[Nonviolenza] Coi piedi per terra. 783



 

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COI PIEDI PER TERRA

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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" (anno XV)

Numero 783 del 4 giugno 2014

 

In questo numero:

Francesco Gesualdi: L'altra via (parte seconda)

 

TESTI. FRANCESCO GESUALDI: L'ALTRA VIA (PARTE SECONDA)

[Ringraziamo di cuore Francuccio Gesualdi (per contatti: tel. 050826354, fax: 050827165, e-mail: coord at cnms.it, sito: www.cnms.it, blog: http://blog.francescogesualdi.eu/) per averci consentito di ripubblicare il seguente estratto dal suo libro L'altra via. Dalla crescita al benvivere, programma per un'economia della sazieta', Terre di Mezzo, Milano 2009.

Francuccio Gesualdi e' stato allievo di don Lorenzo Milani nell'esperienza della scuola di Barbiana, e' animatore dell'esperienza del "Centro nuovo modello di sviluppo" di Vecchiano, insieme a padre Alex Zanotelli ha promosso la nascita della "Rete di Lilliput", e' da sempre impegnato in molte iniziative concrete di solidarieta' e di difesa dei diritti umani e dell'ambiente, ha contribuito in misura decisiva a far nascere e crescere in Italia la consapevolezza, l'azione e le reti del consumo critico ed etico, del commercio equo e solidale, degli stili di vita sobri e responsabili, della solidarieta' dei consumatori del Nord del mondo con i lavoratori del Sud contro la violenza sfruttatrice delle multinazionali, dell'impegno contro la trappola del debito che dopo averli rapinati affama e strozza i popoli, dell'azione per garantire a tutta l'umanita' il diritto al cibo, all'acqua, a un ambiente vivibile, alla dignita']

 

Seconda parte. Verso dove andare

Capitolo 5. Obiettivo benvivere

Non e' vero che "di piu'" fa sempre rima con "meglio" o che crescita si associa sempre a sviluppo. Quando il corpo e' invaso da un cancro mostruoso che infiltra fegato e reni, comprime il cervello, deforma i lineamenti del viso, la crescita c'e', ma della malattia. Un malsviluppo che conduce alla morte. E come il cancro riorganizza interi distretti per servire la propria espansione, cosi' il consumismo ridefinisce la nostra natura per assoggettarci ai suoi scopi. Bidoni aspiratutto, tubi digerenti a presa diretta: ecco a cosa vuole ridurci.

Abbiamo tollerato fin troppo l'insulto, ora dobbiamo ribellarci, gridare in faccia ai mercanti che non siamo ammassi di carne da stimolare elettricamente come le rane. Dobbiamo riaffermare la nostra dignita' di persone, esseri a piu' dimensioni. Non solo corpo, ma anche sfera affettiva, intellettuale, spirituale, sociale. Si ha vero benessere solo se tutte queste dimensioni sono soddisfatte in maniera armonica. Non una che prevale sull'altra, ma tutte soddisfatte nella giusta misura. Ad ogni dimensione il suo tempo, il suo spazio, la sua corretta qualita'.

Martin Luther King diceva che i primi ad opporsi all'abolizione della schiavitu' non sono i bianchi, ma i neri, assuefatti allo schiavismo. Allo stesso modo i primi ad opporci a questa nuova concezione di benessere siamo noi che avremmo tutto l'interesse a cambiare, purtroppo consumismo e denaro si sono impadroniti di noi. Siamo nati, cresciuti, invecchiati nella logica consumista, liberarcene non e' semplice. Un modo per riuscirci e' fare piazza pulita di tutto, ricominciare da capo a partire dal linguaggio.

