[Nonviolenza] Voci e volti della nonviolenza. 850



 

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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA

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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" (anno XVII)

Numero 850 del 16 agosto 2016

 

In questo numero:

1. No

2. Chiunque lo sa

3. Due provvedimenti indispensabili per far cessare le stragi nel Mediterraneo e la schiavitu' in Italia

4. Per sostenere il centro antiviolenza "Erinna"

5. Pax Christi: I potenti delle guerre

6. Vittorio Bellavite: Senza un voto del Parlamento...

7. Raniero La Valle: Il domani della fede

8. Enrico Peyretti: Tragedie dei giorni

 

1. VERSO IL REFERENDUM. NO

 

No al golpe contro la democrazia parlamentare.

No al golpe contro la separazione e l'equilibrio dei poteri.

No al golpe contro la Costituzione repubblicana nata dalla Resistenza antifascista.

Al referendum sulla riforma costituzionale votiamo no.

Senza odio, senza violenza, senza paura.

 

2. LE ULTIME COSE. CHIUNQUE LO SA

 

Chiunque lo sa: uccidere e' male.

Ogni vittima ha il volto di Abele.

Pace, disarmo, smilitarizzazione.

Soccorrere, accogliere, assistere ogni persona bisognosa di aiuto.

Salvare le vite e' il primo dovere.

 

3. REPETITA IUVANT. DUE PROVVEDIMENTI INDISPENSABILI PER FAR CESSARE LE STRAGI NEL MEDITERRANEO E LA SCHIAVITU' IN ITALIA

 

Riconoscere a tutti gli esseri umani il diritto di giungere nel nostro paese in modo legale e sicuro.

Riconoscere il diritto di voto a tutte le persone che vivono nel nostro paese.

 

4. REPETITA IUVANT. PER SOSTENERE IL CENTRO ANTIVIOLENZA "ERINNA"

[L'associazione e centro antiviolenza "Erinna" e' un luogo di comunicazione, solidarieta' e iniziativa tra donne per far emergere, conoscere, combattere, prevenire e superare la violenza fisica e psichica e lo stupro, reati specifici contro la persona perche' ledono l'inviolabilita' del corpo femminile (art. 1 dello Statuto). Fa progettazione e realizzazione di percorsi formativi ed informativi delle operatrici e di quanti/e, per ruolo professionale e/o istituzionale, vengono a contatto con il fenomeno della violenza. E' un luogo di elaborazione culturale sul genere femminile, di organizzazione di seminari, gruppi di studio, eventi e di interventi nelle scuole. Offre una struttura di riferimento alle donne in stato di disagio per cause di violenze e/o maltrattamenti in famiglia. Erinna e' un'associazione di donne contro la violenza alle donne. Ha come scopo principale la lotta alla violenza di genere per costruire cultura e spazi di liberta' per le donne. Il centro mette a disposizione: segreteria attiva 24 ore su 24; colloqui; consulenza legale e possibilita' di assistenza legale in gratuito patrocinio; attivita' culturali, formazione e percorsi di autodeterminazione. La violenza contro le donne e' ancora oggi un problema sociale di proporzioni mondiali e le donne che si impegnano perche' in Italia e in ogni Paese la violenza venga sconfitta lo fanno nella convinzione che le donne rappresentano una grande risorsa sociale allorquando vengono rispettati i loro diritti e la loro dignita': solo i Paesi che combattono la violenza contro le donne figurano di diritto tra le societa' piu' avanzate. L'intento e' di fare di ogni donna una persona valorizzata, autorevole, economicamente indipendente, ricca di dignita' e saggezza. Una donna che conosca il valore della differenza di genere e operi in solidarieta' con altre donne. La solidarieta' fra donne e' fondamentale per contrastare la violenza]

 

Per sostenere il centro antiviolenza delle donne di Viterbo "Erinna" i contributi possono essere inviati attraverso bonifico bancario intestato ad Associazione Erinna, Banca Etica, codice IBAN: IT60D0501803200000000287042.

O anche attraverso vaglia postale a "Associazione Erinna - Centro antiviolenza", via del Bottalone 9, 01100 Viterbo.

Per contattare direttamente il Centro antiviolenza "Erinna": tel. 0761342056, e-mail: e.rinna at yahoo.it, onebillionrisingviterbo at gmail.com, sito: http://erinna.it, facebook: associazioneerinna1998

Per destinare al Centro antiviolenza "Erinna" il 5 per mille inserire nell'apposito riquadro del modello per la dichiarazione dei redditi il seguente codice fiscale: 90058120560.

 

5. RIFLESSIONE. PAX CHRISTI: I POTENTI DELLE GUERRE

[Da Pax Christi Italia riceviamo e diffondiamo questo comunicato del 13 agosto 2016]

 

Pace e' forza della verita', vera e grande politica.

La spedizione militare in Libia, in atto da anni, non ha come obiettivo primario l'espulsione dell'Isis da Sirte ma la spartizione di risorse (petrolio, gas, acqua fossile, fondi sovrani libici confiscati nel 2011) e il controllo di territori ritenuti fondamentali per gli interessi di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Italia assieme a Turchia, Egitto, paesi arabi e altre potenze.

L'azione bellica, preparata da tempo con insediamenti europei in Tripolitania, Cirenaica e Fezzan, e' animata da logiche neocoloniali che sfruttano il caos geopolitico con rischi altissimi per la Libia, il nord Africa, il Medio Oriente, l'Italia. Costituisce un regalo al demonizzato Califfo e alla proliferazione del terrorismo. Aggrava i mali da contrastare. Prepara ulteriori divisioni e dolore.

Occorre rilanciare un'offensiva diplomatica per l'unita' della Libia (dirigenti dell'Eni hanno dichiarato al "Corriere della sera" che occorre "farla finita con la finzione libica") con il protagonismo di forze locali  libere da alleanze ambigue, mutevoli e interessate, con l'accordo tra citta' e tribu' (usate ora da questa o quella potenza), con la presenza attiva dell'Onu coerente con la sua Carta fondativa (che prevede forme di "polizia internazionale" o di interposizione molto diverse dalla guerra), con un serio lavoro di intelligence, con pratiche di riconciliazione, con esperienze di dialogo interreligioso.

Pace e' grande e vera politica, e' forza della verita' (la gandhiana satyagraha), e' capacita' di trasformazione costruttiva dei conflitti, e' creazione delle condizioni di pace per un futuro libero dalla forza ingannatrice e ipocrita della violenza armata a servizio di pochi potenti pronti a destabilizzare per stabilizzare a loro favore.

