[Nonviolenza] Telegrammi. 4079



TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 4079 del 19 aprile 2021
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXII)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com, sito: https://lists.peacelink.it/nonviolenza/
 
Sommario di questo numero:
1. Due provvedimenti indispensabili per far cessare le stragi nel Mediterraneo e la schiavitu' in Italia
2. Giorgio Croci
3. Franco Leoni Lautizi
4. Gruppo Anarchico Bakunin - Federazione Anarchica Italiana Roma e Lazio: Ciao Luca. Un ricordo di Luca Villoresi
5. James Graham Ballard
6. Peter Beard
7. Ronit Elkabetz
8. François Jacob
9. Raffaele Maiello
10. Germaine Tillion
11. Elio Toaff
12. Valentina Bortolami presenta "Staying with the Trouble. Making Kin in the Chthulucene" di Donna J. Haraway
13. Marie Moise presenta "Se defendre. Une philosophie de la violence" di Elsa Dorlin
14. Marie Moise presenta "What Fanon Said. A Philosophical Introduction to His Life and Thought" di Lewis R. Gordon
15. Alcuni riferimenti utili
16. Segnalazioni librarie
17. La "Carta" del Movimento Nonviolento
18. Per saperne di piu'
 
1. REPETITA IUVANT. DUE PROVVEDIMENTI INDISPENSABILI PER FAR CESSARE LE STRAGI NEL MEDITERRANEO E LA SCHIAVITU' IN ITALIA
 
Riconoscere a tutti gli esseri umani il diritto di giungere nel nostro paese in modo legale e sicuro.
Riconoscere il diritto di voto a tutte le persone che vivono nel nostro paese.
 
2. LUTTI GIORGIO CROCI
 
E' deceduto Giorgio Croci, esperto di beni culturali e di restauri.
Con gratitudine lo ricordiamo.
 
3. LUTTI. FRANCO LEONI LAUTIZI
 
E' deceduto Franco Leoni Lautizi, testimone della strage di Marzabotto.
Con gratitudine lo ricordiamo.
 
4. LUTTI. GRUPPO ANARCHICO BAKUNIN - FEDERAZIONE ANARCHICA ITALIANA ROMA E LAZIO: CIAO LUCA. UN RICORDO DI LUCA VILLORESI
[Dal sito di "Umanita' Nova" (www.umanitanova.org) riprendiamo il seguente ricordo]
 
Luca Villoresi era entrato per la prima volta nella sede di Via dei Taurini 27, la redazione di Umanita' Nova, il nostro settimanale, nell'inverno del 1968/69. Ci ha lasciato pochi giorni fa, nella primavera del 2021.
Fin dall'inizio della sua militanza, in quegli anni intensi, Luca si e' distinto per i suoi tratti caratteristici, che ha sempre mantenuto in tutta la sua vita: la serieta', la capacita' analitica e la giocosita'.
La serieta' e l'affidabilita' sono state da subito molto apprezzate dai compagni storici presenti nel Gruppo "Bakunin" reduci dalla Resistenza, dalla guerra di Spagna, dai campi di concentramento.
Le sua capacita' dialettiche ed analitiche lo hanno portato ad avere un ruolo di primo piano in quegli anni nella Federazione Anarchica di Roma attraverso il Collettivo Studentesco Libertario e l'Organizzazione Anarchica Romana. Luca, che si era fatto le ossa nella controinformazione militante e nella redazione di Umanita' Nova, in tutto questo percorso e' stato un punto di riferimento. Il fatto che fosse molto alto (un "sellerone") lo portava ad essere facilmente individuabile nella situazioni di conflitto: ha pagato anche con la galera questa sua visibilita'.
La sua giocosita' lo portava ad avere buoni rapporti con tutti, indipendentemente dalle diverse posizioni politiche, riuscendo a mantenere buoni rapporti personali che trasformava politicamente nella valorizzazione del rispetto reciproco, della dignita' delle persone e nella possibilita' di collaborazione tra compagni che la pensavano diversamente.
Luca ha preso il tesserino da giornalista con Umanita' Nova e per conto del nostro giornale e' stato attivissimo nella campagna di controinchiesta per la Strage di Piazza Fontana e per il processo a Giovanni Marini.
Era poi entrato nella redazione di Repubblica e, nonostante il suo nuovo ruolo, ha sempre mantenuto i rapporti con i compagni e con il movimento anarchico.
Anche da giornalista ha mantenuto la schiena dritta: e' finito in carcere nuovamente per aver denunciato le torture subite dai militanti delle BR durante il sequestro Dozier ed essersi rifiutato di rivelare le fonti delle sue informazioni.
Nella seconda meta' degli anni '80 ha partecipato al tentativo di rilancio del Gruppo Bakunin nella nostra sede di Via Vettor Fausto 3 alla Garbatella.
E' sempre stato presente e disponibile con i compagni. Ha raccontato da protagonista, ai compagni piu' giovani, la situazione e le storie militanti di quegli anni. Ha partecipato a tantissime nostre iniziative, sul 12 dicembre, sulla morte di Pinelli, sui "5 anarchici del sud".
L'ultima iniziativa che abbiamo organizzato con lui e' stata, il 12 dicembre del 2018, una sua conferenza per l'anniversario della strage di Piazza Fontana.
La sua morte e' stato un pugno allo stomaco, ci ha colto di sorpresa. Era malato, ma l'avevamo sentito al telefono pochi giorni fa e non aveva l'impressione del male che portava dentro di se'.
Ci eravamo sentiti per organizzare un video incontro con i compagn* della BFS, il tema era la figura di Attilio Paratore, superstite dei campi di concentramento nazisti, storico redattore di Umanita' Nova all'epoca della redazione romana negli anni '70 e militante del gruppo Bakunin. Luca come sempre era stato disponibile a mettere la sua memoria a disposizione del movimento. Non c'e' stato il tempo: e' morto all'improvviso, mentre faceva la spesa, il 2 aprile scorso.
Oggi gli anarchici del Gruppo Bakunin piangono la morte di uno di loro.
Giunga alla moglie Patrizia, ai figli Giulia e Fabrizio il nostro cordoglio.
Ciao Luca, che la terra che amavi tanto coltivare ti sia lieve.
Gruppo Anarchico Bakunin - FAI Roma e Lazio
 
5. MEMORIA. JAMES GRAHAM BALLARD
 
Il 19 aprile 2009 moriva James Graham Ballard, scrittore.
Con gratitudine lo ricordiamo.
 
