[Nonviolenza] Telegrammi. 3932
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- Date: Sun, 22 Nov 2020 19:42:03 +0100
TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 3932 del 23 novembre 2020
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXI)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com, sito: https://lists.peacelink.it/nonviolenza/
Sommario di questo numero:
1. Giuliano Pontara: Definizione di violenza e nonviolenza nei conflitti sociali (1977) (parte prima)
2. Segnalazioni librarie
3. La "Carta" del Movimento Nonviolento
4. Per saperne di piu'
1. MAESTRI. GIULIANO PONTARA: DEFINIZIONE DI VIOLENZA E NONVIOLENZA NEI CONFLITTI SOCIALI (1977) (PARTE PRIMA)
[Riproduciamo di seguito ancora una volta la prima parte (pp. 2-14) dell'opuscolo di Giuliano Pontara, Il satyagraha. Definizione di violenza e nonviolenza nei conflitti sociali, Edizioni del Movimento Nonviolento, Perugia 1983; opuscolo che a sua volta riproduce senza alcuna modifica l'intervento di Giuliano Pontara dal titolo "Definizione di violenza e nonviolenza nei conflitti sociali" alle pp. 59-80 del libro di autori vari: Movimento Nonviolento, Marxismo e nonviolenza, Editrice Lanterna, Genova 1977.
Giuliano Pontara e' uno dei massimi studiosi della nonviolenza a livello internazionale, riproduciamo di seguito una breve notizia biografica gia' apparsa in passato sul nostro notiziario (e nuovamente ringraziamo di tutto cuore Giuliano Pontara per avercela messa a disposizione): "Giuliano Pontara e' nato a Cles (Trento) il 7 settembre 1932. In seguito a forti dubbi sulla eticita' del servizio militare, alla fine del 1952 lascia l'Italia per la Svezia dove poi ha sempre vissuto. Ha insegnato Filosofia pratica per oltre trent'anni all'Istituto di filosofia dell'Universita' di Stoccolma. E' in pensione dal 1997. Negli ultimi quindici anni Pontara ha anche insegnato come professore a contratto in varie universita' italiane tra cui Torino, Siena, Cagliari, Padova, Bologna, Imperia, Trento. Pontara e' uno dei fondatori della International University of Peoples' Institutions for Peace (Iupip) - Universita' Internazionale delle Istituzioni dei Popoli per la Pace (Unip), con sede a Rovereto (Tn), e dal 1994 al 2004 e' stato coordinatore del Comitato scientifico della stessa e direttore dei corsi. Dirige per le Edizioni Gruppo Abele la collana "Alternative", una serie di agili libri sui grandi temi della pace. E' membro del Tribunale permanente dei popoli fondato da Lelio Basso e in tale qualita' e' stato membro della giuria nelle sessioni del Tribunale sulla violazione dei diritti in Tibet (Strasburgo 1992), sul diritto di asilo in Europa (Berlino 1994), e sui crimini di guerra nella ex Jugoslavia (sessioni di Berna 1995, come presidente della giuria, e sessione di Barcellona 1996). Pontara ha pubblicato libri e saggi su una molteplicita' di temi di etica pratica e teorica, metaetica e filosofia politica. E' stato uno dei primi ad introdurre in Italia la "Peace Research" e la conoscenza sistematica del pensiero etico-politico del Mahatma Gandhi. Ha pubblicato in italiano, inglese e svedese, ed alcuni dei suoi lavori sono stati tradotti in spagnolo e francese. Tra i suoi lavori figurano: Etik, politik, revolution: en inledning och ett stallningstagande (Etica, politica, rivoluzione: una introduzione e una presa di posizione), in G. Pontara (a cura di), Etik, Politik, Revolution, Bo Cavefors Forlag, Staffanstorp 1971, 2 voll., vol. I, pp. 11-70; Se il fine giustifichi i mezzi, Il Mulino, Bologna 1974; The Concept of Violence, Journal of Peace Research , XV, 1, 1978, pp. 19-32; Neocontrattualismo, socialismo e giustizia internazionale, in N. Bobbio, G. Pontara, S. Veca, Crisi della democrazia e neocontrattualismo, Editori Riuniti, Roma 1984, pp. 55-102; tr. spagnola, Crisis de la democracia, Ariel, Barcelona 1985; Utilitaristerna, in Samhallsvetenskapens klassiker, a cura di M. Bertilsson, B. Hansson, Studentlitteratur, Lund 1988, pp. 100-144; International Charity or International Justice?, in Democracy State and Justice, ed. by. D. Sainsbury, Almqvist & Wiksell International, Stockholm 1988, pp. 179-93; Filosofia pratica, Il Saggiatore, Milano 1988; Antigone o Creonte. Etica e politica nell'era atomica, Editori Riuniti, Roma 1990; Etica e generazioni future, Laterza, Bari 1995; tr. spagnola, Etica y generationes futuras, Ariel, Barcelona 1996; La personalita' nonviolenta, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1996; Guerre, disobbedienza civile, nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1996; Breviario per un'etica quotidiana, Pratiche, Milano 1998; Il pragmatico e il persuaso, Il Ponte, LIV, n. 10, ottobre 1998, pp. 35-49; L'antibarbarie. La concezione etico-politica di Gandhi e il XXI secolo, Ega, Torino 2006. E' autore delle voci Gandhismo, Nonviolenza, Pace (ricerca scientifica sulla), Utilitarismo, in Dizionario di politica, seconda edizione, Utet, Torino 1983, 1990 (poi anche Tea, Milano 1990, 1992). E' pure autore delle voci Gandhi, Non-violence, Violence, in Dictionnaire de philosophie morale, Presses Universitaires de France, Paris 1996, seconda edizione 1998. Per Einaudi Pontara ha curato una vasta silloge di scritti di Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi, nuova edizione, Torino 1996, cui ha premesso un ampio studio su Il pensiero etico-politico di Gandhi, pp. IX-CLXI". Una piu' ampia bibliografia degli scritti di Giuliano Pontara aggiornata fino al 1999 (che comprende circa cento titoli), gia' apparsa nel n. 380 de "La nonviolenza e' in cammino", abbiamo successivamente riprodotto nel n. 121 di "Voci e volti della nonviolenza"]
Non credo di andare molto lontano dal vero affermando che l'atteggiamento del marxismo nei confronti della violenza e' tuttora fortemente influenzato dal detto marxiano che la violenza e' l'ostetrica della storia; che essa, come dice Engels, e' lo strumento con cui lo sviluppo sociale si apre la strada abbattendo le vecchie e pietrificate forme politiche e creando cosi' lo spazio politico per il sorgere di piu' adeguate o piu' aperte strutture e relazioni sociali.