Nei giorni in cui la liturgia ci offre nel Magnificat (15 agosto) l'immagine della caduta dei potenti dai loro troni, condividiamo le parole del papa dello scorso 7 agosto, riguardanti i prezzi dei conflitti armati in Siria, ma anche Iraq, Sud Sudan e in molti altri Paesi a noi vicini o lontani, soprattutto "il prezzo della chiusura di cuore e della mancanza della volonta' di pace dei potenti".

 

6. RIFLESSIONE. VITTORIO BELLAVITE: SENZA UN VOTO DEL PARLAMENTO...

[Riceviamo e diffondiamo questo comunicato del 6 agosto 2016.

Vittorio Bellavite e' coordinatore nazionale di "Noi siamo Chiesa", docente, da molti anni una delle figure piu' vive del movimento dei cristiani per il socialismo e dell'esperienza delle comunita' di base, e' da sempre impegnato nei movimenti di pace e di solidarieta']

 

Senza un voto del Parlamento il nostro paese interviene ancora in Libia. La coscienza cristiana faccia i conti con la storia e con l'oggi. Il silenzio potrebbe essere complice.

Giovedi' in Parlamento, alle Commissioni Esteri e Difesa, si e' discusso della concessione da parte del Governo italiano delle basi militari ai droni e ai cacciabombardieri Usa per il loro intervento in Libia. I ministri della Difesa e degli Esteri Pinotti e Gentiloni, snobbando il Parlamento, non si sono presentati inviando due sottosegretari. Nessun voto e' previsto sulle decisioni del Governo, che violano l'art. 11 della Costituzione. Per quanto il fatto sia incredibile, ieri venerdi' i due maggiori quotidiani ("Corriere della sera" e "Repubblica") non hanno pubblicato niente si questo incontro. Cio' testimonia del basso livello a cui sono giunti nel nostro paese, almeno in questo momento, l'attenzione e l'impegno su questioni vitali per la collocazione internazionale dell'Italia e per la stessa moralita' dell'azione di governo.

Ugualmente e' molto scarsa la consapevolezza dei gravi comportamenti del nostro governo che continua a permettere l'esportazione di armi prodotte in Italia verso paesi (Arabia Saudita e Qatar) che ne fanno un uso criminale in aperta violazione della legge n. 185 sul commercio delle armi (su questa questione la ministra Pinotti continua a mentire di fronte alle ripetute recenti denunce del movimento pacifista).

Anche perche' tutti sollecitati dai frequenti forti ammonimenti di papa Francesco sulla "terza guerra mondiale a pezzi", indico quale mi sembra debba essere la reazione della coscienza cristiana di fronte ai fatti in questione:

1) Qualsiasi riflessione sulla situazione in Libia non puo' che partire da un giudizio aspramente critico sull'intervento di tipo neocoloniale che nel marzo 2011 ha sconvolto la Libia ed ha aperto la strada alla divisione del paese, allo scontro fratricida tra le varie tribu' ed anche all'arrivo dell'Is ed all'emergenza profughi. La guerra costo' 25.000 morti e danni immensi (un paese che era nelle migliori condizioni in Africa ora e' in difficolta' economiche gravissime), fu condotta in violazione del diritto internazionale e di ogni principio di moralita' nei rapporti tra gli Stati. Il Governo italiano accetto' di partecipare concedendo l'uso di sette basi aeree e, in seguito, di una flotta di cacciabombardieri, violando cosi' in modo sfacciato lo stesso Trattato di amicizia con la Libia firmato nel 2009. Per l'intervento del 2011 e' ragionevole che le autorita' della giustizia internazionale si pronuncino subito su fatti che non meritano di essere giudicati solo dai tempi della storia. Da subito, con qualcosa di simile al giudizio che e' stato dato in Gran Bretagna sul governo Blair per l'intervento in Iraq, le istituzioni del nostro paese dovrebbero avviare un processo di rigoroso accertamento dei fatti e delle responsabilita', anche personali.

2) Inoltre un onesto approccio alla situazione libica si puo' solo fondare su una generale presa di coscienza di cosa e' stato il passato coloniale italiano, quando l'invasione del 1911 costo' al popolo libico centomila fucilati e impiccati e un dominio durato piu' di trent'anni. Questa parte orribile della nostra storia deve essere insegnata nelle scuole, conosciuta adeguatamente da tutta l'opinione pubblica, deve diventare cultura e una responsabilita' condivisa dall'intera nazione.

3) Premesso questo quadro di riflessioni e in una situazione oggettivamente difficile, mi sembra del tutto ragionevole quanto dice Alex Zanotelli (intervista sul "Fatto quotidiano" di giovedi' 4): "questa offensiva viene percepita come una nuova guerra coloniale contro un paese arabo-mussulmano. Sarebbe un conflitto per il petrolio e magari per spaccare il paese in tre stati, altro segnale tipico dei disegni coloniali". Nel febbraio scorso Angelo del Boca, il maggiore esperto e storico della Libia, e Zanotelli inviarono al governo un Appello. In esso si ragionava su tutto e si concludeva in questo modo: "In un solo caso l'Italia puo' intervenire, nell'ambito di una missione civile di pace e dietro la precisa richiesta dei due governi di Tripoli e di Tobruk, che oggi si affrontano in una sterile guerra civile. Ma anche in questo caso, l'azione dell'Italia deve essere coordinata con altri paesi europei e con l'Unione Africana". Parole al vento. Inoltre un intervento come quello avviato dagli Usa, che il governo italiano condivide e a cui collabora, non ha alcuna efficacia per quanto riguarda il problema dei profughi ed assoggetta il nostro paese a possibili attentati terroristici, guidati o suggeriti dall'Is.

4) Le forze pacifiste sono troppo silenziose, c'e' come una rassegnazione, una assuefazione che non c'e' stata in altri momenti. La situazione e' complessa, lo sappiamo, la viviamo. Puo' essere che i recenti gravissimi attentati terroristici abbiano annichilito e come stordito, almeno in parte, anche le sensibilita' pacifiste. Tutto cio' premesso, siamo comunque obbligati a dire che questo intervento militare e' nella linea ed e' una conseguenza dei tragici errori/crimini costituiti dall'invasione dell'Afghanistan del 2001, dall'aggressione all'Iraq nel 2003 e alla Libia nel 2011 e dagli interventi in Siria, tutti contro ogni legge umana e ogni precetto evangelico e tutti inoltre fallimentari per quanto riguarda lo stesso loro esito militare e politico. Speriamo che nel mondo cattolico italiano le voci consapevoli della gravita' della situazione si attivino, che le autorita' ecclesiastiche, tanto loquaci su tante questioni, non stiano zitte in una comoda neutralita'. Speriamo soprattutto che il movimento pacifista si prepari alla Perugia-Assisi del 9 ottobre in modo molto unitario su una piattaforma esplicita nei giudizi e capace di rilanciare il movimento contro la guerra, richiamandosi esplicitamente all'insegnamento di papa Francesco.