6. MEMORIA. PETER BEARD
 
Il 19 aprile 2020 veniva ritrovato il corpo senza vita di Peter Beard, grande fotografo.
Con gratitudine lo ricordiamo.
 
7. MEMORIA. RONIT ELKABETZ
 
Il 19 aprile 2016 moriva Ronit Elkabetz, attrice e cineasta.
Con gratitudine la ricordiamo.
 
8. MEMORIA. FRANCOIS JACOB
 
Il 19 aprile 2013 moriva François Jacob, resistente, medico, biologo, premio Nobel.
Con gratitudine lo ricordiamo.
 
9. MEMORIA. RAFFAELE MAIELLO
 
Il 19 aprile 2013 moriva Raffaele Maiello, regista teatrale.
Con gratitudine lo ricordiamo.
 
10. MEMORIA. GERMAINE TILLION
 
Il 19 aprile 2008 moriva Germaine Tillion, resistente, antropologa, la piu' grande delle maestre.
Con gratitudine la ricordiamo.
 
11. MEMORIA. ELIO TOAFF
 
Il 19 aprile 2015 moriva Elio Toaff, rabbino, resistente, uomo di pace.
Con gratitudine lo ricordiamo.
 
12. LIBRI. VALENTINA BORTOLAMI PRESENTA "STAYING WITH THE TROUBLE. MAKING KIN In THE CHTHULUCENE" DI DONNA J. HARAWAY
[Dal sito http://universa.padovauniversitypress.it riprendiamo la seguente recensione apparsa su "Universa", vol. 7, n. 1 (2018)]
 