Benessere e' una bella parola. Fa riferimento all'essere che implicitamente comprende tutte le dimensioni. Ma significa anche esistere, da cui deriva esistenza, che ha assunto anche il significato di condizione di vita inteso come livello di reddito. Ad esempio sono abituali le espressioni esistenza agiata, esistenza grama. Sotto l'influsso mercantilista l'attenzione si e' concentrata sull'agiatezza ed oggi il termine benessere e' diventato sinonimo di benavere. Cosi' una bella parola e' stata storpiata da interessi economici. Senza speranza. Dopo secoli di uso improprio, e' impensabile farle recuperare il suo significato originario, per evitare equivoci e' meglio sostituirla con un altro vocabolo. I popoli indigeni dell'America Latina ce l'hanno ed e' ancora piu' bello perche' non prende come riferimento l'individuo, ma la vita. E' la parola benvivere che il popolo boliviano ha addirittura inserito fra i propri principi costituzionali (1).

Ci sono parole che rappresentano un mondo. Racchiudono la filosofia di un popolo, la sua visione cosmica, i suoi valori. In lingua aymara, popolo delle Ande, benvivere si dice sumaqamana, dove suma significa "bello, carino, buono, amabile". Quasi fosse un superlativo: "il bene piu' bene che si possa immaginare". Qamana, invece, significa "abitare, vivere, dimorare", ma anche "accogliere" perche' la vita e' accoglienza. Dunque vivere non nel senso fisico del cuore che batte e dei polmoni che respirano, ma vivere nel senso umano, sociale, ambientale, come rapporto con se', relazione con gli altri, interazione col creato. Evo Morales, presidente della Bolivia, ha precisato che suma qamana in realta' non e' vivere bene, piuttosto "saper convivere sostenendosi a vicenda". La visione solidaristica contrapposta a quella individualista. La visione del dono contrapposta a quella del mercato. La visione del valore sociale contrapposta a quella del denaro privato. Due pianeti distanti anni luce che devono incontrarsi per il bene dell'umanita'.

Da un punto di vista individuale il benvivere e' una situazione in cui sono garantite condizioni che attengono al piano dei diritti, della qualita' della vita e dell'ambiente. Alimentazione, acqua, alloggio, salute, istruzione, ma anche inclusione sociale, liberta' politiche, liberta' religiosa, sono alcuni diritti imprescindibili del benvivere che chiamano in causa la sfera economica, sociale e politica. Distanze, tempi di lavoro e di svago, architettura e dimensioni urbane, forme dell'abitare, disponibilita' di verde e servizi, opportunita' di aggregazione sociale e politica, sono alcuni aspetti organizzativi che determinano la qualita' della vita. Infine qualita' dell'aria e dell'acqua, stato di salute dei mari e dei fiumi, stabilita' del clima sono gli aspetti che garantiscono un ambiente sano.

Ed ecco la nostra domanda di fondo, quella che sta in cima alle nostre preoccupazioni: e' possibile ridurre il nostro consumo di petrolio, di minerali, di acqua, di aria, senza compromettere il benvivere? La risposta e' che non solo e' possibile, ma addirittura necessario. Ci sono ambiti in cui la qualita' della vita non dipende dalla disponibilita' di risorse, ma dalle formule organizzative. Per benvivere in citta' serve verde, centri storici chiusi al traffico, piste ciclabili, trasporti pubblici adeguati, piccoli negozi diffusi, punti di aggregazione. Per beneabitare servono piccoli condomini con spazi e servizi comuni che favoriscono l'incontro. Per benlavorare servono piccole attivita' diffuse sul territorio per evitare il pendolarismo e favorire la partecipazione. Per benrelazionarsi servono tempi di lavoro ridotti, momenti senza televisione, tranquillita' economica, per favorire il dialogo e la distensione familiare. Tutto cio' non richiede barili di petrolio, ma scelte politiche.

Ci sono altri ambiti, e sono quelli connessi alla qualita' dell'ambiente, in cui e' addirittura necessario ridurre i barili di petrolio. Se vogliamo abbattere la CO2 dobbiamo ridurre la produzione di energia elettrica proveniente da centrali alimentate con combustibili fossili. Dobbiamo ridurre il numero di auto in circolazione. Dobbiamo ridurre i chilometri incorporati nelle merci. Dobbiamo adottare la sobrieta', intesa come tentativo di soddisfare i nostri bisogni riducendo al minimo le risorse e la produzione di rifiuti.