 

7. RIFLESSIONE. RANIERO LA VALLE: IL DOMANI DELLA FEDE

[Riceviamo e diffondiamo il testo del discorso dal titolo "Il domani della fede. Un'eredita': dalla cristianita' al cristianesimo" tenuto da Raniero La Valle per la conclusione dell'incontro di "Tonalestate" sul tema "Un mondo senza domani" a Ponte di Legno il 6 agosto 2016.

Raniero La Valle e' nato a Roma nel 1931, prestigioso intellettuale, giornalista, gia' direttore de "L'avvenire d'Italia", direttore di "Vasti - scuola di ricerca e critica delle antropologie", presidente del Comitato per la democrazia internazionale, gia' parlamentare, e' una delle figure piu' vive della cultura della pace; autore, fra l'altro, di: Dalla parte di Abele, Mondadori, Milano 1971; Fuori dal campo, Mondadori, Milano 1978; Dossier Vietnam-Cambogia, 1981; (con Linda Bimbi), Marianella e i suoi fratelli, Feltrinelli, Milano 1983; Pacem in terris, l'enciclica della liberazione, Edizioni Cultura della Pace, S. Domenico di Fiesole (Fi) 1987; Prima che l'amore finisca, Ponte alle grazie, Milano 2003; Chi e' dunque l'uomo?, Servitium, 2004; Agonia e vocazione dell'Occidente, Terre di mezzo, 2005; Se questo e' un Dio, Ponte alle grazie, Milano 2008; Paradiso e liberta', Ponte alle grazie, Milano 2010; Quel nostro Novecento, Ponte alle Grazie, Milano 2011; Un Concilio per credere, Emi, Bologna 2013; Chi sono io, Francesco?, Ponte alle Grazie, Milano 2015]

 

Questo discorso verte su un tema drammatico. Perche' a  conclusione di un incontro che aveva come titolo "Un mondo senza domani", la domanda e' se vi sia un domani della fede, se la fede, la religione siano destinate a sopravvivere, se ci sara' questa eredita' nel mondo di domani.

Mi pare che nel nostro tempo si sia mostrata come particolarmente profetica la parola di Gesu': "il figlio dell'uomo, quando verra', trovera' la fede sulla terra?" (Luca, 18, 8). Certo se la fede fosse quella delle comunita' sparse nel mondo che si incontrano a "Tonalestate", o se fosse quella dei sette monaci uccisi a Tibhirine in Algeria, che abbiamo appena ricordato, la prognosi sarebbe favorevole. Ma e' il fenomeno religioso stesso che oggi e' messo in discussione, e c'e' l'idea sempre piu' diffusa che esso non possa sopravvivere al soffio della modernita'. Anche nelle discussioni che sono in corso in questi giorni sul terrorismo islamico, si e' espressa una cultura triviale, secondo la quale la vera soluzione sarebbe che l'Islam scomparisse e l'unico rimedio alle guerre di religione sarebbe la fine delle religioni. Salvo poi a leggere sul "Corriere della sera" che se il papa non vuole entrare in una guerra di religione, sono proprio i "laici" che debbono combatterla per difendere la nostra civilta'. Sono culture evidentemente sbagliate che la guerra invece di spegnerla l'accenderebbero.

Quanto a me, quello che cerchero' di dire e' che cosa lascio della mia esperienza col cristianesimo e con la Chiesa. Ma e' chiaro che la domanda sull'eredita' che resta del cristianesimo,  con le dovute trasposizioni interessa tutte le religioni, ed anche i non credenti, e riguarda tutti i Paesi, non solo l'Italia, e percio' riguarda anche gli stranieri che sono tra noi.

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L'eta' della secolarizzazione

Dunque, ci sara' questa eredita'? La nostra generazione ha rischiato di essere la generazione testimone e forse artefice di una interruzione nella trasmissione della fede cristiana da un secolo all'altro, da un millennio all'altro, almeno qui in Occidente. Il Novecento sotto questo profilo e' stato drammatico, e' stato il secolo della crisi. Abbiamo dovuto prendere atto che tutto il nostro cristianesimo, cattolico riformato  e ortodosso, quale si era andato svolgendo per secoli, alla fine ha prodotto Imperi e colonie, regimi totalitari - pagani, clericali od atei - due guerre mondiali, la Shoa' e la bomba atomica, a cominciare da Hiroshima, di cui proprio oggi ricorre l'anniversario.

La seconda meta' del secolo e' stata l'eta' della secolarizzazione. Neanche le teologie piu' lungimiranti hanno potuto arginarla, da Bonhoeffer a Rahner a Barth, a Teilhard de Chardin a Panikkar. Le cose non andavano bene; il cristianesimo sembrava non piu' praticabile, si consumava l'apostasia delle masse, se ne andavano dalla Chiesa la classe operaia, gli scienziati, le donne; e nonostante il colpo di reni del Concilio Vaticano II la crisi si aggravava dopo il Concilio; i conservatori ne attribuivano proprio al Concilio la colpa, papa Wojtyla tentava una restaurazione papale, soprattutto mediatica, ma intanto le chiese si svuotavano, le comunita' di base, staccate dalla grande Chiesa, perdevano il loro carisma originario, non animavano piu' il rinnovamento ecclesiale, i giovani non si sposavano piu' in Chiesa e non battezzavano i figli, mentre i sociologi della religione discutevano se si dovesse parlare di una fine o di un ritorno del sacro, e non ci si rendeva conto che il vero problema era la presenza o l'assenza di Dio.

Io ho vissuto dall'interno questa lunga crisi storica passando attraverso momenti di grande fervore, come nella prima educazione cattolica ricevuta nell'infanzia e fino alla Fuci, poi vivendo momenti di grandi speranze, come il Concilio, e infine giungendo a momenti di grande dolore dalla restaurazione montiniana fino alla tetraggine della Cei di Ruini. Certo, potrei dire con 2 Tim. 4,7: "ho terminato la corsa, ho conservato la fede"; pero' molti nodi si sono stretti e ingarbugliati lungo il percorso: molti nodi che solo ora, dopo il 13 marzo 2013 si stanno sciogliendo; mi sembra infatti che ora sia venuto davvero per la Chiesa il momento di passare il Capo di Buona Speranza.

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I nodi della vita cristiana

I nodi di cui parlo non sono nodi personali, sono i nodi, le contraddizioni dello statuto pubblico della fede cristiana, come l'abbiamo vissuta in Italia; sono i nodi dell'esperienza di fede, di molte delle sue modalita' e delle sue dottrine, accumulatesi nei secoli e portate fino a noi da una Tradizione vissuta come insindacabile e percio' priva di discernimento.