Donna J. Haraway, Staying with the Trouble. Making Kin in the Chthulucene, Duke University Press, Durham 2016, pp. 312.
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Staying with the Trouble. Making Kin in the Chthulucene e' la piu' recente opera di Donna Haraway, esponente di fama internazionale degli Science and Technology Studies (STS) e pensatrice femminista il cui nome e' spesso associato alla teoria cyborg, di cui viene considerata la fondatrice. In questo libro Haraway affronta un tema di grande attualita', quello dell'Antropocene, largamente dibattuto negli ultimi anni non solo nei campi della geologia e dell'ecologia ma anche in quello filosofico, che l'A. utilizza come punto di partenza per elaborare il concetto di Chthulucene richiamato nel titolo dell'opera.
Il volume raccoglie materiali elaborati dal 2012 al 2016, anno di pubblicazione del testo. E' composto da un'introduzione e otto capitoli, tutti gia' comparsi in altre pubblicazioni ad eccezione del Capitolo 3 (al momento dell'uscita del libro inedito, ma incluso successivamente in Arts of Living on a Damaged Planet. Ghosts and Monsters of the Anthropocene, 2017) e dell'ultimo
capitolo, il Capitolo 8, scritto appositamente per l'occasione. Gli interventi, pur andando a costituire un'opera organica, possono dunque essere letti indipendentemente l'uno dall'altro. Il libro presenta percio' da una parte una certa eterogeneita', dovuta alla natura miscellanea del volume, e dall'altra una marcata ricorsivita' dei concetti chiave: nonostante ogni capitolo sia dedicato a uno specifico argomento, i nuclei teorici dell'opera vengono piu' volte ripresi dall'A. nel corso del testo, anche attraverso l'utilizzo di refrain e frasi ad effetto. Questo aspetto dell'operare filosofico dell'A. non va sottovalutato, in quanto non ne costituisce un semplice carattere stilistico, bensi' configura una pratica che va messa in relazione a uno degli imperativi del volume: "It matters what ideas we use to think other ideas" (prima occorrenza p. 12). Haraway elabora questa riflessione a partire dal lavoro di Marilyn Strathern, etnografa del pensiero che rappresenta una delle sue interlocutrici principali. L'uso di formule, imperativi ("Think we must. We must think", p. 30) e neologismi (uno per tutti, Chthulucene), e' orientato alla creazione di un nuovo immaginario a cui attingere per pensare in maniera diversa le relazioni tra esseri viventi e con il pianeta. Haraway mostra di saper modellare l'aspetto letterario a questo scopo (non va dimenticato che l'A. e' studiosa di letteratura oltre che di filosofia, zoologia e biologia), creando slogan che sollecitano la lettrice e il lettore a prestare attenzione alle categorie con le quali pensa. Non e' quindi un caso che i concetti fondamentali dell'opera vengano efficacemente sintetizzati nel titolo del volume, Staying with the Trouble. Making Kin in the Chthulucene, che rappresenta percio' un buon punto di partenza per comprendere la proposta teorica di Haraway.
Cosa significa, dunque, "Staying with the Trouble"? In italiano potrebbe tradursi con "stare con il problema", "restare con il guaio". Lo stare di cui parla Haraway ha pero' precise caratteristiche. Implica innanzitutto l'essere presenti qui e ora, nel mondo danneggiato in cui viviamo. Non richiede un rapporto col futuro a cui delegare la risoluzione (positiva o negativa) della situazione attuale, bensi' si configura come alternativa alle due tipiche reazioni ai problemi che pone l'Antropocene, reazioni, nei termini dell'A., "astrattamente futuristiche" (p. 4): la prima e' quella di una cieca fiducia nelle capacita' della tecnologia di salvare il pianeta, che Haraway descrive come "a comic faith in technofixes" (p. 3). La seconda e' un'assenza totale di speranza, un'attitudine mentale rinunciataria per la quale ormai "the game is over" (p. 3), i giochi sono finiti, non c'e' piu' nulla da fare. La tesi di Haraway e' che invece sia possibile continuare a vivere - e a morire ("living and dying", prima occorrenza p. 2), come ribadisce in piu' parti del volume - in questo pianeta danneggiato rinunciando da una parte alla speranza ridicola di una salvezza tecnologica, dall'altra alla disperazione per l'apocalisse imminente. Infatti, "Staying with the Trouble" per Haraway non significa meramente prendere atto della condizione del pianeta, ma anche creare il Trouble, inventando nuovi modi di azione e reazione ("response-ability", v. sotto) che partono dal making kin del sottotitolo del volume.
Making kin e' un altro concetto chiave dell'opera: generalmente, con kinship si intende indicare un legame di parentela, dunque making kin vorrebbe dire, letteralmente, creare delle parentele, delle affinita'. Nel caso specifico, si tratta di intessere relazioni non solo con altri esseri umani, ma con i molti esseri viventi presenti sul pianeta. Haraway parla di critters, indicando con questo termine indistintamente animali, piante, esseri umani, microbi, e macchine (p. 169). Il concetto di critters puo' essere accostato a quello di earth-bound di Bruno Latour (p. 102), altro fondamentale interlocutore di Haraway. L’'A. utilizza deliberatamente la parola critters, in luogo di creatures, perche' a suo avviso ha il vantaggio di non rimandare a una creazione, e di manifestare affezione. Critters, spiega Haraway, e' il termine con il quale gli/le scienziati/e chiamano i loro animali (presumibilmente, quelle che altrimenti potremmo chiamare le loro cavie, p. 169): una precisazione che ha il pregio di esemplificare la non-innocenza di ogni relazione. Il rapporto tra critters non e' mai innocente: e' cosi' possibile che in una circostanza specifica piccioni, esseri umani e macchine costituiscano assieme un team che indaga i tassi di inquinamento dell'aria, ma anche che in circostanze diverse gli esseri umani si impegnino nel controllo della natalita' dei piccioni allo scopo di preservare le altre specie e il loro territorio (Capitolo 1, Playing String Figures with Companion Species). E' possibile pensare ai piccioni come a consimili con i quali vivere e lavorare, ma anche come a consimili la cui fecondita' va limitata. Inoltre, "making kin" (a cui e' dedicato il Capitolo 4, Making Kin. Anthropocene, Capitalocene, Plantationcene, Chthulucene) richiama anche la prima parte di uno slogan, "make kin not babies" (p. 102), che ricorda agli esseri umani la loro responsabilita' nei confronti del pianeta anche in relazione alle loro scelte riproduttive (con l'avvertenza, pero', che l'aspetto del making kin e' piu' urgente di quello del "not babies", p. 208). In altre parole, il making kin va perseguito con attenzione e capacita' di reazione alle situazioni specifiche, ossia coltivando la response-ability, la capacita' di prendersi cura dell'altr* e di uccidere, di essere presenti e assenti, di vivere e di morire (p. 28).
