[Nonviolenza] Telegrammi. 2020
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- Date: Fri, 19 Jun 2015 21:27:50 +0200 (CEST)
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TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 2020 del 20 giugno 2015
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal Centro di ricerca per la pace e i diritti umani di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XVI)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it , centropacevt at gmail.com
Sommario di questo numero:
1. Una lettera alla Presidente della Camera dei Deputati: "Una persona, un voto"
2. Oggi a Roma "Fermiamo la strage subito"
3. Ricordando Jean Wahl
4. Enrico Peyretti: Sulla violenza. Dignita' violata e inviolabile (2011)
5. Segnalazioni librarie
6. La "Carta" del Movimento Nonviolento
7. Per saperne di piu'
1. EDITORIALE. UNA LETTERA ALLA PRESIDENTE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI: "UNA PERSONA, UN VOTO"
Alla Presidente della Camera dei Deputati
Oggetto: "Una persona, un voto". Per il riconoscimento del diritto di voto nelle elezioni amministrative a tutte le persone residenti
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Gentilissima Presidente della Camera dei Deputati,
lei sa che risiedono regolarmente in Italia oltre cinque milioni di persone straniere, che qui vivono, lavorano, pagano le tasse, educano i loro figli, sono di reale e cospicuo beneficio per il nostro paese; persone a cui dovrebbe andare la sincera gratitudine di tutto il popolo italiano.
Ma queste persone, in quanto non hanno la formale cittadinanza italiana, sono private del fondamentale diritto di partecipare alle decisioni politiche ed amministrative che riguardano le vite di tutti coloro che in Italia vivono, quindi anche le loro stesse vite.
Fondamentale principio della democrazia e' "Una persona, un voto".
Nulla, in termini di logica giuridica e coerenza ordinamentale, si oppone al riconoscimento immediato del diritto di voto (elettorato attivo e passivo) di tutte le persone residenti nelle elezioni amministrative degli enti locali e delle Regioni.
Cosicche' mentre per il riconoscimento dell'esercizio del diritto di voto in occasione delle elezioni politiche sarebbe verosimilmente necessaria una specifica modifica costituzionale, per il riconoscimento dell'esercizio del diritto di voto nelle elezioni amministrative si puo' senz'altro provvedere con legge ordinaria: e lei ricordera' che questa era gia' vent'anni fa l'autorevole opinione dell'on. Nilde Jotti, anch'ella Presidente della Camera dei Deputati.
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Gentilissima Presidente della Camera dei Deputati,
mi permetto di scriverle per sollecitare una volta ancora che il parlamento italiano legiferi al piu' presto il riconoscimento del diritto di voto nelle elezioni amministrative per tutte le persone residenti.
E' una questione di giustizia.
E sarebbe un grande bene per il nostro Paese.
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Voglia gradire distinti saluti ed auguri di buon lavoro,
Peppe Sini, responsabile del "Centro di ricerca per la pace e i diritti umani"
Viterbo, 19 giugno 2015
2. INCONTRI. OGGI A ROMA "FERMIAMO LA STRAGE SUBITO"
Si svolge oggi a Roma, con inizio alle ore 15, al Colosseo, la manifestazione nazionale "Fermiamo la strage subito", promossa da un vasto arco di associazioni, movimenti, persone.
Per informazioni e adesioni: sito: http://fermiamolastragesubito.blogspot.it, e-mail: stopmassacres2015 at gmail.com
3. MAESTRI. RICORDANDO JEAN WAHL
Ricorreva ieri, 19 giugno, l'anniversario della scomparsa di Jean Wahl (Marsiglia, 25 maggio 1888 - Parigi, 19 giugno 1974), il grande filosofo e storico della filosofia docente alla Sorbona e promotore di fondamentali iniziative culturali; perseguitato dai nazisti riusci' a sfuggire alla morte evadendo dal campo di concentramento di Drancy e trovo' rifugio in esilio in America, da cui torno' alla fine della guerra; e' stato uno dei piu' influenti suscitatori delle ricerche, del dibattito e dell'impegno filosofico nella Francia del Novecento.
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Anche nel ricordo di Jean Wahl proseguiamo nell'azione nonviolenta per la pace e i diritti umani; per il disarmo e la smilitarizzazione; contro la guerra e tutte le uccisioni, contro il razzismo e tutte le persecuzioni, contro il maschilismo e tutte le oppressioni.
Ogni vittima ha il volto di Abele.
Vi e' una sola umanita' in un unico mondo vivente casa comune dell'umanita' intera.
Ogni essere umano ha diritto alla vita, alla dignita', alla solidarieta'.
Solo la nonviolenza puo' salvare l'umanita'.
4. RIFLESSIONE. ENRICO PEYRETTI: SULLA VIOLENZA . DIGNITA' VIOLATA E INVIOLABILE (2011)
[Dal sito di Peacelink riprendiamo il seguente saggio di Enrico Peyretti originariamente pubblicato nella rivista filosofica online dell'Universita' di Torino "Spazio filosofico", n. 3, 2011 (sito: www.spaziofilosofico.it).
