[Nonviolenza] La biblioteca di Zorobabele. 50



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LA BIBLIOTECA DI ZOROBABELE
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Segnalazioni librarie e letture nonviolente
a cura del "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo
Supplemento a "La nonviolenza e' in cammino" (anno XXII)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com
Numero 50 del 13 aprile 2021
 
In questo numero:
1. Alcuni estratti da Antonio A. Casilli, "Schiavi del clic. Perche' lavoriamo tutti per il nuovo capitalismo?"
2. Giuliana Sgrena: Con il vento tra i capelli
3. Stefano Verdino: La modesta reticenza di Anne Bronte che affascino' la genovese britannica
 
1. LIBRI. ALCUNI ESTRATTI DA ANTONIO A. CASILLI, "SCHIAVI DEL CLIC. PERCHE' LAVORIAMO TUTTI PER IL NUOVO CAPITALISMO?"
[Dal sito www.tecalibri.info]
 
Antonio A. Casilli, Schiavi del clic. Perche' lavoriamo tutti per il nuovo capitalismo?, Feltrinelli, Milano 2020, pp. 318 (ed. orig.: En attendant les robots. Enquete sur le travail du clic, Seuil, Paris 2019). Con una prefazione di Dominique Meda, tradzione di Raffaele Alberto Ventura.
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Da pagina 17
Simon e l'IAA (Intelligenza Artificiale di Antananarivo)
E' nel 2017 che intervisto "Simon". Non è il suo vero nome, come d'altronde "SuggEst" non e' il vero nome della start-up in cui viene assunto in stage nel 2016, alla fine del suo master in Business School. Eppure l'azienda esiste e fattura. Specializzata in intelligenza artificiale (IA), si tratta di un fiore all'occhiello del settore dell'innovazione. SuggEst propone una soluzione automatizzata di punta per vendere prodotti di lusso a clienti facoltosi. Siete una donna politica, un calciatore, un'attrice o un cliente straniero? Come spiega la presentazione sul sito, vi bastera' scaricare l'applicazione per ricevere, "in condizioni privilegiate", "offerte totalmente personalizzate dai piu' importanti brand del lusso francesi o da stilisti riconosciuti". Questo "grazie a un procedimento di apprendimento automatico" che permette alla start-up di indovinare le preferenze dei clienti e anticipare le loro scelte. L'intelligenza artificiale si incarica di raccogliere automaticamente le tracce digitali lasciate sui social media: post, resoconti di eventi pubblici ai quali avete partecipato, foto dei vostri amici, fan, parenti. E alla fine le aggrega, le analizza e suggerisce un prodotto.
Dietro questa macchina che impara in maniera anonima, autonoma e discreta si nasconde tuttavia una realta' ben diversa. Simon se ne rende conto tre giorni dopo l'inizio del suo stage, quando, chiacchierando davanti alla macchinetta del caffe', chiede perche' l'azienda non impieghi nessun ingegnere specializzato in intelligenza artificiale e nemmeno un data scientist. Uno dei fondatori gli confessa che la tecnologia proposta agli utenti non esiste: non e' mai stata sviluppata. "Ma l'applicazione non offre un servizio personalizzato?" si stupisce Simon. L'imprenditore gli rivela che l'attivita' che avrebbe dovuto svolgere l'IA viene di fatto esternalizzata presso lavoratori stranieri. Al posto dell'IA, ovvero un robot intelligente che avrebbe raccolto sul web delle informazioni e restituito un risultato dopo aver eseguito un calcolo matematico, i fondatori della start-up hanno messo in piedi una semplice piattaforma digitale. Un software che trasporta gli input forniti dagli utenti dell'app verso... Antananarivo, in Madagascar.
In effetti, e' proprio li' che si trovano le persone disposte a "fingersi intelligenze artificiali". In cosa consiste questo lavoro? La piattaforma invia loro un alert con il nome dell'utente che sta utilizzando l'applicazione. Poi sono loro che, frugando sui social e negli archivi del web, raccolgono "a mano" il massimo di informazioni sul suo conto: testi, foto, video, tracce di transazioni commerciali e log delle attivita' in rete... fanno il lavoro che avrebbe dovuto realizzare il bot, ovvero il software che aggrega i dati. Pedinano l'utente, talvolta persino creando falsi profili, e stilano delle schede con le sue preferenze da inviare in Francia. Poi SuggEst aggrega questi dati e li monetizza presso le aziende del lusso.
Quante sono, sul globo terracqueo, queste piccole api operose dell'intelligenza artificiale? Nessuno lo sa. Milioni, sicuramente. E quanto sono pagate? Solo pochi centesimi per clic, spesso senza contratto e senza nessuna stabilita' professionale. E dove lavorano? Negli internet point nelle Filippine, a casa in India, o ancora nelle sale di informatica delle universita' in Kenya. Perche' accettano questo lavoro? Per raggranellare qualche soldo, evidentemente, in paesi dove il salario medio di un lavoratore non qualificato non supera le poche decine di dollari al mese.
I colleghi stagisti assicurano a Simon che si tratta di una cosa abituale. In Mozambico o in Uganda ci sono quartieri interi, nelle grandi citta' o nei villaggi rurali, ormai interamente impegnati a cliccare sulle immagini o a trascrivere stringhe di testo. Questo serve, intuisce lo stagista, ad "addestrare gli algoritmi", ovvero a insegnare alle macchine a eseguire delle mansioni automatizzate. Quando finiranno il loro apprendistato? Difficile dare una risposta. I clienti che ricorrono all'applicazione SuggEst si rinnovano costantemente e vogliono sempre nuove offerte. La macchina deve evolversi. La piattaforma continua a esternalizzare sempre piu' lavoro agli operai del clic in Africa. Anche gli stagisti lavorano part-time sulle "schede". Come gli altri, Simon passa alcuni dei suoi pomeriggi a fingere di essere un'intelligenza artificiale.