Note al capitolo 5

1. Articolo 8 della nuova Costituzione boliviana approvata il 15 dicembre 2007.

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Capitolo 6. L'efficienza e' buona ma non basta

L'allarme per clima e risorse e' stato lanciato da tempo, ma il sistema si e' sempre opposto all'idea di ridurre. La soluzione in cui crede e' la tecnologia, la messa a punto di macchine e metodiche produttive sempre piu' avanzate capaci di produrre con un consumo di natura e di energia sempre piu' basso. L'eco-efficienza e' senz'altro una delle strade da battere, ma da sola non basta. Molti economisti hanno fatto notare che non vale a nulla fabbricare prodotti piu' leggeri, se contemporaneamente se ne sfornano di piu'.

Lo aveva capito anche William Stanley Jevons, economista inglese di fine Ottocento. Il suo punto di osservazione erano le caldaie a vapore: la tecnologia migliorava, ogni anno se ne producevano di piu' efficienti, il consumo di carbone avrebbe dovuto diminuire e diminuiva infatti a livello di singola caldaia, ma aumentava a livello di Paese perche' crescevano le caldaie in circolazione.

Il fenomeno e' stato battezzato effetto rimbalzo o paradosso di Jevons ed e' sotto gli occhi di tutti. Benche' siamo entrati nell'era del computer e dell'economia immateriale, i Paesi opulenti continuano ad accrescere il consumo di energia e materiali.  In Italia, fra il 1995 e il 2005 il consumo di energia e' cresciuto del 14% ed anche le emissioni di anidride carbonica sono cresciute del 12%. A livello di Unione Europea, il consumo netto di materiali (minerali, combustibili, biomasse) e' passato da 15,9 tonnellate procapite nel 1980 a 17,5 nel 2000, un aumento del 10%. Eppure nello stesso periodo l'incidenza dei materiali per ogni euro di ricchezza prodotta e' diminuita del 39%.

Benche' non ci piaccia, senza la sobrieta' non andremo da nessuna parte.

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Capitolo 7. Le vie della sobrieta'

Nella vita di tutti i giorni, la sobrieta' passa attraverso piccole scelte fra cui meno auto piu' bicicletta, meno mezzo privato piu' mezzo pubblico, meno carne piu' legumi, meno prodotti globalizzati piu' prodotti locali, meno merendine confezionate piu' panini fatti in casa, meno cibi surgelati piu' prodotti di stagione, meno acqua imbottigliata piu' acqua del rubinetto, meno cibi precotti piu' tempo in cucina, meno prodotti confezionati piu' prodotti sfusi, meno recipienti a perdere piu' prodotti alla spina. Schematicamente la sobrieta' si puo' riassumere in dieci consigli:

- Evita l'usa e getta. E' la forma di consumo a maggior spreco e a maggiore produzione di rifiuti.

- Evita l'inutile. Prima di comprare qualsiasi oggetto chiediti se ne hai davvero bisogno o se stai cedendo ai condizionamenti della pubblicita'. Alcuni esempi sono l'acqua in bottiglia, il vestiario alla moda, il cellulare all'ultimo grido.

- Privilegia l'usato. Se hai deciso che hai bisogno di qualcosa non precipitarti a comprarlo nuovo. Prima fai un giro presso amici e parenti per verificare se puoi avere da loro cio' che fa al caso tuo.

- Consuma libero da scorie. Quando fai la spesa fai attenzione agli imballaggi. Privilegia le confezioni leggere, i contenitori riutilizzabili, i materiali riciclabili.

- Autoproduci. Producendo da solo yogurt, marmellate, dolci e tutto cio' che puoi, eviti chilometri e imballaggi.

- Consuma corto e naturale. Comprando locale e biologico eviti chilometri, sostieni l'occupazione e mantieni un ambiente sano.

- Consuma collettivo. E' il modo migliore per permettere a molti di soddisfare i propri bisogni mantenendo al minimo il consumo di risorse e di energia. Oltre all'autobus e al treno, puoi condividere molti altri beni durevoli: auto, bici, aspirapolvere, trapano, lavatrice.