Enrico Peyretti (1935) e' uno dei maestri della cultura e dell'impegno di pace e di nonviolenza; e' stato presidente della Fuci tra il 1959 e il 1961; nel periodo post-conciliare ha animato a Torino alcune realta' ecclesiali di base; ha insegnato nei licei storia e filosofia; ha fondato con altri, nel 1971, e diretto fino al 2001, il mensile torinese "il foglio", che esce tuttora regolarmente; e' ricercatore per la pace nel Centro Studi "Domenico Sereno Regis" di Torino, sede dell'Ipri (Italian Peace Research Institute); e' membro del comitato scientifico del Centro Interatenei Studi per la Pace delle Universita' piemontesi, e dell'analogo comitato della rivista "Quaderni Satyagraha", edita a Pisa in collaborazione col Centro Interdipartimentale Studi per la Pace; e' membro del Movimento Nonviolento e del Movimento Internazionale della Riconciliazione; collabora a varie prestigiose riviste. Tra le opere di Enrico Peyretti: (a cura di), Al di la' del "non uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la guerra, Beppe Grande, Torino 1999; Dov'e' la vittoria?, Il segno dei Gabrielli, Negarine (Verona) 2005; Esperimenti con la verita'. Saggezza e politica di Gandhi, Pazzini, Villa Verucchio (Rimini) 2005; Il diritto di non uccidere. Schegge di speranza, Il Margine, Trento 2009; Dialoghi con Norberto Bobbio, Claudiana, Torino 2011; Il bene della pace. La via della nonviolenza, Cittadella, Assisi 2012; e' disponibile nella rete telematica la sua fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia storica delle lotte nonarmate e nonviolente, che e stata piu' volte riproposta anche su questo foglio; vari suoi interventi (articoli, indici, bibliografie) sono anche nei siti: www.cssr-pas.org, www.ilfoglio.info e alla pagina web http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti Un'ampia bibliografia (ormai da aggiornare) degli scritti di Enrico Peyretti e' in "Voci e volti della nonviolenza" n. 68]
Abstract
Per riflettere sulla violenza, la distinguiamo dalla forza. Cosi', vanno distinte guerra e azione di polizia, esercito e forza pubblica. La violenza viene euristicamente analizzata in materiale, strutturale, culturale. A questa terza forma, la piu' radicale, si oppone il disarmo culturale. La violenza viola una dignita' non violabile, con la distruzione, il disprezzo, il dominio. Alla violenza reagisce il pensiero e la prassi della nonviolenza positiva, del conflitto nonviolento. Nell'offesa, la dignita' risalta come indistruttibile e suscita il riconoscimento. Idolatria e alleggerimento del male. Perche' dire no alla violenza?
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Indice
1. Forza e violenza. 2. Violenza diretta, strutturale, culturale. 3. Disarmo culturale. 4. Violenza, violazione, cioe' dominio. 5. La filosofia nasce in reazione alla violenza. 6. Nell'offesa la dignita' non si perde ma risalta. 7. Il male alleggerito o idolatrato. 8. Perche' no alla violenza?
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La mia angolazione sulla violenza e' la ricerca del suo superamento, almeno una riduzione che tenda a zero. Cio' si impone come necessario, nel mondo minacciato nella sua consistenza dalla violenza. Sebbene abbia ormai un patrimonio di teoria, di esperienze storiche, di tecniche di resistenza e di lotta, la cultura nonviolenta non e' una ricetta, ma una ricerca in una linea asintotica.
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1. Forza e violenza
Una prima chiarificazione utile e' nel distinguere violenza da forza, anche se nel linguaggio corrente le due idee sono spesso confuse e le due parole sono usate come sinonimi. A volte si usa il termine "forza" per dire violenza in modo pudico, evitando questo termine crudo.
La forza (fisica, morale, della volonta') e' una qualita' della vita e dell'azione. La cessazione di ogni forza e' cessazione della vita. La forza puo' essere costruttiva, mentre la violenza designa un'azione eminentemente distruttiva. La forza puo' essere usata come strumento di violenza, ma in se' non si identifica con la violenza. Un genitore deve usare anche atti di forza per correggere ed educare i figli, ma conosce bene la divaricazione, in questo caso evidente, tra forza e violenza.
Questa distinzione fonda - deve fondare - la differenza tra polizia, forze dell'ordine, ed esercito, guerra. Quando agisce correttamente nella legalita', la polizia contiene e impedisce la violenza, pur disponendo di armi leggere per i casi estremi. In guerra, invece, si deve fare piu' violenza del nemico per vincere. La differenza tra ridurre la violenza o accrescerla, e' decisiva per umanizzare le situazioni di conflitto.
La distinzione e' importante anche per orientarci nel giudizio sulle "missioni di pace" internazionali e militari degli anni recenti, giustificate come "ingerenza umanitaria", o "responsabilita' di proteggere" le popolazioni civili oppresse da dittature o gravi conflitti interni. La motivazione nobile copre spesso crudi interessi geopolitici. A parte cio', si tratta di missioni "di pace" con mezzi di guerra, con frequenti "effetti collaterali", cioe' vittime civili. Si dispiegano le tecnologie militari piu' avanzate, magari affiancate da forme di soccorso e solidarieta', non so quanto credibili per le popolazioni locali interessate.
La insufficiente distinzione, nella politica statale corrente, tra forza e violenza, tra polizia ed esercito, deriva probabilmente dal fatto che gli stati moderni, anche democratizzati, sono dall'origine sposati alla guerra, alle sue strutture e alla sua mentalita' (1). Di conseguenza, e' rimasta inattuata quella norma dello Statuto dell'Onu (art. 47, pure ancora condizionato dal privilegio dei vincitori) che delinea una polizia internazionale, nel nome della comunita' dei popoli, e non degli stati o coalizioni piu' potenti. Le classi politiche statali non arrivano a comprendere, volere, favorire le esperienze sorte dal basso di "corpi civili di pace", di origine gandhiana, per interventi di solidarieta' umana, mediazione, riconciliazione nei conflitti (2).