Simon parla senza mezzi termini di pubblicita' ingannevole: l'azienda spaccia per intelligenza artificiale cio' che non lo e'. Le condizioni di reperimento dei dati sensibili non sono certo trasparenti, e c'e' anche il problema dei rapporti con le grandi aziende del digitale. SuggEst fa parte dell'ecosistema di una delle principali imprese del settore, pioniera dell'intelligenza artificiale i cui supercalcolatori sono spesso citati nella stampa specializzata. Fino a che punto, si chiede Simon, questo gigante dell'alta tecnologia puo' ignorare la catena di subappalti che da una start-up francese risale fino alla periferia di una citta' del Madagascar? Potra' mai permettersi di ammettere che la presunta "intelligenza artificiale" su cui si basa una sua azienda satellite non e' altro che un mix di stagisti francesi e precari malgasci? Fintanto che il lavoro di una miriade di operai del clic sara' meno caro di quello di una squadra di informatici specializzati nello sviluppo di soluzioni realmente automatiche, la start-up non avra' nessuna ragione economica di sviluppare l'IA che dichiara di aver gia' a disposizione. "L'ideale sarebbe di metterla in cantiere, riconosce uno dei suoi fondatori, ma a questo stadio le richieste dei nostri clienti sono cosi' numerose che dobbiamo concentrare i nostri sforzi sulla piattaforma esistente, per renderla piu' efficiente e redditizia".
Se questa azienda avesse un motto, suonerebbe come un paradosso:  umani che rubano il lavoro dei robot.
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Da pagina 19
Fare i conti con il digital labor: istruzioni per l'uso
Questa storia e' soltanto la punta dell'iceberg di conversazioni e punti di vista che un "sociologo del digitale" fa emergere quando inizia a mettere in discussione la retorica dell'automazione per esplorarne il lato oscuro. Se rimettiamo "the human in the loop", ovvero l'uomo al centro dei processi come dicono gli esperti di intelligenza artificiale, ci rendiamo conto che il nostro immaginario tecnologico popolato da scienziati in camice bianco, venture capitalist in giacca casual e attrezzature hi-tech dimentica per strada tante altre persone, che lavorano in altri luoghi (spesso a casa) e indossano abiti molto piu' vari. Nel digitale e' spesso cosi': per ogni colletto bianco, esistono milioni di colletti blu.
Questo libro cerca di dare un senso alla storia del nostro stagista anonimo, anzi risposte alla domanda che solleva la sua testimonianza: questa start-up e' soltanto un caso isolato di "IA washing", oppure si tratta di un fenomeno rivelatore di una piu' vasta tendenza all'occultamento del lavoro sotto il velo della robotizzazione? Per rispondere a questa domanda, bisogna esplorare dietro le quinte dell'automatizzazione facendosi guidare da ulteriori domande: chi fa l'automazione? Quali ne sono le modalita' concrete? Nel quadro di quali rapporti sociali? Con quali conseguenze politiche? Piu' generalmente, qual e' il legame profondo tra il lavoro umano e questa nuova organizzazione della sfera tecnica?
A tal fine l'opera si divide in tre parti: la prima ("Quale automazione?") analizza i legami economici e culturali tra il programma scientifico dell'intelligenza artificiale e il paradigma tecno-economico delle piattaforme digitali; la seconda ("Tre tipi di digital labor") presenta una serie di esempi, che vanno da Uber a Amazon e da Facebook a Google, per mostrare la varieta' di forme che assume il lavoro nel momento in cui i modelli economici provano a incorporare l'intelligenza artificiale; la terza ("Orizzonti del digital labor") fornisce degli strumenti teorici per capire i fenomeni di sovrasfruttamento e di asimmetria legati alla ristrutturazione dei mercati del lavoro. La conclusione propone alcune piste di riflessione per contribuire a emendare o superare questi fenomeni.
Il generale entusiasmo per l'intelligenza artificiale costituisce il punto di partenza dell'analisi contenuta nel capitolo 1 ("Gli esseri umani sostituiranno i robot?"). L'edizione 2017 dell'AI Index dell'Universita' di Stanford segnala una frenesia degna della corsa all'oro del Klondike: soltanto negli Stati Uniti il numero di start-up che promettono soluzioni d'intelligenza artificiale si e' moltiplicato per quattordici in un anno, mentre gli investimenti dei venture capitalist sono sei volte piu' alti rispetto ai primi anni duemila. In questo contesto di grande entusiasmo dei mercati, l'impatto delle tecnologie sul lavoro fa tuttavia emergere alcune questioni problematiche. La prima riguarda la nostra difficolta' a rappresentarci la natura del contributo umano alla produzione, isolando correttamente i differenti processi che la compongono. Questa confusione ci porta a credere che basti automatizzare alcune mansioni abitualmente svolte dagli esseri umani perche' scompaiano interi mestieri. E' la teoria della "grande sostituzione tecnologica", che domina il dibattito da qualche decennio.
Ma l'originalita' della situazione attuale non sta negli effetti distruttivi che l'automazione potrebbe avere sull'occupazione: le profezie sulla "fine del lavoro" risalgono all'alba della civilta' industriale. Se vogliamo davvero comprendere l'effetto di questa trasformazione sulle attivita' umane, dobbiamo riconoscere e stimare la quantita' di lavoro incorporata nell'automazione stessa. Soltanto prendendo in considerazione gli indicatori economici e statistici riusciremo a valutare le conseguenze dell'intelligenza artificiale al netto dei troppo facili ardori e dei frequenti allarmismi.
Le inquietudini contemporanee sulla scomparsa del lavoro sono un sintomo della vera trasformazione in atto: non la sua scomparsa ma la sua  digitalizzazione. Questa dinamica tecnologica e sociale mira alla trasformazione del gesto produttivo umano in micro-operazioni sottoremunerate o non remunerate al fine di alimentare un'economia dell'informazione basata principalmente sull'estrazione di dati e sull'assegnazione a operatori umani di mansioni produttive costantemente svalutate poiche' considerate troppo piccole, troppo poco visibili, troppo ludiche o troppo poco gratificanti.
