[Nonviolenza] Voci e volti della nonviolenza. 703
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- Date: Wed, 3 Jun 2015 12:57:38 +0200 (CEST)
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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" (anno XVI)
Numero 703 del 3 giugno 2015
In questo numero:
Umberto Santino: La mafia al cinema, tra stereotipi e impegno civile (2014)
RIFLESSIONE. UMBERTO SANTINO: LA MAFIA AL CINEMA, TRA STEREOTIPI E IMPEGNO CIVILE (2014)
[Dal sito del Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato" (per contatti: www.centroimpastato.com) riprendiamo il seguente saggio introduttivo al libro di Andrea Meccia, Mediamafia. Cosa Nostra tra cinema e tv, Di Girolamo editore, Trapani 2014.
Umberto Santino e' con Anna Puglisi il fondamentale animatore del Centro Impastato, che come tutti sanno e' la testa pensante e il cuore pulsante del movimento antimafia]
Se tutto e' mafia...
A conclusione di un suo scritto sulla Sicilia nel cinema, del 1963, Leonardo Sciascia scriveva: dopo aver visto un film sulla mafia "... lo spettatore e' portato a chiedersi non piu' che cosa e' la mafia, ma che cosa la mafia non e'. E poiche' la Sicilia e' terribilmente di moda nel cinema, crediamo che questa domanda dello spettatore e' destinata, nei prossimi mesi, ad investire tutta la realta' siciliana: che cosa la Sicilia non e'?". Il riferimento di Sciascia, che cominciava la sua rassegna con "Sperduti nel buio: gente che gode e gente che soffre", film muto di Nino Martoglio, con Giovanni Grasso, del 1914, era al film "Mafioso" di Alberto Lattuada, con Alberto Sordi, del 1962, in cui tutto era o si rapportava alla mafia: "Nel film di Lattuada tutto e' mafia [...]. Mafioso e' il dirigente di una grossa industria del nord (per di piu' riconoscibile, un'industria che lavora in collegamento con altra grande industria europea); di mafia partecipano dogane e compagnie aeree; sicario della mafia e' un 'cronometrista' di quell'industria del nord" (in Sciascia 1970, pp. 254 s.).
E Sciascia, che era solito avvertire: "se tutto e' mafia, niente e' mafia", per arginare la corsa alla generalizzazione, aveva proposto una definizione di mafia: "una associazione per delinquere, con fini di illecito arricchimento per i propri associati, e che si pone come elemento di mediazione fra la proprieta' e il lavoro, mediazione, si capisce, parassitaria e imposta con mezzi di violenza" (in Sciascia 1961, p. 168). La definizione era del 1957 ma riproponendola, con qualche integrazione (la mediazione era anche "tra la produzione e il consumo, tra il cittadino e lo Stato"), in un discorso alla Camera del 26 febbraio 1980, come parlamentare eletto nelle liste del Partito radicale, diceva di ritenere che essa fosse ancora valida, "malgrado siano cambiate tante cose, malgrado sia aumentato il volume delle cose" (in Camilleri 2009, p. 60; Sciascia 2013, p. 25).
Quindi: un'associazione a delinquere, il cui fine e' l'illecito arricchimento, la cui modalita' d'azione si compendia nella mediazione, parassitaria e violenta. Se si tiene conto che il libro sulla mafia piu' diffuso in quegli anni, di cui lo stesso Sciascia aveva scritto la prefazione che ne aveva favorito la diffusione, era quello del giovane sociologo tedesco Henner Hess, pubblicato in italiano nel 1973, che sosteneva che la mafia era una subcultura diffusa in mezza Sicilia, e che la tesi piu' infondata era quella della mafia come organizzazione, al contrario lo scrittore siciliano partiva da quello che considerava un punto fermo: la mafia e' un'associazione, la sua base sta nella struttura associativa, anche se non ricostruita nelle sue articolazioni. Eppure Sciascia, anche nei suoi discorsi parlamentari, dava buon giudizio del libro di Hess, a riprova che il suo "contraddisse e si contraddisse", che avrebbe voluto sulla tomba, era un fedele autoritratto.
Siamo nel 1980, cioe' a due anni dalla legge antimafia (3 settembre 1982, dieci giorno dopo l'assassinio di Dalla Chiesa, della moglie Setti Carraro e dell'agente Russo), che per la prima volta definisce l'associazione di tipo mafioso e successivamente (nel 1984) verranno le dichiarazioni di Tommaso Buscetta che svelera' nome e struttura di Cosa nostra: alla base i sedicenti "uomini d'onore", raggruppati in decine e in famiglie, a livello intermedio i mandamenti, al vertice la commissione e alla testa il capo dei capi. Una piramide di gerarchie fisse, rigide, apparentemente immodificabili. E in una letteratura segnata dalle polarizzazioni, dopo un lungo dominio della visione culturalista (da Pitre', predicatore dell'ipertrofia dell'io, agli anni '70 del secolo scorso), negli anni a seguire regnera' la visione organizzativista, come se l'aspetto culturale non potesse coniugarsi con quello organizzativo e il secondo con il primo.
Le polarizzazioni sono sempre dannose e, di fronte a un fenomeno complesso come la mafia, rischiano di portarci fuori rotta. Per anni sono stato tra i pochi che sostenevano che la mafia era fenomeno polimorfico, frutto dell'interazione tra vari aspetti: crimine, accumulazione, potere, codice culturale, consenso, e che l'architettura complessiva constava di una base di affiliati formalmente (alcune migliaia) e di un sistema di rapporti piu' ampio. Configurando una serie di soggetti, illegali e legali, capimafia, professionisti, imprenditori, pubblici amministratori, politici e rappresentanti delle istituzioni, che condividono interessi e codici culturali, come borghesia mafiosa, ho rischiato il linciaggio. In tempi di crollo delle ideologie, ma di trionfo di un'ideologia come il neoliberismo, al punto da imporsi come pensiero unico, il rischio era di passare per veteromarxista, per ideologizzato fuori tempo e fuori moda. Poi espressioni come "signoria territoriale", "borghesia mafiosa", "mafia finanziaria" sarebbero diventate luoghi comuni e figli di paternita' diffuse e destinate all'anonimato. E' il destino di chi opera al di fuori di qualsiasi tipo di appartenenze: familistiche, accademiche, politiche, mediatiche.
