti storici". Esso e' proposto come "criterio di interpretazione [di tali rivolgimenti] in assenza di altri elementi attivi in modo dominante": vale a dire, come un criterio valido a tratteggiare un mutamento "organico" che pero' si verifica in maniera "molecolare" poiche' le forze che dovrebbero rappresentare l'antitesi storica non sono in grado di assolvere al loro ufficio e quindi i cambiamenti si verificano sotto la direzione delle vecchie classi dominanti.
L'attore principale della "rivoluzione passiva", a livello mondiale, sono gli Stati Uniti d'America. Riprendendo temi ai quali gia' L'Ordine nuovo settimanale aveva dedicato attenzione, come quello del taylorismo, fin dalle prime note dei Quaderni il G. propone una lettura lungimirante dell'"americanismo". Nel 1934, rielaborando queste analisi nel Quaderno 22 (Americanismo e fordismo), egli si domanda se il nuovo industrialismo americano rappresenti un fatto progressivo e se sia destinato a espandersi mondialmente. La risposta all'uno e all'altro interrogativo e' positiva. Il G. osserva che "col peso implacabile della sua produzione economica" l'America "costringera' l'Europa a un rivolgimento della sua assise economico-sociale troppo antiquata". Proprio quando il destino dell'Europa sembra segnato dall'alternativa drammatica fra fascismo e bolscevismo, il G. pensa invece che, adattando la "regolazione fordista" ai rapporti fra capitale e lavoro, e con la creazione di una economia dei consumi, la societa' europea possa essere riorganizzata su nuove basi democratiche, piu' diffuse e piu' ampie. L'"americanismo" e il "fordismo" sono quindi i fenomeni che davvero fanno epoca e disegnano le alternative del futuro. E si tratta di una "rivoluzione passiva" perche', dal punto di vista storico, il passaggio dall'"individualismo economico" a una "economia programmatica" e' del massimo interesse per le classi subalterne; esse si mostrano pero' incapaci di "iniziativa storica" su questo terreno e sono quindi gli Stati Uniti d'America a promuovere una trasformazione storicamente necessaria; il mutamento avviene sotto la direzione di nuovi gruppi capitalistici.
Rispetto all'"economia di comando" dell'URSS staliniana - e' questo il pensiero del G. - l'"economia programmatica" e' una forma superiore di economia di piano poiche' non sopprime il mercato, ma lo regola politicamente sulla base di un "compromesso" tra le classi fondamentali, e dunque non e' coercitiva ma espansiva. In quest'ottica il fascismo appare l'"agente" della "rivoluzione passiva" in Europa poiche' interpreta la necessita' delle vecchie classi dominanti di mantenere sotto il proprio controllo il passaggio dall'"individualismo economico" a una "economia programmatica", evitando un compromesso con la classe operaia e stroncandone l'autonomia per arginare l'influenza della Rivoluzione d'ottobre. Ma il G. non esclude che nella gabbia dello Stato corporativo si formino le premesse di una "economia programmatica" destinata a liberarsi dalle strutture dello Stato totalitario. E nella politica economica del fascismo dei primi anni Trenta vede il formarsi delle prime basi dell'"economia mista", che implichera' prima o poi un compromesso democratico.