In parallelo vedremo che il fenomeno definito digital labor - ovvero quel  lavoro spezzettato e datificato che serve ad addestrare i sistemi automatici - e' stato reso possibile da due tendenze storiche: l'esternalizzazione del lavoro e la sua parcellizzazione. Queste due tendenze sono apparse in momenti differenti e si sono sviluppate seguendo cicli disallineati, fino a che le tecnologie dell'informazione e della comunicazione non le hanno fatte convergere.
Da queste osservazioni preliminari discende un ulteriore elemento, ovvero che la retorica dell'automazione nasconde di fatto il trionfo delle piattaforme digitali. Assistiamo alla generalizzazione di una struttura tecnologica e di un'organizzazione economica originale che non ha un "core business" specifico: la sua ragion d'essere consiste nell'intermediazione informazionale tra diversi attori economici. I sogni sui robot intelligenti sono alimentati dai profitti dei grandi oligopoli digitali. E' nel secondo capitolo ("Di cosa parliamo quando parliamo di piattaforma digitale") che definiremo il paradigma tecnico della piattaformizzazione, che riguarda oggi tanto le aziende tecnologiche quanto quelle degli altri settori, nella misura in cui anche queste si trovano in piena "trasformazione digitale". Si trattera' innanzitutto di stilare una genealogia del concetto di piattaforma per mostrare come questo prolunghi diverse nozioni della teologia politica del Settecento: si parla di "piattaforma" nel senso di "programma politico" anche nella dottrina di una Chiesa o di una congregazione. Le piattaforme digitali attuali deformano alcuni dei valori racchiusi in quei concetti originari - per esempio la concezione delle risorse come beni comuni, o l'abolizione della proprieta' privata e del lavoro. La strumentalizzazione capitalistica di questi princìpi si manifesta dunque nelle strutture tecno-economiche che predicano "condivisione" dei beni, "liberazione" del lavoro e "apertura" delle risorse informazionali.
Facendo leva su logiche algoritmiche che richiedono un'ingente mole di dati per poter funzionare, le piattaforme hanno come conseguenza di disorganizzare i mercati tradizionali, in particolare quello del lavoro. In questo modo estraggono il valore generato dai loro produttori, fornitori e consumatori. Il lavoro "generato dagli utenti" e' necessario per produrre diversi tipi di valore: il valore di qualificazione (gli utenti organizzano l'informazione lasciando commenti o dando voti su beni, servizi e/o su altri utenti della piattaforma), che permette il funzionamento regolare delle piattaforme; il valore di monetizzazione (il prelievo di commissioni o la cessione di dati forniti da attori ad altri attori), che fornisce liquidita' a breve termine; il valore di automazione (l'utilizzo di dati e contenuti degli utenti per addestrare le intelligenze artificiali), che si inscrive in uno sviluppo a piu' lungo termine.
Le piattaforme non sono specializzate nella produzione di un solo bene o servizio, bensi' aggregano attivita' e modelli economici ben distinti. Nei capitoli che compongono la seconda parte del libro individueremo tre di questi modelli: le  piattaforme di servizi "on demand" come Uber o Foodora; quelle di microlavoro come Amazon Mechanical Turk o Uhrs; le piattaforme social  come Facebook o Snapchat. Le mansioni dalle quali le piattaforme digitali riescono a estrarre il valore sono variabili, poiche' alcune di queste piattaforme producono servizi per la persona, altre propongono contenuti e gestiscono l'informazione, altre ancora commercializzano le relazioni sociali stesse. Ognuna di queste categorie di piattaforma ricorre a tipi differenti di individui, il che permette di classificarle secondo vari criteri quali la modalita' di lavoro, la portata geografica, il sistema di remunerazione o i conflitti riguardanti l'estrazione del valore.
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Da pagina 23
Il terzo capitolo ("Il digital labor on demand") si concentra principalmente sulle piattaforme come Uber, Airbnb, Deliveroo o TaskRabbit, che mettono in relazione in tempo reale la domanda e l'offerta per un servizio materiale, spesso geograficamente situato. La natura visibile di questi servizi non deve trarci in inganno: si tratta principalmente di attivita' di produzione di dati. Esamineremo la quotidianita' iperconnessa dei tassisti di Uber, molto piu' spesso impegnati davanti allo schermo dello smartphone che al volante, al fine di realizzare mansioni informazionali come cliccare, arricchire le mappe Gps, compilare tabelle, inviare messaggi, gestire il loro punteggio di reputazione. Mostreremo in seguito come i passeggeri producano anch'essi dei dati durante i loro viaggi. Questo ci permettera' di illustrare in maniera piu' dettagliata il funzionamento dell'algoritmo di tariffazione dinamica di Uber.
Il case study di Uber permettera' di chiarire due punti. Il primo riguarda la distanza tra il sogno dorato della sharing economy e la realta' concreta del lavoro digitale on demand. Lo spirito di condivisione e le aspirazioni sociali che animano alcuni di questi servizi servono a giustificare lo sfruttamento del lavoro degli utenti. L'apparizione, su queste piattaforme, di forme di disciplina del lavoro oltre che di conflitti tra i fornitori di prestazioni e i proprietari delle infrastrutture tecnologiche non puo' che richiamare le lotte nelle manifatture industriali dei secoli passati. Il secondo punto riguarda l'utilizzo dei big data estratti dall'attivita' dei conducenti e dei passeggeri per istruire un tipo particolare di robot intelligenti: le autovetture autonome. Ci soffermeremo sul funzionamento di queste tecnologie, per mostrare che la loro presunta "autonomia" e' di fatto molto limitata. Le automobili senza conducente si muovono in realta' con un "operatore" a bordo che puo' in ogni momento riprenderne il controllo. Inoltre, e contrariamente alle attese, queste tecnologie spostano la responsabilita' della guida sui passeggeri e richiedono l'azione a distanza di ulteriori operatori per il riconoscimento delle immagini. Sono gli "annotatori" che assistono l'IA dell'automobile nell'interpretazione della segnaletica stradale o che aggiustano le traiettorie calcolate dal Gps.
