[Nonviolenza] Telegrammi. 3997



TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 3997 del 27 gennaio 2021
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXII)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com, sito: https://lists.peacelink.it/nonviolenza/
 
Sommario di questo numero:
1. Il 27 gennaio, "Giorno della memoria", si realizzino ovunque iniziative di studio, di riflessione, di testimonianza e d'impegno
2. Benito D'Ippolito: Rileggo le parole che Primo Levi scrisse
3. Anna Bravo: La zona grigia (parte prima)
4. Bruno Segre: Prefazione a "Primo Levi. Miti d'oggi" di Bruno Osimo
5. In via della verita'
6. Segnalazioni librarie
7. La "Carta" del Movimento Nonviolento
8. Per saperne di piu'
 
1. INIZIATIVE. IL 27 GENNAIO, "GIORNO DELLA MEMORIA", SI REALIZZINO OVUNQUE INIZIATIVE DI STUDIO, DI RIFLESSIONE, DI TESTIMONIANZA E D'IMPEGNO
 
Il 27 gennaio, "Giorno della memoria", si realizzino ovunque iniziative di studio, di riflessione, di testimonianza e d'impegno.
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Testo della Legge 20 luglio 2000, n. 211: "Istituzione del Giorno della Memoria in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti"
Art. 1. La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell'abbattimento dei cancelli di Auschwitz, "Giorno della Memoria", al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte, nonche' coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati.
Art. 2. In occasione del "Giorno della Memoria" di cui all'articolo 1, sono organizzati cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, su quanto e' accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti in modo da conservare nel futuro dell'Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinche' simili eventi non possano mai piu' accadere.
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Ogni essere umano ha diritto alla vita, alla dignita', alla solidarieta'.
Il razzismo e' un crimine contro l'umanita'.
Soccorrere, accogliere, assistere ogni persona bisognosa di aiuto.
Siamo una sola umanita' in un unico mondo vivente casa comune dell'umanita' intera.
Opporsi alla guerra e a tutte le uccisioni, opporsi al razzismo e a tutte le persecuzioni, opporsi al maschilismo e a tutte le oppressioni.
Salvare le vite e' il primo dovere.
 
2. REPETITA IUVANT. BENITO D'IPPOLITO: RILEGGO LE PAROLE CHE PRIMO LEVI SCRISSE
 
Rileggo le parole che Primo Levi scrisse
nelle ultime pagine dell'ultimo libro
con cui ci chiamava ci preparava ai futuri doveri:
"e' avvenuto, quindi puo' accadere di nuovo".
 
E di nuovo e' accaduto qui in Italia
che nuovi istrioni la cui figura muove al riso
prendessero il potere a farne uso
per far morire naufraghi nel mare
per respingere nei lager chi ne fugge
per privare inermi innocenti di ogni diritto
ed imporre di nuovo segregazione
persecuzione riduzione in schiavitu'
campi deportazioni mostruose
violazioni dei diritti umani.
 
"E' avvenuto, quindi puo' accadere di nuovo"
e di nuovo sta accadendo nel silenzio
complice di un paese che con poche eccezioni
non muove un dito non lancia un grido
non interpone un braccio non alza una barricata
per salvare le vite delle vittime innocenti
per salvare le altrui vite e le anime nostre.
 
Insorgere occorre contro il governo della disumanita'
insorgere occorre contro il regime dell'apartheid
insorgere occorre contro il razzismo
insorgere occorre per salvare le vite.
 
Insorgere
con la forza della verita'
con la scelta della nonviolenza
insorgere
fedeli alla legalita' repubblicana
fedeli alla costituzione democratica
fedeli allo stato di diritto
fedeli all'umanita' che e' una
insorgere
nel ricordo delle vittime dei lager
nel ricordo dei nostri maestri di umanita'
insorgere.
 
E' oggi e' qui che ci dobbiamo opporre
e' oggi e' qui che resistere dobbiamo
e' oggi e' qui che difendere devi
l'umanita' di tutti e di ognuno.
 
Insorgere occorre qui e adesso
per restare per tornare umani.
 
Ogni essere umano ha diritto alla vita
ogni vittima ha il volto di Abele
salvare le vite e' il primo dovere.
 
3. MAESTRE. ANNA BRAVO: LA ZONA GRIGIA (PARTE PRIMA)
[Dal libro di Anna Bravo, Raccontare per la storia / Narratives for History, Einaudi, Torino 2014, riproponiamo il capitolo secondo "La zona grigia" nel solo testo italiano (pp. 29-85).
Anna Bravo, storica e docente universitaria, ha insegnato Storia sociale. Si e' occupata di storia delle donne, di deportazione e genocidio, resistenza armata e resistenza civile, cultura dei gruppi non omogenei, storia orale; su questi temi ha anche partecipato a convegni nazionali e internazionali. Ha fatto parte del comitato scientifico che ha diretto la raccolta delle storie di vita promossa dall'Aned (Associazione nazionale ex-deportati) del Piemonte; ha fatto parte della Societa' italiana delle storiche, e dei comitati scientifici dell'Istituto storico della Resistenza in Piemonte, della Fondazione Alexander Langer e di altre istituzioni culturali. Luminosa figura della nonviolenza in cammino, della forza della verita', e' deceduta l'8 dicembre 2019 a Torino, la citta' dove era nata nel 1938. Tra le opere di Anna Bravo: (con Daniele Jalla), La vita offesa, Angeli, Milano 1986; Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza, Roma-Bari 1991; (con Daniele Jalla), Una misura onesta. Gli scritti di memoria della deportazione dall'Italia, Angeli, Milano 1994; (con Anna Maria Bruzzone), In guerra senza armi. Storie di donne 1940-1945, Laterza, Roma-Bari 1995, 2000; (con Lucetta Scaraffia), Donne del novecento, Liberal Libri, 1999; (con Anna Foa e Lucetta Scaraffia), I fili della memoria. Uomini e donne nella storia, Laterza, Roma-Bari 2000; (con Margherita Pelaja, Alessandra Pescarolo, Lucetta Scaraffia), Storia sociale delle donne nell'Italia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2001; Il fotoromanzo, Il Mulino, Bologna 2003; A colpi di cuore, Laterza, Roma-Bari 2008; (con Federico Cereja), Intervista a Primo Levi, ex deportato, Einaudi, Torino 2011; La conta dei salvati, Laterza, Roma-Bari 2013; Raccontare per la storia, Einaudi, Torino 2014]
 