A questo modo di vedere la violenza, si oppone quello che fa valere come quanto di positivo si e' verificato nella storia sia avvenuto non grazie alla violenza, ma nonostante la violenza, in quanto essa non fa che sostituire vecchie e chiuse istituzioni repressive e autoritarie con nuove istituzioni e strutture altrettanto repressive e autoritarie, e come essa, lungi dall'essere l'ostetrica della storia, mostri oggi di poterne facilmente diventare il becchino. A questo modo di vedere la violenza, si affianca l'idea che vi sono alternative di lotta nonviolenta le quali, in quanto libere dai rischi o dalle conseguenze negative della violenza, in quanto moralmente superiori ad essa, e in quanto danno sufficienti garanzie di successo nella lotta politica per la realizzazione di obiettivi desiderabili e giusti, debbono essere studiate e prese in considerazione con la massima serieta', perche' da cio' puo' dipendere se il conflitto di classe negli anni a venire sbocchera', per usare le parole di Marx, 'o in una ricostruzione rivoluzionaria della societa' nella sua interezza, oppure nella comune rovina delle classi in lotta".
Marxismo e nonviolenza: due dottrine profondamente connesse con la realta' storica in cui viviamo: il marxismo come denuncia (oltre che analisi) delle innumerevoli forme di degradazione dell'uomo connesse con il sistema di produzione capitalistico, e come proposta di una alternativa umana ad esso, il socialismo. La nonviolenza come denuncia delle forme spaventose che la violenza ha assunto nell'era atomica, come denuncia delle condizioni disumane connesse con l'uso della violenza, anche quella rivoluzionaria al servizio del socialismo, e come proposta di una alternativa ad essa - la modalita' di lotta satyagraha.
Si tratta di concezioni che, in quanto corrispondenti ambedue a determinati e impellenti problemi, non possono ignorarsi a vicenda ma sono destinate a misurarsi sia nella sfera della teoria sia in quella della pratica - come del resto e' gia' in parte avvenuto.
Sia chiaro che il marxismo non si trova oggi a doversi misurare con il tradizionale pacifismo assolutistico, utopistico, spesso apolitico, contro il quale avevano buon giuoco le critiche, per altro assai affrettate, di Lenin e Trotckij. La posizione nonviolenta con cui il marxismo si trova oggi a dover fare i conti e' una posizione che ben poco ha in comune con il pacifismo tradizionale, di origine borghese. In essa si incontrano, e si stanno tuttora elaborando, certe idee del pacifismo socialista, certi spunti della dottrina anarchica e anarchico-sindacalista, e il pensiero e l'esperienza politica di Gandhi, il tutto messo a confronto con i problemi creati dall'odierno capitalismo e industrialismo, nonche' con le esperienze acquisite dalle lotte violente di liberazione, e in modo particolare quella del popolo cinese e quella del popolo vietnamita.
Non e' possibile in questa sede mettere a confronto, sulla base di un dettagliato esame, la dottrina marxista e la dottrina nonviolenta. Il compito che mi propongo e' quello molto piu' circoscritto di chiarire i concetti di violenza e di nonviolenza, sui quali non si puo' dire sia stata fatta sufficiente luce. Una tale chiarificazione e' di notevole importanza tra l'altro perche' costituisce uno dei presupposti per una piu' razionale discussione - e presa di posizione - sul problema dei rapporti fra marxismo, violenza e nonviolenza. Inoltre, e' soltanto dopo che si sono sufficientemente chiariti i vari significati attribuibili a questi termini, che si potra' cominciare a discutere, senza fraintendimenti, il problema concernente l'efficacia della violenza come mezzo di lotta rivoluzionaria per il socialismo, e quello concernente l'efficacia e la possibilita' dell'alternativa nonviolenta.
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1. Criteri di una adeguata definizione dei termini "violenza" e "nonviolenza"
I termini "violenza" e "nonviolenza" sono dei termini notoriamente vaghi e dei quali e' possibile dare, entro certi limiti di proprieta' semantica, diverse definizioni, ciascuna delle quali, presa di per se', astrattamente, senza un determinato contesto cui riferirla, non e' ne' migliore ne' peggiore delle altre. Non vi e', infatti, qualcosa come la "vera" o la "corretta" definizione di un termine, preso per se'. Il criterio di scelta fra le varie definizioni possibili di un certo termine consiste nel mostrare quale di esse sia la piu' adeguata o rilevante o chiarificatrice relativamente ad un certo contesto o a certi scopi. E la stessa definizione che e' adeguata o chiarificatrice relativamente ad un certo contesto, puo' rivelarsi del tutto irrilevante o assai poco chiarificatrice in relazione ad un altro.
Vediamo allora di stabilire subito il contesto relativamente al quale ci interessa qui chiarire i termini "violenza" e "nonviolenza".