Anche l'impegno che ho profuso, personalmente e assieme ad Anna, e come Centro siciliano di documentazione, accanto ai familiari e a pochi compagni di militanza, per salvare la memoria e avere giustizia per Peppino Impastato, per anni ha provocato piu' isolamento che consenso, finche' e' venuto un film che ha fatto conoscere il personaggio a un pubblico che con i nostri pochi mezzi neppure ci sognavamo. Ma quanti si limitano a venerare l'icona cinematografica e quanti vanno oltre, incrociando il nostro lavoro?
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La Sicilia e la mafia nel cinema
Giovanni Verga non doveva avere grande opinione del neonato cinema, se scrive di non aver capito la trasposizione della sua "Cavalleria rusticana", vista semplicemente per curiosita'; comprende che la "mania cinematografica frutta enormemente piu' del teatro ormai" (e quel "frutta" e' una presa d'atto in termini economici), ma a suo vedere nel cinema "l'ingrossamento del quadro e della sintesi e' necessario e necessariamente brutale" e si rifiuta di mettere le mani sulle sue opere per trarne soggetti e sceneggiature. Se vogliono, lo facciano altri, e tra gli altri c'e' Federico De Roberto (Sciascia 1970, pp. 238 s.), l'autore de "I vicere'", tra i piu' grandi romanzi della letteratura italiana. Luigi Pirandello ha avuto con il cinema un rapporto contraddittorio, di attrazione e ripulsa. Conveniva con Verga che esso fosse lauto di guadagni ma lo contestava sul piano artistico e conoscitivo. Nel romanzo, prima pubblicato con il titolo "Si gira" (1916) e poi con il titolo "Quaderni di Serafino Gubbio operatore" (1925), preconizza che la mano che gira la manovella prima o poi sara' sostituita da un meccanismo, dato che la "professione" dell'operatore e' l'impassibilita', la spersonalizzazione, e il personaggio e l'autore si pongono la domanda: "Cosa fara' l'uomo quando tutte le macchinette gireranno da se'?" (Pirandello, Tutti i romanzi, p. 1112).
Pirandello considerava "un orrore" i "film parlanti", eppure il primo film sonoro italiano, "La canzone dell'amore", di Gennaro Righelli, del 1930, fu tratto da una sua novella, "In silenzio". Nel tentativo di fare di un "fenomeno da baraccone" una forma d'arte, elaboro' proposte, scrisse soggetti e sceneggiature, penso' che il futuro del cinema dovesse essere legato non al teatro e alla letteratura ma alla musica (conio' il neologismo cinemelografia) lavorando a un progetto sulle nove sinfonie di Beethoven. Nel dibattito sul passaggio dal cinema muto al sonoro si trovo' accanto a Charles Chaplin, Charles Vidor, Sergej Ejzenstejn (sugli effetti dell'avvento del sonoro c'e' il bel film, muto, "The Artist", di Michel Hazanavicius, del 2011). Una cinquantina di film si potrebbero considerare "pirandelliani" e tra essi figura una trasposizione di "Come tu mi vuoi", tradotto in "As you desire me" di George Fitzmaurice, con Greta Garbo, del 1932. E la sua morte, nel dicembre 1936, avviene mentre si girava una trasposizione del romanzo "Il fu Mattia Pascal", di cui aveva scritto i dialoghi (Milioto).
Sciascia, che di cinema si e' occupato non solo come critico ma anche come sceneggiatore, nello scritto gia' richiamato considerava la Sicilia al cinema come una moda e dava un giudizio critico anche di film che sono considerati dei capolavori. Trovava "La terra trema" di Visconti (1948) una "regressione nel vernacolo del mondo verghiano", considerato piu' moderno e universale; giudicava calligrafica la Sicilia de "L'avventura" di Antonioni (1960) e considerava come un grande film sulla Sicilia ("mai la Sicilia era stata rappresentata nel cinema con cosi' preciso realismo, con cosi' minuziosa attenzione", Sciascia 1970, p. 253) il "Salvatore Giuliano" di Rosi (1961), anche se il nascondimento del capobanda poteva rafforzarne il mito. E osservava che gli spettatori, a vedere anche le sequenze piu' drammatiche del film, ridevano, perche' piu' che ai contenuti si appassionavano alle immagini e riconoscevano volti e paesaggi noti, come riscoprendoli o vedendoli per la prima volta, nella loro trasposizione sullo schermo.
Il critico cinematografico Vittorio Albano, scomparso nel 2003, scriveva che la Sicilia e' la regione italiana piu' privilegiata dal cinema, con la parte del leone accaparrata dalla filmografia sulla mafia, ma si chiedeva: e' un privilegio o un sorta di "sfruttamento continuato ed aggravato (tranne solitarie eccezioni) della cultura, delle tradizioni, dei problemi e dei piu' appariscenti fenomeni di costume isolani"? La Sicilia non rischia di passare per una "colonia" frequentata da mercanti che pensano solo a speculazioni commerciali? Albano non e' di questo parere, anche se abbondano deformazioni di comodo, rappresentazioni false e arbitrarie. Il cinema e' un'industria e come nei film italiani ben pochi sono opera d'arte cosi' per i film siciliani, cioe' sulla Sicilia, la proporzione si puo' dire uguale. In ogni caso, "il cinema non e' tenuto a rispecchiare fedelmente la realta', ma ha il suo pieno diritto di reinventarla, o perlomeno di riprodurla in funzione delle proprie esigenze narrative. Ne' il cinema ha il dovere di esprimere denunce, di svolgere indagini in chiave storico-sociologica, o di comunicare 'messaggi' di qualsiasi genere: quando lo fa e' per scelta di certi registi che sono mossi da vocazioni di sociologi o moralisti e, guarda caso, si rivelano quasi sempre i meno dotati di capacita' di linguaggio filmico degno di apprezzamento".