L'ultimo elemento teorico che compare nel titolo del volume e' quello rappresentato dallo Chthulucene. Il termine ricorre frequentemente nel volume ma viene bene specificato nel Capitolo 2, Tentacular Thinking. Anthropocene, Capitalocene, Chthulucene. Per spiegare cosa significa Chthulucene e' opportuno esplicitare il legame che intrattiene con gli altri due termini presi in esame nel capitolo. Secondo Haraway, Antropocene e' un termine utile e va mantenuto per la sua diffusione, ma non e' preciso nell'attribuire le responsabilita' per la condizione attuale del pianeta: non e' per colpa della specie umana in quanto tale che ci troviamo nella situazione attuale, bensi' per la specifica configurazione che l'attivita' umana ha assunto nel capitalismo (p. 47). D'altra parte, il concetto di Capitalocene rende certamente conto di questa responsabilita', ma non consente di immaginare alcuna via d'uscita. Il concetto di Chthulucene permette invece lo scarto concettuale necessario a pensare la nostra epoca, con le sue tremende implicazioni ma anche con le sue possibilita' inesplorate.
Una precisazione e' dovuta: Chthulucene e' un metaplasmo, e non rimanda allo Cthulhu di Lovecraft (che infatti ha le "h" in posizione diversa). Il riferimento e' invece innanzitutto all'idea di esserci ora (dalla radice kainos) e alle entita' ctonie (dalla radice khthon) (p. 2). Haraway pensa a esseri tentacolari, che non hanno nulla a spartire ("no truck with") con "l'uomo che scruta il cielo". L'opposizione e' alle divinita' del cielo, che secondo l'A. e' possibile riconnettere ad altre figure significative: quella dell'uomo che si autorappresenta come individuo, e come capace di scoprire i misteri del cosmo; lo sguardo dall'alto, il God trick fantasticato dall'uomo moderno (concetto elaborato dalla stessa A., Haraway 1988); lo specismo umano; l'uomo cacciatore, con il suo strumento (tool), la sua arma (weapon), la sua parola (word); l'uomo cacciatore (perche' gli/le altri/e sono prede), creatore di storie e del mondo (world-maker - qui il riferimento e' anche a Heidegger, p. 11). Si puo' pensare invece a divinita' senza genealogia, che provengono dal sottosuolo piuttosto che dal cielo; si puo' pensare a Medusa, gorgone uman*, senza genere (sia nel senso di genre che di gender); si puo' pensare alla borsa che raccoglie, invece che allo strumento che da' forma (il riferimento qui e' a The Carrier Bag Theory di Ursula K. Le Guin, una delle autrici cui e' dedicato il Capitolo 6, famosa scrittrice di fantascienza e fantasy recentemente scomparsa, molto letta e molto amata negli ambienti femministi). Si puo' pensare anche con questi pensieri, attraverso questi pensieri, perche' (almeno in qualche misura) conta con quali pensieri pensiamo: ancora una volta, "it matters what ideas we use to think other ideas" (prima occorrenza p. 12).
Come si puo' evincere da questa sintetica rassegna dei principali temi del volume, il libro non e' strutturato per tesi filosofiche, ovvero le tesi sono espresse in termini allusivi (e quindi non "esposte") ed emergono, oltre che dalle formule di cui si e' detto, da metafore ed esempi tratti dalla ricerca scientifica (intendendo con questa espressione sia l'ambito delle scienze della vita sia quello delle cosiddette scienze sociali). Di conseguenza, metafore ed esempi sono numerosissimi, cosi' come le autrici e gli autori citati nel volume. Si tratta percio' di un volume brulicante di nomi (di persone, di animali, di cellule) e di idee. Da un punto di vista accademico-scientifico, avrebbe probabilmente beneficiato di un'operazione di editing piu' radicale; dal punto di vista retorico e stilistico, un simile intervento sarebbe stato forse depauperante, e in parte contraddittorio rispetto all'importanza che Haraway attribuisce al modo in cui raccontiamo le storie che raccontiamo. Premesso questo, e riconoscendo che un tentativo di sintesi puo' in qualche modo risultare forzato rispetto all'intento dell'opera, si ritiene cio' nonostante utile enucleare, in conclusione, alcuni punti di interesse filosofico:
1. Dal punto di vista ontologico, Haraway argomenta in favore di un'interconnessione radicale tra tutti gli esseri e contro l'idea di un'identita' autonoma e indipendente dalle altre. L'A. e' sostenitrice di una visione del mondo anti-specista e avversa all'eccezionalismo umano.
2. Dal punto di vista etico, le due indicazioni fondamentali sono rappresentate dalla response-ability e dal making kin.
3. Dal punto di vista epistemologico, la considerazione generale e' quella di pensare alle categorie, alle forme, alle narrazioni con cui si pensa (con Strathern). Se si accetta questa premessa, allora anche la proliferazione di immagini e racconti nel volume di Haraway acquista un significato conoscitivo.
4. Dal punto di vista piu' strettamente scientifico, Haraway e' nettamente a favore di approcci non-mainstream alla biologia: Extended Synthesis, Evo-Devo, Eco-Evo-Devo.
5. Dal punto di vista etico-epistemologico-politico, infine, l'imperativo e' "Think we must, we must think". Sembra un'affermazione vaga, ma perde almeno in parte la sua indeterminatezza se viene messa in relazione alle considerazioni ontologiche, epistemologiche, etiche e politiche che emergono dalle tante storie raccontate nell'opera.
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Bibliografia
Donna Haraway, Situated knowledges: The science question in feminism and the privilege of partial perspective, "Feminist studies", 14:3, 1988, pp. 575-599.
Anna Lowenhaupt Tsing, Nils Bubandt, Elaine Gan, Heather Anne Swanson et. al., Arts of Living on a Damaged Planet: Ghosts and Monsters of the Anthropocene, University of Minnesota Press, Minneapolis 2017.
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Ulteriori recensioni del volume
Martha Kenney, Review, "Science & Technology Book Studies", 30:2, pp. 73-76.
Devin Proctor, Review, "Anthropological Quarterly", 2017, 90:3, pp. 877-882.
 
