[Nonviolenza] La biblioteca di Zorobabele. 56



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LA BIBLIOTECA DI ZOROBABELE
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Segnalazioni librarie e letture nonviolente
a cura del "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo
Supplemento a "La nonviolenza e' in cammino" (anno XXII)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com
Numero 56 del 19 aprile 2021
 
In questo numero:
1. Alcuni estratti da Marco Revelli, "Umano Inumano Postumano. Le sfide del presente"
2. Francesca Maffioli intervista Vinzia Fiorino: nell'"inventare l'ignoto", la storia non era piu' solo di "grandi uomini"
3. Teresa Numerico: La discriminazione inevitabile di un sistema ristretto di potere
4. Due provvedimenti indispensabili per far cessare le stragi nel Mediterraneo e la schiavitu' in Italia
 
1. LIBRI. ALCUNI ESTRATTI DA MARCO REVELLI, "UMANO INUMANO POSTUMANO. LE SFIDE DEL PRESENTE"
[Dal sito www.tecalibri.info]
 
Marco Revelli, Umano Inumano Postumano. Le sfide del presente, Einaudi, Torino 2020, pp. 130.
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Da pagina 3
Il virus del disumano
Dai pannelli divelti si affaccia una ragazza, il capo coperto da un foulard fradicio di pioggia. Trema, di freddo e di paura. Quasi per proteggersi, tiene al seno una bambina di pochi mesi. Saluta una delle donne piu' esagitate, una signora in carne, che indossa un giubbino di pelo grigio. La conosce. "Stanotte partiamo. Per favore, non fateci del male". La signora ascolta in silenzio. Poi muove un passo verso la rom, e sputa. Sbaglia bersaglio, colpisce la faccia della bambina. L'ispettore, che stava sulla traiettoria dello sputo, incenerisce con lo sguardo la donna. Tutti gli altri applaudono. "Brava, bravissima".
Era il 14 maggio del 2008: l'ultimo atto del pogrom di Ponticelli, popoloso quartiere nella degradata periferia orientale di Napoli, il campo rom di via Malibran dato alle fiamme, le donne dei casermoni accanto, pregni di amianto, in prima fila, i ragazzotti - manovalanza del clan Sardo -, a portare le molotov con i motorini smarmittati... Ora chi passasse di li' potrebbe vedere a poche decine di metri da quella terra di nessuno in cui si svolsero i fatti, a fianco della grande arteria chiamata l'Argine, il gigantesco affresco di Jorit intitolato Ael. Tutt'egual song' e criature... e sembra un contrappasso.
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Da pagina 9
Nel lutto e nel dolore, confinati a noi stessi, abbiamo dovuto imparare che il virus - come e' stato scritto - "nella sua radicale inumanita' e' l'altro, del tutto sconosciuto, che tuttavia non e' diverso da noi".
Di questi successivi spostamenti di campo e di scala del disumano nella sua marcia a ritroso nella decostruzione dell'humanitas classica, il libro offre una sia pur rapsodica mappa. Piú una ricognizione rabdomantica, attenta alla ricerca dei punti sommersi di irruzione del negativo, che non alle invarianti visibili della normalita'. E' vero, infatti, che umano e disumano hanno sempre convissuto, intrecciati nella quotidianita' travagliata di una storia universale traboccante di umori feroci come di (piu' rare) sublimi generosita', all'insegna del furore e dell'amore spartiti con iniqua giustizia. Ma e' anche vero che ci sono dei punti e dei luoghi, del tempo e dello spazio, in cui quell'equilibrio si spezza. In cui, per dirla con Bobbio, la dialettica tra "ideali e rozza materia" s'inceppa. E la seconda - la rozza materia - non trova piu' limite ne' compassione nei primi. Sono i tempi sospesi. Le terre di nessuno. I contesti del "non piu'" e "non ancora", quando un ordine - un paradigma, un sistema di valori, una consolidata visione del mondo - va in rovina. Si dissolve senza che un nuovo modello di Ordine e di Principi si profili a sostituirlo.
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Da pagina 15
Vorrei introdurre questo tema con la citazione di un breve testo. D'autore. Dice: "Noi veniamo dopo. Adesso sappiamo che un uomo puo' leggere Goethe o Rilke la sera, puo' suonare Bach o Schubert, e quindi, il mattino dopo, recarsi al proprio lavoro ad Auschwitz". Sono parole di George Steiner, "un umanista strenuo che in ogni sua pagina denuncia la fine dell'umanesimo". Compaiono nella Prefazione al suo Linguaggio e silenzio, ed evocano il vero punto di rottura tra il prima e il (nostro) dopo ("Noi veniamo dopo"): Auschwitz. Il luogo in cui la lunga vicenda del pensiero occidentale ha subito la propria catastrofica lacerazione con l'irruzione massificata del disumano nell'umano (irruzione nel pensiero, non solo nella storia, dove non sarebbe un novum). Il disumano teorizzato e programmato razionalmente (mediante quella stessa ratio che nella visione classica avrebbe dovuto fondare la  philantropia).
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Da pagina 18
Che cos'altro ci mostra lo spettacolo atroce, protratto per anni, della morte di massa dei migranti nei nostri mari osservato prima con pena poi sempre piu' con disattenzione, assuefazione, fastidio infine, e persino odio, se non l'immagine di questa riduzione dell'uomo a nulla per l'altro uomo? E la vicenda avara dell'accoglienza, prima subita a denti stretti, poi via via rifiutata, negata, osteggiata, in tutto il continente europeo mobilitato per ri-confinare, contrastare, ridurre e possibilmente estinguere i flussi anche se dietro quella estinzione c'e' - lo sappiamo ma ci rifiutiamo di pensarlo - la morte di massa? Che cos'e' se non la riproposizione in qualche modo omeopatica del medesimo paradigma della de-umanizzazione dell'Altro sperimentato allora sulla scala abnorme dell'eccezionalita' e fattosi ora quotidianita', anche se in forma meno sconvolgente perche' non guidato da un'esplicita ideologia del disumano e da una dichiarata intenzionalita' della distruzione?