E continuava: "L'immagine dunque. L'immagine deformata di una regione che, secondo i lamentatori, ne uscirebbe mortificata e danneggiata. In effetti l'immagine sullo schermo e' di solito ben lontana a quella reale e al rispecchiamento, che pure esiste in certi casi, sostituisce la 'falsita'' (intesa come finzione) tipica del cinema: resta da vedere se la falsita' e' poetica, e pertanto diventa 'verita'' del cinema, oppure se manca di ispirazione autentica e dunque resta solo funzionale a certe imprese" (Albano 2003, pp. 8 s.).
In definitiva, a dire di Albano, la Sicilia puo' ritenersi fortunata se e' stata "scoperta" da registi non siciliani come Germi, Rosi, Visconti, Lattuada, dai fratelli Taviani e da Amelio. Dai siciliani per molti anni nessun segno di vita, tolti i documentari di De Seta, che pero' per fare un film ha preferito la Sardegna con "Banditi a Orgosolo" (1961). Solo negli ultimi anni c'e' stato qualcosa di interessante, con Tornatore, Cipri' e Maresco, Torre. Quel che e' certo e' che nel cinema la mafia ha fatto da padrona, rispetto alla camorra e alla 'ndrangheta, e i film di maggiore successo in Sicilia sono stati quelli meno buoni, e bisogna chiedersi perche': gli spettatori vedono "celebrati" sullo schermo violenze e ingiustizie che la spettacolarizzazione induce a farli considerare "altro" da quello che sono nella vita reale.
Queste considerazioni ci portano a porci un interrogativo: nella rappresentazione della mafia che funzione ha avuto il cinema? E la televisione? E sono queste le domande che si pone il libro di Andrea Meccia. Si puo' dire che il cinema abbia riflesso il sentire comune o di gran parte della popolazione, o quello di una minoranza illuminata, o l'abbia influenzato, rafforzato se non costruito?
Nel cinema si riflettono le idee e le rappresentazioni che circolano a vari livelli, nel cosiddetto immaginario collettivo: gli stereotipi piu' sedimentati e le analisi piu' avvedute, le apologie e le ripulse, le complicita' e le sfide, una lunga storia di violenze e di lotte che s'intreccia con quella di una comunita' e di una nazione. Pur traducendoli nel suo linguaggio, o prendendone le distanze, gran parte della produzione cinematografica ha come fonte testi scritti, in particolare narrazioni romanzesche o ricostruzioni giornalistiche, spesso quelle di maggiore successo. A suo tempo sono stati libri di successo i romanzi di Loschiavo, enorme successo ha avuto "Il Padrino" di Puzo, un certo successo hanno avuto i romanzi e gli scritti di Sciascia e quelli di Fava. E libri di successo piu' recentemente sono state le biografie di personaggi del mondo mafioso, vuoi boss irriducibili, come Riina e Provenzano, o pentiti di maggior peso e fama, come Buscetta.
Il cinema, rispetto al testo scritto, raggiungeva un maggior numero di spettatori e per farlo azionava il meccanismo di "ingrossamento" individuato da Verga; poi la televisione si e' incamminata sulla stessa strada. Piu' dei libri, film e sceneggiati televisivi diventano strumenti di conoscenza o di informazione, ma per lo piu' scavano dentro miniere di stereotipi. Cosi' abbiamo assistito al profilarsi di una storia del cinema di mafia che ricalca, o rafforza, le idee correnti, piu' o meno diffuse. La favola romantica di una mafia di uomini d'onore, con i loro codici e le loro sanzioni ma pronta a sottomettersi alla legge; il cinema apologetico che decanta la mafia come erede e custode della Tradition, in un mondo senza valori e senza punti di riferimento; il cinema d'inchiesta e di impegno civile che ricostruisce legami e complicita' e cerca di venir a capo di misteri troppo a lungo coltivati come insondabili e inspiegabili. O anche il cinema satirico che usa il dileggio e l'irrisione come forma di demistificazione e di destrutturazione del rispetto e della sudditanza.
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La mafia romantica: dal western nostrano all'apologia
"In nome della legge" e' del 1949, il romanzo di Loschiavo "Piccola pretura" del 1948. Sono gli anni in cui sono in corso in Sicilia grandi lotte contadine a cui si risponde con la violenza mafiosa, regolarmente impunita perche' funzionale al mantenimento degli assetti di potere. Ci sono gia' stati i delitti che colpivano dirigenti e militanti del movimento contadino e dei partiti di sinistra, tutti impuniti; c'e' gia' stata la strage di Portella della Ginestra del primo maggio 1947, per cui hanno pagato solo i banditi.
Giuseppe Guido Loschiavo, magistrato, durante il periodo fascista si era impegnato in un dibattito sulla natura della mafia e aveva sostenuto che essa era associazione a delinquere (Loschiavo 1933), mentre altri erano dell'avviso che fosse solo un fenomeno culturale (Puglia 1930), ma nel romanzo e negli scritti successivi avalla l'idea di una mafia come "onorata societa'", ben diversa dalla delinquenza, che applica una sua giustizia. Solo una parte della mafia, giovane e/o tralignata, si puo' considerare associazione a delinquere.