13. LIBRI. MARIE MOISE PRESENTA "SE DEFENDRE. UNE PHILOSOPHIE DE LA VIOLENCE" DI ELSA DORLIN
[Dal sito http://universa.padovauniversitypress.it riprendiamo la seguente recensione apparsa su "Universa", vol. 7, n. 1 (2018)]
 
Elsa Dorlin, Se defendre. Une philosophie de la violence, La Decouverte, Paris 2017, pp. 200.
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La filosofia della violenza formulata da Elsa Dorlin scorre sulla linea di demarcazione che distingue i concetti di legittima difesa e autodifesa. Se a partire dal contrattualismo moderno la legittima difesa e' concettualizzata come prerogativa sostanziale della soggettivita', l'autodifesa, invece, istituisce il soggetto che la incarna: esprimendo la propria puissance d'agir come praxis di resistenza, il soggetto dell'autodifesa non le pre-esiste, ma in quella avviene. L'autrice definisce questo processo come subjectivation malheurese, perche' l'impiego della violenza per necessita' vitale produce un soggetto che difendendosi, si rende indifendibile.
In questi termini, nel prologo agli otto capitoli del saggio, Dorlin annuncia una histoire constellaire della resistenza dei corpi dominati, ovvero una genealogia dell'autodifesa politica, a partire da una concettualita' incarnata della violenza come condizione di sopravvivenza. In questa sede, inoltre, e' annunciata la specificita' di un approccio situato e intersezionale alla soggettivazione, in grado di cogliere la processualita' del soggetto in divenire nella co-costruzione dei rapporti di "razza", "genere" e "classe" e nella loro messa in discussione.
Nel primo capitolo, incentrato sulle legislazioni coloniali del XVIII secolo, il divieto per gli schiavi di adoperare qualsiasi oggetto con potenziale funzione offensiva e' compreso alla luce di una concezione degli schiavi stessi come votati per natura alla violenza contro i padroni. Poiche' lo schiavo non e' riconosciuto come soggetto, questi non dispone della facolta' di preservare la propria vita. Al contrario, la sua intrinseca colpevolezza accorda al padrone la perenne possibilita' di punirlo fino alla morte.
Costretto all'inerzia di fronte alla violenza che gli viene inflitta, lo schiavo assiste alienato, in una postura di dannazione, alla derealizzazione del proprio corpo: un corpo inabitabile, in cui tuttavia si trova imprigionato. Eppure, rileggendo Fanon, Dorlin afferma che e' proprio in tale postura che l'autodifesa diviene possibile: il carattere differito della temporalita' onirica e coreutica concede allo schiavo di dare forma a spazi clandestini di sfogo della tensione muscolare, anticipazione visuale e allenamento al combattimento.
La legittima difesa, invece, e' accordata a priori al padrone, in quanto padrone del proprio corpo. Ma il suo diritto individuale di difesa e' compreso nell'analisi di Dorlin come inestricabilmente connesso anche al diritto e dovere di imbracciare le armi per difendere la nazione di cui e' riconosciuto cittadino.
Nel secondo capitolo, i confini della cittadinanza in armi vengono messi in discussione dalla rivendicazione all'autodifesa da parte delle "donne". La produzione di tale categoria attraverso un'ingiunzione alla vulnerabilita' priva le donne della capacita', e cosi' del dovere, di difendere la nazione, privandole altresi' in questi termini della facolta' di difendere se stesse.
All'indomani della rivoluzione francese, allora, le tricoteuses parisiennes, chiamando le donne ad imbracciare le armi, rivendicano lo status di cittadine e con esso la difesa della nazione come strategia di affermazione dell'uguaglianza dei generi.
Le suffragiste inglesi, invece, un secolo piu' tardi, agiscono da premesse antitetiche, rifiutando il ricorso alla legge, per una deistituzionalizzazione dell'ingiustizia sociale. Il movimento suffragista rivendica cosi' l'autodifesa, allenando le proprie militanti alla pratica del jujitsu. Il combattimento in questa forma dismette la funzione di strategia e si fa tattica di uguaglianza, per affermazione nell'hic et nunc dell'uguaglianza stessa.
Nel terzo capitolo, ricostruendo la genealogia dell'autodifesa delle comunita' ebraiche, Dorlin individua una biforcatura nell'esperienza di resistenza ai pogrom nella Russia del primo Novecento. Alcuni membri delle formazioni di autodifesa addestrati in seno al partito operaio ebraico del Bund ha poi guidato, nel 1943, l'insurrezione del ghetto di Varsavia contro l'occupazione nazista. Di fronte a un ineluttabile destino di morte, la difesa armata del ghetto ha espresso una rinuncia alla corporeita' della vita in un atto di difesa del suo valore, per consentire al processo di soggettivazione innescato di sopravvivere ai corpi che lo incarnavano. Una seconda parte delle formazioni anti-pogrom di matrice sionista ha invece derivato dall'originaria filosofia difensiva, una teoria nazionalista della difesa offensiva. Oggi, nella pratica di lotta del krav maga, simbolo dello Stato di Israele e della sua difesa, si esprime una necessità di autodifesa che coincide con un piano di attacco e sottrazione di terreno all'avversario.
Con il quarto capitolo, Dorlin apre al centro del saggio un excursus sulla concettualizzazione dell'autodifesa nel contrattualismo di Hobbes e Locke. Entrambi i filosofi definiscono l'autodifesa come inalienabile diritto e imperativo di natura allo stesso tempo. Nell'antropologia politica hobbesiana, tuttavia, l'impiego della violenza nello stato di natura non e' un tratto istintivo, ma un "exercice raisonne' de la defense de soi" (p. 84), che il sovrano assoluto mira a pacificare per fornire un'alternativa ad uno stato di insicurezza permanente. Cio' che emerge dalla lettura di Dorlin e' che anche nella filosofia di Hobbes, nonostante gli sforzi teorici, l'immanenza dell'autodifesa allo slancio vitale dei corpi, impedisce di escludere completamente la violenza dal terreno politico.
Nell'antropologia lockiana invece, i soggetti, in quanto proprietari del corpo e dei beni di cui dispongono, godono altresi' di un diritto di giurisdizione cui non rinunciano mai del tutto, mantenendo nella societa' politica la facolta' di rompere il contratto sociale. Tale diritto di giurisdizione si applica inoltre su tutte quelle forme di vita che non possono disporre del proprio corpo, ovvero schiavi, donne, bambini, indigenti e tutti quei corpi spossessati per i quali l'autodifesa si traduce in un furto, innanzitutto di se'.
Nella delega dell'autodifesa che fonda la societa' politica, la lettura di Dorlin fa emergere non tanto il trasferimento della facolta' di violenza dall'individuo allo Stato, ma piuttosto il contro-transfert, dallo Stato all'individuo, sotto forma di pouvoir de surete' (attraverso milizie cittadine armate e polizia privata) o di pouvoir de justice (porto d'armi e dispositivi paragiudiziari).
L'impossibilita' del monopolio statale della violenza e' dunque smentito da Dorlin come forma di debolezza o disfunzionamento, ma ridefinito, al contrario, come "rationalisation de la gouvernamentalite'" (p. 99).
L'approfondimento teorico-politico fornisce cosi' solide basi allo sviluppo dei capitoli successivi, incentrati sul caso statunitense come paradigma di razionalizzazione della razza a fondamento del diritto.
Il quinto capitolo colloca nella Guerra d'indipendenza americana la genesi del vigilantismo e con esso di un sistema di autogiustizia, coronato dalla legalizzazione del linciaggio. Gli uomini afroamericani ne saranno il principale bersaglio, perche' presupposti colpevoli, soprattutto di violenza sessuale sul corpo di donne bianche. E' dunque la difesa delle "loro" donne, intrinsecamente vulnerabili, che legittima il vigilantismo, facendo del giustiziere mascherato una figura eroica e della femminilita' il mezzo per costruire la superiorita' di razza.
Nel 1966 la nascita del Black Panther Party for Self-Defence inaugura nel movimento per i diritti civili degli afroamericani l'organizzazione dell'autodifesa armata come strategia di rivoluzione politica. Il sesto capitolo approfondisce come questa esperienza abbia legato la propria prassi alle analisi, tra gli altri, di Robert F. Williams e Malcolm X. Interessante e' in particolare la rilettura della nozione di non-violenza nel pensiero dei due teorici militanti. Essa infatti non viene contrapposta alla violenza tout court, bensi' ad un suo impiego esclusivo che si trasforma in ingiunzione alla non-difesa e pertanto in suicidio. Con queste premesse, le Black Panthers incarnano un processo di soggettivazione che circoscrive la non-violenza ad un principio etico-politico interno ai gruppi mobilitati: la nonviolenza risiede nelle pratiche di cura rivolte al divenire del soggetto, affinche' possa convertire la violenza subita in distruzione del sistema da cui e' negato.
Il sesto capitolo approfondisce il terreno dell'intersezione tra "genere" e "razza" nelle pratiche di autodifesa che hanno mobilitato la comunita' lesbica, gay e trans negli Stati Uniti a partire dalla fine degli anni Sessanta. In seno a esperienze come il Gay Liberation Front, prende corpo la nozione di safety, ovvero di sicurezza attraverso pratiche contro-istituzionali di autoprotezione. Dorlin analizza come la rivendicazione della sicurezza si sia trasformata nel tempo in ingiunzione, strutturando una geografia spaziale e comportamentale della norma safe, al di la' della quale e' il soggetto a esporsi al pericolo, facendosi responsabile della propria vulnerabilita'. Associando in particolare il sentimento di insicurezza al virilismo dei luoghi di spaccio e di criminalita' urbana, l'autodifesa queer viene progressivamente egemonizzata da una razzializzazione della norma e strumentalizzata per legittimare processi di gentrificazione.
L’ottavo ed ultimo capitolo conclude il percorso di taglio storico-genealogico con un cambio di registro: la riflessione di chiusura e' affidata all'analisi di un romanzo, Dirty Weekend di Helen Zahavi, reinterpretato come metafora del passaggio dalla resistenza come tattica alla violenza come strategia di autodifesa. Entrando in particolare a dibattito con l'etica femminista della non-violenza, Dorlin riformula la nozione di lavoro di cura come dirty care, ovvero come presa in carico delle necessita' materiali, fisiche ed emozionali dell'altro per anticiparne e disinnescarne il potenziale gesto di violenza. Passare ad una strategia della violenza significa, allora, riversare nella prassi tutta la conoscenza acquisita sulla violenza avendo abitato la postura della preda. Come sottolinea l'autrice, cio' non significa dover imparare a battersi, ma disapprendere a non battersi.
La filosofia della violenza che Dorlin propone in questo saggio si inscrive in un quadro epistemologico concettualizzato a piu' riprese dall'autrice. Definito come epistemologie de la resistance (Dorlin 2005, 2009), tale approccio esprime la necessita' di una comprensione della dominazione al di la' delle categorie prodotte dalla dominazione stessa. Nell'applicazione di questa prospettiva al lavoro genealogico di Se defendre risiedono sia i limiti che i punti di forza di quest'opera: da una parte, infatti, il rifiuto di un utilizzo epistemologico dei rapporti di genere e razza sembra assorbire entro tali categorie le specificita' politiche ed epistemologiche dei rapporti di classe. In secondo luogo, l'epistemologia della resistenza permette di leggere l'autodifesa anche nelle sue derive o strumentalizzazioni, ma fornisce strumenti piu' deboli per comprendere come le soggettivazioni per autodifesa possano essere represse sul piano materiale e ideologico.
Nel Quaderno 25 dedicato Ai margini della storia, Gramsci (1975) definisce l'agire dei subalterni come necessariamente sottoposto all'iniziativa dei dominanti, costretti, anche in caso di vittoria, a mantenere una postura di "difesa allarmata". Proprio per questo, argomenta Gramsci, "[o]gni traccia di iniziativa autonoma da parte dei gruppi subalterni dovrebbe percio' essere di valore inestimabile per lo storico integrale" (p. 2284). Se defendre, in questo senso, costituisce un prezioso inventario, non solo di prassi, ma di concettualita' subalterna: dalle mani nude alle armi da fuoco, le armi diventano strumenti teorici e gli strumenti teorici diventano armi.
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Bibliografia
Elsa Dorlin, De l'usage epistemologique et politique des categories de "sexe" et de "race", in "Cahiers du Genre", 2005, vol. 39, no. 2, 2005, pp. 83-105.
Ead., Vers une epistemologie des resistances, in Ead. (ed.), Sexe, race, classe. Pour une epistemologie de la nomination, PUF, Paris 2009.
Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino 1975.
 
