[Nonviolenza] Voci e volti della nonviolenza. 861
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- Date: Fri, 6 Apr 2018 19:39:41 +0200
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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" (anno XIX)
Numero 861 del 6 aprile 2018
In questo numero:
1. Norberto Bobbio: Pace. Concetti, problemi e ideali (1989) (parte prima)
2. Dal punto di vista delle vittime
3. Tutte le uccisioni
4. La prima politica e' il disarmo
1. MATERIALI. NORBERTO BOBBIO: PACE. CONCETTI, PROBLEMI E IDEALI (1989) (PARTE PRIMA)
[Dal sito www.treccani.it riprendiamo la seguente voce estratta dalla Enciclopedia del Novecento I Supplemento (1989)]
Sommario: 1. Il problema della definizione. 2. Pace negativa e positiva. 3. La pace come valore. 4. L'ideale della pace perpetua. 5. Pacifismo istituzionale e pacifismo etico. 6. L'equilibrio del terrore. 7. Il Terzo per la pace. Bibliografia.
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1. Il problema della definizione
Il concetto di pace e' cosi' strettamente connesso a quello di guerra che i due termini 'pace' e 'guerra' costituiscono un tipico esempio di antitesi, come gli analoghi 'ordine-disordine', 'concordia-discordia', 'armonia-disarmonia'. Due termini antitetici possono essere fra di loro in rapporto di contraddittorieta', per cui l'uno esclude l'altro e tutti e due escludono un terzo, oppure di contrarieta', per cui l'uno esclude l'altro ma entrambi non escludono un terzo intermedio. Mentre i termini delle tre coppie analoghe sono contraddittori, e ne e' una prova la stessa forma linguistica, non autonoma, del secondo termine, i due termini dell'antitesi pace-guerra possono essere, secondo i diversi contesti, ora contraddittori, qualora per pace s'intenda lo stato di non guerra e per guerra lo stato di non pace, oppure contrari, qualora lo stato di pace e lo stato di guerra siano considerati come due stati estremi, tra i quali siano possibili e configurabili stati intermedi, come dalla parte della pace lo stato di tregua, che non e' piu' guerra e non e' ancora pace, e dalla parte della guerra lo stato di guerra non guerreggiata, di cui e' tipico esempio la cosiddetta guerra fredda, che non e' piu' pace ma non e' ancora guerra. Nel linguaggio tradizionale, peraltro, sia colto sia corrente, prevale l'uso della coppia ove i due termini sono l'uno rispetto all'altro contraddittori: dove c'e' guerra non c'e' pace e viceversa. Cosi' si spiegano titoli di opere celebri, come De iure belli ac pacis di Ugo Grozio (1625), Guerra e pace di Tolstoj (1869), Paix et guerre entre les nations di Raymond Aron (1962).
Di ognuna di queste coppie, e quindi anche della coppia guerra e pace, bisogna distinguere l'uso classificatorio, secondo cui i due termini vengono usati nel loro significato descrittivo, dall'uso assiologico o prescrittivo, secondo cui i due termini vengono presi in considerazione nel loro significato emotivo e valutativo. L'uso descrittivo e' quello caratteristico in generale del linguaggio giuridico, storico, delle relazioni internazionali; l'uso assiologico e' quello caratteristico della teologia o della filosofia morale, del moralista, dello scrittore politico. Il giurista, lo storico, lo studioso di relazioni internazionali usano i termini 'guerra' e 'pace' per descrivere un certo stato di cose; il teologo, il filosofo morale, il moralista, lo scrittore politico, per approvare o condannare, per promuovere o per scoraggiare, a seconda del sistema di valori cui si ispirano, questo o quello stato di cose significato dai due termini.
Nel loro uso descrittivo i due termini di un'antitesi possono essere definiti l'uno indipendentemente dall'altro, oppure, piu' frequentemente, l'uno per mezzo dell'altro, circolarmente, come quando si definisce il moto come assenza di quiete e la quiete come assenza di moto. In questo caso i due termini acquistano il loro significato non dall'essere singolarmente definiti, ma dal solo fatto di presentarsi in coppia. Si da' anche il caso in cui uno dei due termini viene sempre definito per mezzo dell'altro. In questo caso si dice che, dei due termini, quello che viene definito e' il termine forte, l'altro, quello che viene definito unicamente come la negazione del primo, e' il termine debole. Nella coppia guerra-pace il termine forte e' il primo, il termine debole il secondo, sia nel linguaggio colto sia nel linguaggio corrente. Il che ha per conseguenza che la nozione di pace presuppone quella di guerra, o, piu' in generale, ogni discorso sulla pace presuppone il discorso sulla guerra. Si puo' anche dire con altra espressione che nella coppia guerra-pace il primo e' il termine indipendente, il secondo e' quello dipendente. Prova ne sia che nella millenaria letteratura sul tema della guerra e della pace si possono trovare infinite definizioni di guerra, mentre si trova di solito una sola definizione di pace, come fine o cessazione o conclusione o assenza o negazione della guerra, quale che ne sia la definizione.
Se dei due termini di una coppia uno e' sempre il termine forte o indipendente, l'altro e' sempre il termine debole o dipendente, cio' dipende dal fatto che i due stati di cose designati dai due termini non sono esistenzialmente rilevanti allo stesso modo. Il termine forte e' quello che denota lo stato di cose esistenzialmente piu' rilevante. Si pensi ad esempio alla coppia dolore-piacere: l'uomo comincia a riflettere sul piacere partendo dallo stato di dolore, e questo fa si' che il piacere venga abitualmente percepito e quindi definito come assenza di dolore e non, al contrario, il dolore come assenza di piacere. (Nel linguaggio comune il termine 'sofferenza' non e' in coppia con un termine che indichi lo stato contrario, il quale viene definito come non sofferenza, che e' altra cosa dal godimento, stato effimero di breve durata, inconfrontabile con gli stati di dolore o di sofferenza, che possono essere di lunga durata, come del resto lo stato di non sofferenza). Cosi' l'uomo ha cominciato a riflettere sulla pace partendo dallo stato di guerra, da quello stato in cui viene messa a repentaglio la sua vita, minacciato il possesso dei beni, rese precarie le condizioni di esistenza proprie e dei propri vicini. Ha cominciato ad aspirare ai benefici della pace partendo dagli orrori della guerra.