Nelle pagine introduttive del romanzo, destinate a non siciliani, ai "continentali", scrive che la mafia aveva un duplice profilo: sentimento di mafia e azione di mafia. E parla di un'organizzazione strutturata, con un capomafia per ogni paese, circondato da una corte che gli deve obbedienza, mentre ogni capomafia locale la deve al superiore provinciale e questi al regionale (Loschiavo 1948, p. 4, p. 112 s.).
Negli incontri con il nuovo pretore il capomafia, il massaro Turi Passalacqua, espone il suo credo: la legge della mafia e' come una legge di natura, legge di Dio, l'uccisione di chi sbaglia e' come una legittima difesa della societa' (ivi, pp. 157 s.), di fronte a uno Stato che non riesce ad assicurarla; lui e' un galantuomo e ci tiene che il pretore gli stringa la mano, gli raccomanda di compiere il suo dovere "senza esagerazione"; proclama: noi non siamo ribelli ma veri uomini d'ordine, abbraccia e bacia il giovane magistrato come un padre e impone ai suoi seguaci di baciargli la mano. Quando il pretore subisce un attentato lo fa assistere, dice che il delitto e' stato compiuto da un "bardascia", un volgare delinquente, e che la mafia lo punira'. Il pretore si oppone e il massaro l'accontenta: bastera' esiliarlo. E quando un affiliato, un rappresentante della mafia giovane che viola le regole, praticando "l'intimidazione spregiudicata connessa all'umiliazione della vittima" (p. 255), uccide il giovane Paolino, che e' diventato amico del pretore, il capomafia consegna l'assassino al magistrato. La scena finale e' il reciproco riconoscimento dei due poteri. il pretore dice al massaro: "Lei e' veramente il re del paese", Passalacqua replica: "Io sono il servitore di Voscenza" (p. 276 ) e si piega alla legge. Lo scrittore commenta: "Le due Leggi, quella dello Stato, la togata, e quella della campagna, avevano fatto armistizio e per la prima era vittoria!" (ibidem).
Loschiavo continuera' su questa strada e quando muore il vecchio Calogero Vizzini e gli succede Genco Russo, sulle pagine di una rivista giudiziaria scrive: "Si e' detto che la mafia disprezza polizia e magistratura: e' un'inesattezza. La mafia ha sempre rispettato la magistratura, la Giustizia, e si e' sempre inchinata alle sue sentenze e non ha ostacolato l'opera del giudice. Nella persecuzione dei banditi e dei fuorilegge ha affiancato addirittura le forze dell'ordine. [...] Oggi si fa il nome di un autorevole successore nella carica tenuta da Don Calogero Vizzini in seno alla consorteria occulta. Possa la sua opera essere indirizzata sulla via del rispetto delle leggi dello Stato e al miglioramento sociale della collettivita'" (in "Processi" 1955).
Chi scrive e' Procuratore generale presso la Corte di Cassazione, siamo a meta' degli anni '50 e la mafia sta ultimando la strage dei dirigenti e militanti delle lotte contadine. Per uccidere magistrati e uomini delle forze dell'ordine ci vorra' ancora un po' di tempo.
Il regista Pietro Germi, onesto socialdemocratico, avvalendosi nella sceneggiatura di sconosciuti che ben presto non lo saranno piu' come Federico Fellini e Mario Monicelli, ricalca la narrazione del magistrato-scrittore e celebra insieme l'onore della mafia e l'impegno del magistrato, concludendo con la vittoria della Legge sulla mafia. E a proposito del film, che ebbe grande successo, dichiara che per lui la Sicilia e' come una categoria dello spirito, il luogo dello scontro tra il Bene e il Male. E in effetti il film segna la scoperta dell'isola come il Far West d'Italia e la trasposizione in chiave nazional-popolare della lezione dei grandi registi americani, a cominciare da John Ford.
Siamo, come si vede, in piena atmosfera romantica e, al di la' dell'oceano, questo modo di intendere e raccontare la mafia trovera' la sua apoteosi nel "Padrino" di Coppola (1972).e nelle sue prosecuzioni (1974, 1990). Che Coppola sia una grande regista e Marlon Brando un grandissimo attore, non ci sono dubbi, e il film sara' un capolavoro ma e' esplicitamente apologetico, un vero inno alla mafia intesa come custode di antichi valori, la famiglia, la giustizia, l'onore ecc. ecc., in una societa' come l'America contemporanea, metafora dell'universo, in piena crisi di valori e di punti di riferimento.
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Il cinema d'impegno civile
Nel 1961 esce il film di Francesco Rosi "Salvatore Giuliano", rifiutato a Venezia perche' considerato piu' un documentario che un vero e proprio film (Rosi in Marangi e Rossi, 1993, p. 34), che si puo' dire segni la nascita del cinema di impegno civile, che successivamente si evolvera' affrontando anche il tema della violenza politica rubricata sotto la voce terrorismo.
I film di Rosi e gli altri che cominceranno a uscire piu' che film sulla mafia sono rappresentazioni della morfologia del potere cosi' come si e' sviluppato nel nostro Paese, coniugandosi con prassi criminali in particolare nella forma piu' nota e emblematica: la mafia.
Tali sono per esempio i film ricavati dai romanzi di Sciascia, come "A ciascuno il suo" di Elio Petri (1967), "Il giorno della civetta" di Damiano Damiani (1967), "Cadaveri eccellenti" di Rosi (1976), "Todo modo" di Elio Petri (1976), "Porte aperte" di Gianni Amelio (1989), "Una storia semplice" di Emidio Greco (1991). Nel racconto "Il giorno della civetta", il capitano (il nordico Bellodi e Sciascia precisera' che il riferimento era a Renato Candida, ufficiale dei carabinieri, autore di "Questa mafia"), si ripromette di ritornare in Sicilia: "Ma prima di arrivare a casa, sapeva lucidamente, di amare la Sicilia: e che ci sarebbe tornato. - Mi ci rompero' la testa - disse a voce alta" (Sciascia 1961, 1972, p. 118). Nel film il capitano viene trasferito e la mafia ha partita vinta.