Alcuni di questi nodi li ho sperimentati da vicino, li ho vissuti a contatto di persone a me carissime, veri maestri di vita cristiana; ma piu' questi avevano fede, piu' si vedevano e apparivano stretti questi nodi.

Prendiamo ad esempio don Benedetto Calati, un uomo di Dio che e' stato definito il piu' grande monaco del Novecento. Padre Benedetto era il generale degli Eremiti camaldolesi, e dunque il priore dell'eremo di Camaldoli; ma gli pareva priva di senso e di sapienza divina una vita di assoluta solitudine, un'ascesi di isolamento in una cella monastica; e quando all'eremo di Camaldoli mori' l'ultimo recluso, di eremiti sottratti ad ogni rapporto umano non ne volle piu' e anche l'eremo divenne un cenobio.

Prendiamo Arturo Paoli, il piccolo fratello di Gesu', morto a cento anni dopo aver mirabilmente predicato il Vangelo della mitezza e dei poveri. Ma a Lucca, nel 1948, sul giornale diocesano, aveva guidato la crociata per le elezioni politiche e celebrato la vittoria della Democrazia Cristiana come vittoria di Dio e della Chiesa. Per sciogliere quel nodo di religione e potere aveva poi combattuto contro "i giorni dell'onnipotenza" della Gioventu' Cattolica di Gedda e dei "baschi verdi", era passato nel deserto e poi era andato a vivere una teologia di liberazione in America Latina.

E poi c'e' il paradosso cristiano di Dossetti, uno dei grandi protagonisti del rinnovamento novecentesco, che piu' di tutti ha portato alla luce la contraddizione della vita ecclesiale in Italia, senza poterla togliere.

Egli ha vissuto come un conflitto la sua doppia fedelta' a Dio e agli uomini. Si prendano i dieci anni cruciali della vita pubblica di Dossetti, tra i suoi trentacinque e quarantacinque  anni: sono gli anni in cui fa la Resistenza, guida la lotta armata senza usare violenza, va alla Costituente, fa la Costituzione facendo prevalere un progetto di democrazia sostanziale, si inventa il dossettismo, lotta per un partito e uno Stato che realizzino la giustizia; cioe' fa le cose piu' importanti per il mondo e per noi; ma dopo dieci anni nei suoi scritti spirituali dice che sono stati dieci anni perduti, perche' si e' occupato del mondo e non si e' occupato abbastanza di Dio. C'e' un nodo per cui e' sentito come tolto a Dio cio' che si da' agli uomini.

Dossetti e' il politico che prima di ogni altro denuncia la catastroficita' della situazione storica all'inizio della guerra fredda, nella contrapposizione tra i blocchi, ma dice che non c'e' niente da fare, e lascia la politica. Pero' il motivo non e' solo politico; c'e' a suo parere una "criticita' della situazione ecclesiale" che non permette a lui di agire e alla cristianita' italiana di far fronte alla crisi. E cio' a suo parere derivava dal fatto che per molti secoli si era prolungato "fino a raggiungere un grado molto avanzato, un certo modo cristiano cattolico di intendere il cristianesimo e di viverlo... che si dovrebbe definire attivistico e semipelagiano nel suo aspetto teologico". Lo slittamento nell'eresia pelagiana sarebbe consistito in questo che il cattolicesimo aveva "questa colpa: di attribuire all'azione e all'iniziativa degli uomini rispetto alla Grazia un valore di nove decimi". Esso possedeva peraltro - aggiungeva -  un notevole spirito di conquista, una certa generosita', ma, soprattutto nella gerarchia, si riscontrava "una fondamentale mancanza di fede operante". Il nodo che soffocava la cattolicita' italiana sarebbe stato dunque quello di un abito attivistico e di scarso affidamento sull'agire di Dio.

La contraddizione non tolta in questa visione dossettiana della fede era dunque tra azione degli uomini e azione di Dio. Non so se il termine "pelagiano" fosse appropriato per definire la sua critica; forse Pelagio non c'entrava, ma quel nome antico era usato per attaccare un attivismo tutto moderno nella pratica cristiana. In ogni caso se questo era il nodo della fede dinanzi a cui Dossetti si trovava, si puo' capire come tutta la sua vita sia stata poi rivolta ad affermare il primato se non addirittura il privilegio assoluto della preghiera; si puo' capire come, al contrario di padre Benedetto, vedesse nell'eremita la massima realizzazione del modello cristiano. Ciononostante egli senti' sempre fortissimo il richiamo all'impegno storico. Alla fine della sua vita sta e prega a Monte Sole con la sua comunita', e nello stesso tempo gira per tutta l'Italia in difesa della Costituzione. Alle sue monache, il 5 maggio 1993, detta le sue ultime conclusioni e dopo una lucidissima analisi della crisi, dice che bisogna concentrarsi sull'unicum del cristiano, cioe' soprattutto pregare, pero' mantenendo ben viva la coscienza del tempo, e "pregare perche' il Signore ritorni, anzitutto, presto, e ponga fine alla storia degli uomini".

Questo e' il nodo che il cristianesimo - e non solo italiano - non aveva sciolto: il nodo tra mondo, Chiesa e regno di Dio, il nodo che Dossetti aveva vissuto con la massima consapevolezza e che e' restato non sciolto dopo di lui.

E c'erano pure altri nodi, e non si possono nominare tutti. Per esempio il nodo della liberta' di coscienza, che il magistero dell'800 aveva cosi' fieramente negato, era rimasto anche dopo il Concilio.

Io l'ho sperimentato scoprendo come fosse un valore da conseguire l'affermazione di una pari liberta' di tutte le coscienze. Mi e' capitato quando Paolo VI mi fece dire che dovevo cambiare la linea dell'"Avvenire d'Italia" che condannava i bombardamenti americani sul Vietnam, ammessi invece dai vescovi americani. Io risposi che non potevo cambiare linea perche' mi sentivo di seguirla per obbligo di coscienza. Il messaggero papale replico' che anche il papa aveva la sua coscienza. Dunque c'era un nodo, un conflitto tra due coscienze, una era la mia, l'altra del papa. Solo che a dirigere il giornale non era il papa, ero io. Poi il giornale fu chiuso.

L'altro nodo era quello del rapporto fra fede e politica. E' diventato stringente quando con la destra al potere, la Chiesa ha cercato di stabilire un rapporto diretto col potere politico. Ma anche a livello di base sembra tutt'altro che risolto, se, quando qualche mese fa abbiamo lanciato i Cattolici del No per il referendum costituzionale, con una motivazione cosi' cristiana come difendere la Costituzione democratica, si e' scatenato un intransigentismo cattolico minoritario di base (e di sinistra!) che in nome del dogma della laicita' ha negato che si possa chiamare in causa la fede quando c'e' di mezzo la politica. In tal modo l'essere cristiani invece che essere un incentivo all'impegno storico diverrebbe un impedimento e un complesso da rimuovere.