Ricompare qui lo stesso silenzio della parola. La medesima insostenibilita' dello sguardo. L'identica astensione del pensiero nella sua vocazione universale, spinta fino all'aberrante tentazione giudiziaria di configurare come delitto la pratica di chi salva - del salvataggio in mare a opera dei "volontari della vita" - e di inaugurare, come mai prima nella storia, una sorta di crimine di umanita' dopo che a Norimberga si erano condannati i crimini contro l'umanita'. E' cronaca - e pratica - della "civilissima Europa" che, per lo meno dal vertice di Parigi del 27 agosto 2017, ha fatto del contrasto alle Organizzazioni non governative che operano nel Mediterraneo una propria politica condivisa, e che ha addirittura istituito e finanziato una missione dal nome esemplare nella sua allure militare, Frontex, per condurre la propria guerra contro i dannati della terra che si avventurano nel Mare Nostrum. E' stato scritto (da Ezio Mauro) - e condivido pienamente - che quello a cui si e' assistito e' stata una vera e propria "inversione morale": con la damnatio actionis delle Ong, con l'introduzione surrettizia del cosiddetto "reato umanitario" (che non e', appunto, un crimine contro l'umanita' ma di "eccesso di umanita'"), addirittura con lo sdoganamento dell'espressione "estremismo umanitario" rivolta a chi "per ideologia" pensa "solo" (sic) al salvataggio delle vite senza farsi carico della ragion di Stato o di partito..., con tutto cio' si e' prodotto una sorta di rovesciamento di tutti i valori: quanto era considerato vizio diventa virtu' (l'indifferenza per la vita altrui) e cio' che era virtu' (l'altruismo, la solidarieta', la benevolenza) diventa colpa. Per Ia prima volta, su iniziativa dello Stato, l'Humanitas appare extra legem e in qualche caso contra legem.
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Da pagina 51
Zoja ci dice appunto che "col volgere del secolo XX in secolo XXI" si e' superata ancora la seconda soglia dopo quella della morte di Dio, si e' consumata una rinnovata morte del prossimo: l'"uomo metropolitano" - non l'uomo accecato da ideologie perverse, non l'uomo travolto da una qualche utopia negativa, ma l'uomo "normale" che abita lo spazio centrale dell'universo contemporaneo, quello in cui risiede egemone lo spirito del mondo - "si sente sempre piu' circondato da estranei". Non porge piu' lo sguardo all'altro - non lo "guarda" come fosse un uomo - e non e' "visto" (come tale) dall'altro. E' l'uomo che ha smarrito anche l'ultimo briciolo di empatia. Che ha rifatto dell'egoismo da vizio che era una virtu' teologale.
Difficile dire dove e quando abbia avuto inizio quella lunga marcia dell'estraneita' egoistica ed egocentrica verso la sua attuale egemonia (intesa, per citare Luciano Gallino, come "potere esercitato con il consenso di coloro che vi sono sottoposti"). Forse gia' nel 1947 - subito dopo la fine della prima ondata di "peste nera" -, come scrive lo stesso Gallino, sulle pendici di "una montagnola svizzera", il Mont Pelerin, dove un gruppetto di economisti allora relativamente controcorrente (Friedrich von Hayek, Milton Friedman, Maurice Allais...) aveva fondato la Mont Pelerin Society (Mps), un think tank votato all'affermazione di un credo assoluto incentrato sulla minimizzazione dell'intervento dello Stato, sulla piena liberta' di circolazione dei capitali e soprattutto su un individualismo atomistico e assoluto che riduce l'uomo a mero soggetto economico e ne cancella il legame sociale in nome della competitivita' per l'utile (tutte cose che sul piano storico, ma non necessariamente logico, si collocherebbero agli antipodi rispetto ai totalitarismi novecenteschi). O forse nel 1987 quando Margaret Thatcher, sintetizzando quel dogma, proclamo' che la societa' non esiste, esistono solo individui ("There is no such thing as society. There are individual men and women"), e disvelo' ufficialmente e pubblicamente il nuovo statuto del mondo entrato ormai compiutamente nell'epoca della finanziarizzazione: di quella forma estrema e probabilmente terminale del capitalismo in cui - e' ancora Gallino - domina la "ricerca ossessiva di sempre nuovi campi della vita sociale, dell'esistenza umana e della natura da trasformare il piu' rapidamente possibile in denaro".
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Da pagina 59
In virus veritas
Mentre gli occhi delle sentinelle dell'odio erano ancora tutti puntati sui barconi nel canale di Sicilia e sui porti da sigillare per fermare l'invasione, il "nemico" ha colpito a tradimento, prendendoci alle spalle - anzi, dal di dentro - e muovendo sul terreno, invisibile ai radar, dell'infinitamente piccolo.
Un organismo piccolissimo - un virus, il piu' piccolo tra tutti gli esseri viventi, qualche milionesimo di millimetro, fino a 1000 volte piu' piccolo di un batterio, tanto piccolo da essere invisibile al microscopio ottico e da passare attraverso la ceramica dei filtri - si e' messo in viaggio lungo le rotte euro-asiatiche. Ha percorso in business class le filiere lunghe che marcano le linee di traffico del capitalismo delle reti e delle piattaforme di ultima generazione, piombando come un fulmine a ciel sereno nel mezzo nella nostra apparentemente normale quotidianita'. E alla velocita' della luce - spazzando via d'un colpo la superficie piatta di una civilizzazione super-dinamica - ci ha fatto regredire a un ground zero dell'esperienza umana: fermi, isolati, fragili e soli. Arrestando, come il lampo di un flash, il movimento, ci ha rivelati per quel che siamo. O meglio: per quel che siamo diventati.