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a) Stabiliamo anzitutto che cio' che qui ci interessa e' il termine "violenza" come nome di una classe o insieme di metodi per affrontare e condurre i conflitti di interessi fra gruppi. In questa sede non ci interessa, ovviamente, la violenza come mezzo per dirimere conflitti puramente individuali, per esempio nella classica forma del duello (anche se lo studio del duello come metodo istituzionalizzato per dirimere certi conflitti puo' aiutarci a capire la guerra come metodo istituzionalizzato per dirimere le grandi contese fra gruppi), o quella con cui un individuo si difende dalla aggressione di un ubriaco. Cio' che qui ci interessa e' la delimitazione di una certa classe di azioni, o modi di agire, o attivita' compiute o minacciate da un gruppo di persone nei confronti di un altro gruppo in una situazione conflittuale acuta: insomma un certo metodo di lotta politica. Cio' significa che "violenza" in quanto termine riferentesi ad un insieme di metodi, modalita' o tecniche di lotta politica, deve essere tenuto distinto da termini quali "sfruttamento", "ingiustizia", i quali non si riferiscono a metodi di lotta, cioe' a determinate attivita', bensi' si riferiscono a determinate relazioni che sussistono, o possono sussistere, fra persone o gruppi di persone. Affinche' si dia violenza, nella presente determinazione del concetto, occorre che vi sia una persona o gruppo identificabile come fautore di essa, e altresi' una persona o un gruppo identificabile come la vittima di essa. Ma condizioni di sfruttamento ed ingiustizia possono essere individuate senza dover individuare alcuna persona o gruppo come gli autori o i promotori di esse, dato che sfruttamento e ingiustizia sono connaturati a certe strutture e non e' possibile individuare questa o quella persona o gruppo di persone come i diretti responsabili di esse. (Taluni hanno proposto in seguito a cio' di riferirsi a tali condizioni di sfruttamento e ingiustizia col termine di "violenza strutturale". Non intendo involgermi con costoro in una disputa che ha tutta l'aria di diventare puramente verbale. Posso solo dire che non ho, per parte mia, particolari difficolta' ad accettare tale termine, posto che la distinzione teste' accennata rimanga chiara. In tal caso si potra' riferirsi alla violenza che qui ci interessa, cioe' alla violenza come attivita' o metodo di lotta, con il termine "violenza personale" o forse meglio, dato che l'aggettivo "personale" puo' facilmente far pensare alla violenza individuale - mentre quella che qui ci interessa e' la violenza di gruppo -, con il termine "violenza pragmatica". Chi preferisse tale terminologia dovra' tenere presente che tutto quanto diro' in questo scritto riguarda la violenza personale o pragmatica).
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b) La violenza e' - anche per comune consenso - un male o qualcosa di negativo. Su questo punto non vi e' il minimo dubbio che esiste un accordo completo fra marxisti e nonviolenti. Il culto della violenza come qualcosa di positivo in se' e' qualcosa che giustamente i piu' considerano aberrante: e non e' un caso che sia una delle componenti della ideologia fascista. Nulla di piu' tendenzioso che ascrivere al marxismo, come fanno certi critici borghesi, un tale atteggiamento nei confronti della violenza. Il marxista non ha - o comunque non dovrebbe avere - alcuna difficolta' a sottoscrivere il principio morale che, ceteris paribus, di tanto il mondo e' migliore di quanto in esso diminuisce la violenza. Ma occorre sottolineare che accettare questo principio non significa dover rifiutare la violenza come male assoluto, come qualcosa di ingiustificabile in qualunque tempo e luogo. Quest'ultima e' la posizione del pacifismo assolutistico, la quale pero', occorre di nuovo sottolineare, non si identifica con la posizione nonviolenta - almeno come quest'ultima e' concepita nel presente scritto. Il disaccordo fra marxisti e nonviolenti - in quanto distinto dal disaccordo fra marxisti e pacifisti assolutistici - non e' tanto un disaccordo di natura normativa, quanto piuttosto un disaccordo di natura fattuale, empirica. Esso infatti, come ho teste' fatto notare, non riguarda il valore negativo, la indesiderabilita' della violenza in quanto tale; esso concerne piuttosto in parte le reali possibilita' che l'uso della violenza presenta, soprattutto oggi, di condurre alla realizzazione di fini desiderabili - com'e' il socialismo - cioe', da ultimo, alla realizzazione di certi valori fondamentali sui quali vi e' accordo; in parte l'efficacia e la possibilita' delle alternative nonviolente come mezzi per raggiungere quel fine (1).
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Come il termine "violenza", anche quello di "nonviolenza", in quanto termine contrario del primo, sta qui a denotare un insieme di mezzi o tecniche di lotta politica i quali, proprio in virtu' del fatto di essere caratterizzati dalla assenza di violenza, di tanto sono di per se' moralmente superiori o preferibili ai primi, di quanto la violenza, da cui essi sono per definizione liberi, e' un male. Ed e' proprio in forza di questa superiorita' morale - e perche' mai altrimenti? - che e' cosa della massima importanza stabilire, con la maggiore accuratezza possibile, se e in che misura e a quali condizioni i metodi di lotta nonviolenta possono porsi come efficaci alternative a quelli di lotta violenta in quei tipi di situazione conflittuale in cui sino ad oggi si e' di regola ricorso all'uso della violenza, ed in modo particolare quali possibilita' vi sono di condurre in modo nonviolento la lotta rivoluzionaria per una piu' umana societa'.