Chi sono questi annotatori? Non si tratta ne' di ingegneri ne' di "cartografi" come li chiamano sulla piattaforma Uber, ma, come vedremo nel capitolo 4 ("Il microlavoro"), di robot umani, ovvero dei lavoratori pagati per realizzare interamente, o semplicemente accompagnare, il lavoro delle IA. Siamo agli antipodi delle fantasie robotiche che alimentano l'immaginario degli investitori e dei media: qui vediamo soltanto una miriade di proletari del clic, lavoratori non specializzati che svolgono le mansioni necessarie per selezionare, migliorare, rendere i dati interpretabili. Illustreremo questo aspetto studiando il caso di Amazon Mechanical Turk, un servizio che permette di assumere centinaia di migliaia di operai digitali disseminati ovunque nel mondo per filtrare video, taggare immagini e trascrivere documenti che le macchine non sono in grado di processare. Per ogni micromansione, i "Turker" sono pagati pochi centesimi di dollaro. Il lavoro digitale di questi proletari del clic e' fondamentale per produrre quella che spesso non e' altro che intelligenza artificiale "fatta a mano".
Il mercato del microlavoro coinvolge oggigiorno un numero crescente di persone. Si stima la sua estensione tra un minimo di quaranta e un massimo di alcune centinaia di milioni di lavoratori. La vaghezza di questi numeri e' la naturale conseguenza della difficolta' che abbiamo a isolare gli elementi umani da quelli tecnici all'interno di queste attivita'. Si tratta di lavoro spesso invisibile agli occhi occidentali, sia perche' i giganti dell'alta tecnologia mantengono il riserbo sulla questione sia perche' solitamente tutto avviene molto lontano, in Asia o in Africa. Poiche' i clienti dei servizi realizzati grazie all'attivita' dei lavoratori del clic vivono prevalentemente in Europa o negli Stati Uniti, la geografia globale del microlavoro sembra riprodurre tensioni e asimmetrie gia' note. Assistiamo a una "nuova divisione internazionale del lavoro" persino piu' ineguale rispetto a quella che denunciavano i pensatori radicali della seconda meta' del secolo passato. Il microlavoro permette la formazione di catene globali di delocalizzazione che disegnano il vero volto dell'automazione: non si tratta di una sostituzione dei lavoratori umani da parte di intelligenze artificiali efficienti e precise, ma da parte di altri lavoratori umani - occultati, precari, sottopagati.
Nella maggior parte dei casi, a questo microlavoro corrispondono compensi unitari molto bassi. Tuttavia esistono anche forme di microlavoro gratuito. Si tratta spesso di attivita' che mettono i consumatori e gli internauti al centro del processo produttivo di addestramento degli algoritmi. L'esempio indubbiamente piu' celebre e' reCAPTCHA, un sistema che da vari anni aiuta la digitalizzazione dei libri del progetto Google Books o il riconoscimento delle forme su Google immagini, delegando agli utenti il compito di ricopiare caratteri e di riconoscere immagini.
Quest'ultimo esempio permette di insistere su un aspetto centrale della mia tesi: il digital labor non e' una semplice attivita' di produzione; e' soprattutto un rapporto d'interdipendenza tra due categorie di attori sulle piattaforme, gli ideatori e gli utenti. Questo rapporto, che negli altri capitoli si manifestava principalmente attraverso un'attivita' visibile e un coinvolgimento diretto degli utenti, appare nel capitolo 5 ("Il lavoro sociale in rete") in forma di un contributo "volontario" reso dai fruitori delle grandi piattaforme social. La loro attivita' di produzione dei contenuti (foto, video, testi) e di dati (geolocalizzazione, preferenze, link) costituisce un vero e proprio lavoro immateriale: un networked labor che genera profitto soprattutto per le grandi concessionarie pubblicitarie.
Da questo punto di vista il vero caso di scuola e' Facebook, la piattaforma dominante nel settore nonche' il piu' grande mercato mondiale della produzione non remunerata di contenuti. Le polemiche sullo sfruttamento degli utenti delle piattaforme social provocano reazioni discordanti. Da una parte, sempre piu' voci si alzano per denunciare la trasformazione di quello che doveva essere un semplice sito di socializzazione in una "fabbrica" di contenuti e di dati. Dall'altra c'e' chi insiste sui vantaggi che gli utenti - collaboratori volontari o semplici appassionati - traggono dalla loro partecipazione libera alle piattaforme. Tuttavia questa visione "edonista" (che potremmo riassumere con il detto: "Se ci si diverte, non e' lavoro") non tiene conto degli espedienti utilizzati per spingere gli utenti a partecipare, e nemmeno della divergenza tra gli interessi economici dei fruitori e quelli degli ideatori di un servizio come Facebook. Soprattutto, ignora che dietro al suo funzionamento non c'e' soltanto il lavoro digitale free (nel duplice senso di libero e gratuito) fornito dagli utenti occidentali, che hanno tempo e risorse da dedicare al consumo, ma anche i corposi flussi di lavoro sottopagato per trattare i dati che ci arrivano dal Sud del mondo. Laggiu' si trovano le "click farm" e le "content farm", catene di montaggio in cui degli esseri umani agevolano i fenomeni di viralita' a forza di clic o producono video e testi concepiti per ottimizzare i risultati sui motori di ricerca, nonche' molti servizi di moderazione che filtrano le immagini pornografiche e violente.
La presenza di moderatori, di operai del clic e di prosumer che lottano per monetizzare la loro presenza online mostra che il lavoro sociale in rete e' attraversato da scambi economici. Che siano contrastati o ammessi, comunque confutano la finzione del social web come luogo di "consumo libero". Gli utenti semplici si trovano sullo stesso piano degli operai del clic sulle piattaforme di microlavoro, poiche' tutti contribuiscono alla costruzione dei sistemi intelligenti. Facebook adotta gli stessi metodi di Amazon: la piattaforma non nasconde che le sue intelligenze artificiali sono human powered, anzi ne fa un argomento commerciale per valorizzare le sue soluzioni automatiche. Tuttavia e' ormai sempre piu' evidente che gli umani dentro la macchina non sono utenti volontari, partecipanti entusiasti o appassionati, ma veri e propri proletari del clic.