- Ripara e ricicla. Allungando la vita degli oggetti risparmi risorse e riduci i rifiuti.

- Abbassa la bolletta energetica. Andando in bicicletta, isolando la casa, investendo in energia rinnovabile, utilizzando elettrodomestici efficienti e gestendoli con intelligenza, riduci il consumo di energia con beneficio per le fonti energetiche e il portafoglio.

- Recupera i rifiuti. Praticando in maniera corretta la raccolta differenziata permetti ai rifiuti di tornare a vivere in nuovi oggetti.

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Capitolo 8. Allarme occupazione e servizi

Varie esperienze personali e di gruppo dimostrano che la sobrieta' e' possibile ed e' liberante, ma preoccupa per i suoi risvolti sociali. Non a caso, prima delle imprese sono i sindacati, i partiti di sinistra a scagliarsi contro la decrescita. La loro preoccupazione e' per l'equita', per l'occupazione, per i servizi pubblici, a volte per oggettiva difficolta', a volte per anacronismo. Negli ambienti marxisti sono ancora di moda certi slogan patetici del tipo "non si puo' distribuire la poverta'", oppure "prima si produce ricchezza poi la si distribuisce". Certe affermazioni andavano bene in epoca preindustriale, non nella societa' dell'opulenza che di ricchezza da distribuire ne ha fin troppa.

Piu' giustificate le preoccupazioni per occupazione e servizi pubblici: se consumiamo di meno, che fine faranno i posti di lavoro? E' pur vero che se adottassimo un serio programma di riciclaggio, potremmo creare migliaia di posti di lavoro: persone che effettuano la raccolta a domicilio, persone che selezionano il materiale per dividere cio' che e' riparabile da cio' che e' inutilizzabile, persone che si dedicano alla rottamazione per separare la plastica, i metalli, il legname e ogni altro tipo di materiale, persone che lavorano nelle industrie per il recupero delle materie prime. L'Ufficio internazionale del riciclaggio di Bruxelles calcola che a livello mondiale il settore occupi un milione e mezzo di persone per un fatturato pari a 160 miliardi di dollari (1). Ma l'Unep, l'agenzia dell'Onu per l'ambiente, pensa che il numero sia sottostimato. Secondo i suoi calcoli, solo negli Stati Uniti, Brasile e Cina, il riciclaggio in tutte le sue forme impiega dodici milioni di persone (2).

E' anche vero che una maggiore attenzione per l'ambiente crea occupazione tramite il potenziamento di settori come la depurazione delle acque, la consulenza alle aziende per il risparmio energetico e dei materiali, lo sviluppo delle energie alternative, l'agricoltura biologica, la protezione dei boschi e del territorio. Ma dobbiamo ammettere che fra i posti creati e quelli persi, il saldo sarebbe negativo. Se smettessimo di andare in automobile, se smettessimo di riempire i nostri armadi di vestiario inutile, se smettessimo di riempire i nostri carrelli di plastica assurda, se riparassimo i nostri elettrodomestici invece di buttarli via, se proibissimo la pubblicita', perderemmo centinaia di migliaia di posti di lavoro, forse milioni. Cosi' come li perderemmo se chiudessimo le fabbriche di armi, le fabbriche chimiche che disseminano tumori, le fabbriche di pesticidi che avvelenano terreni agricoli e falde acquifere. Un passaggio necessario, ma che preoccupa.

E se produciamo di meno, e quindi guadagnamo di meno, chi fornira' allo Stato i soldi per garantirci istruzione, sanita', viabilita', trasporti pubblici? Tanto piu' che la popolarita' delle tasse e' scesa ai minimi storici. Le pagano malvolentieri i poveri e ancor meno i ricchi. Tuttavia vorremmo tutti una buona sanita', una buona scuola, treni puntuali e puliti, processi veloci, una burocrazia efficiente. Poche tasse e molti servizi, ecco cio' che vorremmo, la classica botte piena e la moglie ubriaca.