Che la storiografia, a cominciare da Tucidide, sia stata sinora prevalentemente un racconto di guerre, non e' un capriccio degli storici. Una storia senza racconti di guerre, come quella che gli educatori alla pace vorrebbero fosse insegnata nelle scuole, non sarebbe la storia dell'umanita'. Per quanto la guerra in tutte le sue forme susciti generalmente orrore, non possiamo cancellarla dalla storia perche' il mutamento storico, il passaggio da una fase all'altra dello sviluppo storico, sono in gran parte il prodotto delle guerre, delle varie forme di guerra, le guerre esterne tra gruppi relativamente indipendenti e le guerre interne fra parti in conflitto di uno stesso gruppo per la conquista del potere. Piaccia o non piaccia, ne siamo o no consapevoli, la nostra civilta', o cio' che noi consideriamo la nostra civilta', non sarebbe quello che e' senza tutte le guerre che hanno contribuito a formarla. Gli umanisti si gloriavano di essere eredi della civilta' di Roma, che pure era stata fondata su una serie interminabile di guerre atroci. I nostri padri liberali si reputavano eredi della Riforma, che aveva scatenato guerre sanguinosissime durate piu' di un secolo, e della Rivoluzione francese, che pur aveva instaurato un regime di terrore e aveva provocato le guerre napoleoniche. Oggi di fronte alla sollevazione dei paesi del Terzo Mondo ci battiamo il petto in segno di contrizione: eppure, possiamo immaginare una storia diversa da quella che ha avuto corso, una storia in cui i grandi imperi dell'America Centrale, o i vecchi Stati dell'Asia, o gli ancora piu' vecchi gruppi tribali dell'Africa, non fossero stati assoggettati col ferro e col fuoco dai popoli europei? Con un esempio che ci tocca da vicino: la nostra Costituzione repubblicana che ci regge da quarant'anni e che contiene addirittura in uno dei suoi articoli (l'art. 11) l'affermazione che la guerra e' ripudiata "come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali", non e' venuta dopo uno dei periodi piu' tragici della storia europea, caratterizzata dalla guerra piu' estesa e piu' sanguinosa di tutta la storia umana? Confrontiamo gli effetti della guerra con gli effetti dei periodi piu' o meno lunghi di pace, e non potremo piu' avere dubbi sulla ragione per cui, dei due termini della coppia guerra-pace, il termine forte e' il primo; esso e', appunto, il termine che indica, come dolore rispetto a piacere, sofferenza rispetto a non sofferenza, lo stato di cose esistenzialmente piu' rilevante in quanto suscita emozioni piu' profonde.
Analogo argomento si puo' trarre dalla storia della filosofia. E' stato osservato più volte che e' sempre esistita una filosofia della guerra, mentre e' ben piu' recente la filosofia della pace, di cui il primo grande esempio e' Kant. Gran parte della filosofia politica e' stata una continua riflessione sul problema della guerra (e della rivoluzione, come guerra civile): quali ne siano le cause, quali i rimedi, quali le conseguenze sull'evoluzione o sull'involuzione delle societa' umane. Il tema della pace o, che e' lo stesso, dell'ordine (interno) e' sempre stato trattato di riflesso rispetto al tema della guerra o del disordine: la pace come lo sbocco, uno dei possibili sbocchi, della guerra (l'ordine, come sbocco della rivoluzione). La grande filosofia della storia dell'età moderna, che trapassa dall'illuminismo al positivismo, dallo storicismo al marxismo, e giunge sino al nostro secolo con Spengler e Toynbee, sino ai nostri giorni con una delle ultime opere di Jaspers (Vom Ursprung und Ziel der Geschichte, 1949), nasce dalla domanda 'quale sia il significato della guerra nel movimento storico generale', giacche' e' il fenomeno della guerra, di una guerra sempre piu' distruttiva e sempre meno comprensibile nei suoi fini e nei suoi effetti (la guerra capriccio dei principi, dalla Querela pacis di Erasmo alla voce Guerre del Dictionnaire philosophique di Voltaire), che richiede una qualche spiegazione e una giustificazione: la guerra, non la pace. E' principio ben noto e non controverso della teoria dell'argomentazione quello secondo cui il comportamento che ha bisogno di essere giustificato e' quello che contrasta con le regole della morale corrente, il comportamento deviante, non quello regolare (conforme a regola): non ha bisogno di essere giustificato il rispetto del principio di non uccidere, ma si' la trasgressione di questo principio, per esempio nel caso di legittima difesa o di stato di necessita'; non ha bisogno di essere giustificato il principe che mantiene fede ai patti stabiliti, ma si' colui che non li mantiene, in soccorso del quale Machiavelli ebbe a sostenere che solo hanno fatto "gran cose" i principi che della fede hanno tenuto poco conto. Di fronte alla guerra sempre piu' percepita come evento tragico eppure immanente alla storia umana, ecco nascere i vari tentativi di dare una risposta alla domanda: perche' la guerra e non la pace ? Dalle diverse risposte a questa domanda e' costituita in gran parte la filosofia della storia, che puo' essere considerata, nelle sue varie versioni e nelle varie soluzioni che da' al problema, come la trasposizione alla sfera delle vicende umane dei grandi interrogativi sulle ragioni o non ragioni del male nel mondo: la guerra come male minore, la guerra come male necessario, la guerra come male apparente, per non parlare, in una concezione teologica e fideistica persistente, pur durante la grande stagione della filosofia razionalistica, della guerra come castigo divino. A queste concezioni globali che tendono a dare una giustificazione della guerra in quanto tale si affiancano i tentativi, in cui si sono esercitati per secoli teologi e giuristi, di distinguere le guerre giuste da quelle ingiuste.