Nel pensiero del G. le categorie analitiche sono correlate alle categorie strategiche. Al concetto di "rivoluzione passiva" corrisponde, in politica, quello di "guerra di posizione". Posta questa correlazione egli ripensa la storia dell'ultimo cinquantennio. Il passaggio dalla "guerra manovrata" alla "guerra di posizione" richiedeva non solo una visione diversa della "via al potere", ma anche una concezione dello Stato ben piu' sofisticata di quella elaborata da Lenin in Stato e rivoluzione. Sul primo punto il pensiero del G. e' ormai chiaro: prima di conquistare lo Stato il proletariato deve aver creato una sua egemonia nella societa' civile. Quanto allo Stato, il G. propone una revisione della "concezione dello Stato secondo la funzione produttiva delle classi", basata sulle varieta' nazionali dei rapporti fra politica ed economia, e sull'interdipendenza fra i fattori dello sviluppo nazionale e il campo delle forze internazionali. Essa e' elaborata sull'esempio del Risorgimento italiano, il quale dimostra che essendo "limitate" e "represse" le basi dello sviluppo capitalistico, la spinta all'unificazione del mercato nazionale si era manifestata come "riflesso dello sviluppo internazionale che manda alla periferia le sue correnti ideologiche, nate sulla base dello sviluppo produttivo dei paesi piu' progrediti", per cui "il gruppo portatore delle nuove idee non [era stato] il gruppo economico, ma il ceto degli intellettuali". Questo vuol dire che, sebbene lo Stato sia sempre espressione di una classe o di un'alleanza di classi dominanti che attraverso la sua creazione si unificano, la relazione fra lo Stato e la classe dominante non e' "facilmente determinabile" come in "un rapporto di mezzo e fine" (Quaderni, p. 1360). Lo "Stato-classe", quindi, non puo' essere concepito come se fra lo Stato e la classe dominante vi sia una relazione lineare e meccanica, in quanto l'equilibrio delle forze necessario a garantire la stabilita' dello Stato tanto sul piano interno quanto sul piano internazionale rende necessario un "compromesso" fra le classi fondamentali. Insomma, per il G. "Stato e' tutto il complesso di attivita' pratiche e teoriche con cui la classe dirigente giustifica e mantiene il suo dominio non solo ma riesce a ottenere il consenso attivo dei governati" (ibid., p. 1765). Questa concezione evidentemente supera o quanto meno modifica radicalmente la teoria della "dittatura del proletariato".
La rielaborazione delle categorie analitiche e strategiche mira a riformulare i problemi della "rivoluzione mondiale", non certo a rinunciarvi. Il G. riprende quindi il tema (marxiano e leniniano) dell'"estinzione dello Stato" e lo reinterpreta in modo originale. Sul piano nazionale esso si traduce in quello dei rapporti fra governanti e governati. Con accenti che manifestano la sua frequentazione degli elitisti (G. Mosca e R. Michels soprattutto) il G. sottolinea che "tutta la scienza e l'arte politica si basano [sul] fatto primordiale, irriducibile" dell'esistenza in qualunque tipo di Stato di "governanti e governati, dirigenti e diretti". La distinzione fra essi non e' eliminabile. Si pone invece il problema di creare le condizioni perche' fra loro non prevalgano rapporti di dominio, ma si instaurino relazioni comunicative. Il problema puo' essere impostato solo nella prospettiva del comunismo. Cioe', scrive il G., "nel formare i dirigenti e' fondamentale la premessa: si vuole che ci siano sempre governanti e governati oppure si vogliono creare le condizioni in cui la necessita' dell'esistenza di questa divisione sparisca? cioe' si parte dalla premessa della perpetua divisione del genere umano o si crede che essa sia solo un fatto storico, rispondente a certe condizioni?" (ibid., p. 1752).
Sul piano internazionale il problema dell'"estinzione dello Stato" e' legato al modo in cui il proletariato e il suo partito impostano la politica nazionale: "Una classe di carattere internazionale in quanto guida strati sociali strettamente nazionali (intellettuali) e anzi spesso meno ancora che nazionali, particolaristi e municipalisti (i contadini), deve "nazionalizzarsi" [...]. Occorre pertanto studiare esattamente la combinazione di forze nazionali che la classe internazionale dovra' dirigere e sviluppare secondo la prospettiva e le direttive internazionali" (ibid., p. 1729).
Interpretare correttamente questa "combinazione" vuol dire svolgere un "lavorio continuo per sceverare l'elemento "internazionale" e "unitario" nella realta' nazionale e localistica": questa "e' in realta' l'azione politica concreta, l'attivita' sola produttiva di progresso storico" (ibid., p. 1635).
Da questa impostazione deriva anche l'indirizzo politico che il movimento operaio deve seguire in Italia. Il problema fondamentale da risolvere, scrive il G. in un passo cruciale del Quaderno sul Risorgimento italiano, riguarda "il basso saggio individuale del reddito nazionale". La responsabilita' della debole competitivita' internazionale dell'Italia, che da esso consegue, e' "della classe economica dominante" che basa "l'azienda economica [...] essenzialmente sullo sfruttamento di rapina delle classi lavoratrici e produttrici" (ibid., pp. 1990 s.). Solo il proletariato, dunque, puo' essere l'interprete di una combinazione virtuosa degli elementi nazionali e internazionali dello sviluppo del paese, poiche' esso e' interessato alla crescita del reddito nazionale ed e' consapevole che senza crearne le condizioni interne non e' possibile mutare la collocazione internazionale dell'Italia. Ma e' necessario che la sua prospettiva sia quella di "collaborare a ricostruire il mondo economicamente in modo unitario".