Sul filone del cinema civile o impegnato si potrebbero inserire i film su personaggi della storia dell'antimafia, piu' o meno fedelmente rappresentati. Da Salvatore Carnevale di "Un uomo da bruciare" dei fratelli Taviani (1962) con un giovane Volonte', a Peppino Impastato dei "Cento passi" di Marco Tullio Giordana (2000), a Placido Rizzotto del film omonimo di Paquale Scimeca (2000), a Rita Atria de "La siciliana ribelle" di Marco Amenta (2009).
In periodi particolarmente drammatici, segnati dai delitti e dalle stragi di mafia, il cinema e', o vuole essere, un fatto collettivo. Cosi' nel 1984 un gruppo di associazioni, tra cui il Centro Impastato, sostiene la produzione del film di Giuseppe Ferrara "Cento giorni a Palermo", sul prefetto-generale Dalla Chiesa (Autori Vari 1983). E Ferrara, che aveva cominciato con "Il sasso in bocca" (1970), avvalendosi della consulenza di Michele Pantaleone, sara' puntualissimo a filmare ogni evento drammatico della storia d'Italia, dall'assassinio di Dalla Chiesa a quelli di Falcone, di Guido Rossa e di Aldo Moro, con una serie di instant-movies.
Ricordo che con Ferrara ci si pose il problema di come girare a Palermo, dato che una prassi inveterata voleva che si pagasse una sorta di pizzo a un personaggio che pretendeva il monopolio di fornitura dei servizi e reclutamento delle comparse. E Giordana ci ha fatto vedere la bozza di sceneggiatura e assieme ad Anna, Giovanni Impastato e la moglie Felicia, abbiamo messo per iscritto una serie di osservazioni e suggerimenti in parte accolti, anche se non e' stato accolto il consiglio di cambiare titolo, che cosi' com'era, ed e' rimasto, e' una metafora della contiguita', mentre la specificita' di Peppino era ben piu' drammatica: la mafia l'aveva in famiglia, come indica il titolo della storia di vita della madre di Peppino, Felicia Bartolotta, "La mafia in casa mia". Ma il successo del film ha ormai consacrato l'icona e la canzone dei Modena City Ramblers l'ha rafforzata. E qualcuno ha sostenuto che il film ha fatto riaprire l'inchiesta sull'assassinio di Peppino, ignorando che le inchieste e i processi ai mandanti del delitto si sono svolte e sono cominciati prima del film, e gia' nel 1998 si costituiva presso la Commissione parlamentare antimafia il Comitato sul depistaggio delle indagini ("Peppino Impastato: anatomia di un depistaggio" 2001-2012), ma la proposta di rettifica di affermazioni palesemente non veritiere, avanzata dal Centro Impastato e dai familiari di Peppino, non e' stata accolta (Santino 2011). Ancora una volta hanno vinto il pressappochismo e l'improvvisazione.
Prima di Giordana l'idea di fare un film su Peppino era venuta a Gillo Pontecorvo, per quel che ricordo su consiglio di Gian Maria Volonte', attore-icona del cinema militante. Pontecorvo, con lo sceneggiatore Arlorio, e' andato a Cinisi, e' venuto al Centro, chiedeva se ci fosse una donna, non capiva come le denunce e le attivita' di Peppino non avessero spinto tutto il paese alla ribellione. Le nostre considerazioni sul radicamento della mafia, sugli interessi legati al traffico di eroina (Cinisi era allora una centrale del traffico di droga), i rapporti con la politica, piu' che spronarlo a fare il film l'avranno dissuaso. Non era la prima volta che Pontecorvo non realizzava i suoi progetti.
Il Placido Rizzotto di Scimeca sembra un eroe isolato che deve informare i contadini distratti e dormienti di quanto accade sul territorio, mentre era a capo di un movimento di massa che raccoglieva migliaia di persone. E non occorreva lo stupro, mai accaduto, sulla presunta fidanzata di Placido, piu' o meno consenziente, per rendere piu' brutto di com'era il sanguinario Luciano Liggio. "La siciliana ribelle" di Marco Amenta ha destato le reazioni di congiunti e di altri che a Rita Atria fanno riferimento, presentando una inverosimile ragazza pistolera e un Paolo Borsellino a cui bisogna spiegare tutto, dato che non capisce nulla.
Mi limito a qualche accenno su altri film recenti. "Segreti di Stato" di Paolo Benvenuti (2003) sulla strage di Portella della Ginestra sposa troppo disinvoltamente la tesi del complotto planetario. Che la strage abbia avuto origini ed effetti ad ampio raggio e' certo (la prima iniziativa del Centro siciliano di documentazione fu il convegno nazionale "Portella della Ginestra: una strage per il centrismo", nel 1977, trentennale della strage: Santino 1997), ma un conto e' la documentazione rigorosa, anche se versata in un contesto filmico, un altro l'illazione onnicomprensiva. "Alla luce del sole" di Roberto Faenza (2005) non si vede perche' debba calcare le tinte facendo morire don Puglisi in una piazza dell'Albergheria in pieno giorno, tra l'indifferenza della gente (mentre e' stato ucciso di notte davanti la porta di casa sua nel quartiere Brancaccio). "Il divo" di Sorrentino (2008) eccede nella caricatura e demonizzazione di Andreotti, artefice di tutte le malefatte e custode di tutti i segreti, che fu certamente al centro del sistema di potere per mezzo secolo, ma il Belzebu' che puzza di zolfo infernale lo lascerei ai vignettisti. Trovo piu' sobri "L'uomo di vetro" di Stefano Incerti (2007) sul protopentito Leonardo Vitale e "Fortapasc" di Marco Risi (2009) sul giornalista Giancarlo Siani ucciso dalla camorra nel settembre 1985.
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Si puo' ridere della mafia?