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2. Pace negativa e positiva
Partendo dalla constatazione che dei due termini della coppia il termine forte e' guerra e quello debole pace, lo stato di pace puo' essere definito solo definendo preliminarmente lo stato di guerra. Si puo' dire che esiste uno stato di guerra quando due o piu' gruppi politici si trovano fra loro in un rapporto di conflitto la cui soluzione viene affidata all'uso della forza. Uso nel senso weberiano l'espressione 'gruppo politico', che e' piu' ampia di 'Stato', per comprendervi anche quei gruppi indipendenti, comunque dotati di forza propria, che non possono essere fatti rientrare nella nozione tecnico-giuridica di Stato, con la quale si tende a comprendere l'ente territoriale nato dalla dissoluzione della societa' medioevale, caratterizzato non solo dal monopolio della forza, ma anche da un apparato amministrativo stabile. Si ha una situazione di conflitto ogniqualvolta i bisogni o gl'interessi di un individuo o di un gruppo sono incompatibili con quelli di un altro individuo o di un altro gruppo, e quindi non possono essere soddisfatti se non a danno o dell'uno o dell'altro. Il caso piu' tipico e' quello della concorrenza di piu' individui o gruppi per il possesso di un bene scarso, che si trovi nel territorio dell'altro. Questo motivo di conflitto e' tanto diffuso che e' stato ampiamente analizzato anche dagli studiosi del comportamento animale, i quali hanno osservato che ogni animale ha un proprio territorio, piu' o meno vasto, e lo difende dagli attacchi degli altri animali: un fenomeno cui e' stato dato il nome di 'territorialismo'. Il territorialismo e' a sua volta una forma particolare della difesa del proprio ambito spaziale cui ogni individuo e' interessato, il posto in treno, a teatro, in una coda, e che e' disposto a difendere in casi estremi anche con la forza (la difesa del posto e' una delle possibili occasioni di rissa). Un altro motivo di conflitto, che puo' degenerare in rissa o in guerra, secondo la gravita' del caso e la quantita' degli individui coinvolti, e' la difesa del rango, della preminenza, della gerarchia che permette a chi occupa i gradi piu' alti di godere di certi privilegi. Naturalmente non tutti i conflitti sono destinati ad essere risolti con il ricorso alla forza. La guerra, in quanto risoluzione di un conflitto fra gruppi politici attraverso l'uso della forza, e' uno dei modi di risoluzione di un conflitto, cui si ricorre generalmente quando i modi pacifici non hanno avuto effetto.
La distinzione fra situazioni in cui i conflitti vengono risolti abitualmente con accordi e situazioni in cui i conflitti vengono risolti anche con l'uso della forza corrisponde alla distinzione fra stato agonistico, retto da regole sostanziali e procedurali che prevedono varie forme di conflitto e i modi della loro pacifica risoluzione (si pensi alle norme consuetudinarie o autoritativamente poste che regolano i contratti nel diritto civile oppure alle norme della Costituzione che regolano i conflitti di competenza fra diversi organi dello Stato), e stato polemico che, pur prevedendo regole per la soluzione delle controversie, non esclude il ricorso all'uso della forza, se pure esso stesso in alcuni casi disciplinato da regole. Ma altro, come ognuno vede, e' la regolamentazione del conflitto in modo da non permettere l'uso della forza da parte dei due enti in conflitto, altro e' la regolamentazione degli atti di forza che vengono usati per risolverlo; non si puo' confondere l'esclusione della forza, considerata come illecita, dalla limitazione del suo uso, una volta riconosciutane la liceita'. Questi due stati sono esemplarmente rappresentati dal modo con cui vengono risolti i conflitti all'interno di un gruppo politico, ove esiste un apparato per l'esercizio del monopolio della forza, e nei rapporti esterni fra gruppi, dei quali nessuno possiede rispetto a tutti gli altri tale monopolio. Con questo non si vuol dire che nei rapporti internazionali non vi siano anche regole per la risoluzione pacifica delle controversie (si tratta del cosiddetto diritto internazionale pattizio), ma tali regole sono meno efficaci delle norme relative ai contratti nel diritto civile, proprio perche' non esiste un potere coercitivo superiore ai contraenti tale da ottenere con la costrizione il rispetto dell'accordo, e la loro minore efficacia e' la ragione principale del ricorso in ultima istanza all'uso unilaterale della forza (riconosciuto come esercizio del diritto di autotutela).