Come abbiamo visto, la funzione egemonica del proletariato e' resa possibile dalla scissione ormai matura fra capitalismo e industrialismo, che ora viene interpretata in una prospettiva piu' ampia. L'industrialismo di tipo americano crea una "standardizzazione del modo di pensare e di operare [che] assume estensioni nazionali o addirittura continentali", per cui "l'uomo collettivo odierno si forma [...] essenzialmente dal basso in alto, sulla base della posizione occupata dalla collettivita' nel mondo della produzione" (ibid., p. 862). Su queste basi si pone quindi il problema della formazione di una "nuova volonta' collettiva nazionale e popolare". "E' il problema che modernamente si esprime in termini di partito o di coalizione di partiti" (ibid., p. 1058), poiche' il partito politico e' un "elemento di societa' complessa", un organismo "gia' dato dallo sviluppo storico [...] nel quale gia' [ha avuto] inizio il concretarsi di una volonta' collettiva riconosciuta e affermatasi parzialmente nell'azione" (ibid., p. 1558).
Per suscitare una nuova volonta' collettiva nazionalpopolare il partito della classe operaia deve saper risolvere un problema teorico fondamentale: "come nasce il movimento storico sulla base della struttura"? (ibid., p. 1422). Il paragrafo 17 del Quaderno su Machiavelli, fondamentale per la concezione gramsciana della "scienza della politica e della storia", esordisce affermando: "E' il problema dei rapporti tra struttura e superstrutture che bisogna impostare esattamente e risolvere per giungere a una giusta analisi delle forze che operano nella storia di un determinato periodo e determinare il loro rapporto" (ibid., pp. 1578 s.). A tal fine egli ricorre al concetto ricardiano di "mercato determinato", al quale attribuisce un valore decisivo nella elaborazione della base filosofica del materialismo storico: "mercato determinato" equivale a dire "determinato rapporto di forze sociali in una determinata struttura dell'apparato di produzione", rapporto garantito (cioe' reso permanente) da una determinata superstruttura politica, morale, giuridica (ibid., p. 1477).
Vale a dire che per rispondere alla domanda "come nasce il movimento storico" sono da indagare i rapporti fra Stato e mercato e le relazioni internazionali di entrambi, al fine di determinare quale tipo di "fusione" fra struttura e superstrutture si sia prodotta (o si voglia produrre) in un determinato paese, e quindi quali siano le particolarita' del "sistema egemonico" dominante. Attingendo a G. Sorel il G. introduce, a tale proposito, il concetto di "blocco storico" e abbandona la coppia concettuale struttura-sovrastruttura per sostituirvi il tema della "analisi delle situazioni" e dei "rapporti di forza".
Ma per svolgere correttamente l'"analisi delle situazioni" "occorre muoversi nell'ambito di due principii: 1 quello che nessuna societa' si pone dei compiti per la cui soluzione non esistano gia' le condizioni necessarie e sufficienti o esse non siano almeno in via di apparizione e di sviluppo; 2 e quello che nessuna societa' si dissolve e puo' essere sostituita se prima non ha svolto tutte le forme di vita che sono implicite nei suoi rapporti". Sono i principi della filosofia della praxis, sintetizzati da Marx nella Prefazione a Per la critica dell'economia politica, ai quali il G. attribuisce un valore fondamentale poiche' fondano una teoria della storia capace di spiegare qualunque evento della vita economica, politica, scientifica, intellettuale e morale. La filosofia della praxis e' la sola filosofia che ritraduca cosi' il problema speculativo delle "prime categorie della logica di Hegel", cioe' come e' concepibile il "movimento" in astratto, nella elaborazione di una gnoseologia realistica e integrale della storia. Per attingere la capacita' di analizzare storicamente ogni aspetto della realta', soprattutto se intende trasformarla, il partito politico deve quindi avere un suo indirizzo filosofico e questo non puo' essere che la filosofia della praxis.