"Zona grigia" e' una delle espressioni piu' fortunate di questi decenni, e una delle piu' distorte. Non casualmente. Che il male possa contagiare chi lo subisce e' una verita' semplice, addirittura ovvia. Ma non indolore. Amiamo profondamente l'idea che gli oppressi sappiano resistere, che siano solidali fra loro. Ci rassicura pensare che la contaminazione diminuisca quanto piu' e' dura la violenza inflitta, fino a sparire in situazioni estreme. Nel Lager non ci sono colpevoli, recita il titolo del fondamentale libro di Varlam Salamov (17).
Con benefico coraggio, Levi scrive invece che "E' ingenuo, assurdo e storicamente falso ritenere che un sistema infero, qual era il nazionalsocialismo, santifichi le sue vittime: al contrario, esso le degrada, le assimila a se', e cio' tanto piu' quanto piu' esse sono disponibili, bianche, prive di un'ossatura politica o morale" (18). E documenta questo contagio con un'analisi al cui centro sta, insieme alla responsabilita' verso i propri simili, il rapporto con il potere: non un potere genericamente inteso che a Levi, credo, non sarebbe interessato, ma con il dominio totalitario nella forma compiuta che si realizza in Lager (19).
Fra i tratti che lo caratterizzano, ne spiccano due: l'ambiguita' "che irradia dai regimi fondati sul terrore e sull'ossequio" (20); l'uso di una parte dei prigionieri nella manutenzione e amministrazione dei campi. Il che consente di ridurre al minimo il personale tedesco, e di istituire una gerarchia interna ai deportati, compromettendo chi svolge quelle funzioni e ne riceve in cambio vantaggi a volte minimi, a volte impensabilmente grandi. Simile in questo alle "istituzioni totali" studiate dal grande sociologo Erving Goffman (21), l'ordine concentrazionario si regge infatti su un sistema di punizioni e privilegi che presuppone l'assenso, la tolleranza o la protezione di una guardia, o di un altro prigioniero collocato piu' in alto nella gerarchia dei deportati, in qualche caso di un comandante - il termine, yiddish e polacco, per indicare il privilegio era protekcja. Un meccanismo simile vige nel Gulag ed e' stato descritto, fra gli altri, da Varlam Salamov e Aleksandr Solzenicyn (22).
Nella definizione di Levi, la zona grigia e' una realta' ambigua, "dai contorni mal definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi", abitata dalla "classe ibrida dei prigionieri-funzionari" (23). Eppure ambiguita', ibridismo, confini incerti, non vogliono affatto dire vaghezza.
Levi precisa e distingue. Non applica pero' le categorie della ricerca sociale e psicologica - classe, ceto, cultura, pulsioni, legame con la politica e le credenze religiose - che pure considera significative e che altri autori hanno impiegato. Le fa piuttosto interagire con la distinzione primaria fra i privilegiati e i non privilegiati, che coglie partendo dall'interno, dall'analisi minuziosa della vita e morte in Lager. Da qui prende forma il concetto di zona grigia.
Il discrimine fondamentale e' il rapporto con il sistema concentrazionario: l'importanza della funzione svolta, il potere sugli altri prigionieri che ne deriva. Una cosa sono i funzionari di basso rango - scopini, lavamarmitte, guardie notturne, controllori di pidocchi e di scabbia, portaordini, interpreti, aiutanti degli aiutanti: "una fauna pittoresca" fatta di "poveri diavoli [...] che lavoravano a pieno orario come tutti gli altri, ma che per mezzo litro di zuppa in piu' si adattavano a svolgere queste ed altre funzioni 'terziarie'" (24). O addirittura, come gli stiratori di cuccette, inventavano una mansione facendo leva sulla passione maniacale per l'ordine diffusa fra le guardie. Si tratta di lavori "innocui, talvolta utili", che non causano danni ai compagni.
Altra cosa sono i detentori di posizioni di comando, una sorta di elite: i Kapos alla testa "delle squadre di lavoro, i capibaracca, gli scritturali", fino agli addetti a varie attivita' "talvolta delicatissime, presso gli uffici del campo, la Sezione Politica (di fatto, una sezione della Gestapo), gli archivi, il Servizio del Lavoro, le celle di punizione" (25). I prigionieri "funzionari", che garantiscono la continuita' amministrativa, possono manipolare disposizioni e documenti, per esempio spostando un prigioniero da un Kommando di lavoro all'altro, o ottenendo dalle guardie un trattamento meno duro per qualcuno. I Kapos delle squadre di lavoro, che assicurano la produzione per il Terzo Reich e l'ordine nel campo, hanno tutti, anche quelli di basso grado, un potere "sostanzialmente illimitato" sulla vita degli altri prigionieri; possono "commettere sui loro sottoposti le peggiori atrocita', a titolo di punizione per qualsiasi loro trasgressione, o anche senza motivo alcuno": fino a tutto il 1943, l'anno in cui il bisogno di mano d'opera si sarebbe fatto piu' acuto, "non era raro che un prigioniero fosse ucciso a botte da un Kapo, senza che questo avesse da temere alcuna sanzione" (26).
Altra cosa ancora gli uomini inquadrati nei Sonderkommando, cui era affidata la gestione materiale dei crematori (e dei prigionieri destinati alle camere a gas). Sempre cosi' parco di toni estremi, Levi definisce la creazione di queste Squadre "il delitto piu' demoniaco del nazionalsocialismo" (27), e ne fa un vettore dell'analisi.
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Zona grigia e memoria
In un sistema fondato sul meccanismo punizioni/privilegi resistere non e' da tutti, solo dei martiri e dei "filosofi stoici" (28) (pochi e presto scomparsi), perche' la speranza di un piccolo, spesso effimero vantaggio non puo' non dominare i comportamenti.
Con una chiarezza fino ad allora mai raggiunta negli studi sulla Shoah, Levi introduce una doppia connessione: fra privilegio e memoria, fra privilegio e sopravvivenza. Lo fa chiamando in causa se stesso e i suoi compagni, e in un orizzonte culturale piu' complesso e variegato rispetto ai primi anni del dopoguerra.
Da un lato, il lungo disimpegno diffuso fra gli storici, specie italiani, aveva fatto ricadere sulla memoria dei testimoni un ruolo di supplenza. Dall'altro, testimoniare non significava piu' riempire un vuoto, significava fare i conti con un pieno di immagini che venivano da libri, da film, da serie tv, da vecchi e nuovi "automatismi mentali" e da nuove o similnuove teorie filosofico-storiografiche.
Mentre - sulla scia del famoso sceneggiato televisivo Holocaust (1978) - si diffondono versioni semplificatrici o melodrammatiche, continuano a circolare le tesi negazioniste, secondo cui non esisterebbe prova alcuna dell'uso omicida delle camere a gas - il che equivale a irridere i morti che non possono testimoniare la propria morte (29). Nel frattempo si avviano nuove forme di revisionismo storico, che con argomentazioni meno drastiche (e piu' insinuanti) puntano a "relativizzare" lo sterminio fino a farne una variante - di spicco, ma una fra le altre - dell'imbarbarimento europeo nella prima meta' del Novecento (30). Si aggiunge, e non e' affatto innocuo, un nuovo corso soggettivista, che fa leva sul rapporto sempre problematico fra la realta' e le sue rappresentazioni per negare ogni autonomia al documento, ridotto a materiale inerte utilizzabile indifferentemente per l'una o l'altra costruzione storica. Con il risultato che vero e falso perdono il loro senso proprio, per trasformarsi in opzioni inconfrontabili, come se la realta' non esistesse. E che, di fronte a posizioni alla Faurisson (31), si esprime si' un rifiuto morale e intellettuale, ma si esita a definirle per quel che sono: semplicemente menzogne (32). Sconsolante esempio di come, in omaggio alla liberta' di espressione altrui, la si nega a se stessi rinunciando a chiamare le cose con il loro nome.