[...] Visto sotto questa luce, come una sorta di messaggio in codice - d'altra parte cos'e' un virus se non un filamento di codice genetico avvolto in una minuscola capsula di proteine, destinato a essere "tradotto" e "trascritto" nei processi cellulari? -; considerato dunque come un frammento di linguaggio destinato a "parlarci" dall'intimo delle nostre cellule, Sars-CoV-2 potrebbe persino umanizzarsi. Non nel senso di diventare meno feroce. Ma di rivelare - parlandoci, a modo suo - quella specifica ferocia tipica di noi "ultimi uomini". Di offrirci davvero, come aveva intuito Susan Sontag, la malattia come metafora di una condizione umana e sociale che si considerava sana. In fondo, la sua logica selettivamente darwiniana in base alle chances di sopravvivenza - il suo lavorare sulle "vite di scarto", o meglio il suo ritracciare il confine tra "vite di scarto" e vite vivibili su base anagrafica -, non e' la stessa che almeno un paio di decenni di egemonia neoliberista ci hanno inculcato con il principio di prestazione, dichiarando inutili gli improduttivi (i vecchi, in primis) e meritevoli i vincenti (i forti)?
Non e' casuale che la prima risposta che in perfetta consonanza di coppia i leader dei due paesi anglosassoni che hanno costituito il nucleo genetico del paradigma ultraliberista, Donald Trump e Boris Johnson, abbiano concepito, istintivamente, quasi per riflesso pavloviano, ai primi sintomi epidemici, sia stata la scellerata idea dell'herd immunity, dell'immunita' di gregge: "moriranno in molti, i fragili, ma ne usciremo piu' forti e soprattutto pronti per produrre". La quale riflette esattamente, in tempo di guerra, quello che avevano pensato, promosso e praticato in tempo di pace nel gioco della competizione sociale, in cui la morte - in quel caso economica, e ora anche biologica - non era solo messa in conto, ma considerata "produttiva". Francesco Guerrera, uno che di mercati se ne intende (e' il direttore di Barron's Group in Europa) ha parlato, in quell'occasione, commentando questa prima risposta alla sfida del virus in Occidente, di "libero mercato della vita", rivelando come a Downing Street e tra i "burocrati britannici" si parli male "della "ricetta italiana" di chiudere tutto". E si preferisca ragionare in termini di "equilibrio tra infezione e ospedalizzazione" anche se "con questo "equilibrio" i morti nel Regno Unito potrebbero essere tra gli 80.000 e il mezzo milione".
[...] Lo schema che va per la maggiore in discussioni di questo tipo - quando cioe' si tratta di bilanciare vite e denaro -, e' identificato da un acronimo: Vsl, che sta per Value of a Statistical Life ovvero "Valore di una vita statistica". Espressione che porta il segno dell'ambito in cui e' nata, cioe' il campo delle assicurazioni, la forma di relazione per eccellenza in cui il valore di una vita non solo puo' ma deve essere espresso in denaro. Quello in cui l'essere o non essere si misura (e si compensa) con un prezzo. I massimi cultori di questa materia hanno definito quell'indicatore come "the local tradeoff rate between fatality risk and money": il tasso di scambio locale tra rischio di morte e denaro, che nel suo ambiente naturale, cioe' il mercato, serve come misura sia della "disponibilita' di una popolazione a pagare per la riduzione del rischio" sia del "costo marginale per migliorare la sicurezza". Un po' piu' brutalmente altri l'hanno indicato come "il modo per bilanciare il rischio per le vite (lives) e quello per i beni (livelihoods)". Come che sia, quello che importa ai fini del nostro discorso, e' che il maggiore o minore ricorso a quello schema nella conversazione pubblica finisce anche per misurare, a sua volta, il grado piu' o meno elevato di mercatizzazione (o mercificazione o, diciamolo pure, dis-umanizzazione) della vita e delle relazioni umane in un determinato contesto spazio-temporale e socio-culturale. E che nel corso dell'emergenza prodotta dal coronavirus - nel contesto in cui con maggior immediatezza l'uomo post-moderno e' stato toccato "nell'osso e nella carne", per usare l'espressione che il satana rivolge a Jahweh nel Prologo del Libro di Giobbe -, quell'argomento e' stato ampiamente evocato come regolatore razionale della discussione sulle scelte pubbliche, utilizzato - significativamente - sia dai fautori della linea dura ultra-liberista schierati per il business first che dai loro oppositori "umanitari".
[...] Considerando dunque il fatto che il coronavirus e' un nemico "selettivo", che colpisce in proporzione geometrica col crescere dell'eta' e predilige, come vittime, i piu' anziani e i piu' fragili, si puo' comprendere quanto bassa e competitiva finisca per essere la soglia di prezzo al di sopra della quale si considererebbe del tutto "insostenibile" - e dunque inaccettabile - il costo di una prolungata chiusura dell'economia, dilapidato per salvare in prevalenza vite "senza valore" o, per usare il linguaggio delle merci, "prodotti deteriorati".
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Da pagina 72
Necropolitica
Cosi' nel contesto alto e asettico della conversazione accademica a uso dei policymaker. Ma se dai circuiti rarefatti del confronto teorico si scende in basso, sul terreno, inseguendo il virus la' dove alligna e "lavora", al livello dei corpi; se si osserva quanto accade su quel confine feroce tra essere e nulla che sono i pronto soccorso e le sale di triage, dove in gioco non sono "vite statistiche" ma "vite viventi" o "vite vissute", e dove chi materialmente opera e' chiamato a decidere, in pochi minuti, chi vive e chi muore; se si sposta lo sguardo su questo scenario "basso" allora il quadro cambia. Allora si puo' percepire a fondo la dimensione dell'attrito tra logica dell'umano e logica del vivente, nel momento in cui in presenza di risorse scarse si e' chiamati ad affrontare "dilemmi mortali" e l'unicita' di ogni vita umana scolora nell'indifferenziato della specie - del bios - dove vale, in ultima istanza, la forza darwinianamente competitiva del "vitale". E' stato questo il criterio - elementare, bio-sociale - con cui, nei momenti esplosivi della pandemia, si e' scelto, caso per caso, all'arrivo, chi salvare attaccandolo alle macchine nei reparti di rianimazione, e per chi lasciar correre la morte e la natura, accompagnandolo all'exit: la "speranza di vita", connessa in primo luogo all'eta' anagrafica, alla "ragionevole" soglia di "possibilita' di farcela", al grado di fragilita'. Prima i piu' forti, e a scalare via via i piu' deboli. Le condizioni piu' proprie dello stato di natura hobbesiano, ritornanti nel punto piu' alto di sviluppo della civil society.