Elemento vitale del partito politico e' l'unita' di teoria e pratica. Questo, pero', non e' un problema filosofico ma, secondo il G., una "quistione" che deve "essere impostata storicamente, e cioe' come un aspetto della quistione politica degli intellettuali" (ibid., p. 1386). Egli si pone quindi il problema di elaborare una teoria generale della funzione e del ruolo degli intellettuali (a essa sono dedicate le note raggruppate nel Quaderno 10), il cui concetto principale e' quello di "intellettuale organico". Esso sta a indicare che gli intellettuali, contrariamente a come generalmente si autorappresentano, non costituiscono "un gruppo sociale autonomo ed indipendente", ma "ogni gruppo sociale, nascendo sul terreno originario di una funzione essenziale nel mondo della produzione economica, si crea insieme, organicamente, uno o piu' ceti di intellettuali che gli danno omogeneita' e consapevolezza della propria funzione non solo nel campo economico, ma anche in quello sociale e politico" (ibid., p. 1513). Le funzioni degli intellettuali sono eminentemente "organizzative e connettive", e dipendono dal ruolo che essi hanno in rapporto al mondo della produzione, all'organizzazione della societa' e dello Stato. L'intellettuale organico per eccellenza della societa' moderna e' l'imprenditore capitalista, il quale nello svolgimento del suo ruolo si pone problemi organizzativi che non riguardano soltanto la produzione, ma anche la societa' e lo Stato. Il partito politico del proletariato non puo' assolvere la sua missione se non dando vita a suoi gruppi intellettuali, che oltre a risolvere i problemi connessi alla sua unita' e autonomia, siano capaci di dar forma all'organizzazione complessiva dello Stato e dell'economia che esso intende creare. Una funzione intellettuale "specializzata" deve essere dedicata all'elaborazione dei valori universali e del tipo di civilta' a cui esso tende: "Percio' - scrive il G. - si puo' dire che i partiti sono gli elaboratori delle nuove intellettualita' integrali e totalitarie, cioe' il crogiolo dell'unificazione di teoria e pratica intesa come processo storico" (ibid., p. 1387).
Queste affermazioni scaturiscono dalla osservazione del "rilievo" e dell'"importanza" "che hanno nel mondo moderno i partiti politici nell'elaborazione e nella diffusione delle concezioni del mondo in quanto essenzialmente [ne] elaborano l'etica e la politica conforme" (ibid.). Esse si collegano alle riflessioni suscitate dalla lettura della Storia d'Europa nel secolo XIX del Croce. Il G. riflette sulla identificazione di filosofia e politica, e di filosofia e ideologia, a cui Croce era giunto con la pubblicazione della Storia nel 1932, e soprattutto sul concetto di "religione della liberta'". Per il G., Croce rappresenta "il momento attuale dello sviluppo storico mondiale dell'idealismo" e quindi costituisce il principale termine di confronto della filosofia della praxis. Rifare, rispetto al Croce, il lavoro critico che Marx aveva sviluppato rispetto a Hegel e', sul piano filosofico, il compito che il movimento comunista si sarebbe dovuto proporre. Ma tale compito non puo' svolgersi solo nel campo intellettuale, deve essere svolto anche sul terreno storico-politico. L'ufficio della filosofia della praxis e' quello di risolvere la frattura fra intellettuali e semplici, e quindi il suo sviluppo non puo' essere che "teorico-pratico". E' il tema della "riforma intellettuale e morale", che dovrebbe preparare l'avvento mondiale del socialismo con un movimento storico culturale analogo a quello che fu per la Rivoluzione francese l'Illuminismo, ma che deve avere il carattere nazionale e popolare della Riforma protestante.
In ultima analisi la lotta per l'egemonia mondiale si sviluppa attraverso il confronto fra due idee diverse della liberta', che vogliono avere entrambe il valore di "religioni", religioni laiche, sostitutive di quelle rivelate. In questa luce la "religione della liberta'" crociana appare al G. incongruente e limitata. A livello popolare la religione che il liberalismo ha effettivamente propagandato e diffuso e' stata il nazionalismo (ibid., pp. 1230 s.). Invece "la diffusione della filosofia della praxis e' [...] una riforma intellettuale e morale che compie su scala nazionale cio' che il liberalismo non e' riuscito a compiere che per ristretti ceti della popolazione" (p. 1292). Si propone cosi' anche sul terreno filosofico la contrapposizione fra nazionalismo e cosmopolitismo. Infatti, la "riforma intellettuale e morale" e' legata necessariamente "a un programma di riforma economica" volta all'"elevamento civile degli strati depressi della societa'" e a un mutamento nella loro "posizione sociale e nel mondo economico" (ibid., p. 1561).