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Il fatto che la distinzione fra mezzi di lotta violenta e mezzi di lotta nonviolenta sta qui ad indicare una distinzione di ordine morale, per cui i secondi sono di per se' moralmente preferibili ai primi, e' di fondamentale importanza ai fini di stabilire un criterio di adeguatezza o rilevanza di una definizione dei termini in esame. Soltanto una definizione dei due termini, la quale renda conto in modo sufficientemente chiaro della distinzione morale che nel presente contesto si assume, sara' una definizione chiarificatrice, adeguata o rilevante, o, come anche diro', ragionevole da un punto di vista normativo. Si badi che cio' non comporta che si debba assumere sotto il concetto di violenza ogni azione o tipo di azione che e', o si ritiene sia, moralmente biasimevole, errata o ingiustificabile, come ad esempio il mentire o il venir meno ad una promessa, ecc. Di una accezione cosi' lata del termine "agire violento" per cui esso diventa sinonimo di "agire moralmente ingiustificabile" non sapremmo cosa farcene, anche perche' esso non ci permetterebbe piu' di porre la questione, che tutti riteniamo essere una questione sensata e importante, se e in quali circostanze l'uso della violenza sia moralmente giustificabile. Si tratta qui di circoscrivere i concetti di violenza e nonviolenza in modo tale che, mentre l'uso di mezzi di lotta violenti comporta l'inflizione di un male (rimanendo pero' aperta la questione se l'inflizione di esso sia mai - e in caso di risposta affermativa, a quali condizioni - moralmente giustificabile), l'impiego di mezzi nonviolenti non comporta l'inflizione di esso.
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2. Violenza fisica attiva e modalita' di lotta non militare
Fermo restando quanto appena chiarito, si tratta ora di cercare di stabilire le condizioni necessario e sufficienti dell'agire violento (e per implicazione dell'agire nonviolento), vale a dire cio' che e' essenziale e tipico di tutta una classe di attivita' di gruppo in situazioni conflittuali acute.
Grosso modo si possono distinguere tre concetti di violenza, o tre definizioni del termine "violenza'", che ora passo a delucidare, partendo dalla piu' ristretta.
Siano A e B due gruppi di persone: la prima nozione di violenza puo' essere chiarita nel modo seguente:
Definizione D1: A usa violenza nei confronti di B, se, e solo se, sono soddisfatte le seguenti quattro condizioni:
1) A uccide B, oppure infligge a B delle sofferenze o lesioni fisiche;
2) A fa cio' contro la volonta' di B;
3) A fa cio' intenzionalmente;
4) A fa cio' mediante l'uso della forza fisica.
Cioe': violenza e' l'intenzionale e coatta uccisione o inflizione di sofferenze o lesioni fisiche mediante l'uso della forza fisica.
Ciascuna delle quattro condizioni elencate richiederebbe, al fine di essere compiutamente precisata, un lungo discorso a parte. Qui, per ovvie ragioni di spazio, mi limitero' a fare alcune osservazioni sulla quarta per poi concentrare il mio discorso esclusivamente sulla prima che ritengo essere la piu' problematica. La seconda e la terza non le discuto. Faccio soltanto notare che di esse, la seconda e' introdotta in quanto si vuole tenere distinto un atto di violenza, in quanto male, da un atto con cui una persona convince un'altra ad accettare certe sofferenze. La terza e' introdotta in quanto si vuole tenere distinta un'azione violenta dall'azione di colui che infligge un male ad un'altra persona senza minimamente volerlo o senza sapere che fa cio', come e' il caso nella situazione in cui un automobilista investe del tutto inavvertitamente un pedone. Inoltre la condizione 3) serve a rendere esplicito il fatto che nel presente contesto "violenza" sta a denotare un insieme di tecniche di lotta che, appunto in quanto tecniche, sono presumibilmente scelte e impiegate in modo del tutto deliberato, cioe' intenzionalmente.
La nozione di violenza circoscritta dalla definizione D1 e' una nozione assai comune e alla quale possiamo riferirci, per ragioni che diverranno chiare man mano che si procede nella lettura di questo intervento, come alla nozione di violenza fisica attiva, ove l'aggettivo "fisica" si riferisce a quanto stabilito dalla condizione 1), e l'aggettivo "attiva" si riferisce a quanto stabilito dalla condizione 4). Sul piano dei rapporti conflittuali fra gruppi la forma che la violenza, nella presente accezione del termine, di regola assume e' quella della violenza militare (eserciti regolari, guerriglia, milizia popolare, gruppi terroristici) (2).
A questa nozione ristretta di violenza, corrisponde una nozione assai lata di nonviolenza per cui il termine sta a designare tutte le tecniche di lotta esenti dalla violenza fisica attiva. Di nuovo, sul piano dei rapporti conflittuali fra gruppi, tali tecniche di lotta si identificano in pratica con le svariate modalita' di lotta non armata (boicottaggio, scioperi, noncollaborazione, certe forme di sabotaggio, ecc.). E' opportuno riferirsi a questa lata nozione di nonviolenza con il termine "modalita' o tecnica di lotta non militare" (3).
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3. Violenza fisica e lotta incruenta
Una seconda e piu' lata nozione di violenza la si ottiene abolendo la condizione 4) della definizione D1, cioe' quella che richiede che per parlare di violenza vi sia l'impiego della forza fisica, o addirittura della forza fisica in notevole misura (vedi cit. da Miller alla nota 2). Vi sono buone ragioni, nel presente contesto, per abolire tale condizione. Si consideri il seguente caso. Il gruppo A ha per un certo periodo aiutato il gruppo B mediante regolari spedizioni di viveri e medicinali. In seguito all'acuirsi di un conflitto fra i due gruppi, e come modo di condurre quel conflitto ad una soluzione vantaggiosa per se', il gruppo A decide di sospendere ogni aiuto al gruppo B, cioe' omette di fare le consuete spedizioni di viveri e medicinali intendendo con cio' costringere il gruppo B a cedere per fame o altre sofferenze che la mancata spedizione di viveri e medicinali comporta per i membri di esso. In tal caso il gruppo A, in quanto infligge intenzionalmente delle sofferenze fisiche a membri del gruppo B contro la loro volonta', soddisfa le tre prime condizioni della definizione D1, ma in quanto omette di fare certe azioni non usa, ovviamente, alcuna forza fisica e quindi non soddisfa la condizione 4), dal che consegue che esso non usa violenza nei confronti del gruppo B. Ma e' ragionevole cio'? Non mostra questo esempio con tutta chiarezza che la condizione 4) e' del tutto gratuita? Se, come si diceva sopra, la violenza e' un male, che differenza vi e' mai, da un punto di vista morale, tra il caso in cui il gruppo A infligge intenzionalmente e in modo coatto delle sofferenze fisiche al gruppo B mediante l'uso della forza fisica, e il caso, appena descritto, in cui il gruppo A infligge le stesse - o anche maggiori - sofferenze fisiche a B senza che vi sia il minimo impiego di forza fisica? Cio' che e' male, cio' che e' negativo, e' infliggere intenzionalmente delle sofferenze o delle lesioni fisiche a membri del gruppo B contro la loro volonta'; mentre il fatto che cio' avvenga mediante l'uso della forza fisica o meno e' un fattore del tutto irrilevante, a meno che non si voglia sostenere la tesi - in verita', assai peregrina - che la forza fisica sia di per se' un male che si aggiunge a quello delle sofferenze che si infliggono e a quello che eventualmente si puo' ascrivere all'intenzione di infliggerle.