Naturalmente ci sono molti altri nodi da cui e' stata legata la fede cristiana che il Concilio aveva cominciato a sciogliere, ma che ci siamo portati dietro fin qui.

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Il vento di papa Francesco

Ed ecco che rispetto a questi nodi, ha fatto irruzione la novita' di papa Francesco che ha usato le chiavi di Pietro per aprire le porte e non per tenere i discepoli chiusi nel cenacolo per paura del mondo; e il vento dello Spirito ha ripreso ad andare dove vuole, ha caricato le vele, ha agitato le acque, e hanno cominciato a sciogliersi i nodi. E che i nodi cominciassero a sciogliersi si e' visto fin dalla scelta del nome, Francesco, fin dal documento programmatico del pontificato, la Evangelii Gaudium.

Per tre anni ci siamo interrogati su che cosa fosse veramente questo papa, quale fosse la risposta alla domanda cruciale: "Chi sono io Francesco?", ci siamo chiesti che cosa si nascondesse dietro quel formidabile indizio che era la misericordia messa al centro di tutto, varco di ogni porta: la misericordia chiamata ad aprire le porte delle chiese come le porte delle celle, le porte delle frontiere chiuse alla vita ma non al denaro, come le porte del mare e della morte a Lesbo e a Lampedusa.

Al di la' della ricchezza della proposta pastorale, ci doveva essere un'idea portante, un progetto, una proposta complessiva che desse ragione della svolta. E alla fine questa proposta e' apparsa con chiarezza, ed e' stato quando il papa, ricevendo il premio Carlo Magno in Vaticano, ha simbolicamente restituito a Carlo Magno, e prima ancora a Teodosio e a Costantino, la loro corona:  ossia ha proclamato l'uscita dalla cristianita', per far vivere il cristianesimo.

Questo e' un passaggio che in verita' e' stato avviato nel Novecento, ma ora se ne apre davvero il cantiere: esso consiste nell'uscire dal regime di cristianita' e far sgorgare le fresche sorgenti del cristianesimo.

Possiamo assumere, come data in cui viene formalizzata e da cui parte questa svolta (sono importanti le date come cippi del processo storico) il 6 maggio di quest'anno, il giorno in cui i leaders europei, da Angela Merkel al re di Spagna al presidente della Commissione europea Junker a Mario Draghi, sono scesi a Roma per portare al papa il premio Carlo Magno. Sulle prime, secondo il suo stile contrario ai fasti mondani, Francesco aveva declinato l'offerta di questo premio, gia' ricevuto a suo tempo da Giovanni Paolo II. Ma il cardinale Kasper aveva insistito, e del resto era quella l'occasione piu' calzante per ridefinire i rapporti della Chiesa con l'Europa e con il mondo, non solo nello spazio, ma nel tempo, nel corso storico, secondo l'idea che il tempo e' superiore allo spazio, propria di papa Francesco.

E che la svolta consistesse in questo, nel passaggio dalla cristianita' al cristianesimo, come un aprirsi di nuovi spazi e come un processo da inverare nel tempo, si e' potuto apprendere da due interpretazioni autentiche che dell'evento del 6 maggio sono state date.

La prima, pochi giorni dopo il 9 maggio, e' del papa stesso in un'intervista al quotidiano francese "La Croix", quando Francesco ha spiegato che Chiesa ed Europa sono due entita' diverse; per questo lui non parla di radici cristiane dell'Europa, perche' teme il tono con cui se ne parla, che puo' essere trionfalista o vendicativo. Il rapporto della Chiesa con l'Europa consiste nella lavanda dei piedi, cioe' nel servizio. "Il dovere del cristianesimo per l'Europa - ha detto il papa - e' il servizio". E qui ha fatto una citazione che e' un po' la chiave di volta per mettere in chiaro il suo pensiero, ha citato il gesuita Erich Przyvara, "grande maestro di Romano  Guardini e di Hans Urs von Balthasar", il quale ha scritto che "l'apporto del cristianesimo a una cultura e' quello di Cristo con la lavanda dei piedi, ossia il servizio e il dono della vita". Tradotto, vuol dire che l'Europa cammina nella storia e la Chiesa le lava i piedi e le dona la vita.

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L'articolo della "Civilta' Cattolica"

La seconda interpretazione autentica dell'evento del 6 maggio 2016 l'ha data la "Civilta' cattolica" dell'11 giugno, attraverso un articolo del suo direttore Antonio Spadaro, e poiche' in tale articolo egli sostiene una tesi gia' avanzata quattro mesi prima sulla stessa rivista, dati i rapporti di questa rivista col papa deve trattarsi di una tesi attendibile. Nel suo discorso ai leaders europei, scrive padre Spadaro, Francesco evoca un autore per lui importante, il grande teologo gesuita Erich Przywara e cita la "sua magnifica opera" intitolata "L'idea dell'Europa". Commenta padre Spadaro: "Citando 'L'idea dell'Europa' che egli ben conosce, Francesco rivela la sua convinzione, che era quella del teologo gesuita: siamo alla fine dell'era costantiniana e dell'esperimento di Carlo Magno. E' interessante, dunque, che il papa citi Przywara proprio in questo contesto carolingio. La 'cristianita'', cioe' quel processo avviato con Costantino in cui si attua un legame organico tra cultura, politica, istituzioni e Chiesa, si va concludendo. Przywara... e' convinto che l'Europa sia nata e cresciuta in rapporto e in contrapposizione con il Sacrum Imperium, che ha le proprie radici nel tentativo di Carlo Magno di organizzare l'Occidente come uno Stato totalitario".

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Neanche il Concilio aveva superato la cristianita'

Cristianita' vuol dire precisamente cristianesimo piu' societa', cristianesimo piu' sovranita' terrena. I due termini si congiungono, perdono la loro specifica identita', fino a diventare un termine solo. Cio' instaurava un processo che supponeva la Chiesa come la realizzazione stessa del Regno di Dio sulla terra, e quindi faceva della Chiesa la vera sovrana terrena. E' in forza di questa sovranita' che il papa assegnava ai re di Spagna le terre degli Indios nuovamente scoperte.

Ora si chiude questa fase, ma e' una fase che e' durata 1700 anni.