Quando in simili contesti si parla di forza, s'intende l'uso di mezzi capaci d'infliggere sofferenze fisiche, e pertanto non vi rientra ne' la violenza psicologica, ovvero l'uso di mezzi di manipolazione della volonta' altrui allo scopo di ottenere gli effetti desiderati, ne' la violenza istituzionale o strutturale, ovvero la violenza che deriva dal rapporto di dominio all'interno di certe istituzioni, come la fabbrica, la scuola, l'esercito, per non parlare delle cosiddette istituzioni totali, come il manicomio, le carceri, le organizzazioni di gruppi fanatici religiosi o politici, regolati da una disciplina ferrea tutta tesa a escludere qualsiasi comportamento non diretto allo scopo. Non vi e' solo la violenza fisica, ma solo la violenza fisica e' quella che contraddistingue la guerra da altre forme di esercizio del potere dell'uomo sull'uomo, anche se sono d'uso corrente espressioni come guerra dei nervi, guerra psicologica e simili, ma sono espressioni metaforiche. Perche' poi la violenza fisica quando e' usata in questi contesti venga chiamata forza, non e' solo un artificio verbale dovuto al fatto che il termine 'violenza' ha una connotazione assiologicamente negativa che forza non ha. Si chiama forza la violenza, anche fisica, che viene usata da chi e' autorizzato a usarla da un sistema normativo che distingue in base a regole efficaci uso lecito e uso illecito dei mezzi che infliggono sofferenze e anche in casi estremi la morte: la morte quando e' procurata dall'assassino e' un atto di violenza, quando e' procurata dal boia e' un atto di forza. Non diversamente accade per quel che riguarda la guerra nei rapporti internazionali, ove esistono regole che la rendono lecita in determinate circostanze e ne disciplinano la condotta dopo che e' iniziata. Se mai si deve osservare che nei rapporti interni i limiti tra forza e violenza sono molto meglio definiti che nei rapporti internazionali, proprio per il fatto che sono piu' chiaramente definiti i criteri di distinzione fra violenza lecita e violenza illecita.
Per caratterizzare la guerra come modo di risolvere conflitti non basta fare riferimento all'uso della forza intesa come violenza lecita e autorizzata (lecita perche' autorizzata). La guerra e' sempre in primo luogo una forza esercitata collettivamente: come tale viene tradizionalmente distinta dal duello, che mette di fronte due individui singoli, cui peraltro viene assimilata perche' come il duello anche la guerra e' un esercizio della forza disciplinato da regole e ha lo scopo di risolvere una controversia attraverso la ragione delle armi (non con le armi della ragione). In secondo luogo, perche' si possa parlare di guerra occorre che non si tratti di violenza, pur tra gruppi politici indipendenti, sporadica, discontinua, senza rilevanti conseguenze sull'assetto territoriale dei due combattenti: un incidente di frontiera non e' una guerra; può essere l'occasione o il pretesto per una guerra, ma se non da' origine a uno scontro di piu' vasta portata, nonostante morti e feriti vittime di violenza, non puo' essere considerato una guerra, mentre un conflitto breve, come la guerra cosiddetta dei sette giorni fra Israele ed Egitto, e' una vera e propria guerra nel piu' pieno senso della parola. Infine la violenza collettiva e non accidentale della guerra presuppone sempre in qualche modo un'organizzazione, un apparato predisposto e addestrato allo scopo: la presenza di tale apparato, anche se rudimentale, e' cio' che distingue la guerriglia (la quale e' una specie di guerra) dalla sommossa, pur condotta con armi.
Una volta definito lo stato di guerra, ne deriva la definizione dello stato di pace, in quanto stato di non guerra. Due gruppi politici si trovano in stato di pace quando tra loro non esista un conflitto alla cui soluzione entrambi provvedano facendo ricorso all'esercizio di una violenza collettiva, durevole e organizzata. Ne discende che due gruppi politici possono essere in permanente conflitto fra loro senza essere in guerra, lo stato di pace non escludendo il conflitto, ad esempio la concorrenza commerciale, ma solo quel conflitto la cui soluzione viene affidata all'impiego della forza attuale. Non basta la forza potenziale, ovvero la minaccia della forza, perche' questa e' una caratteristica permanente dei rapporti internazionali ed e' considerata se mai condizione di pace, come vuole la massima "Si vis pacem para bellum". Ne' sono sufficienti atti di forza reale ma sporadica, sia di tipo difensivo, come l'abbattimento di un aereo che ha presuntivamente violato i confini dello spazio aereo, o l'affondamento di un sottomarino che ha travalicato i limiti delle acque territoriali, sia di tipo offensivo, come un atto terroristico o anche una serie di atti terroristici.
Accanto a questo significato generale di 'pace', che sta a indicare uno stato nei rapporti internazionali antitetico allo stato di guerra e definito di solito negativamente, il termine 'pace' ha anche un significato specifico, e in questo caso positivo, quando venga usato per indicare la fine o la conclusione di una determinata guerra, come nelle espressioni 'pace di Nicia', 'pace di Augusta', 'pace di Basilea'. In questa particolare accezione, 'pace' viene definita positivamente come l'insieme di accordi coi quali due gruppi politici, cessate le ostilita', delimitano le conseguenze della guerra e regolano i loro rapporti futuri. Diverso e, a mio parere, discutibile e' invece il significato che al termine positivo 'pace' viene dato in alcuni ambienti della peace research, con particolare riguardo agli studi, sotto molti aspetti di grande rilievo, che J. Galtung ha condotto negli ultimi vent'anni soprattutto attraverso la rivista "Journal of peace research". Galtung parte, anche lui, dall'osservazione che le scienze sociali hanno dedicato maggiore attenzione alla guerra che alla pace, come e' accaduto alla psicologia che ha studiato piu' le malattie mentali che non la creativita' della mente umana, e in base a questa osservazione condanna la tendenza a definire la pace come non guerra, non riconoscendo in tal modo le buone ragioni, su cui mi sono soffermato precedentemente, di questo modo tradizionale e a mio parere perfettamente comprensibile e giustificato di porre il problema della pace. Insoddisfatto della definizione puramente negativa di pace, sovrappone a essa una definizione positiva, che deriva dall'intendere estensivamente 'pace' come negazione non tanto di guerra quanto di violenza. Distinguendo quindi due forme di violenza, la violenza personale, in cui rientra quella forma specifica di violenza che e' la guerra, dalla violenza strutturale o istituzionale, distingue due forme di pace, quella negativa che consiste nell'assenza di violenza personale, e quella positiva, che consiste nell'assenza di violenza strutturale. In quanto assenza di violenza strutturale, che e' la violenza che le istituzioni di dominio esercitano sui soggetti al dominio, e nel concetto della quale rientrano l'ingiustizia sociale, l'ineguaglianza fra ricchi e poveri, fra potenti e non potenti, lo sfruttamento capitalistico, l'imperialismo, il dispotismo ecc., la pace positiva e' quella che si puo' instaurare soltanto attraverso un radicale cambiamento sociale e che, per lo meno, deve procedere di pari passo con il promovimento della giustizia sociale, con lo sviluppo politico ed economico dei paesi sottosviluppati, con l'eliminazione delle diseguaglianze.