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Da pagina 26
L'ultima parte di questo libro passa in rassegna tutte le questioni teoriche e politiche sollevate dal digital labor, che si manifesti sulle piattaforme di sharing economy oppure attraverso il lavoro di produzione di dati da parte degli utilizzatori. Il capitolo 6 ("Lavoro extralavoro") esibisce il debito dell'attuale riflessione sul digital labor nei confronti della tradizione teorica che ha indagato i temi del tempo non lavorato. A partire dalla seconda meta' del Ventesimo secolo gli studi sul lavoro domestico, sulla produzione di valore da parte del pubblico dei media tradizionali, sul lavoro dei consumatori nella grande distribuzione, oltre che sul lavoro "immateriale" hanno costituito dei tentativi importanti di individuare forme di lavoro in contesti dove non apparivano immediatamente riconoscibili. Ma in quale misura il digital labor costituisce una forma di lavoro? Non dovrebbe al contrario essere considerato una trasformazione cosi' radicale da imporci di classificarlo in una categoria totalmente differente? Alcuni autori propongono i concetti di "lavoro-gioco" (playbor) o di "lavoro-ozio" (weisure), insistendo sulla dimensione ludica di alcune attivita' realizzate sulle piattaforme. Tuttavia, questi concetti occultano gli elementi di logoramento e assoggettamento che persistono nel lavoro sulle piattaforme, e che pesano in particolar modo sui microlavoratori dei paesi in via di sviluppo e sui lavoratori atipici impegnati in attivita' di consegna, guida o servizi alla persona attraverso le app "on demand". Come se non bastasse, il lavoro "gratuito" e volontario degli utenti delle piattaforme ludiche e social si fonda esso stesso sull'invisibilizzazione del lavoro di masse di moderatori e operai del clic.
Lo sforzo analitico piu' importante del capitolo 7 ("Che tipo di lavoro e' il digital labor?") consiste dunque nel corroborare il concetto di digital labor in quanto lavoro,  sulla base sia di criteri oggettivi (soggiace a vincoli contrattuali e gerarchici) sia di criteri storici (in esso si riproducono taluni aspetti della contrattazione ottocentesca che precedettero l'introduzione del lavoro dipendente per come lo conosciamo oggi, uniti ad altri aspetti tipici dell'azienda contemporanea). Il digital labor e' un'attivita' che presenta tratti riconoscibili, ostensivi (come la consegna di un pranzo o la pubblicazione di un video in rete), assieme ad altri che dipendono dal lavoro  non ostensivo  di preparazione e trattamento dei dati. Quest'ultima dimensione, che appare ineludibile, include mansioni che non possono essere automatizzate, in quanto necessarie per realizzare l'automazione. Il lavoro del designer su Etsy, del fotografo su Instagram o quello del programmatore freelance su Gigster e' molto lontano dalle esaltanti narrazioni sul digitale. Di fatto qui il digital labor assomiglia a un'attivita' a bassa specializzazione e senza prospettiva di carriera, che lascia agli utenti pochissimi margini di contrattazione con le piattaforme che li fanno lavorare.
La soggettivita' prodotta attraverso queste modalita' di lavoro sara' infine esaminata nel capitolo 8 ("Aspettando i robot"). L'assenza di un reale potere di contrattazione da parte degli utenti coinvolti in questa logica lavorativa ostacola lo sviluppo di ogni autocoscienza. La loro stessa percezione dell'attivita' che svolgono e' ambivalente: sono sfruttati dalle piattaforme e nello stesso tempo dispongono effettivamente di margini di azione inediti. Di conseguenza anche la soggettivita' collettiva oscilla tra una visione "capacitante" e una visione centrata sullo sfruttamento. Che si percepiscano come membri di una "classe virtuale" o come "proletari digitali", cionondimeno il destino di questi utenti-lavoratori sulle piattaforme resta connesso a quello delle masse di lavoratrici e lavoratori sui mercati globalizzati. Per un numero crescente di abitanti dei paesi in via di sviluppo, in particolare, il lavoro sulle piattaforme costituisce un'estensione dell'esperienza migratoria, se non addirittura una forma di spoliazione economica che taluni autori non esitano a definire "imperialista", "neoschiavista" e "colonialista". Sebbene l'utilizzo di queste categorie sia problematico (soprattutto in quanto rischiano di banalizzare questi concetti e sminuire la specificita' delle esperienze storiche soggiacenti), indubbiamente il digital labor riattualizza il dibattito sugli squilibri Nord-Sud.
Nei paesi in via di sviluppo, le attivita' sottoremunerate sulle piattaforme si presentano spesso come il solo modo di partecipare al "lavoro del futuro". Ma la precarizzazione e l'instabilita' connesse a questo tipo di occupazione tendono a diffondersi fino a includere anche porzioni sempre piu' grandi della popolazione attiva del Nord, condannate a cedere gratuitamente il loro lavoro. Si tratta prevalentemente delle giovani generazioni, definite in maniera riduttiva "nativi digitali" per far passare l'idea che sarebbero naturalmente predisposte alla condivisione online senza richiedere in cambio alcuna remunerazione. E' la stessa identica logica che condanna alla precarieta' una parte della forza-lavoro globale mentre sottomette l'altra a un ozio che produce valore: quella dei capitalisti delle piattaforme che vogliono rendere fragile il lavoro per evacuarlo sia come categoria concettuale sia come fattore di produzione da remunerare. In maniera paradossale, dunque, la liquidazione del lavoro, impossibile  in quanto conseguenza dell'automatizzazione, torna come conseguenza possibile della piattaformizzazione. L'eventualita' che si realizzi o che resti una pura possibilita' non dipende dalle variabili tecnologiche ma dall'esito delle lotte che ci attendono.