I politici lo sanno e il coniglio che tutti i governi tirano fuori dal cilindro si chiama crescita. E' una questione di numeri. Se applichiamo un'aliquota del 10% su una ricchezza di 1.000, si incassa 100, se applichiamo la stessa aliquota ad una ricchezza di 10.000, si incassa 1.000. La stessa aliquota riesce a generare un gettito piu' alto nella misura in cui cresce la torta su cui effettuare il prelievo. Di qui la conclusione di tutti i governi, sia quelli di destra che di sinistra: "Volete molti servizi e basse aliquote fiscali? Allora facciamo crescere l'economia".

Finche' c'erano i margini di crescita, il discorso non faceva una grinza, ma come organizzarci oggi che non possiamo piu' crescere e anzi dobbiamo ridurre?

Note al capitolo 8

1. World Watch Institute, State of the world 2004.

2. Unep, Green jobs: towards decent work in a sustainable, low carbon world, 2008.

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9. L'economia delle tre casette

Per coniugare sostenibilita', piena occupazione e diritti per tutti, ci vogliono tre capovolgimenti: politico, culturale, organizzativo. Da un punto di vista politico si tratta di ridefinire i percorsi preferenziali dell'economia: pubblico o privato? locale o globale? grande o piccolo? lento o veloce? accentrato o diffuso? La sensazione e' che il benvivere richieda piu' solidarieta' meno mercato, piu' locale meno globale, piu' autogestione meno denaro, piu' collettivo meno privato. Ma l'esperienza ci aiutera' a stabilire se questa intuizione e' corretta.

Da un punto di vista culturale bisogna essere disposti a rivedere il nostro modo di concepire i grandi temi dell'economia: il benessere, la scienza, la tecnologia, la natura. Ad esempio dobbiamo convincerci che il lavoro e' un falso problema. La nostra aspirazione non e' faticare, ma garantirci cibo, alloggio, salute, istruzione e tutte le altre necessita' della vita. Nel sistema mercantile il solo modo per soddisfare i nostri bisogni e' attraverso l'acquisto, e poiche' questa pratica richiede denaro, viviamo il lavoro come una questione di vita o di morte. Ma se trovassimo il modo di garantirci le sicurezze senza pagarle, potremmo infischiarcene del lavoro salariato e della crescita.

La dipendenza dal denaro e' un problema anche in ambito pubblico. Oggi l'economia pubblica e' legata a doppio filo alla crescita perche' per funzionare ha bisogno di soldi, per ottenere soldi ha bisogno di un alto gettito fiscale, per garantirsi un alto gettito fiscale ha bisogno di un'economia che cresce. Ancora una volta il problema e' il denaro e ancora una volta la soluzione e' sbarazzarsene. Liberiamo l'economia pubblica dal denaro e la liberemo dalle catene dalla crescita. Ecco un esempio che mostra la necessita' di affrontare la terza grande trasformazione, quella di tipo organizzativo.

Cambio di strategie, cambio culturale, cambio organizzativo, trasformazioni possibili solo se ricominciamo da capo, se ripartiamo da alcune domande di fondo: per chi e per che cosa deve essere organizzata l'economia? per i mercanti o per la gente? per l'avere o per l'essere? per il privilegio di pochi o i diritti per tutti? nel rispetto del pianeta o in un'ottica di saccheggio? Se la risposta e' che l'economia deve essere organizzata per la gente, allora dobbiamo ripensare l'assetto economico a partire dai bisogni. Come sara' affrontato meglio a partire da pagina 42, i bisogni si dividono in due categorie: i bisogni fondamentali e i desideri. I primi sono diritti da garantire a tutti perche' attengono alla dignita' umana. I secondi sono optional lasciati alla discrezione di ognuno perche' attengono ai gusti e alle esigenze personali. Di conseguenza i diritti appartengono alla solidarieta' collettiva, i desideri al mercato. Dal che si conclude che l'economia deve essere organizzata distinguendo gli obiettivi dagli strumenti. Non lo stesso strumento per tutto, ma per ogni obiettivo lo strumento piu' appropriato. Esattamente come fa il falegname. Nella sua cassetta ha la sega, il cacciavite, il martello. Quando deve tagliare una tavola usa la sega. Quando deve ribattere un chiodo usa il martello. Quando deve smontare un mobile usa il cacciavite. Non usa il martello per tutto, altrimenti non sarebbe un falegname, ma uno sfasciamobili impazzito.