Verrebbe spontaneo reagire con una difesa di principio della memoria. Levi la vuole invece piu' solida e piu' forte - il che rende vitale dedicarle uno sguardo solidale ma critico.
Il suo primo interrogativo in quegli anni e' se la parola dei salvati sia in grado di rappresentare l'universo della prigionia (33). Per lui come per Elie Wiesel, il testimone "vero", "integrale", e' il sommerso, il musulmano, l'unico soggetto che ha conosciuto il campo dal punto piu' basso. "La demolizione condotta a termine, l'opera compiuta, non l'ha raccontata nessuno, come nessuno e' mai tornato a raccontare la sua morte. I sommersi, anche se avessero avuto carta e penna, non avrebbero testimoniato, perche' la loro morte era cominciata prima di quella corporale" (34). La testimonianza dei sommersi e' il non poter testimoniare, il salvato lo fa per loro, "per conto terzi".
Ma la gran parte dei sopravvissuti (grazie alla buona sorte, o a un minimo privilegio imparagonabile a quelli dei deportati/funzionari) e' composta da prigionieri anonimi, che guardano il campo da un angolo visuale ristretto, parziale, frammentario - vale in particolare per gli italiani, collocati agli ultimi posti nella gerarchia concentrazionaria. Non rischia, un osservatorio cosi' limitato, di risultare poco utile come strumento conoscitivo? Si', secondo Levi. Tanto sarebbe vero, che a farsi storici sono stati finora i privilegiati prigionieri/funzionari, e fra questi i politici, i soli che avessero la possibilita' di arrivare a una rappresentazione piu' ampia e piu' attendibile.
Non e' richiesto concordare. Il fascino del pensiero di Levi sta nel suo presentarsi come una segnaletica dei problemi, non come spartiacque fra giusto e sbagliato, o come formulario di quel che si deve sapere per non apparire "retrodatati" - timore che corre sottotraccia nella nostra ansiosa cultura periferica.
Alla fiducia di Levi nella lucidita' degli internati politici si puo' rispondere con il giudizio di Bruno Bettelheim, ex deportato, grande psicoanalista, scrittore: "l'elite dei prigionieri (fatta eccezione per alcuni criminali) era raramente immune da un senso di colpa per i vantaggi di cui godeva. Ma [...] il massimo al quale di solito essi arrivavano era un maggior bisogno di autogiustificarsi. Ed essi si autogiustificavano come per secoli ha sempre fatto ogni membro delle classi dominanti, cioe' sottolineando la propria importanza per la societa' (maggiore di quella delle persone comuni), il proprio potere di influire sulla realta' circostante, la propria istruzione e la propria cultura". Eugen Kogon, che aveva il ruolo di segretario personale del medico capo di Buchenwald, racconta "con un certo orgoglio che nella quiete della notte godeva della lettura di Platone e di Galsworthy, mentre nella stanza adiacente i prigionieri comuni appestavano l'aria col loro puzzo e russavano spiacevolmente. Egli sembra incapace di rendersi conto che [...] poteva leggere perche' non tremava dal freddo, non moriva di fame, non era istupidito dall'esaurimento" (35).
Ai dubbi di Levi sulle testimonianze dei prigionieri anonimi si potrebbe rispondere cosi': se la frammentazione propria di qualsiasi esperienza e' spinta in Lager al suo estremo, e' attraverso questo estremo che bisogna passare per avvicinarsi alla comprensione. Se si capovolge il punto di osservazione, lo spiraglio attraverso cui i deportati hanno visto il campo aiuta a immaginare lo spaesamento, l'impoverimento mentale e sensoriale.
Aiuta anche quando l'attenzione si sposta alla ricerca dei dati "oggettivi". Levi riflette sulle derive e sui rischi della memoria, sul sovrapporsi di esperienze e racconti altrui, sull'impoverirsi del linguaggio esposto all'invadenza delle formule celebrative. Sullo scorrere del tempo che di per se' appannerebbe il ricordo. Sugli irrigidimenti favoriti dalla ripetizione: le testimonianze dei deportati non sfuggono al meccanismo principe del registro narrativo, secondo cui l'atto del raccontare modifica quel che si sta raccontando (36).
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Levi e i suoi compagni
Sebbene il tempo non sia necessariamente la variabile principale, lo scarto fra la testimonianza per cosi' dire coeva e quella resa a distanza di anni, a volte di decenni, puo' essere vistoso. Chi lavora con fonti orali sa che incertezze, errori, sovrapposizioni sono indizi preziosi per capire le culture, le ideologie, i sogni di chi racconta, la vita che poteva essere, la vita che ancora si spera per se' e per gli altri. Comunicare a chi racconta questo interesse verso i "vizi di forma" della memoria e' il modo piu' diretto per sdrammatizzare lo scoglio della cosiddetta verita' oggettiva.
Ma come applicare il medesimo criterio a una memoria che si forma contro il progetto nazista di cancellare ogni traccia, che fin dagli esordi si e' data l'obiettivo di contribuire alla storia - e che teme, a ragione, l'incredulita'? Per quale via fronteggiare quello scoglio, se la volonta' di chi parla o scrive e' precisamente documentare "come sono andate le cose"?
L'invito di Levi ad astenersi dall'uso di categorie nate nella e per la normalita' qui si prolunga in un ammonimento contro l'assolutismo metodologico. Compreso il suo lessico: da tempo nella storia orale si e' sostituito il concetto di "testimone" con quello di "narratore" - per segnalare che la memoria non e' la fotocopia del passato, e' una sua interpretazione. Ma che senso avrebbe applicare il nuovo termine se chi parla lo fa proprio in quanto testimone?
Agli ex deportati Levi vuol suggerire come usare al meglio quel che ciascuno ha visto o intravisto dal suo spiraglio. Li invita a distinguere fra quel che hanno vissuto e quel che hanno sentito dire all'epoca o in seguito, insiste sulla necessita' di sottoporre il ricordo al vaglio delicato (e all'apparenza impietoso) che la certificazione della verita', sia pure circoscritta, impone al testimone. Li sollecita, in breve, a prendersi cura della memoria, come lui stesso (37) ha scrupolosamente fatto. I sommersi e i salvati e', anche, lo sforzo di costruire un'etica e una grammatica della testimonianza.
Se denunciando la stilizzazione retorica dei discorsi celebrativi Levi da' voce all'insofferenza di molti compagni, altra cosa e' chiedere loro quell'impegno faticoso - e difficile. Ad alcuni suonera' come un attentato alla propria credibilita', il preludio di una gerarchia delle memorie che escluderebbe le piu' fragili. E' comprensibile. Levi garantisce solo per se' e per i propri standard critici - cosi' farebbe chiunque.
Il punto e' che Levi non e' chiunque, ne' lo e' la sua memoria, elaborata da subito con il sostegno di una cultura aperta al dubbio e fiduciosa nella razionalita', accolta da un ambiente solidale anche se circoscritto, poi riconosciuta a larghissimo raggio (38). Il rischio e' allora che il suo percorso finisca per apparire un modello obbligato, e irraggiungibile.