Quanto sin qui detto si applica altrettanto bene, mutatis mutandis, alla distinzione fra l'uccidere o l'infliggere ad altri sofferenze o lesioni fisiche direttamente mediante interventi sul loro corpo, e l'infliggere ad essi tali mali indirettamente, mediante interventi, o non interventi, sulle cose da cui la loro integrita' fisica dipende (avvelenando l'acqua che bevono, l'aria che respirano, il cibo che mangiano, o distruggendo i loro raccolti, ecc. ecc.). Non si vede, di nuovo, che rilevanza morale possa avere il fatto che membri del gruppo B siano uccisi o vengano ad essi inflitte delle sofferenze o delle lesioni fisiche in modo diretto piuttosto che indiretto, siano uccisi in un bombardamento o muoiano di inedia in seguito alla distruzione dei loro raccolti o all'allagamento dei loro campi.
Possiamo riferirci alla nozione di violenza che si ottiene ritenendo soltanto le prime tre condizioni della definizione D1 con il termine "violenza fisica". All'occorrenza si potra' poi, in seguito a quanto detto sopra, distinguere fra violenza fisica diretta e violenza fisica indiretta, e parimenti fra violenza fisica attiva (perpetrata cioe' mediante l'uso della forza fisica o di strumenti che in qualche modo aumentano la nostra forza fisica) e violenza fisica passiva (perpetrata senza l'impiego di alcuna forza fisica). Ma sia chiaro che tali distinzioni non rispecchiano alcuna distinzione di ordine morale; tanto e' vero che sono pensabili situazioni in cui la violenza fisica indiretta o la violenza fisica passiva sono peggiori (piu' cattive) della violenza fisica diretta o della violenza fisica attiva (cioe' situazioni in cui distruggendo certe cose o tralasciando di fare certe azioni si provocano maggiori sofferenze o lesioni fisiche che non intervenendo direttamente e con l'uso della forza fisica sul corpo delle vittime).
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A questa nozione piu' lata di violenza corrisponde una nozione di nonviolenza piu' ristretta della prima che sopra ho proposto di chiamare modalita' di lotta non militare. Per distinguerla da quella, possiamo riferirci all'insieme di tecniche di lotta esenti da violenza nella presente accezione con il termine "tecniche o modalita' di lotta incruenta". Risulta chiaro ora come possa benissimo darsi che certe modalita' di lotta non militare debbano comunque ragionevolmente essere caratterizzate come forme di lotta violenta. Se, ad esempio, certe forme di boicottaggio, di sabotaggio e di sciopero effettivamente comportano delle sofferenze fisiche o la morte per delle persone del gruppo contro cui esse sono dirette (o anche per terzi), e se tali tecniche vengono deliberatamente impiegate allo scopo di infliggere tali mali, allora le tre condizioni della violenza fisica sono soddisfatte e tali tecniche sono esempio di modalita' di lotta non militare ma comunque violenta. Tuttavia, in base al principio morale sopra accennato - per cui, ceteris paribus, quanto piu' diminuisce la violenza nel mondo, tanto migliore il mondo diventa -, e in virtu' del fatto che vi sono buone ragioni per supporre che la violenza connessa con l'impiego di tecniche di lotta non militare e' di regola minore (sia in intensita', sia in estensione) di quella coinvolta nell'uso della forza armata, risulta pur sempre cosa della massima importanza indagare sulle possibilita' che le tecniche di lotta non militare - anche se talora violenta - hanno di porsi come valida alternativa alle varie forme di lotta militare.