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2. Violenza diretta, strutturale, culturale
Violenza-violazione puo' essere un atto, un fatto, o anche una struttura stabilita, e infine una ideologia, una teoria delle relazioni umane, o addirittura una concezione del vivere. Il titolo di un manuale sull'arte di vivere, nell'edicola di una stazione, diceva: "O si domina o si e' dominati".
Nella peace research, intesa come ricerca della nonviolenza, e' ormai classica la distinzione proposta da Johan Galtung (3) tra violenza diretta o fisica, violenza strutturale, violenza culturale. La sensibilita' e l'informazione piu' corrente, e il pacifismo, vedono e reagiscono alla violenza diretta. Ma la ricerca approfondita denuncia le cause di questa nelle strutture (giuridiche, sociali, economiche) che incarnano una violenza statica, consolidata, accettata o subita, legittimata. E ancora, l'analisi vede nelle culture, tradizioni, ideologie che giustificano o esaltano relazioni di violenta disparita', una causa piu' profonda di quelle stesse strutture violente.
La violenza strutturale normalizza singoli atti violenti, percio' la reazione di ripugnanza e' piu' debole, o addirittura assente. Una visione culturale che incorpori la violenza nella natura delle cose giustifica e fa accettare le strutture violente. Per Galtung le macroculture, o culture profonde presenti nell'umanita', si qualificano piu' o meno violente, piu' o meno libere da violenza, secondo quali teorie della pace, del conflitto, dello sviluppo le caratterizzano.
E' evidente che la ricerca e la costruzione della pace giusta, per superare la violenza esistente, non e' sufficiente che parta dall'ultimo effetto, opponendosi alla guerra, come fa il pacifismo, ma deve risalire alla violenza strutturale e soprattutto culturale, come fa la cultura della nonviolenza, proponendo e costruendo alternative a questi livelli. Sono queste precedenti violenze che causano e giustificano la violenza materiale, bellica.
Un'altra analisi, che fu proposta da Helder Camara e ripresa da Ernesto Balducci, vedeva la violenza originaria nell'oppressione, seguita dalla ribellione violenta, quindi dalla repressione. Tre violenze deprecabili, ma non uguali.
Mi sembra - senza competenza economica, ma con quella comune a chiunque vive - che, nel mondo attuale, la forma di violenza piu' sorda, piu' mimetizzata e subita, stia in certe forme e prassi economiche diventate correnti, in apparenza evolute ed efficienti, la cui profonda ingiustizia compare solo lontano, negli effetti su singole persone fisiche reali, che per vivere hanno solo il loro lavoro, col bisogno di stabilita' nel tempo e nello spazio, perche' sono carne e non denaro virtuale che, nella globalizzazione delocalizzata, vola dove vuole. La tempesta economico-finanziaria in corso e' interpretabile come l'assalto calcolato della ricchezza privata all'economia di stato, la guerra del "privatismo" al bene comune pubblico: i ricchi speculano a danno del sostegno sociale ai poveri. Una economia che produce qualcosa di utile, molto di inutile, insieme a montagne di armi e di fame.
Nella quotidianita' spicciola, poi, la violenza piu' comune e diffusa mi sembra l'ira, la collera, l'abbandono, violenza psicologica non poco dolorosa e contagiosa, che degrada, a catena, tante relazioni.
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3. Disarmo culturale
Una indicazione a livello di queste analisi viene da Raimon Panikkar (1918-2010), il filosofo del pluralismo culturale, di origini familiari e culturali catalano-indiane. Sua e' l'intuizione che il compito della filosofia oggi e' "disarmare la ragione armata". La biblica torre di Babele, che Dio volle disfare, e' simbolo dell'impero, cioe' di una unificazione anti-plurale, contraria alla pace viva, nella quale soltanto tutto puo' vivere nella sua varieta'. Come gli imperi, le grandi religioni aspirano al monolitismo, universalismo, totalitarismo. Cosi' fa per lo piu', a giudizio di Panikkar, il pensiero occidentale. Percio' egli parla di necessario "disarmo culturale". "Pero' la ragione non si disarma da sola, ne' per mezzo di un'altra ragione ancora piu' potente. Di qui la mia convinzione che la filosofia non sia esclusivamente razionale, ne', di conseguenza, meramente teoretica". "La filosofia e' spesso interpretata come la ricerca della verita' con il fucile della ragione, anche se spessissimo e' solo una caccia alla chiarezza con la pistola di Calculus" (4). E propone dunque di intendere la filosofia come cultura animi, come philosophia pacis: piu' ancora che una filosofia pratica, sia un pensiero che riflette e al tempo stesso effettua l'armonia della Realta'. La quale va riconosciuta come cosmoteandrica, relazione non-dualistica tra mondo, uomo, dio. Un pensare che sia sapienza dell'amore, sofo-filia, piu' ancora che amore della sapienza.
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4. Violenza, violazione, cioe' dominio
Violenza e' la disposizione e l'atto del violare. Violare e' non rispettare, cioe' oltrepassare di forza quello spazio di rispetto (fisico o morale) che garantisce, pur nella relazione, la non-dipendenza di altri, in ragione della loro dignita'.