Nell'economia capitalista le cose non funzionano cosi' perche' il mercato e' stato elevato al rango di dogma. E' lo strumento principe, il toccasana per tutte le situazioni, il perno attorno al quale ruota l'intera economia. E' il tiranno da cui tutto dipende: il nostro lavoro, il nostro salario, il buon funzionamento dell'economia pubblica. In conclusione e' come se avessimo costruito un palazzo che poggia su un unico pilastro.

Una dipendenza assurda e pericolosa non solo perche' ogni volta che dobbiamo costruire una nuova stanza, dobbiamo sprecare cemento per rinforzare il pilastro portante, ma soprattutto perche' se il pilastro crolla, viene giu' l'intero palazzo. In periodo di recessione tocchiamo con mano che la crisi non rimane confinata al mercato ma si estende all'intero sistema: i consumi si contraggono, l'occupazione crolla, i servizi pubblici traballano.

Questa pericolosa dipendenza non e' dovuta a una legge di natura, ma alla prepotenza dei mercanti che hanno imposto all'intera economia di strutturarsi attorno ai loro interessi. Dopo otto secoli di colonizzazione ci siamo infarciti di cultura mercantile, ragioniamo solo in termini di soldi, calcoliamo la ricchezza nazionale solo in termini di merci, non immaginiamo altro spazio economico se non il mercato e la compravendita. Il nostro pensiero e' diventato a senso unico: non concepiamo altri atteggiamenti se non l'avidita', il tornaconto individuale, la ricerca del profitto. Valori come dono, gratuita', amicizia, solidarieta' sono dimenticati, addirittura derisi, roba da ragazzini che frequentano la dottrina. Perfino il ruolo della politica e' cambiato. Un tempo il suo compito era gestire la cosa pubblica nell'interesse dei cittadini. Oggi il suo compito e' sostenere il mercato, garantirgli spazi di crescita, concedergli di funzionare senza vincoli se non il falso rispetto del suo codice d'onore che poi si riassume nella concorrenza. Il mercato e' sempre assolto, giustificato, sorretto, anche quando mette a rischio la stabilita' del sistema in nome dell'avidita'. Ne abbiamo avuto una prova con la crisi finanziaria del 2008: i governi di tutto il mondo hanno sborsato centinaia di miliardi di euro per sostenere le banche a rischio di fallimento per avere gestito i soldi dei propri clienti come giocatori di poker. E neanche un manager e' stato processato.

L'unica strada per liberare la nostra vita privata e l'economia pubblica dalla crescita si chiama autonomia. Non dobbiamo piu' concepire l'economia come un palazzo costruito su un unico pilastro, ma come un villaggio formato da tante casette, l'una totalmente indipendente dall'altra, ciascuna con i propri generatori di corrente, il proprio pozzo dell'acqua, i propri magazzini. Se per caso un edificio crolla o anche solo rimane al buio, gli altri rimangono indenni e possono continuare a garantire un alloggio sicuro. Ed ecco comparire l'economia delle tre casette: quella del fai da te, quella della solidarieta' collettiva, quella dello scambio mercantile. Ciascuna con i propri ruoli, la propria autonomia, i propri meccanismi di funzionamento.

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Capitolo 10. La casa del fai da te

Nel regno dei mercanti il fai da te non e' visto di buon occhio, e' considerato un nemico perche' si contrappone agli affari e rende la gente piu' libera. Ogni volta che produciamo qualcosa da soli, indeboliamo il mercato e ci svincoliamo dal lavoro salariato perche' ci sbarazziamo del denaro.