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4. Violenza e a-violenza
La precedente nozione di violenza puo' a sua volta essere fatta oggetto di critica dalla quale scaturisce una terza e ancor piu' lata concezione. La critica questa volta si concentra sulla condizione 1) della definizione sopra messa in rilievo, cioe' sulle nozioni di sofferenza e lesione cui ivi si fa esplicito riferimento. Cominciamo con la prima. Chiunque ha avuto esperienza di uno stato di profonda angoscia o disperazione (per esempio in seguito alla notizia della morte di una persona cara, o in seguito alla notizia che essa o lui stesso sono affetti da una malattia incurabile) converra', credo, che vi sono sofferenze "psicologiche" peggiori di certe sofferenze fisiche (4). Ma se e' cosi', non sara' allora, di nuovo, del tutto gratuito, da un punto di vista morale, sussumere sotto il concetto di violenza (giudicata come un male) soltanto l'inflizione intenzionale e coatta di sofferenze fisiche, magari implicando che l'inflizione intenzionale e coatta di sofferenze psicologiche sarebbe una forma di nonviolenza (cioe' qualcosa di eticamente superiore, preferibile alla inflizione di sofferenze fisiche)? (5). Si supponga che il gruppo A, coinvolto in un acuto conflitto con il gruppo B, decida di condurre quel conflitto ad una soluzione vantaggiosa per se' impiegando un gas che, pur non causando alcuna sofferenza fisica, induce nei membri del gruppo B degli stati di intensa angoscia accompagnati da sintomi nervosi spiacevoli ma non fisicamente dolorosi. E si supponga inoltre che i membri del gruppo B affetti da tali stati di angoscia e sintomi nervosi preferiscano ad essi delle sofferenze fisiche anche se di una certa intensita'. Orbene, in base a quali mai considerazioni si potra' ragionevolmente negare che in tal caso il gruppo A ha impiegato la violenza nei confronti del gruppo B? Se vi sono stati di sofferenza psicologica che sono altrettanto e magari ancor piu' indesiderabili (e indesiderati) di certi stati di sofferenza fisica, perche' mai la provocazione intenzionale e coatta dei primi non sara' violenza, quando lo e' quella dei secondi? Nel preciso momento in cui il soldato uccide il marito dinanzi alla moglie impotente ad impedirglielo, senza alzare una mano su di essa ma provocando ad essa una atroce sofferenza psicologica, commette ovviamente violenza, non soltanto nei confronti dell'uomo ucciso, ma anche nei confronti della di lui moglie se, come qui si suppone, egli causa ad essa quelle sofferenze intenzionalmente. Insomma, cio' che e' moralmente rilevante e' che si infliggono intenzionalmente e in modo coatto delle sofferenze a delle persone (o piu' in generale ad esseri senzienti), mentre il fatto che le sofferenze inflitte siano fisiche piuttosto che psicologiche sembra avere altrettanto poca rilevanza morale quanto il fatto che quelle sofferenze siano mflitte mediante l'uso della forza fisica piuttosto che senza di essa (6). E' pertanto altrettanto importante individuare la violenza psicologica quanto lo e' individuare la violenza fisica.
Il discorso sulla violenza psicologica non finisce tuttavia qui, giacche' vi sono ragioni di introdurre nella prima condizione della definizione D1 il concetto di lesione psicologica in quanto distinta, ma moralmente altrettanto se non ancor piu' importante, della lesione fisica.
Il riferimento esplicito alla nozione di lesione fisica nella prima condizione della definizione D1 e' dovuto al fatto che, almeno di primo acchito, non parrebbe potersi escludere la possibilita' del verificarsi di situazioni in cui si producono delle menomazioni sul corpo di altri (cioe' si viola l'integrita' fisica di una o piu' persone) senza che si debba necessariamente infliggere ad essi sofferenza alcuna. Tuttavia, a ben guardare, la possibilita' che si verifichino situazioni di tal fatta parrebbe variare a seconda che per sofferenze si intenda soltanto sofferenze fisiche oppure anche sofferenze psicologiche. Che', se si possono facilmente immaginare situazioni in cui si producono delle lesioni fisiche senza che si producano nella stessa persona delle sofferenze fisiche, assai piu' difficile e' immaginare che si verifichino situazioni in cui si producano delle lesioni fisiche (escludiamo qui la morte istantanea), o almeno delle lesioni fisiche di una certa gravita (mutilazioni) senza provocare in quella persona delle sofferenze psicologiche (disperazione, ansia, stato di depressione profonda nel prendere coscienza della lesione provocata). Dal momento che qui, come si e' chiarito sopra, operiamo con l'idea che le sofferenze psicologiche siano altrettanto rilevanti, da un punto di vista morale, quanto quelle fisiche, parrebbe, dunque, che il riferimento esplicito alla nozione di lesione fisica che ricorre nella condizione 1) della D1 sia ridondante. Rimane tuttavia il concetto di lesione psicologica. Si consideri il seguente esempio. Si supponga che il gruppo A impieghi come metodo di lotta contro il gruppo B, con il quale si trova coinvolto in un conflitto acuto, un gas che non e' ne' mortale, ne' tale da produrre sofferenze, fisiche o psicologiche che siano, anzi induca nei membri del gmppo B uno stato di piacevole euforia. Si supponga ulteriormente che si tratti di un gas che ha l'ulteriore effetto di diminuire o paralizzare o distruggere completamente la capacita' di giudizio e volonta' autonomi dei membri di B, talche', in seguito al suo impiego da parte di A, essi si sottomettono docilmente a tutte le richieste di A. Il conflitto e' stato risolto in modo del tutto incruento ma a prezzo della autonomia dei membri di B, i quali sono ora in uno stato di totale eteronomia o condizionamento simile a qqello in cui si trova il personaggio orwelliano alla fine del romanzo 1984.
Orbene, pur trattandosi di un metodo di lotta del tutto incruento (l'uso del gas non produce per ipotesi mortalita' o sofferenza alcuna), certuni sosterranno tuttavia trattarsi di una chiara forma di violenza psicologica. E potranno sostenere cio' in base al seguente ragionamento. L'autonomia dell'individuo, intesa come tratto del carattere o della personalita' umana, e' qualcosa che ha un valore intrinseco positivo, qualcosa cioe' di buono o desiderabile in se', e non soltanto in funzione delle conseguenze positive cui essa generalmente conduce. La diminuzione, paralizzazione, distruzione o il soffocamento di essa comporta pertanto l'inflizione di un male che da un punto di vista morale non si diversifica da quello che si infligge allorche' si provocano delle sofferenze o la morte. Pertanto (e tenendo presente che cio' che qui ci interessa e' una definizione moralmente rilevante del termine "violenza", una definizione, cioe', per cui la distinzione fra tecniche violente e tecniche nonviolente stia ad indicare una chiara superiorita' morale delle seconde sulle prime), se l'inflizione intenzionale e coatta di sofferenze (fisiche o psicologiche) e di lesioni fisiche (con la morte come caso limite) e' violenza, tale sara' anche l'inflizione intenzionaie e coatta di lesioni psicologiche del tipo indicato. Se si riconosce che tali lesioni psicologiche sono un male, qualcosa di indesiderabile come lo e' uno stato di sofferenza, allora non vi e' alcuna superiorita' morale nella inflizione intenzionale di esse tale da giustificare l'esclusione di essa dal concetto di violenza e la sua eventuale assunzione sotto quello di nonviolenza.