Si assume che qualcuno, o anche qualcosa, sia degno di rispetto, di non essere preso, manipolato, posseduto, dominato in un modo che ne violi un qualche aspetto di intangibilita'. La violenza tocca senza rispetto, con un uso ingiusto della forza. Prima di essere fisicamente distruttiva, al limite mortale, la violenza calpesta questa zona, anche invisibile, di protezione. Il diritto negato e' violenza, gia' prima che il titolare del diritto venga offeso. L'offesa, il disprezzo, oltrepassano un confine morale, che e' il dovere di riconoscere valore e dignita', anche nella critica e correzione fondata.
Siamo tutti in relazione, mai senza gli altri, eppure, proprio in cio', la buona relazione e' un passaggio dall'uno all'altro, fino all'intimo, ma prodigiosamente salvaguardando quel cristallo forte e fragile che distingue e rende non riducibile l'uno all'altro. L'irriducibile unicita' di ogni realta' di valore e' il fondamento di questa esigenza. La violenza sessuale, o la violazione di domicilio, sono immagini chiare di questo oltrepassamento, costitutivo di ogni violenza, anche psicologica, che viola un perimetro morale o fisico inviolabile.
La violazione, al contrario del rispetto, e' il dominio, la riduzione di altro sotto la propria forza e volonta' imperiosa. Dominio e' l'altro nome della violenza, in ogni sua forma. Esso infatti e' una struttura di diseguaglianza, dove lo spazio e il respiro di una parte e' compresso e oppresso, a favore dell'altra.
La struttura di dominio tende anche a condizionare il pensiero del dominato, fino a fargli pensare fatale, se non giusto, il dominio che subisce, conquistando e adattando la sua volonta' nella rassegnazione: la "tirannia servitu' volontaria" (da Etienne de la Boetie fino a Tolstoj e Gandhi, i quali concordavano, nella loro corrispondenza (5), sul fatto che "non gli Inglesi hanno preso l'India, ma gli Indiani gliela hanno data" (6)).
La pace d'imperio, come la pax romana, e' l'infima tra le specie di pace nella classificazione di Raymond Aron e di Bobbio (7). Essa e' un dominio calmo, per cui il suo vero nome non e' pace ma violenza strutturata e solennizzata culturalmente e moralmente, nella sacra retorica del potere. Cosi', non e' veramente pace l'accordo che conclude una guerra. Le "paci" che gli studenti imparano a scuola, memorizzando luogo e data, sono in realta' l'ultimo atto e il primo scopo della guerra, cioe' l'imposizione della volonta' del vincitore al vinto, puro criterio fisico di forza, che non ha nulla a che fare (se non per caso) col diritto. Non sono paci, ma perfetti atti di violenza solennizzata. A tal punto e' falso il nostro linguaggio e pensiero dominante.
Quando la guerra ha troppo ucciso e distrutto, allora anche chi l'ha voluta, e di piu' chi l'ha subita, accetta di pagare ogni prezzo. Quelle "paci" violente opprimono, ma almeno lasciano vivere, consentono di pensare, volere, preparare una forma piu' giusta di pace. Qui e' la relativa ragione del motto "meglio rossi che morti" (opposto a "meglio morti che rossi"), con cui, nell'"equilibrio del terrore" della Guerra Fredda, qualcuno dichiarava preferibile la vita non libera sotto l'Urss alla morte per la liberta' occidentale, nella "mutua distruzione assicurata".
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5. La filosofia nasce in reazione alla violenza
Il filosofo Jean-Marie Muller mette in relazione violenza e filosofia: "A guardare la storia puo' sembrare che la violenza pesi sull'umanita' come una fatalita'. (...) Auschwitz, Hiroshima, arcipelago Gulag: e tante altre tragedie (...) simbolo dell'orrore e della violenza organizzata dell'uomo contro l'uomo. Come puo' la coscienza umana non rivoltarsi al ricordo di tutte queste violenze (...)? E' lo scandalo di questa violenza esercitata da uomini su altri uomini che mette in movimento il pensiero filosofico; e' la certezza che questo male non deve essere, che provoca la riflessione. Noi vogliamo sostenere che la rivolta del pensiero davanti alla violenza che fa soffrire gli uomini e' l'atto fondatore della filosofia. Noi vogliamo affermare che il rifiuto di ogni legittimazione di questa violenza fonda il principio nonviolenza" (8).
Secondo Muller, la riflessione filosofica scatta, sorge - ha principio - dal fatto che la violenza esercitata da umani su umani, urta in modo non sopportabile contro l'essere stesso - la coscienza - degli esseri umani.
Forse bisogna soffrire la violenza - su di se' o sul proprio prossimo - per cercare la nonviolenza. Forse, senza il male non cercheremmo il bene e il vero. Il bimbo amato e felice, come Siddharta finche' fu protetto da ogni dolore, non si interroga sul male, e cosi' nemmeno lo combatte. Puo' esserci filosofia, e scuola di vita, senza il turbamento del male? Non mi convince il dogma agostiniano (non originale nella Bibbia e nei Vangeli) del peccato originale, perche' originale e' l'essere, il bene, e non il male, la violazione del bene. Pero' forse bisogna ammettere che senza il male non ci ricordiamo del bene, non lo riconosciamo. Lo godiamo senza saperlo. Il male ci fa male perche' offende il bene originario, e nell'offenderlo ce lo rivela. Il male e' male perche' c'e' prima il bene. Altrimenti sarebbe semplicemente normale. Chi non conosce e non crede al bene, si rassegna al male.