Per esporsi cosi' al giudizio dei compagni ci vuole uno straordinario attaccamento alla verita' e un rifiuto radicale del paternalismo. Che suggerirebbe una lettura compiacente, se non addirittura un'astensione programmatica dalla critica. Come prescrive, a partire dal dopoguerra, il modello progressista del rapporto fra intellettuali e operai, contadini, proletari - il mondo in cui molti ex deportati rientrano di diritto.
Ma Levi e' lontanissimo sia dalle mitizzazioni ingenue del popolo, sia dalla sua elezione strumentale a guida etico-politica. Sa che a una testimonianza resa sotto dolore e sotto sforzo non si addicono sconti storiografici e palpiti sentimentali, solo il rispetto. Per questo, credo, chiede alla memoria di uscire da se stessa, di misurarsi con i criteri di precisione, consapevolezza della parzialita', discernimento che dovrebbero essere propri della costruzione storica.
Resteranno testimonianze parziali, certo, come lo e' del resto la sua. Ma agli occhi di Levi, anche del Levi piu' sfiduciato de I sommersi e i salvati, un discorso parziale e' meglio che nessun discorso.
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Note
17. E' apparso presso Theoria, Roma-Napoli 1992. In seguito sara' pubblicato da altri editori con titoli diversi.
18. Primo Levi, I sommersi e i salvati [1986], in Opere cit., vol. II, p. 1020.
19. "Finche' tutti gli uomini non sono resi egualmente superflui - il che finora e' avvenuto solo nei campi di concentramento - l'ideale del dominio totale non e' raggiunto", scrive Hannah Arendt: Le origini del totalitarismo [The Origins of Totalitarianism, 1951], Edizioni di Comunita', Milano 1996, p. 626.
20. P. Levi, I sommersi e i salvati, cit., p. 1034.
21. Erving Goffman, Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell'esclusione e della violenza [Asylums. Essays on the Social Situation of Mental Patients and Other Inmates, 1961], Einaudi, Torino 1968.
22. Cfr. fra gli altri testi, di Aleksandr Solzenicyn, Arcipelago Gulag 1918-1956. Saggio di inchiesta narrativa [Arkipelag GULAG, 1973], 2 voll., Mondadori, Milano 1974-'75, che a questa sua prima apparizione ebbe poche recensioni e poca eco, e di Varlam Salamov, I racconti di Kolyma [Kolymskie rasskazy, 1973], edizione integrale a cura di Irina P. Sirotinskaja, Einaudi, Torino 1999. Di Salamov era gia' uscito nel 1976, accolto anch'esso con scarso interesse, Kolyma: trenta racconti dai Lager staliniani (Savelli, Roma, a cura di Piero Sinatti), e nel 1992 Nel Lager non ci sono colpevoli: gli ultimi racconti della Kolyma (Theoria, Roma-Napoli, a cura di Laura Salmon); I racconti di Kolyma (Sellerio, Palermo 1992); I racconti della Kolyma (Adelphi, Milano 1995).
23. P. Levi, I sommersi e i salvati, cit., p. 1022.
24. Ibid., pp. 1023-24.
25. Ibid., p. 1024.
26. Ibid., p. 1025.
27. Ibid., p. 1031.
28. Ibid., p. 1028.
29. Lyotard aveva paragonato la Shoah a un terremoto cosi' forte da distruggere, insieme a persone e cose, gli stessi strumenti per misurare la sua intensita': cfr. Jean-Francois Lyotard, Il dissidio [Le Differend, 1983], Feltrinelli, Milano 1985, pp. 81-82.
30. Pierre Vidal-Naquet, Gli assassini della memoria. Saggi sul revisionismo e la Shoah [Les Assassins de la memoire. "Un Eichmann de papier" et autres essais sur le revisionnisme, 1987], Viella, Roma 2008.
31. Robert Faurisson, gia' docente di letteratura all'Universita' di Lione, e' considerato un capostipite del negazionismo.
32. Carlo Ginzburg, "Unus testis". Lo sterminio degli ebrei e il principio di realta', in "Quaderni storici", n.s., XXVII (agosto 1992), n. 80, pp. 529-48, ora in Id., Il filo e le tracce. Vero falso finto, Feltrinelli, Milano 2006, pp. 205-224. Il saggio e' dedicato a Primo Levi. Vale la pena ricordare che il linguista americano di estrema sinistra Noam Chomsky difendera' Faurisson in nome della liberta' di espressione e firmera' la prefazione alla sua Memoire en defense. Contre ceux qui m'accusent de falsifier l'histoire. La question des chambres a gaz (La Vieille Taupe, Paris 1980).
33. Non posso non ricordare qui la critica ferma (ma affettuosa) di Bruno Vasari, amico di Levi e vicepresidente dell'Associazione nazionale ex deportati, che rivendica l'autorevolezza del testimone, riprendendola in vari testi, vedi per es.: Enrico Mattioda (a cura di), La prevalenza della ragione sul sentimento nella testimonianza di Primo Levi, in Al di qua del bene e del male. La visione del mondo di Primo Levi, Atti del convegno internazionale, Torino 15-16 dicembre 1999, Angeli, Milano 2000, pp. 195-201.
34. P. Levi, I sommersi e i salvati, cit., p. 1056. Il brano fa parte del capitolo "La vergogna".
35. B. Bettelheim, Il prezzo della vita, cit. L'opera ha ora, anche in italiano, un titolo corrispondente a quello originale: Il cuore vigile (Adelphi, Milano 1988). Le due citazioni provengono dal capitolo 5, "Comportamento in situazioni estreme: le difese", pp. 213-14. Grazie al suo ruolo, Eugen Kogon potra' testimoniare a Norimberga contro i medici nazisti; ma nel suo saggio Der SS-Staat: das System der deutschen Konzentrationslager [1946], arriva a scrivere che "Complicazioni psicologiche significative si avevano soltanto negli individui di una certa levatura o in coloro che erano appartenuti a gruppi o classi superiori"; il brano e' riportato da Bettelheim a p. 214; il volume di Kogon non e' mai stato tradotto in italiano. Secondo Kogon (e' sempre Bettelheim a riferirlo), "Le classi colte [...] non erano, dopo tutto, preparate per la vita nei campi di concentramento". Dalle sue parole, scrive Bettelheim, "sembrerebbe di poter inferire che i prigionieri comuni, invece, erano adatti a vivere in un campo di concentramento, oppure che essi non soffrivano di alcuna complicazione psicologica" (ibid.).
36. Cfr. Lawrence L. Langer, Interpreting Survivor Testimony, in Berel Lang (a cura di), Writing and the Holocaust, Holmes & Meier, New York - London 1988, p. 26.
37. P. Levi, I sommersi e i salvati, cit., in particolare il capitolo "La memoria dell'offesa", pp. 1006-16. Levi crea, scrive David Bidussa, una lingua capace di esprimere "qualcosa che non e' solo vicenda, ma ventaglio di strumenti"; cfr. Marco Neirotti, "Ma adesso noi storici dobbiamo uscire dall'atteggiamento etico", intervista a David Bidussa, in "La Stampa", 26 gennaio 2010, p. 35. Di Bidussa vedi l'introduzione a I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 2003. Sul ruolo crescente della testimonianza nella trasmissione dell'esperienza e sull'"americanizzazione" della Shoah, vedi Annette Wieviorka, L'Ere du temoin, Plon, Paris 1998; trad. it. L'era del testimone, Cortina, Milano 1999.
38. L'ambiente e' quello di Giustizia e Liberta'. Ma parlando di posizione pubblica, va detto che Levi non e' una voce dominante nell'establishment culturale, e non fa molto per diventarlo: non e', a differenza di molti altri intellettuali, un "compagno di strada" del partito comunista, tanto meno un iscritto; non e' un sodale dei maggiori autori di Einaudi: le sue prime amicizie in campo letterario sono Nuto Revelli e Mario Rigoni Stern, che non sono a loro volta figure centrali nel dibattito culturale italiano. Cfr. Robert S.C. Gordon, The Holocaust in Italian Culture, 1944-2010, Stanford University Press, Stanford (Cal.) 2012, pp. 67-68; trad. it. Scolpitelo nei cuori. L'Olocausto nella cultura italiana (1944-2010), Bollati Boringhieri, Torino 2013, pp. 99-101.
(parte prima - segue)
 