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Per parte mia sono incline ad accettare queste considerazioni come valide e pertanto a sottoscrivere una concezione lata di violenza per cui il termine sta a denotare una modalita' o un insieme di mezzi di lotta caratterizzati dall'inflizione intenzionale e coatta di sofferenze fisiche o psicologiche, o di lesioni fisiche (con la morte come caso limite) o psicologiche (con la soppressione totale dell'autonomia - morte psicologica - come caso limite).
La rilevanza o adeguatezza di tale definizione relativamente al contesto che qui ci interessa risulta dal fatto che la violenza viene cosi' ad essere identificata con l'inflizione di cio' che d' un male intriseco personale. Uccidere, provocare sofferenze e lesioni (in quest'ultimo caso specialmente psicologiche) comporta causare cambiamenti intrinsecamente cattivi nelle persone. Dal momento che sono incline ad accogliere l'idea che non vi sono altri cambiamenti, nelle persone, che sono intrinsecamente cattivi, ossia che non vi sono altri mali intrinseci personali, e dal momento che, come ho chiarito all'inizio di questa sezione, cio' che qui ci interessa e' la violenza intesa come modalita', o insieme di mezzi di lotta usati od usabili da certe persone contro altre persone (la cosidetta violenza sulle cose o sulle istituzioni ci interessa qui soltanto in quanto comporta violenza sulle persone - cioe', soltanto come violenza indiretta), concludo che, almeno nel presente contesto, il concetto di violenza non puo' ragionevolmente essere ulteriormente allargato.
A questo terzo concetto lato di violenza corrisponde una terza, ristretta nozione di nonviolenza; lottare in modo nonviolento significa ora lottare astenendosi intenzionalmente dall'impiego di mezzi di lotta che comportino (o si crede comportino) l'inflizione di sofferenze (fisiche o psicologiche) o la provocazione di lesioni (fisiche o psicologiche). Per distinguere questo terzo concetto di nonviolenza dai primi due sopra delimitati (modalita' di lotta non militare, e modalita' di lotta incruenta) possiamo usare il termine di "modalita' di lotta a-violenta".
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Note
1. II marxista che forse in modo piu' esplicito ha sottolineato il carattere di male in se' della violenza e' John Lewis. In una delle piu' attente disamine della posizione pacifista intraprese da pensatori di indirizzo marxista, Lewis scrive: "Si concorda, ovviamente, nel giudizio che la violenza (...) e' un male. Tale giudizio e' un giudizio assoluto e immediato". L'errore del pacifismo assolutistico, per Lewis, sta nell'avere trasformato questo immediato giudizio di male in un giudizio finale di ingiustificabilita' della violenza. Per il marxista Lewis, invece, vale che "la violenza rimane un male in qualsiasi circostanza, ma che essa non e' moralmente ingiustificabile se le conseguenze del suo impiego sono piu' buone che cattive". Cfr. J. Lewis, The Case Against Pacifism, London, 1940 (1937), pp. 25-26; cfr. anche pp. 123-124.
2. Tra gli autori che propendono per una siffatta nozione di violenza vi e' da noi Norberto Bobbio. Nel suo intervento al dibattito sulla violenza, organizzato da Civilta' delle macchine e pubblicato nella omonima rivista (maggio-agosto, 1971, n. 3-4, spec. pp. 27-28) Bobbio stabilisce come, per poter parlare di violenza (come il termine e' "usato nel linguaggio politico corrente") e' necessario che "facciamo uso della forza fisica o di strumenti, come le armi di ogni specie, la cui natura consiste nell'aumentare in qualche modo la nostra forza fisica"; che si faccia "del male agli altri", ove per male viene inteso "compiere lesioni di una qualche entita' sul corpo altrui sino all'uccisione (...) provocare negli altri sofferenze gravi" e anche "provocare danni alle cose dell'altro" (ma mi sembra ovvio che, almeno nel presente contesto, provocare danni alle cose e' violenza soltanto nella misura in cui cio' comporta lesioni o sofferenze per qualche persona); che "l'uso della forza fisica (...) per fare del male agli altri (...) deve essere, da parte di chi la esercita, intenzionale", e che "il destinatario della violenza non sia consenziente". Si tratta, come si vede, delle quattro condizioni stabilite dalla definizione D1. Bobbio pero', pur giudicandole necessarie ad una compiuta caratterizzazione della nozione di violenza, non le giudica sufficienti. Egli infatti aggiunge una quinta condizione, e cioe' che "l'atto di forza fisica che fa del male intenzionalmente al recalcitrante sia anche ingiusto" e, egli chiarisce, "ingiusto" nel triplice senso di "moralmente ingiusto", di "illegittimo", cioe' di non autorizzato da un certo ordinamento, e di "illegale", vale a dire superante "certi limiti stabiliti dalle regole del sistema". Non vedo tuttavia che cosa motivi l'aggiunta di questa quinta condizione. La quale, anzi, mi pare del tutto immotivata, e cio' per due ragioni. In primo luogo perche', come ho gia' avuto occasione di notare sopra, essa rende impossibile porre la domanda, che tutti, Bobbio certamente compreso (dato che nel suo intervento parla di "violenza giusta" e di "violenza ingiusta ") considerano sensata e importante, se cioe' la violenza, o questa o quella azione violenta, siano moralmente giuste o meno. In secondo luogo, quella condizione e' immotivata perche' rende la definizione di "violenza" una definizione ideologicamente compromessa, essa comporta, ad esempio, che in uno scontro fra polizia e operai e studenti manifestanti, le manganellate della polizia nei confronti dei manifestanti, in quanto autorizzate dall'ordinamento vigente e purche' non superino certi limiti stabiliti dalle regole del sistema (presumibilmente come sono interpretate dalla classe che detiene il potere), non sono violenza (cioe', come sopra si diceva, qualcosa di negativo) ma semplice forza (cioe' qualcosa di molto piu' neutro); mentre le eventuali sassate dei manifestanti contro la polizia, o qualche botta che ad essi scappi nei confronti di questo o quel poliziotto divengono, ipso facto, pura e semplice violenza. Per questo penso che a stabilire il concetto di violenza che interessa a Bobbio bastano le prime quattro condizioni sopra elencate.