Quando ci colpisce personalmente, la violenza puo' anche pietrificarci, avverte Simone Weil: "Si maneggi la forza [ma qui nel senso di violenza, n.d.r.], o se ne sia feriti, in ogni caso il suo contatto pietrifica e trasforma un uomo in cosa. Merita il nome di bene solo cio' che sfugge a questo contatto. Ma Dio solo sfugge a questo contatto e anche, in parte, quelli tra gli uomini che per amore hanno trasferito e nascosto in lui una parte della loro anima". "Il falso Dio muta la sofferenza in violenza. Il vero Dio muta la violenza in sofferenza" (9).
Quando colpisce il nostro prossimo, la violenza richiede la capacita' di sentire il dolore altrui, la com-passione, nome buddhista della carita' cristiana, l'identificazione con l'altro, che e' liberazione e compimento di se'. Lo spettacolo della violenza offende e ferisce il cuore sensibile - e lo impegna - quasi come la violenza patita.
La sofferenza saggia, poi, produce pensiero e volonta' per ridurre ogni violenza e sviluppare la nonviolenza positiva e attiva.
Il rifiuto della violenza non e' senza sbocco, ma e' un moto di affermazione che origina un cammino di pensiero: poiche' la violenza uomo-su-uomo non deve avvenire, cioe' deve-non-essere, allora il rifiuto ostinato della violenza e' il principio della ricerca alternativa, cioe' dei valori, azioni, metodi, di relazioni umane positivamente nonviolente. E cio' avviene proprio nel caso di conflitti anche acuti, che indurrebbero alla violenza nella diffusa "ideologia della violenza" (ben analizzata da Muller nel libro citato).
Infatti, un pensiero di Gandhi dice che la nonviolenza attiva appare e comincia proprio di fronte alla violenza, poiche' non e' il semplice non-fare-violenza, ma precisamente e' il porre alternative al metodo violento, nell'accettare il conflitto, e anche nell'aprire un conflitto sull'iniquita' occulta. Il non-fare-violenza e' giusto, ma e' assai meno del fare nonviolenza. La nonviolenza consiste proprio nell'aprire un conflitto nonviolento per affermare valori migliori.
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6. Nell'offesa la dignita' non si perde ma risalta
La violazione-violenza offende: ob-fendere significa urtare contro, colpire con un fendente. Il colpo, fisico o morale, e' l'effetto della penetrazione nello spazio proprio dell'offeso. Violare lo spazio personale e' colpire il corpo, il diritto, la dignita'. Entrare indebitamente nello spazio altrui, che trascende il soggetto violatore e la sua azione, fa incontrare e urtare un diritto sussistente (cosi' Rosmini definisce la persona) che doveva essere rispettato, e semmai toccato nella parita' e nel consenso libero.
Dignita' e' il nome di questo valore non riducibile ad oggetto, che e' la persona e l'aura della sua intoccabilita'. Cio' che si dice della persona umana vale in proporzione per ogni vivente e per ogni essere: pensiamo a come e' violata oggi sistematicamente la natura, corpo comune a tutti i viventi, la cui offesa si ripercuote sulla vita e sul bene generale.
L'offesa e' possibile e impossibile. Tragicamente possibile. Essenzialmente impossibile. Un maestro buddhista, ad una donna profondamente offesa da molteplici violenze, oso' dire, a rischio di ferirla ulteriormente: "Nessuno ti ha fatto nulla". Cioe', la tua dignita' essenziale non e' stata toccata, non poteva essere toccata. La dignita' e' inviolabile di diritto, ma, a guardare in profondo, anche di fatto. L'offesa fa risaltare la dignita'. E' un'offesa proprio perche' ha toccato l'intoccabile. L'offesa e' un atto che deve-non-essere. C'e' l'essere, il poter-essere, il dover-essere, e c'e' anche il dovere-non-essere. Se questo si fa, si smentisce. Si rivela come falso. Per coglierne la falsita', occorre pero' una chiara coscienza della dignita', del valore da non violare, che puo' essere colpito, ma non puo' essere distrutto.
Il passante sconosciuto e' per me quasi un nulla, un oggetto, un'ombra. Se un malfattore gli fa violenza, o un accidente lo abbatte, la mia umanita' accorre in soccorso alla sua, perche' lo riconosco come mio simile, un altro me, col mio stesso bisogno e diritto. Il male che gli accade non e' un puro fatto: e' l'appello che mi risveglia alla consapevolezza del bene del suo diritto a vivere e a non soffrire, diritto uguale al mio. Poi, accadra' anche che il mio gretto istinto mi dira': "Meglio a lui che a me". Ma questo istinto e' in tensione e conflitto con il suo opposto, il riconoscimento e l'identificazione: la sua sofferenza e' la mia.
Il filosofo cinese Mencio (Mengzi, 372-289 a.C.) scrive: "Tutti gli uomini hanno un animo sensibile all'altrui sofferenza. (...) Supponi che vi siano delle persone che all'improvviso vedono un bimbo mentre sta per cadere in un pozzo. Ebbene, tutte proveranno in cuor loro un senso di apprensione e di sgomento, di partecipazione e di compassione. Questa reazione non dipende certo dall'esigenza di mantenere buoni rapporti con i genitori del bambino, ne' dal desiderio di essere elogiati da vicini ed amici, e neppure perche' disturbino le grida del bambino. Da tutto questo si puo' arguire che non sono uomini quanti sono privi di un animo sensibile ai sentimenti della partecipazione e della compassione, della vergogna e dell'indignazione, della deferenza e dell'acquiescenza, e del senso di cio' che e' giusto e di cio' che non e' giusto" (10).