"Di certe cose non si ride": questa fu la reazione di tanti, a cominciare da alcuni familiari di vittime di mafia, quando nel settembre del 1985 comparve nelle librerie di Palermo un libretto dal titolo "Una modesta proposta per pacificare la citta' di Palermo", di Anonimo del XX secolo, dedicato al magistrato Rocco Chinnici ucciso nel 1983, in cui si proponeva di legalizzare l'omicidio. Non ci volle molto tempo per scoprire che l'autore era chi scrive, ci fu qualche recensione ma ci fu soprattutto disappunto e rimozione (Santino 1985, 2006). Nel 1986 sul quotidiano "L'Ora" apparve un inserto satirico, Paginazza, a cui collaboravo con lo pseudonimo Giona e una rubrica intitolata Overdosi con l'esergo: "Siamo quotidianamente esposti a dosi intollerabili di violenza, malafede, stupidita'. E al di la' di un certo limite invece della rottura si ha l'assuefazione" (Santino 1988, Montemagno 2013).
Gia' prima, negli anni '70, Peppino Impastato, con Radio Aut (che sta per Autonomia, mentre tanti, che non sanno nulla, o molto poco, di Peppino, scrivono Out, all'inglese) mandava in onda settimanalmente Onda pazza, una trasmissione satirica in cui sbeffeggiava i mafiosi e i loro complici. Un atto di lesa maesta' che non gli fu perdonato (Impastato 2202-2008).
Ci andrei piano percio' a dire, come si e' detto, che questo o quel film segni la prima volta che si ride della mafia. Purtroppo il banner con la scritta "la prima volta" fa parte del campionario del marketing e sara' difficile toglierlo di mezzo.
Abbiamo gia' visto cosa Sciascia pensava del film "Mafioso", del 1962: una generalizzazione all'insegna del "tutto e' mafia", che considerava gratuita e dannosa. Ma il film di Lattuada e la scelta di Alberto Sordi, icona dell'uomo medio italico, come protagonista, avevano un segno preciso: il tentativo di fare satira di un fenomeno che prima d'allora era stato trattato con moduli d'altro segno. E rientravano nella logica di quel tentativo l'uso dello stereotipo e la paradossalita' della parabola che anticipava straripamenti che non avrebbero tardato ad avverarsi.
Questo tentativo sara' ripreso negli anni successivi, sia dal cinema italiano che da quello americano. Penso a "Johnny Stecchino" (1991) di e con Roberto Benigni, a "L'onore dei Prizzi" di John Huston (1985), a "Pallottole a Broadway" di Woody Allen (1994).
Su questa strada si sono avviati Cipri' e Maresco con "Cinico Tv" (1995), Roberta Torre con "Tano da morire" (1997) e da ultimo Pier Francesco Diliberto (Pif) con "La mafia uccide solo d'estate" (2013). Francamente non condivido gli entusiasmi correnti: "Tano da morire" mi e' sembrato eccessivamente squilibrato nel riuso degli stereotipi ("la mafia di una volta rispettava gli antichi valori") e delle liturgie del plebeismo urbano; Cipri' e Maresco hanno dissezionato Palermo, con qualche lampo di intelligenza in un letamaio di peti, rutti, ostentate scurrilita', in un mondo ricreato come discarica, un'umanita' come irreprimibile animalita', disperata miseriologia quotidiana. Il film di Pif e' piu' umoristico che satirico, molto didascalico-pedagogico, con fervorino finale che invita i padri e le madri - che a differenza dei loro genitori, hanno capito, attraverso i grandi delitti e le stragi dagli anni '80 in poi, e qualche manifestazione antimafia, che la mafia c'e' ed e' brutta e cattiva - a tramandare ai figli, con il pellegrinaggio devozionale alle lapidi del cimitero Palermo, le gesta degli eroi antimafia, un Pantheon di uomini delle istituzioni, escludendone altri e soprattutto ignorando una storia di lotte, di mobilitazioni, di sangue, che comincia ben prima della strage di viale Lazio, in coincidenza con il concepimento dell'autore.
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La Piovra e dintorni
Agli inizi degli anni '80 comincia la crisi delle sale cinematografiche, soprattutto le sale popolari, di seconda, terza e quarta visione, che ricordo affollatissime. Gia' molti locali, anche di pregio, erano stati diroccati e rimpiazzati con palazzoni anonimi. Le citta' cambiano volto. Le vecchie sale sono sostituite dal cinema in casa, anche se su piccolo schermo. Il successo della televisione, prima con gruppi di telespettatori assiepati nei bar e nei circoli, chiamati a raccolta dalle partite di calcio o da "Lascia o raddoppia?", poi con la disseminazione casa per casa, produce un mutamento nello stile di vita e nel linguaggio. Scompare una forma di socializzazione, si impone un consumo individuale, atomizzato, che sara' ancora di piu' esaltato dal diffondersi dei cellulari e degli altri prodotti elettronici. Le parlate locali, gli antichi dialetti che seguivano le innumerevoli pieghe degli abitati spalmati sul territorio, danno spazio a una lingua comune, un italiano prodotto e informato dagli spettacoli di successo, a cominciare dai caroselli pubblicitari.
Il "discorso" sulla mafia ora e' affidato alla televisione, sotto forma di servizi giornalistici ma soprattutto di sceneggiati a puntate. Dal 1984 al 2003 sulla Rai va in onda "La piovra", lo sceneggiato televisivo piu' seguito ed esportato. Lo scontro e' tra una mafia onnipotente, onnipresente, e il commissario Cattani, e dopo la sua uccisione la giudice Silvia Conti. Come dire: un gioco a guardia e ladri, con una guardia supereroica contro una banda di spietati delinquenti. Ritorna il "tutto e' mafia" di Sciascia e il contrasto e' affidato solo all'impegno individuale.