Secondo il G. i principi fondamentali della filosofia della praxis, sintetizzati da Marx nella Prefazione a Per la critica dell'economia politica, erano stati arricchiti dall'opera politica di Lenin con la creazione di un nuovo Stato e la realizzazione del "principio teorico-pratico dell'egemonia" (ibid., pp. 1249 s.). Ma la situazione del marxismo era ben lungi dal corrispondere a essi. Dopo aver ripercorso criticamente la storia delle sue diverse correnti e messo in luce nel Quaderno 11 soprattutto il primitivismo del "marxismo sovietico", egli giunge alla conclusione che nella lotta fra capitalismo e comunismo il terreno filosofico e' quello decisivo. La mancanza di autonomia filosofica del marxismo esistente (marxismo "in combinazione") documenta la subalternita' del movimento operaio a livello mondiale, malgrado l'evento epocale della Rivoluzione d'ottobre e l'esistenza dell'URSS. La filosofia della praxis sviluppata nei Quaderni attraverso l'elaborazione degli elementi basilari di una "scienza della politica e della storia" (di cui abbiamo ricostruito solo i capisaldi e illustrato le principali innovazioni concettuali e di lessico) mira quindi a porre le basi di un programma futuro.
(Parte terza - segue)
2. LIBRI. DAVIDE BRUGNARO PRESENTA "HUMANITAS MUNDI. SCRITTI SU KARL JASPERS" DI HANNAH ARENDT
[Dal sito http://universa.padovauniversitypress.it riprendiamo la seguente recensione apparsa su "Universa", vol. 6, n. 2 (2017)]
Hannah Arendt, Humanitas mundi. Scritti su Karl Jaspers, Mimesis Edizioni, 2015, pp. 102.
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Al nome di Heidegger si accompagnano un'eredita' filosofica e una serie di questioni personali e politiche che lo legano ad Arendt, il peso delle quali rischia di mettere in ombra l'altro grande maestro dell'intellettuale tedesca: Karl Jaspers. Il testo qui presentato, a cura di Rosalia Peluso – che, nella sua approfondita Introduzione, ricostruisce e interpreta finemente le fila che intrecciano le vite dei due pensatori – aiuta a porre rimedio a questo problema, raccogliendo tre interessanti scritti arendtiani su Jaspers nella loro prima traduzione italiana.
Quello di Arendt con Jaspers e' un rapporto fondamentale che, nel corso del tempo, assume diverse configurazioni: se, inizialmente, lei e' soltanto allieva di lui a Heidelberg, in seguito fra i due si instaura una relazione d'amicizia e un profondo sodalizio intellettuale. Il loro carteggio rappresenta una testimonianza dell'intensita' e dell'evoluzione di questo scambio; per citare soltanto due questioni per Arendt cruciali, e' con Jaspers che ella si confronta sulla questione del male, nelle sue dimensioni della radicalita' e della banalita', cosi' come e' l'opera I grandi filosofi che nel 1957 stimola quella rilettura di Kant che e' all'origine della peculiare interpretazione del problema del giudizio. Una vicinanza spirituale che pero' non si e' mai tramutata in riverenza, lasciando spazio anche alla contrapposizione, la quale puo' manifestarsi soltanto se in un rapporto vi e' reciproco e autentico riconoscimento delle due singolarita'; prova ne sia la perplessita' di Arendt nei confronti dell'idea di una "essenza tedesca", cui Jaspers faceva riferimento nel sottotitolo del suo scritto su Max Weber (1933), o nei confronti della ricerca delle origini del nazismo, in relazione alla Schuldfrage (1946).
Il primo contributo, Jaspers cittadino del mondo?, fu pubblicato per la prima volta nel 1957 nella raccolta The Philosophy of Karl Jaspers e ristampato undici anni dopo in Men in Dark Times con l'aggiunta del punto interrogativo; tale aggiunta segnala il rifiuto arendtiano dell'equivalenza fra l'essere cittadino del mondo e l'essere cittadino del proprio paese, l'affermazione di una differenza la cui negazione significherebbe per lei nient'altro che sradicamento.