In effetti, c'e' una comunanza fondamentale (compresenza, direbbe Capitini) delle vite: vita tua vita mea. L'ambiente culturale rafforza o indebolisce questo sentimento. Ho raccolto 29 diverse formulazioni (e non sono tutte), nelle piu' varie civilta' ed etiche di ogni tempo, della "regola d'oro", che fonda nell'identificazione con l'altro l'etica universale capace di preservare l'esistenza e la possibile felicita' (11).
Oltre l'istinto di sopraffazione, abbiamo anche una naturale inibizione ad uccidere e svalutare l'altro, che sentiamo valere come noi. Per superarla occorre un'operazione culturale, la "costruzione del nemico" (che sempre precede la violenza organizzata), la de-umanizzazione dell'avversario, in modo da figurarcelo meno che uomo, e poterlo distruggere non solo con licenza ma con merito. L'impulso a salvare la vita altrui e' innato, perche' cio' e' salvare la propria, cioe' la qualita' e umanita' della propria vita. Non so se qualcuno l'abbia detto meglio di Mencio.
Nella pagina citata, Pier Cesare Bori annota: "Il sentimento dell'umanita', ren zhi xin, si esprime nel bu ren, 'non sopportare le sofferenze altrui'" (12).
Un valore materiale, della natura, dell'arte, dell'esistenza, puo' essere distrutto, e il suo messaggio, il suo significato, puo' essere eclissato. Nel caso della coscienza viva, mi pare che ci sia una dimensione in piu', un valore spirituale, essenzialmente imprendibile e imperdibile: la vittima trascende il carnefice, o il caso che la colpisce, non solo nel diritto che aveva di non essere colpita, ma nel valore che essa conserva dopo l'offesa, esaltato dall'offesa. Poiche' l'offesa doveva-non-essere, il valore offeso e', permanentemente e'. Analogamente, il colpevole di offesa della dignita' altrui, contraddice, ma non perde del tutto la propria dignita' e non puo' essere ridotto a puro oggetto di pena vendicativa.
Se la dignita' non e' distrutta dall'offesa, allora si trattera' di coltivare l'importante capacita' di renderci superiori (piu' forti) alle offese ricevute, ma sensibili (piu' vulnerabili) alle offese fatte ad altri, al dolore altrui, per essere difensori e liberatori dell'umano.
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7. Il male alleggerito o idolatrato
Nel dire che l'offesa essenzialmente non offende la dignita' della vittima, si ha timore di offendere gli offesi, si rischia di alleggerire e vanificare il peso della violenza sul mondo, sulla storia, sulla vita, sullo spirito, per facilitarsi il compito della sua condanna, o della sua esorcizzazione. Invece, il male pesa, ferisce, lede, minaccia ogni senso. La tortura ha lo scopo di de-umanizzare la vittima, degradarne l'autostima. La schiavitu' puo' rendere schiavi. L'umiliazione abbassa.
Al contrario, se ci si lascia ipnotizzare dalla sua ombra nera sul mondo, o pietrificare come dallo sguardo della Gorgone, si rischia di rendere al male un involontario omaggio, di farne una divinita', una forza metafisica, di dargli un titolo di fatale inevitabilita'. E' il pericolo che corriamo se, giustamente, per viva sensibilita', non vogliamo girare il capo e lo sguardo dallo spettacolo quotidiano delle grandi pluriformi organizzazioni di male contro i deboli, le vittime piu' facili. Mentre scrivo, la notizia sul reclutamento dei bambini-soldato in Somalia, usati per uccidere e morire facilmente, guastati nel cuore della loro umanita', e' solo l'ultima vergogna che, tra tante simili, mi fa sentire colpevole e complice con la miseria di questa nostra unica umanita'. Se questo sentimento si fa troppo pesante, il male si impone ai nostri occhi come una divinita' negativa, che insidia la possibilita' e la speranza-impegno nella giustizia.
Bisogna prendere le misure del male, ne' rimpicciolirlo ne' dargli una grandezza paralizzante, pur riconoscendo che spesso sorpassa le misure del reale (e' problema "im-menso", senza misura), toccando un abisso di mistero. Vedo una risposta saggia, se non pare semplicistica, nella risposta di Gandhi ad un lettore che ritiene la nonviolenza impossibile perche' la violenza regna sulla storia umana (13). Il male, per Gandhi, rappresenta gli strappi nel tessuto, e non il tessuto della vita, che altrimenti si sarebbe gia' distrutta. Non merita l'onore di una legge metafisica. Per domare, anzitutto nel pensiero, la forza del male, bisogna avere forte coscienza del bene. Per questo Gandhi dice che non si puo' cercare la nonviolenza se non si crede in Dio, e per lui Dio e' l'unita' profonda di tutte le cose, e' un nome che diamo alla verita' che tutto sorregge, al di sotto e al di sopra dei dettagli belli o brutti del mondo.
Il primo riparo alla violenza che offende, la prima difesa dalla rassegnazione e sudditanza ad essa, e' riconoscere il bene dell'essere. Non l'ingenuo, illuso (e stupido) dipingere tutto di rosa, ma una fiducia di fondo verso l'intera realta'. Una fiducia che non e' la conclusione di un bilancio, ma un credito creativo, impegnato a vigilare, criticare e lottare, ma soprattutto a sviluppare ed edificare vita su vita, bene su bene. Chi crede in Dio fa credito a Dio (al bene, al senso, al giusto). Ci sembra di essere piu' intelligenti e critici nel saper vedere il male piu' del bene, ma e' vero il contrario. Il peccato degli intellettuali e' usare l'intelletto come corrosivo del reale, invece che carezza illuminata, tale che nel "com-prendere" il "con" sia piu' grande del "prendere". C'e' una violenza e una nonviolenza anche dell'intelletto.