Non ho nessuna difficolta' a rendermi conto dei limiti di una ricerca della pace intesa unicamente come non guerra, Ma ritengo che l'unico modo di superare questi limiti sia di rendersene consapevoli, cioe' di rendersi conto che il problema della pace e' uno dei grandi problemi che gli uomini sono chiamati di volta in volta a risolvere, non e' il problema unico, il problema dei problemi, la cui soluzione liberi una volta per sempre l'umanita' dai mali che l'affliggono e possa renderla definitivamente felice. Il problema dei problemi non esiste. Il che non toglie che il problema della pace, pur nel senso negativo del termine, come problema della limitazione e addirittura dell'eliminazione della guerra, sia uno dei maggiori problemi cui gli uomini hanno cercato di dare, se pure sinora invano, una soluzione. Che cosa sono i movimenti pacifisti, che dall'inizio del secolo scorso hanno sino a oggi svolto, se pure ispirati a diverse ideologie, opere di elaborazione d'idee, di propaganda e di agitazione, se non movimenti il cui scopo fondamentale e' quello della guerra alla guerra? Nessun movimento pacifista ha mai voluto essere confuso con il partito liberale o democratico o socialista, anche se vi e' stato un pacifismo liberale, un pacifismo democratico, un pacifismo socialista. Che il pacifista ritenga di dare la preminenza al problema della pace, non vuol dire affatto che il problema della pace sia il problema che assomma in se' tutti gli altri problemi. Si puo' ben capire l'insoddisfazione che deriva dai limiti delle ricerche sulla pace, limiti che probabilmente il pacifista attivo, tutto preso dal suo ideale, non coglie. Ma non si capisce altrettanto bene perche' il modo migliore per superare lo stato d'insoddisfazione sia quello di allargare il significato del termine 'pace' e di riempirlo di significati che storicamente e lessicalmente non gli spettano. Dalle polemiche di questi pacifisti radicali contro i pacifisti tradizionalisti si ha l'impressione che essi si siano accorti che il valore della pace non e' il valore ultimo (ma esiste il valore ultimo? o non esistono solo valori primari tra loro alternativi e incompatibili?) e che una volta eliminata la guerra, posto che sia possibile e desiderabile, l'umanita' non sara' entrata nel paradiso terrestre, ma si trovera' di fronte ad altri problemi non meno gravi e difficili, quali la giustizia sociale, la sovrappopolazione, la fame, la liberta'.
Fatta questa scoperta, invece di riconoscere che accanto al problema della pace vi sono altri problemi che debbono essere risolti, in primo luogo il problema dello sviluppo, costoro preferiscono sostenere, e far credere, che occupandosi dei problemi dello sviluppo continuano a occuparsi dei problemi della pace, purche' per 'pace' s'intenda non piu' soltanto lo stato di non guerra, come si e' inteso da sempre e come l'intendono coloro che continuano a farsi chiamare 'pacifisti', ma ogni forma di lotta contro la violenza in tutti i suoi aspetti, cio' che chiamano, non si sa bene perche', pace positiva. Ma cosi' essi cercano di coprire un mutamento di rotta nelle ricerche sulla pace con un'indebita e impropria estensione del concetto di pace, facendo cioe' della pace non l'antitesi della guerra ma della violenza, di ogni forma di violenza, mentre il concetto di guerra ha un'estensione piu' limitata e ha note caratteristiche che ne fanno una forma, se pure estrema, di esercizio della violenza. Con cio' non si vuol negare che il problema della pace e quello dello sviluppo siano attualmente connessi tanto da essere interdipendenti il problema dei rapporti Est-Ovest riguarda il modo di stabilire fra le grandi potenze una pace durevole; il problema dei rapporti Nord-Sud riguarda soprattutto il modo di diminuire il divario fra paesi sviluppati e paesi sottosviluppati. A chiunque applichi la propria intelligenza non offuscata da pregiudizi ideologici ai grandi problemi del nostro tempo appare chiaro che la prima condizione per la soluzione del problema Nord-Sud e' la fine della corsa agli armamenti e la fine di una fragile pace fondata esclusivamente sull'equilibrio del terrore. Ma cio' non toglie che i problemi della pace internazionale e della giustizia internazionale siano due problemi diversi e che la loro diversita' non venga cancellata facendo rientrare i problemi dello sviluppo in quelli della cosiddetta pace in senso positivo.
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3. La pace come valore
Nel suo uso assiologico la coppia guerra-pace congiunge due termini carichi di significati emotivi, in modo tale che la connotazione positiva dell'uno rinvia alla connotazione negativa dell'altro. Vi sono coppie di termini antitetici, come piacere-dolore, ordine-disordine, in cui uno dei due termini ha sempre un significato emotivo positivo, l'altro sempre un significato emotivo negativo. Chi sostenesse che il dolore e' bene e il piacere e' male, o che il disordine e' piu' desiderabile dell'ordine sarebbe considerato per lo meno un eccentrico, un paradossale, per non dire uno stravagante che non merita molta attenzione. Come stanno le cose per quel che riguarda la coppia pace-guerra? A prima vista si direbbe che stanno nello stesso modo, ossia che il primo termine rappresenta sempre il momento positivo, il secondo sempre il momento negativo. In realta' non e' cosi'. Nella storia del pensiero filosofico, accanto agli autori che vengono chiamati irenisti o fautori di pace ve ne sono altri che possiamo chiamare polemisti in quanto fautori di guerra (non cambia nulla se non l'etimologia, se li chiamiamo rispettivamente pacifisti e bellicisti).