Neanche il Concilio Vaticano II era riuscito a superare la condizione di cristianita'. Esso  aveva visto il problema, aveva dato per scontato che l'eta' costantiniana fosse finita, Paolo VI aveva considerato un regalo della Provvidenza che i bersaglieri fossero entrati a Porta Pia facendo venir meno il potere temporale della Chiesa: percio' il Concilio effettivamente aveva segnato una discontinuita'. Pero'ò uscire dalla cristianita' non vuol dire solo che la Chiesa non esercita il potere politico. Se, smarrendo la differenza di Dio essa si fa sua sostituta e vicaria pretendendo di esercitare la sovranita' di Dio sulla terra, Costantino non e' finito. Il limite del Concilio, che ne ha poi condizionato per cinquant'anni la ricezione, e' stato questo. Come dira' don Giuseppe Dossetti alcuni decenni dopo, lo stesso Concilio non era riuscito a venir fuori dal vecchio paradigma, "era stato tutto pensato in regime di cristianita'". Quel regime invece era finito e non se ne doveva avere nessuna nostalgia ne' cercare di "salvare qualche rottame. Il sogno dello storico Eusebio di Cesarea - che ha idealizzato Costantino e la sua opera anzi il regime che direi formalmente teodosiano, piu' che costantiniano, di Teodosio il grande che ha dato le prime linee di una struttura cristiana dell'Impero... e' finito, irrimediabilmente finito. E' finito dappertutto".

Dossetti vedeva bene il problema e preparava la strada per Francesco. Ma ora forse possiamo dire che lo stesso Dossetti era rimasto incluso in una condizione di cristianità, perché i nodi rimasti non sciolti fino alla fine della sua vita sono i nodi propri di una ideologia della cristianita'. Nella sua forma pura infatti la cristianita' e' la piena instaurazione della signoria di Dio sulla terra, ma poiche' questa non puo' essere opera umana, l'uomo che con tutte le sue forze aspira a questa totalita' divina non puo' che mettere tutto in Dio e considerare perduto cio' che non e' "fatto" sacro, ossia riservato a Dio (e percio' tolto dal profano), e di conseguenza non ha compito altrettanto importante che la preghiera. E poiche' la signoria di Dio nella sua pienezza non e' realizzabile sulla terra, alla fine non puo' che desiderare e affrettare la fine della storia.

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Per una storia del regime di cristianita'

Ma in che consiste realmente il regime di cristianita' dal quale la Chiesa si mette oggi in stato d'esodo, e che significa uscirne?

Ci sono molti modi per descrivere il regime di cristianita', come si e' andato svolgendo nell'eta' moderna e fino ad ora. Un approccio assai utile mi sembra quello offerto dall'opera storiografica di Paolo Prodi, che si e' snodata in diversi capitoli a partire dal 1982. La storia di Paolo Prodi non e' solo una storia della Chiesa e non e' solo una storia secolare ma, rompendo lo specialismo accademico, e' una storia interdisciplinare nella quale Chiesa e societa' secolare appaiono intrecciate nel processo di svolgimento dell'Europa e dell'Occidente, e precisamente per questo si rivela come una storia e un'ermeneutica della cristianita' intesa come unita' di religione, politica, economia, cultura, istituzioni.

Prodi ricostruisce nel seguente modo l'itinerario del rapporto cristianesimo-societa' lungo i secoli dell'eta' moderna dopo la fine dell'esperienza della res publica christiana medievale e del Sacro Romano Impero carolingio.

La prima fase e' quella in cui la Chiesa si trova a fronteggiare i nuovi Stati e poteri emergenti in Europa, e il papato cerca di costruire uno Stato proprio come un principato rinascimentale in rapporto con il sistema italiano delle signorie e dei principati: uno Stato quindi che in quanto tale possa costituire la base di un nuovo potere universale indipendente, e in concorrenza con le potenze emergenti.

Sconfitto questo modello, nascono dopo la riforma protestante Chiese territoriali coincidenti con il potere politico degli Stati moderni che vanno sorgendo. In questa fase la lettura di Prodi e' che il papato abbia fornito un "prototipo" per le moderne monarchie assolute, con un esempio dell'unione tra potere spirituale e temporale e con la trasformazione della politica stessa da esercizio di imperio a un nuovo potere che tende a formare e a disciplinare l'uomo dalla nascita alla morte; un processo in cui si perde ogni dualismo tra religione e societa', tra fede e potere.

Gli Stati peraltro si contrappongono  alla Chiesa sul piano temporale e ne contrastano l'egemonia; e allora con la riforma tridentina la Chiesa mira a costruirsi una nuova autorita' universale non basata su una concorrenza con gli Stati sul piano politico ma sull'attribuzione al papa di una nuova giurisdizione sulle anime. La piattaforma ideologica e' quella indicata dai camaldolesi Paolo Giustiniani e Vincenzo Quirini nel 1512: "al papa e' affidato il governo di tutta l'umanita' nella diversita' dei regimi, delle razze, delle consuetudini e delle stesse religioni". Tutte le genti sono soggette alla potesta' del papa; non pero' in concorrenza con i principati terreni, la vera Chiesa di Dio non e' fatta dalle citta' o dagli edifici manufatti, ma dalla congregazione degli uomini, dalla comunita' umana. Dunque si tratta di una sovranita' spirituale del pontefice come parallela alla sovranita' temporale dei principi. Il modello comunque e' comune: sovranita' temporale l'una, sovranita' spirituale l'altra. C'e' un Cesare per le cose di Cesare e c'e' un Cesare per le cose di Dio. In cio' societa' e Chiesa sono uguali, ambedue societa' perfette, e cosi' giungono fino a noi.

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La distinzione tra Dio e Chiesa, tra Chiesa e mondo

Prodi lamenta che in questa amalgama si e' andato perdendo il dualismo che dal conflitto tra Chiesa e Impero alla distinzione tra foro ecclesiastico e civile, alla dialettica tra coscienza e fede, ha attraversato la modernita' dando vita a quello che chiamiamo Occidente.

In realta' attraverso le diverse forme in cui si e' andato svolgendo il regime di cristianita' si e' perduto un altro dualismo, un'altra distinzione, ancor piu' fondamentale, quella tra Dio e la Chiesa, tra regno di Dio e societa' mondana. Nelle diverse varianti della cristianita', da Teodosio a Carlo Magno a Gregorio VII, a Bonifacio VIII, alla proclamazione dell'infallibilita' pontificia del Vaticano I, la Chiesa si e' fatta rappresentazione di Dio sulla terra, non solo mandataria di Dio, ma sua sostituta, anticipazione del regno di Dio nel gia' e non ancora della sua realizzazione terrena.

Nella predicazione di papa Francesco e' tornato piu' volte il monito, che gia' conosciamo, contro l'errore pelagiano, inteso come una sorta di incontinenza attivistica nella Chiesa. Ma se il riferimento a Pelagio e' corretto, bisogna dire che nel regime di cristianita' non sono tanto i singoli cristiani ma e' la Chiesa stessa che e' pelagiana; attribuendosi la sovranita' divina sulla terra, sia nella forma temporale che in quella spirituale. E allora si puo' capire la portata della svolta che consiste nell'uscire dalla cristianita' per far vivere il cristianesimo. Essa significa ristabilire la distinzione non solo tra Chiesa e mondo, ma tra Chiesa e Dio. Questo vale non solo a cambiare la Chiesa, ma a cambiare l'idea stessa di religione.