4. LIBRI. BRUNO SEGRE: PREFAZIONE A "PRIMO LEVI. MITI D'OGGI" DI BRUNO OSIMO
[Ringraziamo di cuore Bruno Segre per averci messo a disposizione la sua prefazione al recente libro di Bruno Osimo, Primo Levi. Miti d'oggi, Brioschi, Milano 2021.
Bruno Segre, storico e saggista, e' nato a Lucerna nel 1930, ha studiato filosofia alla scuola di Antonio Banfi; si e' occupato di sociologia della cooperazione e di educazione degli adulti nell'ambito del movimento Comunita' fondato da Adriano Olivetti; ha insegnato in Svizzera dal 1964 al 1969; per oltre dieci anni ha fatto parte del Consiglio del "Centro di documentazione ebraica contemporanea" di Milano; per molti anni ha presieduto l'associazione italiana "Amici di Neve Shalom Wahat as-Salam"; nel quadro di un'intensa attivita' pubblicistica, ha dedicato contributi a vari aspetti e momenti della cultura e della storia degli ebrei; ha diretto la prestigiosa rivista di vita e cultura ebraica "Keshet". Tra le opere di Bruno Segre: Gli ebrei in Italia, Giuntina, Firenze 2001; Shoah, Il Saggiatore, Milano 1998, 2003; Israele: la paura e la speranza, Aliberti, Correggio 2014; Adriano Olivetti. Un umanesimo dei tempi moderni, Imprimatur, 2015; Che razza di ebreo sono io, Casagrande, Bellinzona 2016.
Bruno Osimo "nato nel 1958 da una famiglia ebraica laica, traduce dal russo e dall'inglese e insegna Teoria della traduzione alla Civica Scuola Interpreti e Traduttori "Altiero Spinelli". E' autore di romanzi, di testi di semiotica della traduzione e del Manuale del traduttore (Hoepli)".
Primo Levi e' nato a Torino nel 1919, e qui e' tragicamente scomparso nel 1987. Chimico, partigiano, deportato nel lager di Auschwitz, sopravvissuto, fu per il resto della sua vita uno dei piu' grandi testimoni della dignita' umana ed un costante ammonitore a non dimenticare l'orrore dei campi di sterminio. Le sue opere e la sua lezione costituiscono uno dei punti piu' alti dell'impegno civile in difesa dell'umanita'. Opere di Primo Levi: fondamentali sono Se questo e' un uomo, La tregua, Il sistema periodico, La ricerca delle radici, L'altrui mestiere, I sommersi e i salvati, tutti presso Einaudi; presso Garzanti sono state pubblicate le poesie di Ad ora incerta; sempre presso Einaudi nel 1997 e' apparso un volume di Conversazioni e interviste. Altri libri: Storie naturali, Vizio di forma, La chiave a stella, Lilit, Se non ora, quando?, tutti presso Einaudi; ed Il fabbricante di specchi, edito da "La Stampa". Ora l'intera opera di Primo Levi (e una vastissima selezione di pagine sparse) e' raccolta nei due volumi delle Opere, Einaudi, Torino 1997, a cura di Marco Belpoliti, cui si e' aggiunto un terzo volume, Opere complete III, Einaudi, Torino 2018, sempre a cura di Marco Belpoliti, che raccoglie conversazioni, interviste, dichiarazioni, bibliografia e indici. Tra le opere su Primo Levi: AA. VV., Primo Levi: il presente del passato, Angeli, Milano 1991; AA. VV., Primo Levi: la dignita' dell'uomo, Cittadella, Assisi 1994; Marco Belpoliti, Primo Levi, Bruno Mondadori, Milano 1998; Massimo Dini, Stefano Jesurum, Primo Levi: le opere e i giorni, Rizzoli, Milano 1992; Ernesto Ferrero (a cura di), Primo Levi: un'antologia della critica, Einaudi, Torino 1997; Ernesto Ferrero, Primo Levi. La vita, le opere, Einaudi, Torino 2007; Giuseppe Grassano, Primo Levi, La Nuova Italia, Firenze 1981; Gabriella Poli, Giorgio Calcagno, Echi di una voce perduta, Mursia, Milano 1992; Anna Bravo, Raccontare per la storia, Einaudi, Torino 2014; Claudio Toscani, Come leggere "Se questo e' un uomo" di Primo Levi, Mursia, Milano 1990; Fiora Vincenti, Invito alla lettura di Primo Levi, Mursia, Milano 1976. Cfr. anche il sito del Centro Internazionale di Studi Primo Levi (www.primolevi.it)]
 