Il giudizio politico, ossia il giudizio sulle azioni che rientrano nella sfera della politica, e' generalmente fondato sul principio secondo cui il fine giustifica i mezzi. Cio' significa che azioni politiche come la guerra e la pace vengono giudicate di solito non come valori finali o intrinseci, ma come valori strumentali o estrinseci. E' in base a tale giudizio che non sempre la guerra viene condannata, non sempre la pace viene esaltata: condanna o esaltazione dipendono dal giudizio di valore positivo o negativo del fine, cui la guerra e la pace servono secondo le circostanze. Riflettendo sull'immensa letteratura pro o contro la guerra, si possono distinguere tre situazioni tipiche in cui un fine al quale si attribuisce un valore positivo consente di dare un giudizio positivo della guerra come mezzo, e per il rapporto di antitesi fra guerra e pace un giudizio negativo, nello stesso tempo, sulla pace. Indico queste situazioni sotto forma di rapporto fra due termini, in cui la guerra figura come mezzo e l'altro termine del rapporto e' il fine: a) guerra e diritto; b) guerra e sicurezza; c) guerra e progresso.
Il rapporto fra guerra e diritto e' molto complesso. Vi e' almeno un'accezione di diritto per cui la guerra appare come l'antitesi del diritto. Si tratta dell'accezione per cui il diritto, come insieme di regole poste da un'autorita' dotata degli strumenti idonei a farle valere anche contro i recalcitranti, ha per scopo principale (se pure non esclusivo) la soluzione dei conflitti che sorgono all'interno di un gruppo sociale e di quelli che sorgono nei rapporti fra diversi gruppi sociali e pertanto di stabilire e mantenere la pace interna e quella esterna. Certo la pace e' il fine minimo del diritto, ma appunto perche' minimo puo' essere considerato (vedi la teoria pura del diritto di Kelsen) come il fine comune di ogni ordinamento giuridico, non raggiungendo il quale un insieme di regole di condotta non potrebbe essere chiamato appropriatamente un ordinamento giuridico. Nell'ambito di un ordinamento giuridico possono essere perseguiti altri fini, pace con liberta', pace con giustizia, pace con benessere, ma la pace e' la condizione necessaria per il raggiungimento di tutti gli altri fini, e dunque la ragione stessa dell'esistenza del diritto.
Data la definizione di guerra come violenza organizzata di gruppo che si prolunga per un certo periodo di tempo, che la guerra sia l'antitesi del diritto ne e' una conseguenza: il diritto infatti puo' essere definito come l'ordinamento pacifico di un gruppo e dei rapporti di questo gruppo con tutti gli altri gruppi. Proprio per il rapporto di opposizione fra guerra e pace, qui ripetutamente messo in rilievo, la' dove il concetto di diritto e' strettamente congiunto con quello di pace, e' nello stesso tempo disgiunto da quello di guerra.
Vi sono peraltro due situazioni in cui guerra e diritto non si presentano come termini antitetici. Lo scopo principale del diritto, si e' detto, e' di stabilire la pace, ma per stabilire la pace occorre in certe circostanze usare la forza per ridurre a ragione coloro che non rispettano le regole: nei rapporti internazionali questa forza e' la guerra. Come tale, cioe' come strumento per il ristabilimento del diritto violato, la guerra assume un valore positivo: assume lo stesso valore positivo della sanzione nel diritto interno, vale a dire dell'atto con cui il titolare del potere sovrano, in quanto detentore del monopolio della forza legittima, ripara un torto o punisce un colpevole, ristabilendo l'impero del diritto. La definizione della guerra, in determinate circostanze, come sanzione e' stata uno degli elementi costanti della teoria della guerra giusta, secondo cui la guerra puo' essere sottoposta a due giudizi di valore opposti: negativo, se essa viene condotta in spregio del diritto delle genti, positivo, se essa viene condotta per ristabilire il diritto delle genti violato da uno dei membri della comunita' internazionale. Per quanto vari siano stati i criteri in base ai quali sono state distinte le guerre giuste dalle ingiuste, la communis opinio si e' venuta orientando e consolidando nel riconoscimento della legittimazione di questi tre tipi di guerre, che la riconducono al concetto di sanzione: a) la guerra di difesa; b) la guerra di riparazione di un torto; c) la guerra punitiva. La seconda situazione in cui guerra e diritto non sono antitetici e' esattamente opposta a quella teste' presentata: si tratta della guerra intesa non come mezzo per restaurare il diritto stabilito, ma come strumento per instaurare un diritto nuovo, ovvero la guerra come rivoluzione, intendendosi per rivoluzione, nel senso tecnico-giuridico del termine, un insieme di atti coordinati allo scopo di abbattere il vecchio ordinamento giuridico e d'imporne uno nuovo. Chiamo questo modo d'intendere positivamente la guerra "guerra come rivoluzione', perche' la guerra cosi' intesa sta ai rapporti internazionali come la rivoluzione sta ai rapporti interni: allo stesso modo che la rivoluzione puo' essere presentata sotto l'aspetto della guerra civile, la guerra eversiva dell'ordine internazionale puo' essere presentata sotto l'aspetto della rivoluzione nei rapporti fra Stati. La differenza fra guerra restauratrice e guerra instauratrice sta nel diverso diritto cui l'una e l'altra rispettivamente fanno appello: la prima al diritto positivo (consuetudinario e convenzionale), la seconda al diritto naturale. Guerre rivoluzionarie sono le guerre di liberazione nazionale: quando scoppiarono, nel secolo scorso, in Europa, i loro fautori si richiamarono al diritto naturale di autodeterminazione dei popoli cosi' come la Rivoluzione francese si era richiamata al diritto naturale alla liberta' degli individui. Ma questa differenza non toglie che la legittimazione della guerra avvenga attraverso il diritto e che attraverso questa legittimazione la guerra assuma un valore positivo e per contrasto la pace, sia in quanto passiva accettazione di un torto subito, sia in quanto mantenimento forzato di un ordine ingiusto, assuma un valore negativo.