14. LIBRI. MARIE MOISE PRESENTA "WHAT FANON SAID. A PHILOSOPHICAL INTRODUCTION TO HIS LIFE AND THOUGHT" DI LEWIS R. GORDON
[Dal sito http://universa.padovauniversitypress.it riprendiamo la seguente recensione apparsa su "Universa", vol. 7, n. 2 (2018)]
 
Lewis R. Gordon, What Fanon Said. A Philosophical Introduction to His Life and Thought, Fordham University Press, New York 2015, pp. 191.
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Cio' che si dice non sempre corrisponde a cio' che si intende dire. Le intenzioni del lavoro del filosofo giamaicano Lewis Gordon sono invece chiare e pungenti sin dal titolo della sua opera: ripercorrere il discorso dello psichiatra rivoluzionario martinicano Frantz Fanon e lavorare dall'interno della discrepanza tra parola e intenzione, per individuare nella relazione puntuale di testo e contesto, il significato inequivoco del discorso, ovvero What Fanon Said.
Tre premesse metodologiche di matrice fanoniana danno forma all'approccio interpretativo di Gordon al testo fanoniano stesso e alla sua critica di quelle impostazioni che nell'ambito degli studi fanoniani hanno dato adito a fraintendimenti e controversie. Una prima tendenza problematizzata da Gordon e' quella di ridurre la portata teorica di autori afrodiscendenti all'influenza delle correnti, autori o opere a cui questi fanno riferimento. Tale impostazione si accompagna inoltre di frequente a una riduzione della produzione analitica di questi autori al loro dato biografico esperienziale, quasi a sottendere che la capacita' di elaborazione teorica sia prerogativa della "bianchezza occidentale". In terzo luogo, Gordon deriva da Fanon e applica agli stessi studi fanoniani quella che a piu' riprese nel corso della propria produzione filosofica ha elaborato come critica al "feticismo metodologico" (pp. 72-74; cfr. Gordon 1995, 2006 e Gordon, Sharpley-Whiting, White 1996). Si tratta in altre parole del rifiuto radicale di un protocollo metodologico presupposto che sconta il prezzo di una lettura disciplinare - ovvero riduzionistica e predeterminata - della realta'.
Il primo capitolo, "I Am From Martinique", inaugura cosi' un nuovo rapporto tra biografia e produzione teorica. Gordon costruisce in primis una contestualizzazione storico-biografica dell'opera fanoniana Pelle nera, maschere bianche (d'ora in avanti, PNMB), annunciata sin dalla prefazione di Sonia Dayan-Herzbrun come l'opera fondamentale nell'analisi gordoniana di Fanon. La centralita' dell'Erlebnis dello psichiatra martinicano formula un ribaltamento del rapporto tra biografia e teoria: non e' la prima a portarci verso la seconda, ma viceversa (p. 10). L'origine martinicana di Fanon, esplicitata sin dal titolo in un virgolettato alla prima persona, sembra fare eco al romanzo autobiografico Je suis martiniquaise di Mayotte Capecia, la cui critica e' elemento centrale tanto di PNMB quanto del lavoro interpretativo di Gordon. Il discorso diretto alla prima persona, inoltre, introduce l'approccio fenomenologico di Gordon a Fanon, analizzato come corpo - nero - in relazione, in situazione e in movimento.
Il capitolo ricostruisce infatti il nesso tra le origini martinicane di Fanon e i processi di razzializzazione di cui l'autore ha fatto esperienza arruolandosi come volontario nell'esercito francese durante la seconda guerra mondiale e, successivamente, nel corso dei suoi studi di medicina in Francia.
Al centro del lavoro di Fanon, afferma Gordon, si pone una comprensione del razzismo (specificamente dell'antiblack racism) e del colonialismo sul terreno della prassi attraverso quello che lo stesso Fanon costruisce come metodo sociogenetico. Parafrasando Gordon, Fanon propone un'analisi fenomenologico-esistenziale che riconosca sia l'impatto del mondo sociale sull'emergenza delle identita' umane sia l'impatto delle situazioni individuali sullo sviluppo e la conservazione delle istituzioni sociali e politiche (p. 2).
In questi termini la ricerca teorico-biografica di Gordon si propone all'intersezione tra una fenomenologia del corpo razzializzato di Fanon e una fenomenologia del corpo razzializzato in Fanon.
Tale impostazione procede nello sviluppo del secondo capitolo, "Writing Through the Zone of Nonbeing". Il lavoro di Fanon e' qui riletto come una catabasi nella dimensione esistenziale del negre. Si tratta di una condizione di dannazione infernale, che Fanon definisce in PNMB come zona di non-essere.
Da una parte, come un dantesco Virgilio, il Fanon teorico conduce il suo lettore nell'attraversamento di questo luogo di morte in vita, dall'altra il Fanon protagonista dell'opera, nelle vesti di un anonimo eroe nero, vive sulla sua pelle il reiterarsi di un'esperienza di fallimento in forma tragicomica (p. 26): la ricerca letteralmente senza esito della via di fuga.
La duplicita' del ruolo di Fanon in PNMB articola la distinzione tra i concetti di double consciousness e potentiated double consciousness che Gordon riprende rispettivamente da W.E.B. Du Bois e dall'interprete di quest'ultimo, Paget Henry. L'incontro del nero con la razionalita' bianca produce, infatti, in Fanon, uno sdoppiamento dello sguardo su di se' - la doppia coscienza di Du Bois - che conduce il nero a guardarsi dall'esterno, e a comprendersi come un problema.
Piu' nello specifico, l'analisi di Gordon e' che la razionalizzazione del pensiero occidentale abbia condotto a una teodicea della civilizzazione e del pensiero occidentale stesso, in quanto sistema completo, chiuso e valido sotto un aspetto descrittivo quanto prescrittivo, morale e ontologico (p. 20).
Ma quella di Fanon teorico - il Virgilio attraverso gli inferi della zona di non-essere - emerge allora come doppia coscienza potenziata, nella misura in cui essa arriva a leggere alla radice la zona di non-essere come costruzione del bianco, giungendo pertanto alla necessita' di una trasformazione radicale.
Infatti ogni tentativo di mera deviazione dalla zona di non-essere si rivela sistematicamente un fallimento. La deviazione prende la forma da parte del nero di un'imitazione del bianco, che nell'atto stesso di imitare, fallisce sistematicamente il tentativo di incarnarlo.
La commedia degli errori articolata in PNMB procede secondo Gordon dall'esperienza del fallimento nella sfera pubblica - il tentativo di parlare come un bianco che torna ad affermare la nerezza del nero - al fallimento nella sfera privata e piu' nello specifico nella dimensione delle relazioni erotico-amorose. Nell'analisi fanoniana dei rapporti eterosessuali e inter-razziali, l'uomo bianco emerge secondo Gordon come il dio incarnato della teodicea della civilizzazione occidentale. L'uomo bianco - insieme alla donna bianca in quanto sua intermediaria - non puo' avere responsabilita' della sofferenza del nero o della nera, che di fatto deve guardare a se' come causa del proprio male. Al contrario, a questo dio deve essere rivolta la richiesta - intrinsecamente impossibile - della salvezza sotto forma di bianchezza. Si tratta secondo Gordon di una relazione patologica riconoscibile nei termini psicoanalitici di un duplice autoinganno di matrice narcisistica (p. 40). Da una parte infatti la persona bianca opera l'inganno negando la nerezza della persona amata, dall'altra la persona nera chiede di essere ingannata, ovvero di potersi specchiare nella bianchezza dell'amato/a come se fosse la propria.