Nel frattempo si sono imposte le televisioni commerciali che hanno modellato i gusti perseguendo una strategia di stupidificazione che ha investito anche le televisioni pubbliche. Non penso che sia stata questa la causa principale del berlusconismo, dagli anni '90 a oggi, ma e' certo che buona parte del suo affermarsi sia effetto da questa pedagogia di imbarbarimento quotidiano e di questa religione del successo e etica dell'amoralita'. Il cavaliere-caimano-egoarca-sultano ha monopolizzato il sistema comunicativo, dall'editoria al cinema, alle televisioni. Le sue case editrici pubblicano libri sulla mafia, sulle mafie, da Saviano a Gratteri-Nicaso, mentre il titolare sbraita contro i libri dei mafiologi. Sulle sue televisioni sono stati trasmessi un buon numero di sceneggiati sulla mafia, e in particolare "Il capo dei capi" (2007) e "L'ultimo padrino" (2008).
Ricordo le reazioni in una scuola di Palermo, l'Istituto comprensivo "Antonio Ugo", con cui abbiamo collaborato per anni, alla trasmissione del primo. Scrive un'insegnante: "La fiction pone Riina in una luce centrale, con il rischio di fargli assumere il ruolo di modello da seguire ed imitare: potente, ricco, vincente. [...] Ancora piu' fuorviante la raffigurazione che viene data dei personaggi dell'antimafia, investigatori e magistrati. I mafiosi sono ricchi e potenti, i poliziotti conducono vite modeste quando non squallide. L'immagine che ne risulta e' quella dei vinti in una societa' tutta protesa ai valori dell'apparire, in cui esisti solo se hai e appari. [...] I ragazzi sono stati profondamente attratti dalle figure vincenti, tanto [...] da improntare i loro giochi sulla emulazione di quanto vedevano. Sconvolgente soprattutto la constatazione che nel gioco delle parti tutti volevano essere Riina o uno dei suoi scagnozzi e venivano scelti i nomi dei mafiosi persino per le squadre di calcio. Intervistati i ragazzi dicevano che lui e' da ammirare perche' fa quello che vuole, da' lavoro a tante persone e non si fa prendere" (Alaimo 2011).
Si pone un vecchio problema: il Male, cosi' come viene rappresentato, ha un suo fascino, attrae irresistibilmente; il Bene invece appare sbiadito, incolore e poco interessante. E non si vede perche' bisogna aggiungere nuovi titoli a glorificazione di personaggi che sono in realta' ben miseri e poco attraenti (come Riina e Provenzano) trasformandoli in geni del male. Le loro fortune, piu' che sulle loro capacita', si fondano sul sistema di rapporti e sulle dinamiche di potere che li hanno usati e protetti. E lo stesso credo possa dirsi per un personaggio come Matteo Messina Denaro, ancora latitante, che di diverso ha la giovinezza e lo stile di vita ma la cui irreperibilita' si spiega con un ambiente che lo nasconde e lo venera.
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Questo libro
Andrea Meccia si era gia' cimentato con questi temi in saggi pubblicati in libri collettanei (Meccia e Bisogno 2010; Meccia 2012) e ora con questo libro traccia una storia della mafia e una storia del cinema di mafia e della rappresentazione televisiva e musicale. Il libro e' certamente uno strumento utile per orientarsi nel mondo delle iconizzazioni degli ultimi anni, anche quando, o forse soprattutto quando, pone problemi e suscita interrogativi.
La ricostruzione dell'evoluzione della mafia negli ultimi decenni poggerebbe su una mutazione antropologica di Cosa nostra che si esplicita con l'accentuazione della violenza, rivolta contro magistrati, poliziotti, giornalisti, politici. Mentre la relazione di maggioranza della Commissione parlamentare antimafia (1963-1976) pronosticava la trasformazione in gangsterismo urbano, quella di minoranza del Partito comunista, redatta, tra altri, da Pio La Torre e da Cesare Terranova, parlava di una mafia che si trasformava per adattarsi ai mutamenti del contesto.
Forse piu' che di mutazione antropologica bisognerebbe parlare di un'evoluzione del fenomeno mafioso che come tutti i fenomeni di durata intreccia continuita' e trasformazione. I corleonesi hanno fatto ricorso alle armi, eliminando la concorrenza interna e rivolgendole contro i nemici esterni. E' una novita'? Finora la guerra interna alla mafia ha avuto un ciclo ventennale, c'era stata nei primi anni '60, si replica nei primi anni '80. Prima i nemici esterni erano i dirigenti e i militanti delle lotte contadine e dei partiti di sinistra; ora, negli anni '80 e '90, sono i magistrati e gli uomini delle forze dell'ordine e delle istituzioni impegnati nel contrasto alla mafia, non molti e facilmente identificabili e tramutabili in bersaglio; giornalisti che ne scoprono traffici e relazioni; politici che continuano una tradizione di lotte (Impastato, La Torre) o ne prendono le distanze (Reina, Mattarella) o non avrebbero mantenuto le promesse (Lima).
Cosa c'era al fondo della guerra di mafia degli anni '80? Ricordo che ci furono dei problemi per decifrare il gioco delle parti e la composizione degli schieramenti e che le prime ipotesi vennero formulate sulla base di fonti anonime provenienti dai dintorni dell'organizzazione. La mia ipotesi di lettura, esplicitata nella ricerca sugli omicidi (Santino 1999), e' che l'offensiva dei corleonesi nasceva dal ruolo minore che essi avevano nel grande gioco dell'accumulazione. Erano dei parenti poveri rispetto alle dinastie dei Bontate, degli Inzerillo, dei Badalamenti, ma potevano contare su alleanze all'interno delle famiglie palermitane e su una maggiore decisione nell'uso della violenza. I grandi delitti esterni si spiegano con la lievitazione dell'accumulazione illegale, derivante soprattutto dal traffico internazionale di droga, che comportava la richiesta di maggiori spazi economici e di potere.