Non si e' forse riflettuto sinora abbastanza sull'importanza che ha il valore della sicurezza per la comprensione dell'azione politica, sia rivolta all'interno del gruppo politico e quindi ai rapporti tra governanti e governati, sia all'esterno e quindi ai rapporti dei gruppi politici fra loro. Il punto di partenza obbligato per una storia del concetto di sicurezza e del suo rilievo nella teoria politica e' Hobbes, com'e' stato ancora recentemente ricordato. Nello stato di natura, per la mancanza di un potere superiore che stabilisca chi ha ragione e chi ha torto e sia in possesso della forza necessaria a far rispettare la decisione presa (cio' che Hobbes chiama la spada della giustizia per distinguerla dalla spada della guerra), il singolo individuo e' insicuro e di conseguenza decide di comune accordo con altri individui, come lui per le stesse ragioni insicuri, di rinunciare ai propri diritti potenzialmente immensi ma fattualmente inesigibili per dar vita a un potere comune che sia in grado di proteggere coloro che gli si sono affidati: l'essenza del contratto politico sta nello scambio fra protezione e obbedienza. La protezione ha due facce: verso l'interno il sovrano deve proteggere ogni suddito nei riguardi di tutti gli altri; verso l'esterno li deve proteggere dagli attacchi che possono venire dagli altri sovrani. Il diritto alla sicurezza compare nelle prime Dichiarazioni dei diritti, quelle americane e quella francese, del 1789, e arriva sino alla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. Si e' esteso bene al di la' della protezione della vita e della liberta' nello Stato sociale contemporaneo, tanto da essere diventato, spesso anche a scapito di altri diritti, l'oggetto primario dell'azione dello Stato contemporaneo. Nel frattempo non e' mai venuto meno, per quanto generalmente non dichiarato nelle carte costituzionali, il dovere dello Stato di garantire la sicurezza dei suoi cittadini nei riguardi degli attentati che possono venire ai loro beni e alle loro liberta' da parte di altri Stati. Lo stesso diritto di sicurezza che il cittadino ha nei riguardi dello Stato, il singolo Stato ha nei riguardi di tutti gli altri Stati. Anzi la sicurezza dello Stato come ente collettivo deve servire in ultima istanza a garantire la sicurezza dei propri cittadini. Allo stesso modo che la garanzia del rispetto del diritto di sicurezza dei cittadini sta nel diritto che lo Stato ha di punire coloro che la minacciano, cosi' la garanzia del diritto di sicurezza dello Stato nei riguardi degli altri Stati sta nel diritto che lo stesso Stato ha di ricorrere in ultima istanza alla forza punitiva della guerra. Guerra e sicurezza (nel suo aspetto esterno) sono dunque strettamente connesse, ed e' proprio questa connessione che conferisce alla guerra, se pure in casi limite, una dignita' assiologica che la pace, in quegli stessi casi, non ha. E' pur vero che uno Stato e' tanto piu' sicuro quanto piu' e' in pace (la guerra e' il regno dell'insecuritas). Ma e' anche vero che la pace tra enti sovrani e' tanto piu' stabile quanto piu' uno Stato, secondo il principio dell'equilibrio, e' in grado di minacciare il ricorso alla guerra per difenderla. La massima fondamentale dell'etica politica, di un'etica per cui vale il principio che il fine giustifica i mezzi, come si e' detto, e' "salus rei publicae suprema lex". La salvezza dello Stato e' la legge suprema per i governanti, ma di riflesso anche per i governati. In quanto legge suprema (suprema significa che legge superiore a essa non v'e', almeno nella condotta politica) essa impegna i governanti e di riflesso i governati a fare tutto cio' che serve allo scopo: i governanti hanno il diritto di chiedere ai cittadini anche il sacrificio della vita, e i cittadini hanno il dovere, il "sacro dovere", cosi' recita la Costituzione di uno Stato laico come la repubblica democratica italiana (art. 52), di difendere la patria.