Esempi di altri autori che operano con la presente, ristretta, nozione di violenza sono H. A. Freeman, il quale scrive: "Violenza e' l'uso intenzionale della forza in modo tale da essere fisicamente dannoso per la persona o il gruppo contro cui essa e' usata" ("Violence is the wilifui application of force in such a way that it is physically injourious to the person or group against which it is applied"), in H. A. Freeman, Civil Disobedience (Santa Barbara: The Centcr for the Study of Democratic Institutions, April 1966, p. 3), e R. B. Miller, il quale caratterizza un atto di violenza come "un atto che comporta l'uso di una notevole quantita' di forza, sufficiente a ledere, danneggiare o distruggere una o piu' persone e compiuto con l'intenzione di ledere, danneggiare o distruggere " ("An act of violence is any act taken by A that 1) involves great force, 2) is in itself capable of injuring, damaging or destroying, and 3) is dono with thË intent of injuring, damaging or destroying"): cfr. R. B. Miller, "Violence, Force and Coercion" in J. A. Schaffer (a cura di), Violence, New York, 1971, p. 25. Ne' Freeman ne' Miller, come si sara' notato, fanno alcun riferimento esplicito alla condizione 2) per cui si da' violenza soltanto ove il male inflitto al destinatario sia contro la sua volonta'. Penso tuttavia che tale condizione sia implicita nel termine "danno" ("injury") che ambedue usano.
3. Lo studio piu' recente e comprensivo delle svariate modalita' o tecniche di lotta non-militare e' il grosso volume di G. Sharp, The Politics of Non-violent Action, Boston (Ma), 1973, pp. 900, in cui sono ampiamente illustrate ed esemplificate non meno di 198 tecniche di azione nonviolenta, dalle varie forme di persuasione e protesta nonviolenta, attraverso i vari metodi di noncollaborazione sociale, economica, politica, su' su' fino alle varie tecniche di intervento nonviolento. Alla p. 64 del libro viene chiarito che per "nonviolenza" si intende azione esente da violenza fisica: "II termine azione nonviolenta e' un termine generico sotto il quale si sussumono decine di metodi specifici di protesta, noncollaborazione e intervento, tutti caratterizzati dal fatto che chi li impiega in un certo conflitto fa - o si rifiuta di fare - certe cose senza usare la violenza fisica". Cfr. anche p. 73 ove le tecniche di "azione nonviolenta" vengono esplicitamente contrapposte alle "forme di lotta militare".
4. Uso l'aggettivo "psicologiche" e non "psichiche" perche', in un certo senso, tutte le sofferenze sono psichiche. Tuttavia vi e' differenza fra uno stato di intensa angoscia o disperazione e un dolore "fisico", in quanto mentre il primo non e' localizzabile in alcuna parte del corpo, il secondo, invece, lo e' - mi fa male qui, alla testa, alla gamba, alla mano, ecc. I termini "sofferenze psicologiche" e "sofferenze fisiche" intendono per l'appunto sottolineare tale distinzione.
5. Quest'ultima e' l'idea espressamente formulata in uno dei contributi che figurano in un volume ad opera di autori vari, recentemente uscito in Danimarca, ove si discute dei rapporti fra nonviolenza e lotta di classe. In esso, il curatore Jens Thoft, scrivendo come i mezzi di lotta nonviolenta di cui egli e' fautore "non siano scelti in base a criteri morali" ma soltanto in base a criteri tattici e strategici, sottolinea come "il terrore psichico" rientri nella modalita' di lotta nonviolenta, anzi ne sia "un elemento estremamente essenziale". Ma, egli aggiunge subito dopo, "cio' non esclude, naturalmente, che la modalita' di lotta nonviolenta abbia tutta una serie di vantaggi morali ed etici (sic!) di cui i metodi di distruzione militare sono del tutto privi". Cfr. J. Thoft, "Ikkevoldskamp - strategi i klassekampen" (La nonviolenza come strategia nella lotta di classe) in Ikkevold. Strategi i klassekampen (Nonviolenza nella lotta di classe), a cura di J. Thoft, GMT, Danmark, 1974, pp 10-11.
6. Altra cosa e' che il concetto di sofferenza psicologica e' piu' difficile da precisare che non quello di sofferenza fisica. Non ogni forma di imbarazzo, disagio, insoddisfazione viene comunemente assunta sotto il concetto di sofferenza psicologica. Ma, del resto, nemmeno di una persona che si e' punta il dito con un ago diremmo comunemente che si trova in uno stato di sofferenza fisica. Parrebbe che il termine "sofferenza" sia comunemente applicato a stati di coscienza indesiderati dal soggetto che li esperisce ma la cui intensita' superi una certa soglia, soglia che ovviamente non e possibile stabilire in modo del tutto univoco, onde la vaghezza connaturata al termine "sofferenza" e, attraverso esso, anche ai termini "violenza" e "nonviolenza". Affermare che tali termini sono vaghi significa affermare che vi sono tipi di comportamento che non si puo' dire se siano violenti o nonviolenti. Cio' non toglie, tuttavia, che nella maggior parte dei casi la distinzione sia ben chiara e netta.
(Parte prima - Continua)
2. SEGNALAZIONI LIBRARIE
Riletture
- Rachel Bespaloff, Sull'Iliade, Adelphi, Milano 2018, pp. 124.
- Martha C. Nussbaum, La fragilita' del bene, Il Mulino, Bologna 1996, 2004, 2011, pp. VI + 832.
3. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli.
4. PER SAPERNE DI PIU'
Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it
Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/
TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 3932 del 23 novembre 2020
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXI)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com , sito: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/
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