Come riprende anche Drucilla Cornell nella postfazione a What Fanon Said, la lettura di Gordon fa emergere come la razza produca il collasso della differenza sessuale, rivelando come la colonizzazione della sessualita' neghi l'accesso alla dimensione dell'umano tanto alla nera quanto al nero, attraverso la loro reificazione, ovvero la loro riduzione a cose sessualizzate (p. 145). Da qui sia Gordon che Cornell derivano la loro messa a distanza delle accuse di misoginia avanzate a Fanon da quelle letture di cui invece mettono alla luce i fraintendimenti. Al contrario, le analisi fanoniane vengono riformulate in questo saggio come premesse per un orizzonte a uno stesso tempo femminista e decoloniale.
Nel terzo capitolo "Living Experience, Embodying Possibility", Gordon analizza il passaggio dalla dimensione privata del fallimento all'esperienza personale dello stesso Fanon, rielaborata nel quinto capitolo di PNMB, "L'esperienza vissuta del nero". In questo punto, secondo Gordon, Fanon costruisce in forma paradossale il punto di vista interiore del nero sull'esperienza del vedersi negata una vita interiore, completamente sovradeterminata dall'esterno.
Il nuovo fallimento e' qui individuato da Gordon nel tentativo del nero di vedersi riconosciuto in termini hegeliani da parte del bianco, in particolare attraverso il gesto del sorriso in risposta alle interpellazioni razziste di cui e' fatto oggetto. Il tentativo del nero, nello specifico, e' di vedersi riconosciuta la relazione se'-altro con il bianco, cercando di corrispondere alla dimensione dell'alterita'. Attraverso il sorriso, infatti, fa notare Gordon, il nero incarna l'immagine dello schiavo sorridente stampata su una marca di cereali francesi divenuta celebre per lo slogan razzista "Y'a bon banania". Il fallimento della dialettica del riconoscimento conduce allora il nero a ridere non piu' per il bianco ma di se stesso. Infine, un pianto catartico da' inizio al confronto del nero con la realta': una realta' in cui il fallimento sistematico corrisponde all'impossibilita' della salvezza umana per i corpi deumanizzati (p. 71).
Una preghiera ironica, infatti, chiude l'opera di Fanon, come espressione di una nuova coscienza libera e matura. L'invocazione conclusiva e' infatti rivolta non piu' verso un dio, ma da Fanon al suo stesso corpo, alla seconda persona, e in questi termini all'umanita' del suo corpo stesso. Nell'interrogarsi incarnato il corpo esce dall'avviluppamento della patologia sociale e si rivolge verso la lotta (p. 70).
Rivolta cosi' verso l'esterno, la rivendicazione del nero come corpo azionale e' al centro delle pubblicazioni successive a PNMB, cosi' come delle relative esperienze biografiche di Fanon. Si tratta nello specifico degli scritti raccolti in Per la rivoluzione africana e L'anno V della rivoluzione algerina. Intrecciata a questi e' l'esperienza professionale di Fanon come psichiatra in Francia e Algeria, a cui seguira' la sua adesione militante al Fronte di Liberazione Algerino. Le opere sopracitate costituiscono per Gordon il ponte teorico tra PNBM e quella che sara' l'ultima pubblicazione di Fanon, I dannati della terra. Tale ponte e' individuato da Gordon in un binomio concettuale, a cui l'autore giamaicano dedica il quarto capitolo del suo saggio: "Revolutionary Therapy".
La riflessione di Gordon costruisce infatti una specularita' tra le riflessioni fanoniane sulla necessita' di un orizzonte rivoluzionario della terapia e sulla capacita' terapeutica della lotta rivoluzionaria. Da una parte infatti, inaugurando una specifica critica alla psichiatria occidentale, Fanon fa emergere il ruolo del colonialismo nel determinare la condizione di non-essere del paziente psichiatrico colonizzato. La guarigione da tale condizione non puo' avvenire se non attraverso la lotta contro il colonialismo. Nella prassi rivoluzionaria Fanon indica il cuore della terapia: e' nell'agire la lotta che ha origine il processo di produzione, trasformazione e liberazione del soggetto.
"Counseling the Damned", il quinto e ultimo capitolo, entra nel vivo del processo di decolonizzazione sul piano teorico e politico. Gordon segnala il fil rouge che lega la critica di Fanon alla dialettica hegeliana e l'analisi del colonialismo in termini aristotelici: non esiste mediazione possibile tra estremi in contraddizione e mutualmente escludenti. Di qui Fanon deriva la tragicita' della decolonizzazione, in quanto fenomeno inevitabilmente violento.
Gordon analizza come la violenza produca un effetto catartico nella misura in cui essa sia in grado di pareggiare le condizioni di esistenza, di eguagliare i valori delle vite. Non per questo, sottolinea l'autore, la violenza e' da comprendere come uno strumento rivoluzionario in se' nel pensiero di Fanon. Al contrario, nel lavoro di Gordon risaltano le riflessioni di Fanon sulle conseguenze della brutalita' agita nel corso della lotta anticoloniale. La brutalita', infatti, produce mostri, nel senso letterale del termine - precisa Gordon - ovvero ammonimenti (dal latino monere) incarnati e visibili di cio' che deve essere superato.
Fondamentale in questa prospettiva e' la messa in discussione simultanea dei concetti e dei valori di matrice coloniale e la costruzione di un orizzonte al di la' di quelli. Tale operazione necessita per Gordon di un approccio ai concetti come norme (concept-norms o normative concepts, p. 130), ovvero cio' che l'autore giamaicano definisce come eredita' fondamentale de I dannati della terra. In altre parole, e' nella fusione tra il concetto, la produzione della realta' materiale e ruolo dei valori nella formazione dei concetti stessi, che Gordon individua il potenziale creativo-trasformativo di una concettualita' incarnata nei corpi in lotta in grado di invalidare, da una parte, la pretesa universalita' della dominazione razziale e di dare forma dall'altra a una nuova realta' decoloniale e decolonizzata.
Riprendendo la metafora dell'inferno dantesco, l'autore torna a guardare a Fanon come alla guida che lo porta sempre piu' a fondo nella comprensione della dannazione in terra, mettendo in risalto il ruolo del sentimento d'odio nel consumare i dannati. In questo senso, Gordon argomenta come l'effettiva possibilita' di trascendere la dialettica del riconoscimento, e quindi la vera minaccia ai soggetti della dominazione coloniale, risieda non tanto nell'odio, quanto nel concretizzare loro irrilevanza. E' in questa direzione che la veste virgiliana di Fanon conduce il suo interprete verso la necessita' di lasciarsi alle spalle gli attaccamenti e i valori alimentati dalla dannazione per riuscire a pensare e realizzare un mondo al di la' di quella, per poter uscire infine a riveder le stelle (p. 128).
Con What Fanon Said Gordon conclude un suo ampio percorso di ricerca ed elaborazione. In questo saggio infatti l'autore arriva a raccordare, senza disciplinare, la variegata strumentazione fanoniana attraverso una sua applicazione metateorica. In questa operazione brillante risiede tuttavia anche il limite, laddove il mancato confronto anche in forma critica con la complessita' dei corredi metodologici disciplinari, blocca in superficie alcuni passaggi interpretativi. Ma senza dubbio il lavoro di Gordon raggiunge e va oltre il suo obiettivo, nella misura in cui non solo fa luce su cosa Fanon abbia detto, ma apre nuove e vivaci riflessioni su cosa Fanon, sorgente ancora viva di teoria e prassi, continui a dire in questo presente.
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Bibliografia
Lewis R. Gordon, Fanon and the Crisis of European Man, Routledge, New York 1995.
Id., Disciplinary Decadence: Living Thought in Trying Times, Paradigm Publishers, Boulder 2006.
Id., T. Denean Sharpley-Whiting, Renee T. White, Fanon: A Critical Reader, Blackwell, Cambridge 1996.
 