Alla formulazione di un giudizio positivo sulla guerra e negativo, per contrasto, sulla pace il maggior contributo e' stato dato dalla teoria del progresso, intesa, secondo la formula kantiana, come quella concezione della storia per cui l'umanita' e' in "costante progresso verso il meglio". Dal punto di vista della teoria del progresso nelle sue diverse formulazioni, l'esecrazione della guerra e' l'espressione di un sentimento soggettivo che non ha alcun contenuto razionale. Per l'uomo di ragione la guerra e' un evento che non puo' essere giudicato indipendentemente da un giudizio globale sul corso storico dell'umanita' nel passaggio obbligato, necessario, dalla barbarie alla civilta'. A chi non si limiti a giudicare la guerra dal punto di vista dei propri interessi e delle proprie preoccupazioni personali, ma la inserisca come un evento ordinario nel movimento storico universale, la guerra appare come un fattore di progresso e di converso la pace come un fattore, in certe situazioni, di regresso. In primo luogo, che la guerra sia stata necessaria, e lo sia ancora, al progresso tecnico e' un luogo tanto comune che e' persino stucchevole il ripeterlo. In un'eta' protesa verso l'esaltazione dei successi della scienza H. Spencer scriveva: "Nel corrispondere alle imperiose richieste della guerra, l'industria fece grandi progressi e guadagno' molto in capacita' e destrezza. Davvero e' da porsi in dubbio se in assenza dell'esercizio dell'abilita' manuale destata primamente dalla costruzione delle armi, sarebbero mai stati costruiti gli strumenti richiesti dall'agricoltura e dalle manifatture" (Introduzione alle scienze sociali, Torino 1904, p. 181). Se non ci fosse stata la necessita' di sconfiggere la Germania nazista, gli scienziati americani avrebbero mai scoperto la fissione dell'atomo e una nuova forma di energia che ha inaugurato una nuova epoca nella storia umana? Che la guerra sia un fattore di progresso tecnico dipende dal fatto che l'intelligenza creatrice dell'uomo risponde con maggior vigore e con piu' sorprendenti risultati alle sfide che il contrasto con la natura e con gli altri uomini le pongono di volta in volta, e la guerra e' certamente una delle maggiori sfide che un gruppo sociale debba affrontare per la propria sopravvivenza. In secondo luogo, la guerra e' sempre stata considerata come necessaria al progresso sociale dell'umanita', perche' rende possibile l'unificazione di sempre piu' vasti aggregati umani. Scriveva Cattaneo: la guerra e' perpetua sulla terra. Ma la guerra stessa con la conquista, colla schiavitu', cogli esilii, colle colonie, colle alleanze pone in contatto fra loro le piu' remote nazioni [...]; fonda il diritto delle genti, la societa' del genere umano, il mondo della filosofia" (Scritti filosofici, Firenze 1960, vol. III, pp. 339-340). Quantunque inferiori allo scopo per cui sono sorte, la Societa' delle Nazioni e l'Organizzazione delle Nazioni Unite i primi tentativi di associazione permanente e universale degli Stati non sono state un prodotto diretto delle due guerre mondiali? Infine, sebbene possa apparire al giorno d'oggi incongruo se non addirittura grottesco, quando la potenza sterminatrice delle armi puo' agire a distanza di migliaia di chilometri, quante volte la guerra e' stata esaltata per il contributo che ha dato al progresso morale dell'umanita'! quante volte e' stato ripetuto che la guerra sviluppa energie che in tempo di pace non hanno la possibilita' di manifestarsi e induce gli uomini all'esercizio di virtu' sublimi, quali il coraggio, il sacrificio di se', l'amor di patria, che un lungo periodo di pace mortifica! Per una citazione non c'e' che l'imbarazzo della scelta. Ma quando si tratta di 'rovesciamento di valori' insuperabile e' Nietzsche: "Per ora non conosciamo altri mezzi [oltre le guerre], mediante i quali si possano comunicare a popoli che vanno infiacchendosi quella rude energia del campo di battaglia, quel profondo odio impersonale, quel sangue freddo omicida con buona coscienza, quell'ardore generale nella distruzione organizzata del nemico, quella superba indifferenza verso le grandi perdite, verso l'esistenza propria e quella delle persone care e quel cupo, sotterraneo scotimento dell'anima, in modo altrettanto forte e sicuro, come lo fa ogni grande guerra" (Umano, troppo umano, Milano 1965, p. 265).
(segue)
2. REPETITA IUVANT. DAL PUNTO DI VISTA DELLE VITTIME
Dal punto di vista delle vittime
solo dolore e buio.
Dal punto di vista delle vittime
ogni guerra e' orrore e orrore.
Dal punto di vista delle vittime
ogni esercito e' stragista.
Dal punto di vista delle vittime
ogni arma sempre e solo a uccidere serve.
Dal punto di vista delle vittime
tutti i poteri armati sono criminali.
Solo dal punto di vista delle vittime
l'umanita' si riconosce umana.
Salvare le vite e' il primo dovere
pace disarmo smilitarizzazione
solo la nonviolenza puo' salvarci tutti.
3. REPETITA IUVANT. TUTTE LE UCCISIONI
Uccidono noi tutte le guerre
uccidono noi tutte le stragi
uccidono noi tutte le uccisioni.
La notte poi lava le strade
fa colare il sangue nei tombini
porta tutte le salme alla discarica
perche' possa ricominciare il gioco.
Passa la morte e strappa tutti i cartelloni
passa la morte e spara chiodi e denti
Volano draghi in vesti di nuvole
spade di giada fendono l'aria.
Nessuna strage restituisce la vita
nessuna strage pone fine alle stragi
chi ancora accetta di usare le armi
ha perso il lume della ragione.
Siediti sotto la pianta di fico
guarda le lingue infinite dell'erba
conta le fredde stelle del cielo
ricordati di Auschwitz e di Hiroshima.
Piangi le lacrime spezza il fucile
sappi la lingua del coro dei morti
salvare le vite e' il primo dovere
salvare le vite la sola speranza.
Uccidono noi tutte le guerre
uccidono noi tutte le stragi
uccidono noi tutte le uccisioni.
4. REPETITA IUVANT. LA PRIMA POLITICA E' IL DISARMO
La prima politica e' il disarmo
sostituire all'arte dell'uccidere
quella severa di salvare le vite
Senza disarmo il mondo tutto muore
senza disarmo le nuvole si ghiacciano
le lacrime diventano veleno
si crepano i marmi ne escono draghi
Senza disarmo ogni parola mente
senza disarmo ogni albero si secca
l'aria non porta piu' i suoni
la polvere colma i polmoni
Senza disarmo piovono scorpioni
senza disarmo in ogni piatto e' vomito
dal rubinetto esce sale e vetro
le scarpe stritolano le ossa dei piedi
Solo il disarmo frena le valanghe
solo il disarmo risana le ferite
solo il disarmo salva le vite
Salvare le vite e' il primo dovere
salvare le vite
il primo dovere
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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" (anno XIX)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com
Numero 861 del 6 aprile 2018
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