Lo scritto si pone in risposta a Origine e senso della storia (1949) e discute in chiave politica l'idea jaspersiana di umanita' e di ordine mondiale. L'interpretazione del filosofo di Oldenburg si inserisce nel quadro della riflessione tedesca sulla storia mondiale o universale (Weltgeschichte), ma la sua individuazione di un asse storico in grado di fornire a tutte le nazioni una struttura comune – ossia il ricorso a un criterio di carattere empirico, capace quindi di garantirne verificabilita' e condivisione – ne attesta l'originalita' rispetto alle altre filosofie della storia. Tale criterio, poiche' preserva la pluralita' delle differenti origini, potrebbe rappresentare il fondamento di un'unita' di tutti gli uomini non riducibile all'uniformita' meramente superficiale della dissoluzione di ogni tradizione nazionale.
Se Kant aveva proiettato in un futuro lontano la possibilita', sorretta dalla speranza, di un accordo dell'umanita' come risultato della storia – connessa ad un'idea di progresso che Arendt rifiutava e che vedeva contraddire la sua filosofia morale, al cui centro stava l'individuo e la sua dignita' – Jaspers, invece, pensava all'unita' dell'umanita' come realta' presente. Nell'idea jaspersiana di un ordine mondiale costituito su base federativa da stati che rinunciano alla loro sovranita' in favore di decisioni, procedure e garanzie comuni, Arendt vede il significato autenticamente politico e la realizzazione pratica del cosmopolitismo kantiano (tant'e' che, nell'intervista rilasciata ad Adelbert Reif nel 1970 e contenuta in Crises of the Republic, Arendt sosterra' la fecondita' dell'assetto federale, in cui il potere si muove non verticalmente ma orizzontalmente, per la formazione di un nuovo concetto di stato).
La comparsa del genere umano come tangibile realta' politica segna l'inizio della "storia dell'umanita'" a cui possiamo prepararci soltanto attraverso la jaspersiana "filosofia dell'umanita'" (p. 79), la quale insiste sulla pluralita' e al cui centro vi e' l'idea di comunicazione; in quest'ultima Arendt vede una modalita' di pensiero che non tende ne' ad autoaffermarsi in maniera tirannica, ne' a ripiegarsi su di se' in maniera solipsistica, tentando di piegare nelle proprie maglie il mondo, in un caso, o dimenticandosi di esso, nell'altro. Questo tipo di pensiero, l'indagine sul quale costituisce per Arendt una preoccupazione teorica centrale, trova in Jaspers – cosi' come in Socrate – un'espressione concreta e un vivo esempio. Esistenza e ragione sono, per il filosofo, i due poli inscindibili del nostro essere: "l'esistenza si chiarisce soltanto attraverso la ragione e la ragione riceve il proprio contenuto soltanto dall'esistenza" – riporta Arendt da un passo di Reason and Existenz (uno dei pochi che ha segnato a matita nella sua copia personale del libro, regalatole da Jaspers e oggi custodito presso la Stevenson Library del Bard College, New York). Per la prima volta la comunicazione non e' seconda rispetto al pensiero, in quanto sua estrinsecazione, ma nel dominio esistenziale coincide con la verita': in altre parole, la verita' e' essa stessa comunicativa, cioe' sostanza esistenziale chiarita e articolata dalla ragione.
Il secondo scritto, Il futuro della Germania, e' invece la premessa all'edizione americana del 1967 dell'opera di Jaspers Wohin treibt die Bundesrepublik?, nella quale egli denuncia come non vi sia stata nessuna reale cesura col passato dopo il 1945 e come permangano nella Germania post-bellica condizioni pericolose per la democrazia (la "oligarchia dei partiti" e la contrazione dell'opposizione parlamentare). Arendt, nella sua premessa, riconosce che il testo lancia un segnale d'allarme sulle sinistre similitudini fra Bonn e Weimar, ossia sulla possibilita' che il governo della Germania occidentale possa scivolare verso una dittatura; ella mette infatti in guardia dal risorgente nazionalismo e dall'impotenza di quella parte di popolazione disposta a guardare in faccia la realta', considerando questo testo – di cui sottolinea l'eloquente divario fra il successo editoriale e le aspre critiche ricevute – uno dei piu' importanti contributi alla riflessione politica del tempo.