Il disprezzo del sistema per il fai da te e' cosi' alto che non lo conteggia neanche nel Pil, il prodotto interno lordo che registra la ricchezza prodotta nella nazione. Il Pil comprende perfino i bottoni e gli spilli, ma ignora il lavoro svolto fra le mura domestiche per tenere pulita la casa, cucinare, lavare, crescere i figli, assistere gli anziani. Lavoro di fondamentale importanza, senza il quale andremmo a giro sporchi, le nostre case sarebbero invase dai topi, ci ammaleremmo di dissenteria, avremmo un esercito di bambini di strada. Secondo un vecchio studio francese queste attivita' assorbono i 3/5 di tutto il lavoro svolto, ma non rientrano nel Pil semplicemente perche' sono lavoro donato, non remunerato (1). Invece e' conteggiato il lavoro dell'operaio che produce mine antiuomo, del tecnico che produce pesticidi, del tabaccaio che vende cancro, perfino del croupier che fa funzionare la bisca, perche' ognuno di essi riceve un corrispettivo in denaro. Utili o inutili, benefici o dannosi, per il Pil non fa differenza, basta che si tratti di lavori orientati al mercato.

Nel XX secolo il simbolo della rivoluzione era falce e martello, oggi potrebbe diventare cacciavite e pennello. L'uno simbolo di autoriparazione, l'altro di automanutenzione. Emblema del fai da te per affermare che l'economia non deve essere al servizio del mercato, ma della persona. Lavorare, produrre, consumare non per arricchire i mercanti, ma per consentire a tutti di poter soddisfare i propri bisogni nella maniera piu' sicura per se', per gli altri, per l'ambiente. Autonomia e indipendenza sono parole dimenticate in questo sistema, ma la prima regola di un'economia organizzata per la gente e' di metterla il piu' possibile in condizione di badare a se stessa senza dipendere dai consumi e dai ricatti altrui. Nel 1789 e' stata fatta la rivoluzione contro l'assolutismo del re. Oggi va fatta contro l'assolutismo del mercato. Contro quell'ideologia che vuole ridurre tutti a servi che si vendono sul mercato del lavoro per guadagnare quei tre soldi che poi consentono di accedere ad un altro mercato, quello delle merci, dove spendere il proprio salario per poi ricominciare da capo. I mercanti sanno che la gente non passa spontaneamente dalla condizione di persone libere a quella di salariati, fin dall'inizio della rivoluzione industriale hanno messo in atto una strategia di spossesso per costringerla a sottomettersi. Hanno cominciato con l'esproprio delle terre ed hanno continuato con quello dei saperi per giungere allo scippo dell'autostima. Un pupazzo convinto di non sapersi soffiare neanche il naso e di non avere altro modo di provvedere a se stesso se non quello di comprare tutto cio' che gli serve, cerchera' lavoro con spirito di totale sottomissione. Accettera' qualsiasi forma di assunzione, non si iscrivera' al sindacato, non rivendichera' nessun diritto. Il padrone visto non come sfruttatore, ma come benefattore.

Pane, marmellate, maglioni, orto, riparazioni: sono tantissime le cose che possiamo fare da noi. Fra cercare un lavoro per guadagnare 5.000 euro da passare ad un imbianchino e pitturare la nostra casa da noi, non avrebbe piu' senso la seconda scelta? Ecco un bel corto circuito che ci farebbe recuperare sicurezza e liberta'. Piu' cose riusciamo a fare da soli, meno soldi ci servono, meno abbiamo bisogno di un lavoro retribuito, meno abbiamo bisogno di fare crescere i consumi altrui, piu' siamo indipendenti dal mercato e dalle decisioni di investimento dei mercanti. Finalmente, piu' liberi, piu' padroni della nostra vita, ma anche piu' soddisfatti, perche' il fai da te offre sensazioni che non si provano quando si lavora sottoposti. E' il gusto di progettare e di organizzare il lavoro a nostro piacimento. E' il piacere di portare a compimento un progetto. E' la soddisfazione di godere direttamente del frutto delle nostre fatiche.