Gli anglismi e gli americanismi che intitolano i capitoli di questo libro non sono da attribuire all'antico vizio italico dell'esterofilia. Al contrario, proprio con il provocatorio richiamare il selvaggio trapianto nella nostra lingua di termini e costrutti anglofoni, Bruno Osimo ne sottolinea con ironia gli aspetti ridicoli, banali, talvolta volgari, e caso mai fa valere con forza il rifiuto di farsi subordinare, trasformare, denaturare, emarginare.
Per Osimo, fonte inesauribile di ispirazione di tale rifiuto, e di molto altro ancora, e' Primo Levi: una guida preziosa alla quale egli si consegna, affascinato dal suo pensiero acuto e lungimirante, dalla sua scrittura cristallina, dalla sua complessa e tragica vicenda umana.
Nel 2012 Osimo aveva dato alle stampe il Dizionario affettivo della lingua ebraica, una prima valida prova narrativa le cui pagine, pur non componendo una vera e propria autobiografia, raccontavano il suo impegno a fare chiarezza nell'intrico delle ascendenze e dei comportamenti famigliari. In quell'opera Osimo, figlio di genitori scampati da giovani (lei a sedici anni, lui a ventitre') alla deportazione verso un Lager, narrava d'essersi trovato iscritto, per iniziativa della yiddishe mame, alla scuola ebraica anche se "papa' non voleva che io ci venissi", e quindi di sentirsi costretto sin da bambino a fare i conti con la sua qualita' di "ebreo clandestino".
Da questa condizione s'era potuto finalmente liberare molto piu' tardi, andando a visitare a Gerusalemme lo Yad Vashem, il museo-monumento dedicato alle vittime della Shoah. "Quando ho visitato lo Yad Vashem, avevo quasi cinquant'anni. Tanti fili della mia vita mi portavano in quella direzione, ma non lo sapevo, o non lo volevo riconoscere. [...] adesso che sono qui dove c'e' questa stazione, questo posto dove ci si ferma, dove si fa memoria, [...] capisco che quello che mi e' stato detto non e' nulla a confronto di quello che mi e' stato trasmesso senza dirmelo. [...] E' questo l'unico posto in cui mi sento a mio agio pensandomi ebreo non circonciso e mi sento ebreo completamente, [...] E' questo l'unico posto in cui paradossalmente mi sento protetto, non nel fisico ma nell'identita', qui sono legittimo, non sono piu' clandestino, ne' come ebreo ne' come cittadino del mondo".
Dalla composizione di quel favoloso Dizionario e' trascorso circa un decennio. E Osimo, entrato ormai in his sixties, ha fatto compiere alla sua inesausta ricerca di chiarezza identitaria un ulteriore tratto di strada, passando dalla lezione dello Yad Vashem - quel memoriale austero che parla della morte, dello sterminio, della cremazione - all'ascolto vigile di Primo Levi: un personaggio capace di vedere ogni cosa con oggettivita' e distanza, dotato delle qualita' morali, culturali, scientifiche, di una resistenza fisica e di una capacita' di adattamento tale da permettergli, nel cuore di un'esperienza estrema, di soddisfare una sua pur precaria volonta' di sopravvivere; ma in particolare, un testimone in possesso di un'eccezionale capacita' di osservare, studiare, giudicare, antivedere, ben palesata dal macrotesto che ha lasciato in eredita' ai posteri. "Non sono in grado di giudicare il mio libro - scrive Levi - [...] Mi auguro che venga letto comunque: non solo per ambizione, ma anche nella sottile speranza di essere riuscito a far si' che il lettore si accorga che le cose lo riguardano". "Dire che l'opera di Primo e' importante (solo) per la Shoah - commenta Osimo - e' grossolanamente riduttivo: e' immensa, ed e' fondamentale per la nostra vita quotidiana attuale". E poi, a mo' di precisazione: "La sua grandezza sta nell'aver ricucito tutto quello che ha visto e vissuto, e ricollegato con la nostra vita quotidiana, ravvisando tracce di Lager nel suo quotidiano e tracce di quotidiano nel Lager. Che e' poi quello che cerco di fare io in questo libro con il nostro quotidiano".
Quanto in profondita' Bruno si sia spinto nell'introiettare il pensiero e l'esperienza esistenziale di Primo, lo rivelano le pagine sofferte di questo libro. Perche' il lettore incominci a farsene un'idea, do qui qualche esempio.
Sotto la parola chiave SUV (sigla che indica Sport Utility Vehicle), Osimo menziona un episodio di guerra che Primo, in La tregua, descrive cosi': "[I nazionalsocialisti che, fuggendo dal Lager, non volevano lasciare dietro di se' nulla che potesse favorire i prigionieri] non si erano attardati a recuperarli [gli alimentari in scatola], ma avevano cercato di distruggerli passandoci sopra con i cingoli dei loro mezzi corazzati". Nel commentare questo passo, Osimo rileva che la violenza - moneta corrente, quale causa di morte e di traumi senza fine, nell'ottica della guerra - pui' assumere in tempo di pace forme diverse, per esempio negli incidenti stradali, ormai sempre piu' frequenti. Fa poi notare che per un'automobile normale scontrarsi con un SUV e' piu' pericoloso che scontrarsi con un'automobile normale. Dunque: "Il principio che sta alla base della scelta di girare in SUV [anziche' in un'automobile normale] e' quello di cercare la propria protezione a scapito di quella altrui. [...] Il pensiero, consapevole o inconscio - conclude Osimo -, dei portatori sani di SUV nei confronti del prossimo e dei prossimi, e' lo stesso espresso da Primo nel passo citato: "distruggerli passandoci sopra con i cingoli dei loro mezzi corazzati".