In conclusione, passero' in rassegna diverse iniziative e conflitti per il riconoscimento del lavoro sulle piattaforme. Le azioni concrete che mirano a migliorare le condizioni di lavoro e i diritti degli utenti-produttori sulle piattaforme passano sia dai corpi intermedi (sindacati, comitati di base, corporazioni) sia dalle istanze di regolazione. Agli strumenti di regolamentazione del lavoro (regolarizzazione attraverso assunzione, definizione di orari di lavoro e contrattazione di retribuzioni eque) si aggiungono altri dispositivi legali che istituiscono nuovi diritti concentrandosi sulla protezione della vita privata, la fiscalita' digitale, il diritto commerciale.
In altri casi la collaborazione tra utenti, specialisti del diritto del lavoro e associazioni per la difesa dei consumatori digitali riesce a generare dei circoli virtuosi che favoriscono nuove forme di organizzazione. Iniziative di questo genere convergono attorno a due tipologie di approccio all'azione collettiva nell'era del digital labor: la prima e' il cooperativismo, che consiste nel favorire l'accesso degli utenti al diritto di proprieta' in modo da opporre un'alternativa "popolare" al capitalismo delle piattaforme; la seconda mette al centro il concetto di beni comuni, con l'idea di riconoscere e remunerare collettivamente il lavoro non ostensivo dei produttori di dati al fine di ridistribuire il valore prodotto.
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Da pagina 29
Ripensare il lavoro: dalla teoria alla prassi
Le piattaforme digitali, come abbiamo detto, funzionano come spazi circoscritti della socialita' umana. Attraverso meccanismi di massimizzazione della partecipazione, incitano alla produzione di dati e informazioni. Prendendo il  lavoro  come chiave di lettura di questi nuovi rapporti sociali sara' possibile seguire il filo che porta dall'attivita' dei produttori-consumatori sui social alle attivita' dei lavoratori atipici, dei precari, dei microimprenditori che subiscono sulla propria pelle gli effetti della "uberizzazione" dell'economia.
In questo libro ricorreremo, oltre ai numerosi esempi, agli strumenti della sociologia, della scienza politica, delle scienze della gestione aziendale, del diritto e dell'informatica. Vogliamo cosi' inquadrare le logiche economiche e sociali che strutturano la societa' plasmata dalle piattaforme digitali. Capirne i meccanismi di produzione e circolazione del valore, le forme di dominazione e gli squilibri che produce, per immaginarne infine un possibile superamento.
Questo approccio teorico porta a un rovesciamento di prospettiva: non sono le "macchine" a fare il lavoro degli esseri umani ma gli esseri umani a essere spinti a eseguire il digital labor per conto delle macchine accompagnandole, imitandole, addestrandole. Le attivita' umane cambiano, si standardizzano e si procedurizzano per produrre informazione in forma normalizzata. L'automazione segna cosi' uno stravolgimento del lavoro e non la sua cancellazione.
Adottando questa visione, il libro si posiziona al centro di un dibattito che oggi riguarda tanto l'informatica quanto la filosofia: si tratta di esplorare i limiti del programma di ricerca dell'intelligenza artificiale. Molti autori ormai  denunciano la narrazione ideologica che considera la piena automazione come un "destino manifesto" dell'attuale infrastruttura tecnologica (si veda il capitolo 8). Il discorso promozionale sull'automazione occulta la realta' del mercato in cui queste soluzioni emergono. Da Uber a Google, da Amazon a Facebook, i modelli economici dei giganti del digitale non consistono nel commercializzare potenti "intelligenze totali", ma in realta' prevedono una misura non trascurabile di contributo umano. Ecco la realta' dell'intelligenza artificiale al tempo delle Gafam, cioe' le cinque grandi aziende del Web: Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft. Si tratta di intelligenze artificiali deboli: nessun veicolo automatico, ma piloti automatici che assistono il guidatore umano; nessun software che decide al posto nostro, ma un'interfaccia vocale che ci aiuta a decidere; nessun medico-robot che fa diagnosi e terapie, ma una banca dati consultabile dagli specialisti del settore.
Prendere posizione su questo ci porta a intervenire anche in un secondo dibattito, quello sulla "fine del lavoro". Dalla seconda meta' del Ventesimo secolo si sono opposti studiosi che vedevano nell'aumento della disoccupazione generata dalle tecnologie informatiche un indizio dell'inevitabile collasso del valore-lavoro e voci piu' prudenti che insistevano sulla persistenza della centralita' del lavoro nell'esperienza umana. E' indubbiamente a questi ultimi che ci sentiamo piu' vicini, nella convinzione che la sostituzione dei lavoratori umani da parte delle macchine sia stata profetizzata fin troppe volte e senza esito. Tuttavia questo libro intende offrire un ulteriore elemento di riflessione insistendo sulla  sovrapposizione, attraverso l'automazione, tra processi di delocalizzazione e processi di occultamento del lavoro. Piu' che a una scomparsa programmatica del lavoro, assistiamo al suo spostamento o alla sua dissimulazione fuori dal campo visivo dei cittadini, ma anche degli analisti e dei politici, abbagliati dallo storytelling dei capitalisti delle piattaforme.
La relazione tra automazione e lavoro sottintende l'esistenza di mercati dove il digital labor viene ceduto in cambio di remunerazioni monetarie, simboliche o sotto forma di servizi. Per prosperare e per innovare, le piattaforme hanno bisogno del lavoro di esseri umani che non vengono inquadrati come lavoratori, ma come "utenti". Partendo da questo presupposto, il nostro studio s'inserisce in una riflessione sugli aspetti qualitativi del lavoro di fronte alla rivoluzione digitale. Anche qui due scuole si oppongono: quelli che si preoccupano della fragilizzazione delle condizioni economiche e quelli che insistono sulle opportunita' in termini di mobilita', di flessibilita' e persino di autonomia dei lavoratori nell'attuale contesto. Secondo questi ultimi, i mercati sarebbero in fin dei conti piu' rispettosi della liberta' dei lavoratori (si veda il capitolo 7). In verita' il digital labor fa emergere le tensioni latenti tra il lavoro "per gli altri" e il lavoro "per se'", esponendo gli utenti-produttori a rischi di precarizzazione e di esclusione sociale. Le piattaforme adottano uno stile particolare di gestione delle attivita' produttive che consiste nel mettere un numero crescente di persone al lavoro e contemporaneamente extralavoro, ovvero fuori dalle modalita' classiche dei rapporti lavorativi.