Cosi' si e' fatto in Italia, nei giorni terribili in cui lo tsunami Covid-19 travolgeva gli ospedali lombardi e i posti in rianimazione non bastavano per tutti ("Ti abitui alle regole di un ospedale in guerra, ti abitui a vivere nel terremoto che non smette di tremarti intorno, a essere frastornata dalle emergenze, a prendere una decisione al minuto, compresa la piu' terribile, chi puoi salvare e chi no. Io l'ho fatto e devo conviverci ogni notte", ha raccontato una dottoressa, dalla prima linea del Fatebenefratelli). Cosi' si e' fatto o ci si e' preparati a fare in tutto il mondo.
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Da pagina 86
Sfondamenti
Alle soglie del post-umano
Dunque e' bastato poco, pochissimo - un "nonnulla" potremmo dire, neppure un soffio, una traccia impercettibile sulla mappa del cosmo - per fermare il mondo umano. Per immobilizzare il pianeta globalizzato costruito dall'uomo a propria immagine e somiglianza. E' bastato, come si e' visto, che un invisibile frammento di "vivente" non-umano varcasse il confine che lo separava dall'"umano" con uno spillover - un "salto di specie" - non cosi' raro in questo universo globalizzato in cui sono sempre piu' numerose le nicchie ecologiche violate. E' bastato uno "sfondamento". Il quale non e' il solo che ci tocca vedere, a noi "ultimi uomini". Da tempo la cittadella dell'uomo e' assediata - nelle sue mura si sono aperte brecce - e l'immagine dell'Uomo nella sua assoluta unicita', come essere separato e diverso da tutto cio' che lo circonda, e' messa in discussione lungo piu' direttrici d'attacco. L'"eccezionalismo", ovvero il complesso indiscutibile di credenze e di concetti che costituivano il basamento ontologico dell'Humanitas - la rappresentazione dell'Homo sapiens come unicum irriducibile al "resto" - vacilla e tende a sgretolarsi.
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Da pagina 91
Oggi quel caposaldo non tiene piu'. O quantomeno appare fortemente lesionato. Sia sul fronte che lo separa dal regno materiale delle cose sia su quello che lo distingue dal resto del vivente le linee di difesa dell'"eccezionalismo" umano cedono, i confini vengono violati da costanti incursioni. Mai come oggi risulta difficile tracciare, almeno in prospettiva, una netta linea di separazione tra uomini e macchine (tra l'umano e l'artificiale) da una parte, e dall'altra parte tra l'umano e l'animale (tra uomini e bestie, per dirla brutalmente). Gli strumenti d'assedio si chiamano biotecnologie, neuroscienze, machine learning (e deep learning), ingegneria genetica, cyborg, da una parte, che operano sulla direttrice d'attacco che punta a sfondare la frontiera che separa l'umano dall'artificiale, avendovi gia' aperto ampie brecce. E dall'altra parte etologia cognitiva o etologia filosofica, zoosemiotica, biosociologia, animal thinking, o - ancora - neurobiologia vegetale, nano-bionica, fito-ecologia, che a loro volta attaccano la linea di demarcazione tra Homo sapiens e resto del vivente.
Michel Serres  ha inventato un neologismo - "neologismo incoativo" e' stato definito - per dare un nome a questo fenomeno: Hominescence. "Ominescenza", con quella desinenza chiamata a indicare quanto avviene quando il profilo (di qualcosa o di qualcuno) si fa evanescente. E una figura si "scontorna": perde cioe' la nettezza dei confini che la delimitano, i quali "sfumano" come nel caso della "luminiscenza" (quando si perde la linea di demarcazione tra luce e buio) o dell'"inflorescenza" (il ramo moltiplicando le biforcazioni si confonde col fiore). O, ancora, nell'"opalescenza" (definibile come "proprieta' di certi corpi in cui siano compresenti due fasi diverse di rifrazione"). E, per tutte, l'Evanescenza - "una luce la cui intensita' si nasconde e si mostra rabbrividendo per iniziare, sebbene costantemente pronta a spegnersi" -, tipica di qualcosa che sta mutando di stato. Con l'"Ominescenza" l'umano scolora e sconfina da tutte le parti: verso l'"alto" (farsi dio), il "basso" (farsi cosa o animale), i "lati" (rendersi tutt'uno con l'ambiente).
Se l'uomo acquisisce la capacita' di produrre un uomo (non nel senso, "naturale", di ri-prodursi, ma in quello "artificiale" di fabbricare esseri umani); se cioe' diventa in grado di modificarsi (geneticamente o tecnologicamente, riscrivendo il genoma o ibridandosi con protesi) o, piu' radicalmente, di "fare" un proprio simile - "a propria immagine e somiglianza", nel corpo e nell'anima - costruendo macchine intelligenti o algoritmi metacognitivi (capaci cioe' di "pensare al proprio pensare"); se al discendente di Adamo - essendosi cibato all'albero della conoscenza - diventa possibile tutto cio', allora esso al termine del lungo ciclo evolutivo plurimillenario iniziato col "peccato originale" compie (o puo' sembrare che compia) un doppio "salto di specie". Verso "l'alto", come  creatore,  andando a occupare, in qualche modo, il posto che spettava al Creatore divino: facendosi non "simile a dio" ma Dio egli stesso ovvero causa sui. E verso "il basso", come creatura, diventando egli stesso "come-un" manufatto: cosa costruita, oggetto tra gli oggetti. Comunque cancellando un confine, anzi due.