La Chiesa non e' il cristianesimo realizzato, come il socialismo reale, ne e' solo il segno e lo strumento, come dice il Concilio; non e' la societa' umana trasformata in regno di Dio, ne e' invece l'ospedale da campo, come dice Francesco, quella che le lava i piedi, quella che con la societa' umana non ha altro rapporto che la misericordia, perche' solo nella misericordia e' la verita'; la Chiesa e' quella che, spoglia del potere, con forza profetica dice al potere che il re e' nudo, che l'economia uccide, che il denaro domina e che l'umanita' per nessuna ragione, ne' politica, ne' economica, ne' religiosa puo' essere divisa in eletti e scartati.

Uscire dalla cristianita' vuol dire non chiudersi nella cella sbarrata della preghiera, vuol dire non avere fretta che la storia finisca, ma anzi salvarla, perche' possa durare, perche' la storia e' buona, e laudato si' il Signore che ce l'ha data con tutte le sue creature. Uscire dalla cristianita' vuol dire non pensare alla storia, o alla Chiesa stessa, come catastrofe, perche' quella e' apocalisse, non e' Vangelo.

Uscire dalla cristianita' vuol dire prendere congedo definitivo dalle letture fondamentaliste e letterali della Bibbia che ci hanno consegnato la versione del Dio violento che, come ha detto la Commissione Teologica Internazionale del Cardinale Muller, e' il frutto di un fraintendimento di Dio; vuol dire uscire da dottrine ispirate all'ideologia della cristianita' come quella agostiniana della "massa dannata"; vuol dire abbandonare la dottrina strettamente connessa a quella del peccato originale, della "soddisfazione" sacrificale richiesta dal Padre al Figlio sulla croce; quella dottrina del sacrificio preteso da Dio che il papa emerito Benedetto XVI ha definito "in se' del tutto errata"; uscire dalla cristianita' vuol dire uscire dall'iperbole per la prima volta enunciata da papa Wojtyla secondo la quale il rapporto coniugale indissolubile sarebbe la traduzione terrena dello stesso mistero trinitario.

Uscire dall'ideologia della cristianita' vuol dire affermare, come ha fatto la sentenza del 7 luglio del tribunale pontificio che ha assolto due giornalisti italiani, che la libera manifestazione del pensiero e la liberta' di stampa, bestia nera del magistero petrino dell'Ottocento, "sono di diritto divino" e stanno nell'ordinamento giuridico dello Stato della citta' del Vaticano non meno di come stanno nella Costituzione italiana.

Uscire dal regime di cristianita' non vuol dire infatti solo che la Chiesa rinuncia al potere temporale. Comporta una penetrazione dottrinale, un balzo innanzi, come diceva Giovanni XXIII, e soprattutto una comprensione piu' avanzata di che cosa significhi la signoria di Dio e il regno di Dio annunciato come vicino.

Perche' e' chiaro che uscire dal regime di cristianita' per ripartire dalla sinagoga di Nazaret, dove Gesu' reinterpreto' Isaia, e approdare al cristianesimo, vuol dire non solo rinunziare alla clamide purpurea di Costantino, alla mozzetta rossa che papa Francesco non ha mai indossato, ma vuol dire ripensare l'idea stessa di regalita'. Si tratta di una parola che ricorre spesso nel lessico cristiano. Una parola che bisogna maneggiare con cura, perche' i cristiani la usano sia per celebrare Cristo re, sia per fondare la metafora del regno di Dio; ma e' stata anche la categoria su cui si e' costruita la sovranita' della Chiesa e si e' strutturata la cristianita' politicamente intesa.

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Il re secondo Pilato

E allora per fare chiarezza occorre tornare al pretorio, dove e' in questione l'identita' di Gesu', e Pilato gli chiede se egli sia re. Col procuratore romano la questione e' quella del potere, e' la questione di Cesare. E' Pilato che introduce la questione regale, che chiede a Gesu' se davvero e' il re dei Giudei. Gesu' non nega, ma chiede a Pilato da dove venga la sua strana domanda. E all'insistenza del magistrato romano, nel momento stesso in cui accetta di entrare nel suo linguaggio - "tu lo dici io sono re" - nega di esserlo perche' attribuisce a cio' che Pilato chiama re un contenuto impossibile. Dice infatti Gesu': "tu lo dici, io sono re. Per questo io sono nato, e per questo sono venuto al mondo, per rendere testimonianza alla verita'. Chiunque e' dalla verita', ascolta la mia voce" (Giov. 18,37). Questa risposta di Gesu' vuol dire appunto negare di essere re, nel senso in cui si e' re per Pilato, e si e' re per il mondo. Infatti l'essere re non ha niente a che fare con la verita'. Il potere e' sfidato dalla verita', il potere e la verita' non abitano su monti vicini. Per come gli uomini e le dottrine hanno costruito il potere, di cui il principe e' il massimo emblema, il potere teme la verita' e governa con la menzogna. La Bibbia ne ha piena coscienza, a cominciare dalla menzogna omicida del re David che manda Uria a morire in battaglia non per vincere la battaglia ma per prendersene la moglie. Machiavelli fa della menzogna la professionalita' stessa del principe, perche' senza mentire non si acquistano ne' si conservano i principati; Carl Schmitt mettendo nella contrapposizione al nemico il criterio del politico, esclude dalla politica la verita', perche' la verita' non si puo' dire al nemico; la guerra del Vietnam fu costruita sulla menzogna, a partire dalla falsa accusa dell'incursione vietnamita nel Golfo del Tonchino, smascherata poi dai Pentagon Papers; il rapporto Chilcot in Gran Bretagna denuncia che Blair e Bush invasero l'Iraq nel 2003 ingannando il mondo con la falsa notizia delle armi di distruzione di massa irachene, in Italia da Berlusconi a Renzi la bugia ha governato la politica e la comunicazione di massa. Io, nella mia lunga professione ho scritto su molti giornali e molti ne ho lasciato. E tutti quelli che ho lasciato, dall'"Avvenire d'Italia" alla "Stampa" fino a "Rocca", li ho lasciati per una ragione di verita'.

Se Gesu' dice sono venuto per la verita', la risposta a Pilato e': no, non sono re. Usa la parola, che Pilato gli offre, per negare la cosa. L'insegnamento di Gesu' e' che la verita' rende liberi. Il potere non rende liberi. Il popolo e' libero se diventa esso stesso sovrano. Percio', nel senso di Pilato Gesu' non e' re. E, pur tutto concesso alla metafora, non e' un regno quello di Gesu'. E percio' non puo' esserlo quello della Chiesa. Non solo il regno di Gesu' non e' di questo mondo, ma non e' affatto un regno; del tutto diversi, e anzi opposti, rispetto al modo di essere di Gesu', sono i presupposti, le dottrine, i codici di un regno, oggi diremmo di uno Stato. E come compito profano, aggiungiamo che e' la statualita', in quanto sovrana, che va ripensata, che va diversamente fondata.