Il lavoratore sulle piattaforme si trova cosi' schiacciato tra proclami di indipendenza e condizioni materiali che lo espongono a remunerazioni basse o inesistenti, a ritmi e scopi imposti dall'esterno, a una separazione tra il gesto produttivo e il suo prodotto effettivo. Incapace di dare spontaneamente un senso a quello che fa, deve cercare di "appropriarsi del proprio lavoro" cercando un suo spazio all'interno di soggetti collettivi e nuove forme di organizzazione, riadattando e riformulando le regole che gli vengono imposte dall'alto, dagli investitori e dai progettisti degli algoritmi che strutturano le intelligenze artificiali seguendo logiche opache.
L'ultimo pilastro dell'approccio teorico che proponiamo, nonche' l'ultimo dibattito rispetto al quale questo libro si colloca, e' legato alla capacita' del digital labor di catalizzare i conflitti sociali per servire da motore del cambiamento. La costituzione di una soggettivita' collettiva legata a questa tipologia di lavoro non puo' realizzarsi in modo spontaneo e lineare: sara' inevitabilmente il risultato di lotte per il riconoscimento sia dell'attivita' sulle piattaforme come lavoro, sia dei dati come elementi informazionali "prodotti" dagli utenti, sia dei sistemi automatici come luoghi di contrattazione e di confronto sociale. Questo libro si riallaccia cosi' alla tradizione operaista e alla "italian theory": una galassia di autori che sono riusciti a concettualizzare i processi di esternalizzazione e di socializzazione del lavoro, ma anche gli effetti di assorbimento della vita stessa nella sfera del lavoro. Una forma di "impollinazione" che nell'attuale regime del capitalismo cognitivo si estende ben oltre il lavoro dipendente, le attivita' commerciali, i beni comuni e il consumo.
I capitoli che seguono intendono attualizzare, ma anche se possibile correggere, alcuni elementi di questa tradizione teorica: in particolare la sua eccessiva fiducia nella profezia marxista sul general intellect, che ha portato a sottovalutare le condizioni materiali del lavoro nell'era delle tecnologie digitali. Parlare di digital labor permette di completare le riflessioni sul "lavoro immateriale" facendone emergere il lato concreto: quello del dito che tocca lo schermo o il mouse, e che in questo modo non soltanto produce un clic - mansione massimamente frammentata e adatta all'addestramento delle intelligenze artificiali - ma inoltre restituisce l'etimologia originaria a questo lavoro, appunto digitale.
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Da pagina 249
Che fare?
Sventolando la promessa ingannevole dell'emancipazione attraverso l'automazione e lo spettro minaccioso dell'obsolescenza del lavoro umano, le piattaforme digitali condannano una crescente moltitudine di operai del clic a un'alienazione radicale: contribuire senza requie alla propria cancellazione nascondendosi dietro macchine di cui sono e resteranno gli ingranaggi indispensabili. Per contrastare questo funesto destino, il riconoscimento del digital labor si impone oggi come un obiettivo politico primario, al fine di dotare i "lavoratori digitali" di una vera e propria coscienza di classe in quanto produttori di valore.
Di recente varie iniziative sono state sviluppate in questa direzione. Tra queste, possiamo distinguere due strategie principali: la prima si sforza di estendere al digital labor le conquiste sociali che venivano in precedenza associate all'impiego formale nel paradigma aziendale (stabilita', protezioni, condizioni di lavoro e di remunerazione ecc.); la seconda, che emerge a poco a poco, preferisce ripensare il rapporto tra l'utente-lavoratore e le infrastrutture di raccolta e trattamento dei dati seguendo la logica dei "beni comuni", al fine di concepire nuove modalita' di condivisione delle risorse e ricollegarsi all'aspirazione politica originaria delle piattaforme.
 
2. LIBRI. GIULIANA SGRENA: CON IL VENTO TRA I CAPELLI
[Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it) riprendiamo il seguente articolo originariamente apparso su "il manifesto" il 20 novembre 2020]
 
Il vento tra i capelli non e' una suggestione, e' la percezione fisica della liberta'. Avvertita da molte donne costrette a coprirsi i capelli e il corpo. Lo e' sicuramente per Masih Alinejad promotrice della campagna Stealthy Freedom (Liberta' clandestina), lanciata nel 2014 su Facebook per pubblicare le immagini delle iraniane che osano fotografarsi senza velo, una trasgressione che molte hanno pagato con il carcere.
Masih allora si trovava gia' a New York, aveva lasciato l'Iran nel 2009, ma il velo e' sempre rimasto la sua ossessione, non solo e tanto per quel pezzo di stoffa ma perche' simbolo dell'oppressione delle donne. "Era da quando avevo sette anni che dovevo mettere l'hijab", scrive Masih Alinejad nel suo libro autobiografico Il vento tra i capelli, la mia lotta per la liberta' nel moderno Iran pubblicato da Nessun dogma (pp. 440, euro 22). E gia' da bambina si ribella alle imposizioni della Repubblica islamica, un atteggiamento che si immagina piu' consono a chi cresce in una famiglia borghese di Teheran mentre lei e' nata in un villaggio del Mazandaran, una provincia dell'Iran settentrionale, da una famiglia di contadini molto religiosa e sostenitrice, soprattutto il padre, degli ayatollah al potere.