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Da pagina 95
E' in questo orizzonte, culturale e tecnologico, che e' maturato il passaggio dall'umanesimo classico e moderno a un "post" dal profilo ancora incerto, doppio - come doppia e' la direzione verso cui muove l'"ultimo uomo" -, di elezione a un grado "superiore" di potenza, da una parte, e di declassamento (sarebbe meglio dire riallineamento) a un ruolo paritario col vivente, dall'altra. Transizione a un post-umano come condizione, e a un post-umanesimo come cultura, espressioni che incarnano, nella loro stessa struttura lessicale, l'ambivalenza dell'humana conditio oggi, incerta tra disumanizzazione tecnologica e riumanizzazione naturalistica. Si assiste infatti, per un verso, a un'enfatica autocelebrazione superomistica del potenziamento che le nuove frontiere della scienza e della tecnica attribuiscono al dominio umano sul mondo, come protesi di una volonta' di potenza che non conosce piu' limiti fisici o mentali: un "uomo oltre l'uomo" quale si esprime nel nuovo trans-umanismo e nella sua retorica neo-futurista dell'Homo deus, destinata a consumare nell'assolutizzazione della performance le residue tracce dei valori umanistici ridotti alla fine a uno solo, la poiesi: la capacita', cieca, di "fare il mondo" a propria immagine e somiglianza attraverso l'impiego di una razionalita' totalmente strumentale (la weberiana Zweckrationalitaet). Un oltre-umano, in sostanza, in cui di "umano" sembra restare ben poco, e che assomiglia piuttosto a una sorta di universo an-umano per non dire dis-umano.
Per l'altro verso viene invece avanti un Post-umano che all'Hybris sostituisce il suo opposto, l'Aidos - la modestia e il rispetto -, nella consapevolezza della non autosufficienza dell'umano nel mondo, della relazione paritaria della creatura col resto del creato, e di una necessaria "nuova responsabilita'". Esso ha, come obiettivo, il progetto di "superare la pretesa umanistica dell'uomo come universo isolato, non solo come centro epistemologico ed etico, bensi' come soggetto autoriferito e totalmente impermeabile alla contaminazione esterna". Il passaggio, cioe', "dall'identita' dominatrice all'identita' coniugata".
E' un pensiero che opera, senza dubbio, "una cesura netta rispetto alle coordinate tradizionali che hanno caratterizzato l'Umanesimo", nel senso che la' dove quello vedeva, nello sviluppo, un accentuarsi dell'antropocentrismo questo coglie, all'inverso, "un incremento di coniugazione-contaminazione, ovvero un antropo-decentramento".
Prima pero' di misurare le opportunita' di cui l'una o l'altra deriva dell'umano puo' godere, e' utile provare ad aprire la doppia scatola nera delle macchine e del vivente, per coglierne il reciproco nucleo di verita'.
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Da pagina 122
Finis terrae
Giunti qui, al termine di quel grande "tempo sospeso" che e' il lungo Novecento - in cui nel cuore stesso dell'umanesimo si e' assistito alla devastazione dell'umano -, in questa sorta di limbico "non ancora" che allude a un nuovo, inedito sfondamento di confine verso il post-umano, occorre ritornare, interrogandoci, a quel primo "superamento di soglia" che cancello' la distanza tra umano e disumano: al quesito che chiudeva il primo capitolo. E tornare a chiederci, appunto, se in quest'emergenza brutale dell'"inumano" nel territorio stesso dell'Humanitas, l'Umanesimo classico e moderno sia per cosi' dire "innocente" - se cioe' l'inumano provenga da fuori e contro quel paradigma. O se al contrario non vi sia una qualche continuita' genealogica, un frammento originario (come il peccato originale, appunto) di responsabilita' incistato nel materiale genetico stesso dell'Humanitas. In fondo le ricorrenti irruzioni dell'inumano con cui ci siamo confrontati nelle pagine precedenti - quelle, per intenderci, corrispondenti alla crisi di un "ordine" e al passaggio a un diverso paradigma "di sistema" - sono avvenute tutte a ridosso di punti della storia del pensiero e della mentalita' contrassegnati dal "trionfo" dell'umanesimo. Cosí e' stato per l'infernale rappresentazione del mondo di Hieronymus Bosch, emersa dal crogiolo rinascimentale che nell'umanesimo trovava il proprio fulcro. E cosi' per "quel laboratorio di ricerca per la distruzione del mondo" che e' stata la Mitteleuropa entre deux guerres, con alle spalle íl secolo dei lumi, Goethe, Kant, gli utopisti e l'ottimismo antropologico della belle epoque...
A quella domanda - tanto piu' imbarazzante per quelli che come me sono cresciuti nella scia di un pensiero illuministico e razionalistico con forti innesti di umanesimo socialista - temo di dover rispondere di si'. Che nell'edificio sublime e seducente di quell'umanesimo che faceva dell'Humanitas la propria cifra c'era, effettivamente, un grumo d'ombra. Una cellula malata, sbocciata come un fiore del male sui rami stessi dell'albero della conoscenza, o - fuor di metafora - annidata nel dispositivo genetico della metafisica occidentale, con l'essenzialismo socratico-platonico, la distinzione strutturale tra anima sensitiva e anima intellettiva, e l'hybris dell'impossessamento cognitivo: la pretesa cioe' di sussumere il mondo nel proprio pensiero, e di sussumere tutto il pensiero nel proprio Se' in quanto Uomo, fondata sull'"immagine trionfante dell'uomo come inizio e centro della mediazione razionale". Un meccanismo in base al quale il mondo esterno (anzi, il cosmo) diventava disponibile in tutta la sua estensione al dominio dell'Uomo come Oggetto d'impossessamento prima mentale (con la sua comprensione nel pensiero) e poi pratico (con la sua trasformazione progettata razionalmente: "un insieme di valori per quel valore superiore che e' l'Uomo").
E' in base a quel meccanismo ferocemente antropocentrico che l'unico mondo rilevante - l'unico mondo di cui valga la pena prendersi cura ed entro il quale assumono senso i valori morali: in una parola l'"unico mondo possibile" su cui orientare i propri comportamenti e giudizi - si riduce al mondo umano. Il mondo creato dall'Uomo e disponibile per l'Uomo. Il mondo fabbricato e fabbricabile. Calcolato e calcolabile in base a un principio di razionalita' strumentale in cui l'utilita' e' sintetizzata nel beneficio apportato a un solo e unico soggetto autoreferenziale. Ed e' ancora in forza di quello stesso dispositivo che la soggettivita' cognitiva dell'Uomo, il pensiero pensante, il logos, il Cogito, una volta incarnatosi nel suo prodotto materiale e mezzo specifico, la Tecnica, si fa Nomos rovesciandosi in Oggettivita' dominante: struttura e ordine del mondo a cui con-formarsi, e in nome del quale comandare, spartire, sottomettere, assoggettare il non conforme, l'eteronomo, il fuori-posto, farsi in una parola "padrone dell'ente". Il processo, appunto, per cui al vertice della sua "soggettivazione" l'uomo non vive la sua liberazione ma il proprio "assoggettamento", come ben intui' Marx nelle pagine dedicate al "feticismo delle merci": la metamorfosi per cui l'universo dei prodotti, transustanziati in merci, pretende il comando sui loro produttori, e le cose si personalizzano mentre le persone si reificano.