Percio' non e' alla categoria della regalita' che si puo' far ricorso per stabilire una continuita' dal Vangelo alla cristianita' alla Chiesa. La modalita' non e' quella del potere, comunque lo si chiami. Il date a Cesare quel che e' di Cesare e a Dio quel che e' di Dio va inteso in modo piu' radicale. In nessun caso, nemmeno se si ritira ad esercitare un potere solo spirituale, la Chiesa puo' essere pensata come Cesare. Essa non e' un Cesare che si occupa di cio' che e' di Dio, non ci sono due Cesari, un Cesare che domina le cose di Cesare, e un Cesare che domina le cose di Dio. Semplicemente Dio non e' Cesare, il suo regno non e' di questo mondo non perche' il mondo non ne sia degno, ma perche' non e' un regno. Percio' non puo' esistere una cristianita' perche' la cristianita' e' pensabile - ed e' stata pensata - solo nelle forme di un regno, di un potere, di un imperio.

La Chiesa in uscita di papa Francesco vuol dire allora uscire dalle contraddizioni, dai nodi e dai fraintendimenti della religione e del sacro che sono propri di un cristianesimo inteso come cristianita', uscire dal dominio dei Cesari e attingere la liberta' dei figli di Dio.

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Nessuna religione sogni piu' il sogno di Costantino

Questo non  vale solo per il cristianesimo, ma vale anche per l'Islam e per ogni altra religione. Perche' altrimenti si scatena - e lo vediamo - la tentazione della violenza, come via errata per la vittoria di Dio. E' solo fuori dell'ipotesi di cristianita' e di ogni altra fede trasformata in regime, che i nodi che soffocano la religione si sciolgono, e Dio puo' essere riconosciuto come il Dio della misericordia.

Percio' il problema dell'uscita dalla cristianita' non e' solo del cristianesimo. Perche' tutte le religioni hanno avuto la loro notte oscura, in cui hanno sognato il sogno di Costantino, "in hoc signo vinces", in cui si sono smarrite dando ascolto alla voce del tentatore che gia' aveva fallito con Gesu' quando gli aveva detto: "tutti questi regni ti daro' col loro splendore se prostrandoti mi adorerai" e, sconfitto, si era prefisso di tornare "al tempo opportuno" (Mat. 4, Luca, 4). Prima che la notte finisca, molti di questi segni saranno ancora alzati con pretesa di vittoria: la croce, il grido "Allahu Akbar", le insegne dell'Imperatore, i vessilli del "Dio lo vuole", gli idoli della guerra perpetua, del denaro sul trono. Tutte le religioni, ognuna con i suoi tempi, devono uscire dalla loro forma di cristianita', devono allontanarsi da quel sogno di vittoria, spogliarsi delle maschere regali. L'Islam dovra' ritrovare nel Corano il pluralismo, uscire dall'ideologia della sharia realizzata contro la societa' degli infedeli, Israele deve separarsi dall'ideologia di Sion e dello Stato degli Ebrei concepito come lo "Stato della redenzione", l'induismo "convertito", come dice Panikkar, tornera' a bagnarsi nel Gange alle sue sorgenti, incontaminato dal potere, le culture laiche rinunceranno ai loro assoluti di riserva, a cominciare da quello del denaro e del mercato.

Cosi' le religioni si salveranno, e saranno davvero vie di salvezza. E questa e' l'eredita' che come cristiani, nella continuita' di una tradizione sia degli apostoli che dei discepoli, vorremmo che fosse trasmessa nel succedersi delle generazioni.

 

8. RIFLESSIONE. ENRICO PEYRETTI: TRAGEDIE DEI GIORNI

[Riceviamo e diffondiamo.

Enrico Peyretti (1935) e' uno dei maestri della cultura e dell'impegno di pace e di nonviolenza; e' stato presidente della Fuci tra il 1959 e il 1961; nel periodo post-conciliare ha animato a Torino alcune realta' ecclesiali di base; ha insegnato nei licei storia e filosofia; ha fondato con altri, nel 1971, e diretto fino al 2001, il mensile torinese "il foglio", che esce tuttora regolarmente; e' ricercatore per la pace nel Centro Studi "Domenico Sereno Regis" di Torino, sede dell'Ipri (Italian Peace Research Institute); e' membro del comitato scientifico del Centro Interatenei Studi per la Pace delle Universita' piemontesi, e dell'analogo comitato della rivista "Quaderni Satyagraha", edita a Pisa in collaborazione col Centro Interdipartimentale Studi per la Pace; e' membro del Movimento Nonviolento e del Movimento Internazionale della Riconciliazione; collabora a varie prestigiose riviste. Tra le opere di Enrico Peyretti: (a cura di), Al di la' del "non uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la guerra, Beppe Grande, Torino 1999; Dov'e' la vittoria?, Il segno dei Gabrielli, Negarine (Verona) 2005; Esperimenti con la verita'. Saggezza e politica di Gandhi, Pazzini, Villa Verucchio (Rimini) 2005; Il diritto di non uccidere. Schegge di speranza, Il Margine, Trento 2009; Dialoghi con Norberto Bobbio, Claudiana, Torino 2011; Il bene della pace. La via della nonviolenza, Cittadella, Assisi 2012; Elogio della gratitudine, Cittadella, Assisi 2015; e' disponibile nella rete telematica la sua fondamentale ricerca bibliografica "Difesa senza guerra. Bibliografia storica delle lotte nonarmate e nonviolente", che e' stata piu' volte riproposta anche su questo foglio; vari suoi interventi (articoli, indici, bibliografie) sono anche nei siti: www.cssr-pas.org, www.ilfoglio.info e alla pagina web http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti Un'ampia bibliografia (ormai da aggiornare) degli scritti di Enrico Peyretti e' in "Voci e volti della nonviolenza" n. 68]

 

Le guerre dell'altro ieri, fino ad oggi, sulle citta' e le popolazioni: chi adora la potenza odia la vita.

Le guerre producono oggi le migrazioni tragiche.

L'industria criminale delle armi produce volutamente le guerre.

I ricchi, con cuore di ghiaccio, e ricche case deserte, respingono i poveri.

Paghiamo oggi i mali di ieri.

Pagheremo domani i mali di oggi.

Oppure sorgera' un filo di antica-nuova sapienza?

 

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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA

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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" (anno XVII)

Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 850 del 16 agosto 2016

 

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