"Prima copriti i capelli, e' un appunto che conoscono tutte le donne iraniane. E' un modo per mortificare le donne... per chi come me ha tanti capelli e' sempre problematico coprirli", racconta Masih. Le sue origini l'hanno abituata a parlare a voce alta, un altro ostacolo in un mondo oscurantista che considera la voce delle donne una vergogna. Masih fin da giovanissima cerca il riscatto nella cultura partecipando all'organizzazione di un club clandestino di lettura, ma le letture scelte fin da subito erano politiche – dai libri si passo' ai volantini – e avrebbero segnato il suo futuro, anche portandola in carcere e a conoscere la violenza bruta della repressione. Anche il matrimonio con un aspirante poeta, che aveva accettato per sottrarsi alle costrizioni familiari, non portera' alla realizzazione di quella liberta' tanto agognata. Rimasta incinta prima del matrimonio – un altro sfregio alla morale islamica – non e' rimasta a lungo a lavare pannolini: fotografa prima e giornalista parlamentare poi ha sempre sfidato gli ayatollah.
Il divorzio chiesto dal marito oltre a rappresentare uno stigma la metteva di fronte alle discriminazioni del diritto di famiglia. "In tribunale mi scontrai con la triste realta' dell'essere donna nella Repubblica islamica, dove le leggi sono promulgate da misogini che si rifanno a direttive e precetti del settimo secolo", scrive. Quelle leggi che avrebbero affidato la custodia del figlio di quattro anni al marito. Del divorzio e' sempre accusata la moglie anche se a chiederlo e' il coniuge. "In seguito scoprii che una donna divorziata e' ancora piu' desiderabile agli occhi di certi uomini" che cercano favori sessuali al di fuori del matrimonio. La soluzione: risposarsi.
Masih non ci sta. La fuga dall'Iran non tagliera' i legami con le donne che lottano per la liberta', diventera' la loro voce sulla scena internazionale.
 
3. LIBRI. STEFANO VERDINO: LA MODESTA RETICENZA DI ANNA BRONTE CHE AFFASCINO' LA GENOVESE BRITANNICA
[Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it) riprendiamo il seguente articolo originariamente apparso su "Alias – il manifesto" il 18 ottobre 2020]
 
"Meno penosa dell'agonia terribile di Emily, questa fu tanto discreta da passare inosservata agli altri ospiti della casa. Nel momento stesso in cui Charlotte si chinava a chiudere gli occhi della sorella, alla porta semiaperta dell'alloggio fu annunciato che il pranzo era servito". Puo' bastare questo breve passaggio sulla morte di Anne Bronte (1820-49), sorella minore delle piu' note autrici di Cime tempestose (Emily) e Jane Eyre (Charlotte), per darci il tono di questo bel ritratto della scrittrice vittoriana, fatto da una notevole scrittrice italiana, Beatrice Solinas Donghi (1923-2015): il tragico (una morte cosi' giovane) si mescola con l'ordinaria routine in un sottotono, che pare adeguato alla protagonista, ma non sfuggira' il dettaglio della "porta semiaperta" a proiettarci in un'esattezza quotidiana. Anne Bronte la gemella minore e' appena edito, postumo, per le cure di Massimo Bacigalupo (il canneto editore, pp. 131, euro 15) e corredato di una bella scelta di poesie sempre da Donghi tradotte. Donghi, genovese di ascendenze britanniche, aveva piu' che un occhio in quel lontano Ottocento, scenario di tanti suoi testi per ragazze e affine a un suo invincibile temperamento di inattualita'. Le Bronte poi piu' volte hanno intrigato sia la scrittrice in proprio (Vite alternative, sempre il canneto, 2010) sia la saggista, con il piu' ampio ritratto di Emily (Campanotto, 2001). E probabilmente anche questo racconto critico dovette configurarsi in quel tempo, intrigata dal nesso e dalla diversita' di Emily e Anne. Donghi forse si trova piu' a suo agio con Anne, che rispetto al turbine romantico della sorella, sceglie per i suoi romanzi una tonalita' morale, a volte anche moralistica, ma dove "Il suo punto di forza era il realismo: quieto e discreto quanto si voglia, ma lucido e talvolta spietato". Donghi usa per Anne una sigla "quietness, la modesta reticenza", che si potrebbe usare per lei stessa (per i suoi racconti essenziali, mirabili congegni tra un gusto fiammingo del dettaglio e un sottile e suggestivo alluso). Dei due romanzi di Anne (Agnes Grey, 1847; The Tenant of Wildfell Hall, '48, tradotto come Il segreto della signora in nero) Donghi privilegia il secondo, che ha un complesso montaggio narrativo, con vari passaggi di punti di vista, e una istanza femminista, stupefacente per l'epoca, non esitando a prendere posizione anche contro la legislazione vigente pronta a "equiparare a un crimine l'abbandono del tetto coniugale". Del resto la mite e defilata Anne ha sensibilita' per piu' aspetti precorritrici, anche un tratto animalista, quando su un carrozzino "insistette per impossessarsi delle redini, non volendo che il ragazzo alla guida costringesse l'animale a un tratto troppo sostenuto". Come scrive Bacigalupo nella prefazione, qualita' di Donghi e' "trovare un filo tra tante storie, informazioni" e "opere memorabili" e svolgerlo in una "lingua insieme personale e di trasparenza quasi classica". Sulla scorta di carteggi, testimonianze e biografie inglesi Donghi e' assai fine nel ridelineare, con il suo gusto del dettaglio, alcune scene come l'incontro di Charlotte e Anne con l'editore londinese George Smith che "non trovo' particolari attrattive in quelle due sbiadite signorine di provincia, modestamente vestite e stanche del loro strapazzoso viaggio notturno" e "La sera stessa se le trascino' dietro all'opera: ad ascoltare Il barbiere di Siviglia, che le frastorno' piu' di quanto non le divertisse. Era imbarazzante, oltre tutto, non possedere il vestiario adatto all'occasione".
 
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LA BIBLIOTECA DI ZOROBABELE
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Segnalazioni librarie e letture nonviolente
a cura del "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo
Supplemento a "La nonviolenza e' in cammino" (anno XXII)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com
Numero 50 del 13 aprile 2021
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