"Siamo stati capaci, noi reduci - si domanda Primo in I sommersi e i salvati - di comprendere e di far comprendere la nostra esperienza? Cio' che comunemente intendiamo per "comprendere" coincide con "semplificare": senza una profonda semplificazione, il mondo intorno a noi sarebbe un groviglio infinito e indefinito [...] Siamo insomma costretti a ridurre il conoscibile a schema". Chiosando queste riflessioni di Levi (in un capitolo intitolato Narrative), Osimo chiarisce che semplificare quando la materia e' gia', di suo, semplice, e' piu' facile di quando non e' semplice affatto. Per poi aggiungere, a parziale spiegazione del clima di indifferenza, apatia, assenza di interesse con cui Primo viene accolto al suo ritorno in famiglia a Torino, che "la vita in Lager e' stata programmaticamente costruita in modo da non essere traducibile. I nazionalsocialisti sapevano che, se qualcuno fosse sopravvissuto, nessuno avrebbe creduto ai suoi eventuali racconti. [...] I nazionalsocialisti hanno innovato radicalmente le modalità non solo di distruzione fisica, ma anche di detenzione e di condizionamento. Hanno costretto i prigionieri a vivere in modi propriamente indescrivibili, cosi' da impedire loro di raccontare. Per farlo, Primo ha creato non solo un testo, ma un intero linguaggio".
In un capitolo intitolato No Vax, dopo avere citato un passo da Se questo e' un uomo che descrive un quadro epidemiologico rovinoso ("Non avevamo che una minima scorta d'acqua, e non coperte ne' pagliericci di ricambio. E il poveretto, tifoso, era un terribile focolaio di infezione"), Osimo ci ricorda che, pur non essendo medico, Levi era tuttavia capace di svolgere, nella cornice desolante del Lager, funzioni di rilievo nel prevenire la diffusione delle malattie. La sua cultura gli permetteva infatti "di attenersi ad alcuni principi di base, quelli che in teoria vengono insegnati in tutte le scuole nei corsi di igiene". E' vero che oggi le malattie infettive sono diminuite un po' dovunque. Ma "l'unica epidemia che sta dilagando", constata Osimo con amarezza, "e che sembra non conoscere antidoti e' quella delle informazioni [pseudoscientifiche] in internet". Chiunque puo' comunicare cio' che vuole, laddove larga parte del pubblico recettore non ha le basi educative necessarie per filtrare le notizie attendibili e distinguerle dalle panzane. "Apparentemente, internet [...] ha dimostrato che la democrazia non funziona, e che nel principio che uno vale uno e' racchiuso il pericolo enorme di diffusione di disinformazione". Siamo ormai scesi, oggi, tanto in basso che sembriamo destinati a ripercorrere senza rimedio gli "errori passati, fino a giungere a nuove infezioni, nuove epidemie, nuove pesti causate da menti labili di persone ignoranti con un enorme potere comunicativo di massa".
Quanto fossero affamati i Haeftlinge ce lo dice Levi in Se questo e' un uomo, rammentando che nel campo "si raschiano patate crude con altre bollite e disfatte; la miscela si arrostisce su di una lamiera rovente. Avevano sapore di fuliggine". Nella nostra storia nazionale, la Seconda guerra mondiale fu l'ultimo periodo in cui molti di coloro che la attraversarono ricordano non soltanto di avere sofferto la fame, ma anche di avere assistito a un immane spargimento di sangue umano. Finita la guerra, per alcuni anni - annota Osimo in un capitolo agrodolce intitolato Barbecue - fu avvertito diffusamente il bisogno di compensare il patimento subito spargendo, per contrasto, sangue non umano, "un lusso prima insperabile". "Per arrivare alla messa in scena del barbecue [...] bisogna avere esorcizzato completamente la fame atavica, di modo da non avere di nuovo voglia di un setting piu' avventuroso per il proprio rituale di nutrimento. Il maschio inscena, come mezzo milione di anni prima, il ruolo del cacciatore procacciatore di selvaggina, e la femmina - che da copione dovrebbe occuparsi del fuoco - lascia il fuoco al maschio (che altrimenti non avrebbe nulla da fare, dato che non caccia) e si dedica ai servizi di comfort: [...] tovaglie, tovaglioli, bicchieri, bevande, posate, recipienti per condimenti et similia. [...] nessuno concepirebbe di abbeverarsi al fiume o di pulirsi la bocca con una foglia o di mangiare insipido o di rinunciare al caffe'. Nemmeno le patate crude arrostite sulla lamiera rovente fanno di solito parte del nostro menu".
"Quanto di noi stessi era stato eroso, spento?" si domanda Levi nel finale di La tregua. "Ritornavamo [a casa] piu' ricchi o piu' poveri, piu' forti o piu' vuoti?". A tali quesiti Osimo risponde in modo indiretto componendo un capitolo intitolato Anti-aging. In esso ci ricorda che tra i dogmi non scritti della nostra cultura figura l'esigenza di fare tante esperienze "perche' le esperienze fanno crescere. Un altro [di questi dogmi] e' che bisogna apparire giovani. L'ideale, insomma, sarebbe essere dei giovani vissuti. [...] Nel 1945 Primo ha ventisei anni, quindi e' giovane. Ed e' vissuto" grazie al fatto che i trecentoquaranta giorni trascorsi a Monowitz e i duecentosessanta trascorsi nel viaggio di ritorno sono stati estremamente ricchi di esperienze. A quei due dogmi occorre pero' accostare oggigiorno anche l'equiparazione universalmente accettata tra vecchiaia e negativita', un'equiparazione che mobilita strategie "anti-aging" con effetti collaterali importanti. Grazie infatti ai farmaci che, vergognandocene, assumiamo di continuo, la nostra aspettativa di vita sta aumentando, ma ne deriva anche che "il mondo e' sempre piu' pieno di vecchi, con protesi di vario tipo". "Posso capire - cosi' conclude Bruno - che Primo alla lunga si fosse stufato di vivere in mezzo a una popolazione guidata da queste preoccupazioni. [...] In effetti Primo, senza alcun esibizionismo, senza alcuna polemica, senza fare nessun rumore, ha scelto l'unico "percorso anti-aging" (come recita la pubblicita' volgare) che funziona davvero".
Una considerazione decisamente provocatoria ma che, nella sua originalita', trovo del tutto in linea con questo libro, nei termini in cui mi pare che Bruno Osimo l'abbia concepito.
 