[...] Paradossalmente il segno della svolta - del bisogno di una svolta, che sia anche cambio di paradigma - viene da dove non ce lo si sarebbe aspettato. Da quella stessa voce del sacro da cui era venuto il messaggio biblico che aveva inaugurato il corso "proprietario" dell'umanesimo. Nella sua rivoluzionaria enciclica Laudato si' papa Francesco, dopo aver citato il cantico del santo di Assisi dedicato alla nostra "casa comune", dice infatti: Questa sorella [Terra] protesta per il male che le provochiamo, a causa dell'uso irresponsabile e dell'abuso dei beni che Dio ha posto in lei. Siamo cresciuti pensando che eravamo suoi proprietari e dominatori, autorizzati a saccheggiarla. La violenza che c'e' nel cuore umano ferito dal peccato si manifesta anche nei sintomi di malattia che avvertiamo nel suolo, nell'acqua, nell'aria e negli esseri viventi. Per questo, fra i poveri piu' abbandonati e maltrattati, c'e' la nostra oppressa e devastata terra, che "geme e soffre le doglie del parto" (Rm 8,22). Dimentichiamo che noi stessi siamo terra (cfr. Gen 2,7). Il nostro stesso corpo e' costituito dagli elementi del pianeta, la sua aria e' quella che ci da' il respiro e la sua acqua ci vivifica e ristora.
E aggiunge, come titolo del secondo paragrafo: "Niente di questo mondo ci risulta indifferente". E' una rivoluzione. L'equivalente della rivoluzione copernicana, che come quella - inverando quella - scardina la residua concezione tolemaica che voleva l'Uomo centro del cosmo, suo perno focale intorno a cui ruota tutto e tutto ne opera al servizio, per ricollocare invece il tutto al proprio posto capitale. La relazione al tutto come potere costituente di un nuovo modo di abitare il creato, responsabilmente. E nel far questo - nel liquidare, quattro secoli dopo la sua fine astronomica, l'antropocentrismo tolemaico -, pone le basi per una possibile fondazione di un'idea di ordine finalmente "umana" perche' capace di collocare l'Uomo nel suo giusto posto (periferico e paritario) in un mondo che e' chiamato a co-abitare anziche' a possedere.
E' esattamente cio' di cui abbiamo bisogno. Di un nucleo normativo capace di andare al di la' del paradigma largamente in crisi del moderno, con un "di piu'" di Umanesimo (non un "di meno"). Un Post-umanesimo adeguato alla nuova dimensione dello spazio morale disegnato da quello che abbiamo chiamato Post-umano, capace di dilatare il nucleo normativo dell'Humanitas - il suo riferimento alla philantropía, alla benevolenza e al riconoscimento - oltre i confini ristretti dell'anthropos,  della sua esclusiva ed escludente auto-referenzialita', nella forma ibridante e connettiva della nuova spazialita'. Un'Humanitas capace di prendersi cura non solo dell'uomo nel senso limitato della sua individualita' di persona o di specie, ma dell'intera catena dell'essere nel mondo: le altre specie viventi, animali e vegetali, le generazioni future, l'habitat, l'oggettivita' che ci circonda ma che per questo nell'interazione si soggettivizza, i luoghi e le cose appunto... Un'Humanitas ibrida e ibridante, connettiva e ricombinante, aperta e plurale come ibrida, ricombinante e plurale e' la condizione post-umana in cui viviamo le nostre vite. Si tratta insomma di sfondare l'ambito angusto della responsabilita' sartriana che dichiarava ognuno di noi "responsabile di tutti gli uomini" per estenderla all'intero vivente e all'habitat condiviso. E di farlo rovesciandone l'assunto: quel "Siamo soli, senza scuse" che ci condannava a un'angoscia genetica. Siamo in tanti, diversi, in uno spazio affollato e condiviso.
 
2. STORIA. FRANCESCA MAFFIOLI INTERVISTA VINZIA FIORINO: NELL'"INVENTARE L'IGNOTO", LA STORIA NON ERA PIU' SOLo DI "GRANDI UOMINI"
[Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it) riprendiamo la seguente intervista originariamente apparso su "il manifesto" il 18 marzo 2021]
 
L'esperienza della Comune di Parigi, pur nell'intervallo di tempo limitato in cui ha espresso la sua carica trasformativa, ha saputo anticipare alcune – non poche, in realta' – misure rivoluzionarie che saranno riprese negli anni a venire. Secondo lo storico francese Jacques Rougerie, una delle misure a cui il controgoverno della Comune avrebbe potuto aprirsi – e se non lo fece non fu solo a causa di questioni legate alle circostanze di un tempo troppo breve – sarebbe potuta essere quella che consentiva il voto alle donne.
Non puo' tuttavia il solo accesso al voto (la cui rivendicazione fu presente anche se non prioritaria) determinare il valore radicalmente trasformativo delle battaglie delle communardes. Lo furono la lotta per il diritto all'istruzione, al lavoro, all'uguaglianza salariale, al riconoscimento dei figli e delle compagne "non legittime". Ma anche la lotta per la cessazione dell'"incapacita' civile" delle donne sposate – lo smarcamento dal dovere d'obbedienza della moglie nei confronti del marito (che si ottenne piu' di sessant'anni dopo, nel 1938).