Allora si possono vedere le religioni (al di la' delle dottrine e istituzioni, nella comune religiosita' aperta) come gratitudine illuminata per il bene del semplice essere, prima che obbligo morale o rituale. "Religentem esse oportet, religiosus nefas": e' nefasta la religione come dipendenza, e' necessario essere di quelli che collegano (14). Se tutto e' collegato, se sappiamo di essere parte del tutto, pur consapevoli del male, non vogliamo distruggere e violentare nulla.
Il contrario di questa ricerca e' quella metafisica dell'odio che ha fatto una nuova tremenda comparsa, nei giorni in cui scrivo, il 22 luglio 2011, nell'azione stragista di Anders Behring Breivik, 32 anni, nella civile e tranquilla Oslo. Quella ir-re-ligione radicale, quel taglio del legame universale, e' la assoluta divisione io/altri, noi/loro. Cosi' assoluta che, per espellere l'altro, deve cominciare col distruggere chi, qui tra noi, e' disponibile all'altro, chi tollera gli immigrati. Nemico di guerra e' il multiculturalismo, l'accoglienza, il dialogo. Un germe potente di violenza e' il pensiero della differenza assoluta, il disconoscimento degli "esseri non-noi", che serpeggia pericoloso nel mondo oggi privilegiato e sfidato da un inedito incontro stretto di popoli, di civilta', di alterita'.
Il modo piu' facile e balordo per liberarci dal male insediato in noi e' identificarlo con l'altro, nell'illusione tragica di poterlo distruggere con lui. E' dunque pesante il male che ci rende nemici, tutti vittime designate. Eppure, la cura di questo male non e' il male giusto (giustificato) contro il male irregolare, non e' la giustizia punitiva, ma sempre la sostituzione del male col bene: "Vinci il male col bene" (Paolo ai Romani, 12,21). Anche in quel fanatico pluriassassino, interprete dell'assassino che dorme in tutti noi, c'e', distorta da eventi e fantasmi, l'umanita' con le sue possibilità migliori.
Il problema della violenza ci ha portato a sfiorare, appena sfiorare, il problema del male, che la filosofia spesso ha evitato, o cercato di addomesticare. Norberto Bobbio, negli ultimi tempi, ne era tormentato: non dal male compiuto da Caino (la violenza), ma da quello patito da Giobbe, che non sai da dove arriva (15). Egli non si accontentava, io mi acquieto per ora nella proposta pratica di Ricoeur: cominciamo col togliere (ridurre) il male causato da noi, poi avremo a che fare col male residuo (16).
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8. Perche' no alla violenza?
Altri aspetti, richiamati dal problema della violenza, restano fuori dai limiti di questi appunti, come, per esempio il gran tema su violenza e religioni.
Chiediamoci solo, per finire: perche' devo dire no alla violenza? Perche' la violenza ci ripugna?
Leggo il dialogo "Controversia sull'etica" tra Paolo Flores D'Arcais e Roberta De Monticelli (17). Il primo chiede se si puo' "dimostrare" l'esistenza di una legge morale naturale e razionale. Dice (con Pascal) che non c'e' una regola morale universale, di fatto. Ne' si puo' accertare come vera una norma morale senza rinviare a valori presupposti, scelti ma non dimostrabili.
Osservo: il fondamento e' solo nel "vedere" della ragione, che "di-mostra" (cioe' mostra con evidenza)? Non e' possibile che il fondamento sia un "sentire" (udire, ricevere, incontrare, accogliere, riconoscere) un valore da non violare? La ragione dimostrativa e' l'unico nostro sovrano organo di conoscenza sia dei fatti sia dei valori? Nelle sapienze religiose abramitiche il cuore, centro della persona, e' gia' un "organo del vedere", e' la co-scienza, scienza intima, riflessa, che non e' piu' cieca della ragione (18).
La "regola aurea" nella formulazione buddhista dice: "Tutti tremano al castigo, tutti temono la morte, tutti hanno cara la vita: mettendoti al posto degli altri, non uccidere, ne' far uccidere" (19). Il vivere vale per tutti i viventi. Si accetta di vivere anche soffrendo. Solo un eccesso "invivibile" di sofferenza, oppure un conflitto che appare insolubile tra vita biologica e fedelta' al senso dato alla vita, fanno preferire il riposo nella morte. Pero' una morte non inflitta da altri, ma solo scelta, diritto inviolabile, cosi' come il diritto alla vita e' riconosciuto il primo diritto umano.
Sembra essere patrimonio universale della ragione umana sana (e anche dell'istinto animale) che altri non possano decidere della mia vita. Non e' questo "fatto" un fondamento del "bene" da rispettare e difendere? Occorre anche una "di-mostrazione" logica, statistica, o che altro? Non "fonda" abbastanza il criterio del bene, e all'opposto, del male, l'esperienza originaria del valore della vita? E' necessario il "vedere" della ragione (che vaglia, che giudica), oppure basta a "fondare" la norma del "non fare male" (cio' che non vorremmo fosse fatto a noi) il "veder valere il valore", lucente di luce propria? (Cosicche' non occorre un comandamento d'autorita', se non come memoria del valore).