5. TA EIS EAUTON. IN VIA DELLA VERITA'
 
E' martedi' 26 gennaio 2021
vigilia del Giorno della memoria
delle vittime della Shoah
c'e' il sole e fa freddo
la citta' pare che dorma ancora
solo il tufo sembra respirare
sotto l'intonaco che si screpola e sfalda
mentre il selciato e' di scaglie di ferro
pelle di un drago che in agguato attende
di sollevarsi ancora a menar strage
 
Dopo avere a lungo camminato
sono solo in silenzio qui
in via della verita'
davanti a una casa con una lapide alta
e tre pietre d'inciampo confitte nel suolo
con sopra tre nomi
qui vivevano tre esseri umani innocenti
che i fascisti deportarono ad Auschwitz
come milioni e milioni di altri innocenti
che estinsero tutti tra sofferenze
immani e indicibili
 
In questa mattina di freddo e di sole
io qui sosto in silenzio e li ricordo
e il ricordo brucia come una ferita
come una voce che dall'abisso chiama
e mi chiede se ho saputo restare
fedele alle vittime
e mi chiede se ho saputo lottare
per salvare tutte le vite
io ascolto questa voce e sento
il suo peso che mi piega le ossa
e mi toglie il respiro e mi grava
sull'animo vuoto sul cuore inaridito
non ho saputo mantenere la promessa
non ho saputo fermare la strage
 
Tutte le vittime
la stessa vittima
 
Tutte le persone
una sola umanita'
 
Io so che il Giorno della memoria
delle vittime della Shoah
ancora e ancora tutte e tutti ci convoca
alla lotta nonviolenta necessaria
a schierarci dalla parte di tutte
le vittime ad agire per salvare
tutte le vite tutte le persone
io lo so che la lotta necessaria
contro il fascismo non finisce mai
ed e' oggi che occorre contrastarlo
senza illusioni contrastarlo occorre
e questa lotta che il fascismo contrasta
e che chiamiamo nonviolenza e' la lotta
che invera l'umanita' dell'umanita'
riconoscimento e riconoscenza
misericordia che libera e salva
condivisione del bene e dei beni
che abbevera e nutre tutti gli esseri viventi
e muove il mondo e fa sorgere il sole
 
Non possono piu' benedirci le persone uccise
non possono piu' perdonare nessuno
ma ricordarle puo' dirci la via
che reca alla pace e alla giustizia
ma ricordarle puo' farci restare
umani fra umani e resistere ancora
 
6. SEGNALAZIONI LIBRARIE
 
Riletture
- Vasilij Grossman, Vita e destino, Adelphi, Milano 2008, 2013, pp. 758.
- David Grossman, Vedi alla voce: amore, Mondadori, Milano 1988, 2010, pp. XIV + 630.
 
7. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
 
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli.
 
8. PER SAPERNE DI PIU'
 
Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it
Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/
 
TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 3997 del 27 gennaio 2021
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXII)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com , sito: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/
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