Il terzo e ultimo contributo, tratto da Erinnerungen an Karl Jaspers e intitolato Jaspers a ottantacinque anni, e' stato scritto nel 1968 in occasione dell'ottantacinquesimo compleanno dell'amico e pubblicato nel 1974. Fedelta' e gratitudine sono le parole usate "per dirsi addio" (p. 53) che costituiscono il fulcro filosofico attorno al quale ruota il breve testo. Nella gratitudine Arendt individua la tonalita' fondamentale della filosofia e della vita di Jaspers. Momento privilegiato per accedere a questa esperienza e' la vecchiaia, vero e proprio stato di grazia in cui poter beneficiare di quell'"io senza eta'" del pensiero e in cui la vita appare finalmente come un tutto. Gratitudine significa per Arendt amor mundi, ossia riconoscenza rivolta al miracolo dell'esser-nati e di vivere, un atteggiamento che pone non tanto l'uomo al centro del mondo, quanto il mondo al centro della vita umana. La fedelta', invece, e' per Jaspers "il segno della verita'": puo' cioe' essere considerato vero soltanto cio' a cui abbiamo potuto mantenerci fedeli fino alla fine della nostra esistenza, cio' che permane identico nel tempo; e senza tale fedelta', per Arendt, la verita' e' inconoscibile e inconsistente per la vita.
Gia' nel saggio del 1946 What is Existenz Philosophy? la pensatrice aveva mostrato apprezzamento per la filosofia dell'esistenza del maestro, per quel modo di filosofare in cui non e' in gioco il raggiungimento di risultati, ma il rischiaramento dell'esistenza – mai isolata, ma tale solo nella comunicazione e nella relazione con altre esistenze. E' poi il 1958 quando Arendt introduce Jaspers, destinatario di un'importante onorificenza, in qualita' di Laudatorin. In quell'occasione si capisce quale posizione speciale egli occupasse nella lista degli uomini capaci di tener accesa la luce della ragione nei "tempi bui": egli non ha mai fatto proprio il pregiudizio heideggeriano in base al quale la chiarezza della sfera pubblica renderebbe piatta ogni cosa, e per cui quindi il filosofo dovrebbe starne alla larga; al contrario, per lui la filosofia, come la politica, riguarda ogni uomo. Egli ha a cuore l'umanita' del mondo, l'humanitas mundi, ed e' questo che per Arendt ha un significato rilevante politicamente.
Cio' che secondo Arendt distingue Jaspers dagli altri filosofi di professione – come nota giustamente la curatrice – e' stato l'abbandono dell'atteggiamento di sospetto, se non di aperta ostilita', nei confronti della sfera pubblica che ha caratterizzato buona parte della tradizione filosofica. Egli e' stato interprete di un'idea di filosofia aperta e comunicativa in cui "vita e pensiero sono due facce della stessa medaglia" (p. 97). Quel che infatti puo' fare una "filosofia dell'umanita'" e' riconoscere gli human affairs come uno dei grandi domini in cui la vita umana trova non soltanto espressione ma soprattutto significato. Con Jaspers la filosofia abbandona la sua torre d'avorio, rinuncia cioe' ad essere prestazione di un individuo nel suo isolamento per diventare una pratica tra uomini, perde l'arroganza nei confronti della vita comune per farsi – scrive Arendt – "ancilla vitae" (p. 74). E l'insegnamento che Arendt pare trarre dalla condotta dell'amico Jaspers e' che questa modalita' di orientare pubblicamente il pensiero filosofico costituisce, forse, l'unica possibilita' di mantenere salda la propria capacita' di giudizio.
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Bibliografia
Hannah Arendt, Che cos'e' la filosofia dell'esistenza?, trad. it., a cura di Sante Maletta, Jaca Book, 1998.
Hannah Arendt, Crises of the Republic, Harcourt Brace Jovanovich, 1972.
Hannah Arendt, Karl Jaspers, Carteggio. 1926-1969. Filosofia e politica, trad. it., Feltrinelli, 1989.
Karl Jaspers, Reason and Existenz, translated with an Introduction by William Earle, The Noonday Press, 1955.
Karl Jaspers, Hannah Arendt, Verita' e umanita'. Discorsi per il conferimento del premio per la pace dei librai tedeschi 1958, trad. it., a cura di Attilio Bragantini, Mimesis Edizioni, 2014.
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LA BIBLIOTECA DI ZOROBABELE
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Numero 66 del 29 aprile 2021
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