L'esistenza in vita (fisica, psicologica, libera) e' la condizione di possibilita' di ogni altro valore variabile, particolare, controverso, quindi il valore primo e fondamentale, degno di pieno rispetto, da non violare, da tutelare, affermato nella Dichiarazione Universale dei diritti umani. E' l'esperienza elementare di Albert Schweitzer: "Il fondamento essenziale della coscienza umana e' il seguente: io sono un essere vivente che vuole vivere, circondato da altri esseri viventi che vogliono vivere" (20).
Per Flores D'Arcais c'e' solo una scelta di valori, da imporre con la lotta, al limite; per De Monticelli c'e' una base cognitiva - anche progressiva, migliorabile, non immediata (Aristotele ritiene inferiore lo schiavo, noi no) - del principio dell'uguale dignita' degli esseri umani. Il nodo e' fondamentale. Nessuno dei due cita la "regola d'oro", presente in tutte le culture. Basta questa coscienza universale a farne un "principio", non derivato? Ma che dire a chi negasse quella regola?
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Note
1. Cfr Ekkehart Krippendorff, Lo Stato e la guerra. L'insensatezza delle politiche di potenza, Gandhi Edizioni, Pisa 2008. Edizione originale: Staat und Krieg. Die historische Logik politischer Unvernunft, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1985.
2. Cfr Alberto L'Abate, Per un futuro senza guerre. Dalle esperienze personali a una teoria sociologica per la pace, Liguori, Napoli 2008, specialmente nella parte II, La nonviolenza e la sua efficacia, il capitolo 2 sui Corpi Civili di Pace, pp. 125-135.
3. L'opera principale di Galtung, decano della peace research, e' Pace con mezzi pacifici, Esperia edizioni, Milano 2000. Tra le sue molte opere, una importante recente e' Affrontare il conflitto. Trascendere e trasformare, Plus, Pisa University Press, Pisa 2008.
4. Raimon Panikkar, La torre di Babele. Pace e pluralismo, Edizioni Cultura della Pace, Fiesole 1990, p. 47 e 163.
5. Pier Cesare Bori - Gianni Sofri, Gandhi e Tolstoj. Un carteggio e dintorni, Il Mulino, Bologna 1985, pp. 93 e 192.
6. Gandhi, Hind Swaraj [Autogoverno dell'India], 1909, cap. 7 (recentemente ripubblicato in Mahatma Gandhi, Vi spiego i mali della civilta' moderna. Hind Swaraj, Gandhi Edizioni, Pisa 2009).
7. Norberto Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, Il Mulino, Bologna 1997 (quarta edizione), pp. 136-137.
8. Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace, Edizioni Plus, Pisa University Press, 2004, dalla Premessa, p. 22.
9. Simone Weil, da La Grecia e le intuizioni precristiane, pp. 152-154, e da Quaderni III, pp. 207, cit. in Giancarlo Gaeta, Simone Weil, Edizioni Cultura della Pace, Fiesole 1992, pp. 130 e 138.
10. Citato in Pier Cesare Bori, Saverio Marchignoli, Per un percorso etico tra culture. Testi antichi di tradizione scritta, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1996, pp. 55-56; seconda edizione Carocci, Roma, 2003, p. 59. Credo che quel "non sono uomini...", nelle parole di Mencio, sia da intendere non nel senso apodittico, definitorio, tale da escludere dalla societa' umana, ma in senso descrittivo, come se dicesse: "non vivono all'altezza umana, contraddicono la loro natura umana".
11. In "Servitium", n. 152, marzo-aprile 2004, Riconoscimento e disprezzo, pp. 103-108.
12. Sulla nozione di "ren", Bori rinvia a Scarpari, La concezione della natura umana, in Confucio e Mencio, Cafoscarina, Venezia 1991.
13. Cfr Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, antologia a cura e con saggio introduttivo di Giuliano Pontara, Einaudi, Torino 1996, pp. 64-65.
14. Aulo Gellio, Noctium Atticarum Libri XX, 4, 9 (M. Hertz ed., Berolini 1983).
15. Norberto Bobbio, "Gli dei che hanno fallito, saggio sul problema del male", compreso in Elogio della mitezza e altri scritti morali, varie edizioni dal 1994.
16. Paul Ricoeur, Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia. Postfazione di Paolo De Benedetti, Morcelliana, Brescia 1993, p. 49.
17. Cfr "MicroMega" n. 5/2011.
18. Cfr diversi articoli in "Incontri", n. 5, gennaio-giugno 2011, su "Beati i puri di cuore?".
19. Buddha, Dhammapada, I versi della legge, 10, 129-130.
20. Albert Schweitzer, Rispetto per la vita, Claudiana, Torino 1994, pp. 16 e 102.
5. SEGNALAZIONI LIBRARIE
Riletture
- Albert Camus, Questa lotta vi riguarda. Corrispondenze per "Combat" 1944-1947, Bompiani - Rcs Libri, Milano 2010, pp. 630.
- Rene' Char, Fogli d'Ipnos 1943-1944, Einaudi, Torino 1968, pp. 126.
- Vercors, Il silenzio del mare, Einaudi, Torino 1945, 1981, pp. 176.
6. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli.
7. PER SAPERNE DI PIU'
Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it
Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/
TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 2020 del 20 giugno 2015
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal Centro di ricerca per la pace e i diritti umani di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XVI)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it , centropacevt at gmail.com , sito: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/
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