15. PER SAPERE E PER AGIRE. ALCUNI RIFERIMENTI UTILI
 
Segnaliamo il sito della "Casa delle donne" di Milano: www.casadonnemilano.it
Segnaliamo il sito della "Casa internazionale delle donne" di Roma: www.casainternazionaledelledonne.org
Segnaliamo il sito delle "Donne in rete contro la violenza": www.direcontrolaviolenza.it
Segnaliamo il sito de "Il paese delle donne on line": www.womenews.net
Segnaliamo il sito della "Libreria delle donne di Milano": www.libreriadelledonne.it
Segnaliamo il sito della "Libera universita' delle donne" di Milano: www.universitadelledonne.it
Segnaliamo il sito di "Noi donne": www.noidonne.org
Segnaliamo il sito di "Non una di meno": www.nonunadimeno.wordpress.com
 
16. SEGNALAZIONI LIBRARIE
 
Letture
- Giuseppe Ledda, Diavoli, bestie, gigli e smeraldi. Dalla selva al cielo, la natura in Dante, Gedi, Roma 2021, pp. 174, euro 9,90 (in supplemento al quotidiano "La Repubblica").
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Riedizioni
- Vito Fumagalli, Paesaggi della paura. Vita e natura nel Medioevo, Il Mulino, Bologna 1994, Rcs, Milano 2021, pp. 336, euro 8,90 (in supplemento al "Corriere della sera").
 
17. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
 
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli.
 
18. PER SAPERNE DI PIU'
 
Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it
Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/
 
TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 4079 del 19 aprile 2021
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXII)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com , sito: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/
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