C'e' stato un salto di qualita' dello Stato nel contrasto alla mafia? Certamente c'e' stata una risposta ai grandi delitti e alle stragi, con la legge antimafia (1982), gli arresti, i processi e le condanne, ma sempre nella logica dell'emergenza e lo smantellamento del pool, l'isolamento di Falcone e Borsellino, non sono accaduti per caso. Sono frutti di una visione secondo cui la mafia esiste quando spara ed e' un fenomeno di cui preoccuparsi quando c'e' la montagna di morti, diventa "questione nazionale" quando uccide uomini delle istituzioni. Era accaduto dopo la strage di Ciaculli del 1963, accade negli anni '80 e la mafia si sente obbligata a reagire con nuove stragi dopo l'esito negativo, per lei, del maxiprocesso.
Sono una novita' i pentiti? Lo sono certamente come numero, lo sono perche' depongono in dibattimento, ma prima c'erano i confidenti: il silenzio, l'omerta' come comandamento inderogabile, sono sempre valsi fino a un certo punto.
L'implosione del socialismo reale e il crollo del muro di Berlino ha comportato il crollo del ruolo storico della mafia, baluardo armato contro le sinistre, e la ricerca di rapporti con i nuovi detentori del potere. I grandi delitti e le stragi degli anni '80 e '90 hanno suscitato lo sdegno di migliaia di persone, ci sono state grandi manifestazioni ma se si guarda alle iniziative continuative, nelle scuole, nell'antiracket, nell'uso dei beni confiscati, a essere impegnati quotidianamente non siamo in molti. I tentativi di azione unitaria a Palermo, prima con il Coordinamento antimafia proposto dal Centro Impastato nel 1984, e poi con Palermo anno uno, formatosi dopo le stragi del '92 e del '93, sono ben presto naufragati. I lenzuoli ai balconi, molto reclamizzati, hanno avuto una breve stagione. A livello nazionale opera Libera, con problemi, almeno nel periodo in cui ne abbiamo fatto parte, di democrazia interna, dovuti a una leadership un po' troppo carismatica. Ci sono vari gruppi in azione, come le Agende rosse che definiscono la mafia antistato e predicano: "Fuori la mafia dallo Stato". L'antimafia attuale non ha "vessilli ideologici", ma le ideologie, quando sono una cosa seria, e non mere verniciature propagandistiche, sono visioni del mondo e dell'agire sociale e politico. Il movimento antimafia soffre dei mali che affliggono l'azione sociale degli ultimi decenni: la mancanza di un'ideologia comporta l'inesistenza di un progetto, la carenza d'analisi, il rifugio nell'emotivita', la condanna alla precarieta', la ricerca di un ecumenismo che piu' che rafforzare stempera e indebolisce (Santino 2000, 2009; Idem 2008, 2011).
Opportune e condivisibili percio' le riflessioni sullo stereotipo della mafia antistato, che tiene ancora se si pensa che la sezione della grande mostra di Torino per il CL anniversario dell'Unita' d'Italia dedicata alla mafia aveva come titolo "La violenza dell'antistato". Ho scritto al curatore della mostra, Giovanni De Luna, che mi ha risposto che conosceva e condivideva le mie analisi ma quel titolo voleva essere un augurio per il futuro. Non credo che ci sara' un futuro diverso se si ha del presente e del passato un'idea scorretta e inadeguata.
Trovo opportuna la riproposizione di una "cartolina" di Andrea Barbato al procuratore generale della Cassazione in cui si parlava di una "via giudiziaria alle riforme" e si auspicava un futuro in cui ci fosse meno bisogno del ruolo salvifico della magistratura. Le cose sono andate diversamente: l'illegalita' e' diventata sempre piu' prassi quotidiana e forma del potere, che si e' sempre piu' identificato con la legalizzazione dell'illegalita'. In questo quadro il processo ad Andreotti e quello in corso sulla trattativa tra mafia e Stato segnano il tentativo di venire a capo, in sede giudiziaria, di rapporti che sono tutt'altro che "liquidi", come vuole la vulgata delle teorizzazioni di Bauman.
Sono al contrario ben solidi e impregnano una continuita' che rimonta alle origini del quadro di potere, ancor prima del formarsi dello Stato unitario. Se non si avvia un profondo cambiamento dei rapporti sociali, affrontando i problemi dell'emarginazione prodotta dai processi di globalizzazione, intrinsecamente criminogena, per l'aggravarsi degli squilibri territoriali e dei divari sociali, la via giudiziaria, a prescindere dagli esiti dei processi, sara' sempre piu' inadeguata e insufficiente. E trovo discutibile l'impegno elettorale dei magistrati piu' impegnati in inchieste sulla mafia, sia o meno coronato da successo. Non solo perche' offre il fianco ai devoti del garantismo peloso, ma soprattutto perche' induce e consolida la delega ai "salvatori" della legalita' e della patria e coniuga una condivisibile critica ai partiti, diventati clan e tifoserie personali, a una mitizzazione della societa' civile, che troppo spesso soffre degli stessi mali: il protagonismo, lo sgomitare per apparire, l'accesso ai fondi pubblici attraverso canali privilegiati e rapporti personali: finora la richiesta del Centro Impastato di una legge che fissi criteri oggettivi per l'erogazione dei fondi pubblici non e' stata accolta, perche' e' stata isolata.
Le schede dedicate ai film ritenuti piu' significativi, le interviste ad alcuni "testimoni privilegiati" e la riproposizione di testi difficilmente reperibili, si concordi o meno sui contenuti (personalmente ho qualcosa da eccepire sul "mistero del potere": credo che se si sa scavare adeguatamente molti misteri si dissolvono), arricchiscono il volume e ne rendono piu' stimolante la lettura.
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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Numero 703 del 3 giugno 2015
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