Vinzia Fiorino, docente di Storia contemporanea all'Universita' di Pisa, membra della Societa' italiana delle storiche e del centro interuniversitario di storia culturale, ha recentemente pubblicato presso Viella un volume intitolato Il genere della cittadinanza (recensito su queste pagine il 14 gennaio scorso) in cui analizza la realta' transalpina dal 1789 al 1915. Nel suo testo l'esperienza della Commune si rivela grazie alla bella ragnatela costituita dai vissuti di militanza delle donne che hanno partecipato alla Comune di Parigi, ma anche di quelle che l'hanno anticipata o seguita.
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- Francesca Maffioli: Durante la Comune di Parigi non ci fu modo di instaurare il suffragio femminile. Quali furono le priorita'?
- Vinzia Fiorino: No e non solo per la breve durata di tutta l'esperienza, compresa, come e' noto, tra il marzo e il maggio del 1871. Ci sono dei momenti nella storia francese in cui alcune strutture culturali profonde si traducono autenticamente e immediatamente in atti politici. Con la rivoluzione del 1848 si approva subito il suffragio universale maschile perche' esso dava corpo allo spirito repubblicano; con la Comune si attivano immediatamente almeno due figure profonde dell'immaginario politico ottocentesco: il cittadino (maschio) che in armi difende il proprio territorio e infatti e' la Guardia Nazionale – da cui le donne erano escluse fin dall'89 – a assumere il controllo dell'amministrazione pubblica e a detenere il potere governativo. In secondo luogo, tutti i rappresentanti sono controllabili, revocabili e riconoscibili: in questo gioco di identificazione/rispecchiamento tra elettori ed eletti, il genere non puo' che essere un elemento costitutivo. Insomma, ancora una volta un patto tra soli veri uomini. Si fara' in tempo, pero', ad approvare alcune misure rivoluzionarie: vengono rese pubbliche le fabbriche abbandonate e viene introdotta una sostanziale eguaglianza salariale.
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- Francesca Maffioli: Louise Michel e' una delle figure emblematiche della Comune, ma anche antesignana del femminismo europeo. Scriveva: "Il nostro posto nell'umanita' non deve essere mendicato, ma preso"...
- Vinzia Fiorino: Intanto, ricordo che il movimento delle donne si organizza in varie direzioni: nella difesa armata della Parigi insorta, nei club, nelle associazioni per le lavoratrici, nei giornali o ancora, nell'impegno come infermiere e in altre attivita' di supporto; in ogni caso, e' sempre dominante il significato politico di queste attivita', non gia' l'ancoraggio ai ruoli oblativi tradizionali. La disuguaglianza economica sulla base del genere diviene centrale come dimostra l'esperienza dell'Union des femmes – diretta dalla rivoluzionaria russa Elisabeth Dmitrieff. In questo quadro spicca la figura poliedrica e versatile di Louise Michel, tra le protagoniste piu' originali dell'intera stagione comunarda: armata per difendere il quartiere nevralgico di Montmartre, organizza i gruppi di lotta contro le truppe "regolari" di Thiers ma e' soprattutto una scrittrice prolifica di ispirazione libertaria. La citazione, pregnante, e' in continuita' con una certa tradizione del femminismo francese che va alle origini del problema delle asimmetrie di genere e per il quale la presa di parola – il processo di soggettivazione – e' fondamentale per rivendicare i diritti e offrire un proprio sguardo sul mondo.
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- Francesca Maffioli: Nel suo libro torna spesso Paule Minck. In seguito all'esperienza della Comune, Minck cerco' di coniugare istanze femministe a quelle del socialismo rivoluzionario. Perche' fu una pioniera?
- Vinzia Fiorino: Paule Minck, attiva gia' durante il Secondo Impero, e' un personaggio interessante in quanto, come altre teoriche, ha cercato un punto di congiunzione tra femminismo e socialismo. In questo caso pero', ecco la nota originale, la sua critica e' rivolta alle infinite forme di autoritarismo e di coercizione sociale insite sia nelle relazioni private, sia in quelle politiche. Si candidera' provocatoriamente alle elezioni, ma non ricevera' alcun sostegno dal partito socialista. Lei continuera' a rivendicare la specificita' del suo essere e della sua libera visione politica fuori dai partiti.
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- Francesca Maffioli: La figura della "petroleuse" risente tutt'oggi di un immaginario caricaturale per cui gli accenti di rivolta delle donne rimano con esaltazione e follia. Puo' darcene conto?
- Vinzia Fiorino: Le donne sulla scena politica, anche durante la Comune, suscitano un sentimento di ostracismo; restano un "fuori luogo". Nel conflitto, acerrimo, che pone fine all'esperienza comunarda prende corpo una figura immaginaria, la petroleuse: una donna non piu' giovane che appicca incendi in ogni dove, in preda a una pulsione di violenza politica incontrollabile. L'iconografica al riguardo e' notevole, i passaggi semantici altrettanto: una nuova scienza positivista si esercita nella codificazione di soggetti parossistici e depravati, come le donne che osano far politica e rilegge le protagoniste del passato, Olympe de Gouges ad esempio, come in preda a isteria rivoluzionaria; una nuova patologia!
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- Francesca Maffioli: Tra le "communardes" si ricordano Victorine Gorget, Eulalie Papavoine, Hortense David e altre. In quanto storica, come ricostruire e dare voce alla storia delle loro esistenze?
- Vinzia Fiorino: Penso che sia sempre interessante soffermarsi sul pensiero e sulle elaborazioni di coloro che nel passato hanno preso la parola per i molteplici punti di vista che ci offrono. E' anche politicamente importante che lo/a storico/a possa restituire gli sguardi, anche i piu' personali, dei soggetti che non hanno ricoperto ruoli e posizioni di primo piano ma che hanno offerto riflessioni originali sul loro tempo vissuto. Tutto questo affinche' la storia non torni a essere il racconto dei grandi eventi e dei "grandi uomini". Le loro riflessioni ci interrogano sulla Comune come esperienza di democrazia che ha tentato di "inventare l'ignoto", per citare la bella espressione di Daniel Bensaid, ma che ha mostrato anche robuste resistenze.
 
3. LIBRI. TERESA NUMERICO: LA DISCRIMINAZIONE INEVITABILE DI UN SISTEMA RISTRETTO DI POTERE
[Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it) riprendiamo il seguente articolo originariamente apparso su "il manifesto" il 10 marzo 2021]
 
"Nel paese degli algoritmi" di Aurelie Jean, per Neri Pozza. Una parola aleggia al centro del testo: interpretazione. Non tutto puo' essere infatti oggetto di astrazione perche' incide sulla vita reale delle persone.
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Aurelie Jean non corrisponde alla rappresentazione classica del nerd che scrive algoritmi per la simulazione scientifica, eppure lo e'. Si dedica anche alla divulgazione e ha pubblicato un libro, da poco tradotto in italiano. Nel paese degli algoritmi (Neri Pozza, pp. 173, euro 17) e' in un certo senso una sua biografia intellettuale. Descrive come abbia cominciato a fare modelli algoritmici professionali misurando l'elasticita' delle gomme delle automobili. Ha poi lavorato a calcolare il rischio, anche indiretto, di un trauma cranico in presenza di un’esplosione, a fare previsioni algoritmiche sul mercato azionario per conto di Bloomberg, ha contribuito a una ricerca per simulare lo sviluppo di cellule cardiache in vitro. Attraversando vari campi ha sperimentato alcune criticita' dei meccanismi algoritmici. Ritiene, quindi, che ci sia bisogno di una riflessione epistemologica ed etica.
Una parola aleggia non molto pronunciata, ma incontrovertibilmente al centro del suo progetto: interpretazione. Quando si modella un fenomeno si devono prendere delle decisioni, relative alla sua formulazione matematica. Queste interpretazioni o semplificazioni richiedono l'uso di bias, meccanismi di discriminazione, o pregiudizi, che possono essere espliciti, ovvero adottati consapevolmente dal programmatore, o impliciti, espressi indirettamente nel codice o annidati nei dati per addestrare l'algoritmo a comprendere il fenomeno, oppure relativi alla valutazione dell'output della simulazione. Tali bias sono inevitabilmente soggettivi, cioe' costituiscono una ricostruzione situata del fenomeno da modellare. Ogni simulazione, quindi, implica uno sguardo, un vincolo percettivo e cognitivo di chi la esercita.
Il processo di astrazione guarda le situazioni da più lontano e le raggruppa in cluster, discriminando tra loro in merito a somiglianze e differenze. Tuttavia, questo meccanismo – proprio della conoscenza per astrazione, non solo algoritmica – nel caso degli algoritmi si inabissa nella tecnicalita' della programmazione che opacizza la consapevolezza del loro carattere soggettivo, valutativo e incerto.
La definizione dei criteri di astrazione avviene lontano da dove si manifestano i suoi effetti. Ma i vincoli pregiudiziali di chi scrive i programmi e mette insieme i dati di training producono conseguenze concrete per le persone a cui quei modelli si applicano. La procedura algoritmica, infatti, si nutre di astrazioni sui dati, ma ha effetto sulle persone quando le decisioni poi pesano sulla quantificazione del premio assicurativo, sulla definizione dei protocolli di cura che li riguardano, sulla valutazione relativa alla liberta' condizionata, sulla possibilita' che il proprio curriculum sia selezionato, ecc.
Jean e' molto consapevole dei rischi, ma tentenna quando si tratta di definire i limiti degli strumenti tecnici. Attribuisce alle persone che li programmano la responsabilita' di includere i loro pregiudizi nel codice, e ha ragione.
Ma non basta. I sistemi complessi e automatizzati sono rigidi e opachi per costituzione, e questo impatta sulla loro potenziale iniquita'. La sua analisi, a tratti, si rifugia nel soluzionismo tecnologico, pur raffinato.
In certe situazioni complesse dove gli interessi in gioco sono tanti e contrapposti – come di solito nella vita reale delle persone – non esiste una soluzione ottimale dei problemi politici e sociali. Pensare di costruire un algoritmo a cui appaltare la decisione, anche con le migliori intenzioni, non e' una buona strategia – nemmeno se i programmatori sono morali e consapevoli. Automatizzare le procedure di valutazione non puo' essere una scusa per neutralizzare lo sguardo di chi le determina e occultarne il potere.
L'apparato tecnico e' di per se' un'incarnazione di un sistema di potere-sapere che esercita gli interessi di chi ne e' in controllo, che sono spesso un gruppo ristretto e coeso di maschi bianchi addestrati nelle migliori universita' private english-speaking. Non e' un caso che ad accorgersi delle contraddizioni sia una donna francese, sebbene educata in matematica computazionale, che – come dichiara – non rientra nelle categorie prevedibili. Il suo bagaglio di conoscenze implicite, trasversali le offre la cultura per riconoscere i problemi irrisolti.
Ma bisogna fare in fretta perche' l'omologazione culturale e' imperante anche nell'ambito dell'educazione. La brama di internazionalizzare la conoscenza – da intendere come colonialismo culturale anglofono dell'universita' in tutto l'occidente – mette il pluralismo a rischio. La diversita' non e' un progetto di assunzione nella Silicon Valley, le cui aziende dovrebbero scegliere piu' donne, piu' afroamericani o latini, piu' persone dall'identita' sessuale o etnica ibrida, ma accettare di prendere in considerazione modi alternativi di pensare, la varieta' dei giudizi e di riconoscere la singolarita' delle condizioni delle persone.
Razzismo e discriminazione sono invece l'effetto di meccanismi di generalizzazione avvenuti in modo superficiale e scorretto, dentro un contesto chiuso, privo di contraddittorio. Non tutto puo' essere oggetto di astrazione, senza condurre a esiti iniqui.
 
4. REPETITA IUVANT. DUE PROVVEDIMENTI INDISPENSABILI PER FAR CESSARE LE STRAGI NEL MEDITERRANEO E LA SCHIAVITU' IN ITALIA
 
Riconoscere a tutti gli esseri umani il diritto di giungere nel nostro paese in modo legale e sicuro.
Riconoscere il diritto di voto a tutte le persone che vivono nel nostro paese.
 
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LA BIBLIOTECA DI ZOROBABELE
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Segnalazioni librarie e letture nonviolente
a cura del "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo
Supplemento a "La nonviolenza e' in cammino" (anno XXII)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com
Numero 56 del 19 aprile 2021
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