Chi ha i capelli bianchi ricordera' che nel secondo dopoguerra molte famiglie costruivano da se' perfino le case. Oggi e' diventata una rarita' perche' abbiamo perso manualita'. Ma non sarebbe impossibile rimediare. Basterebbe riformare la scuola. Bisognerebbe che chi fa i programmi scolastici smettesse di disprezzare il lavoro manuale e smettesse di considerarci dei mostri tutta testa e niente mani. Le mani callose in un ragazzo di 15 anni ci fanno inorridire, perche' ci fanno pensare alla scuola che non ha avuto e allo sfruttamento che ha subito.

Ma fanno impressione anche le mani esili, pallide, quasi trasparenti, di molti ventenni, perche' trasmettono un senso di morte. Ed e' senz'altro la morte del saper fare perche' molti giovani non sanno tenere in mano neanche un martello. Il che e' una menomazione perche' chi non sa usare le mani e' come se fosse amputato. Tocca alla scuola colmare questa lacuna, perche' il suo ruolo non e' dare nozioni, ma educare i ragazzi ad essere persone libere, sovrane e padrone di se' da tutti i punti di vista, compreso quello di sapere svolgere le funzioni piu' comuni della vita. Ecco perche' dovrebbe dedicare del tempo alla manualita'.

Per la stessa ragione dovrebbe insistere di piu' sui temi sanitari. Molti di noi non hanno consapevolezza del proprio corpo. Non sanno come e' fatto, ne' come funziona. Ci convivono, ma non lo hanno mai scoperto. Si accorgono della sua presenza solo quando qualcosa non va. Allora si rivolgono al medico con atteggiamento di totale sottomissione perche' non capiscono neanche quello che dice.

La salute e' il nostro bene primario, ma prima che dalle prescrizioni del medico, dipende da una sana alimentazione, da una corretta igiene personale, dalla capacita' di leggere precocemente i segnali che ci manda l'organismo. Insomma dipende dalla capacita' di sapersi gestire. Ecco una dimensione tutta particolare di fai da te che si esercita piu' attraverso il sapere che il fare. Quel sapere che tocca alla scuola darci e che ci dara' solo se si pone nell'ottica di servire le persone e non il mercato.

Il messaggio del fai da te e' un desiderio forte di essenzialita', liberta', sostenibilita', tre obiettivi che possono essere potenziati se il fai da te entra in un rapporto di scambio. Il mercato vecchia maniera non fra chi ha potere e chi lo subisce, ma fra pari. Non fra mercante e cliente, ma fra produttori. Un scambio di vicinato, fra gente che vive nello stesso palazzo, nello stesso rione: tu ripari la bicicletta a me, io regalo una torta a te, tu ripari la lavatrice a me, io regalo della verdura a te. Non solo scambi di oggetti sulla base del baratto, ma anche scambio di servizi sulla formula delle Banche del tempo, come sta succedendo in oltre 300 citta' italiane (www.tempomat.it).

Note al capitolo 10

1. Adret, Travailler deux heures par jour, 1977.

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Capitolo 11. La casa della solidarieta' collettiva

Il fai da te e' un'ottima soluzione in tutti quegli ambiti, e sono tanti, in cui prevalgono esperienza e manualita', la tecnologia in ogni caso e' di piccola taglia. Ma appena c'e' bisogno di un oggetto o di un servizio piu' elaborato bisogna ricorrere alle forme organizzate di produzione. Le strutture produttive di cui abbiamo bisogno sono molte, ma le formule organizzative possibili sono due: servizio pubblico o impresa privata. Ma cosa attribuire all'uno e cosa all'altra? Per avere la risposta bisogna partire dai bisogni. Da un punto di vista sociale i bisogni non sono tutti uguali, alcuni sono piu' importanti di altri perche' rispondono ad esigenze vitali sotto il profilo fisico, psichico, sociale. L'aria per respirare, l'acqua per bere e lavarsi, il cibo per nutrirsi, il vestiario per coprirsi, il tetto per ripararsi, il fuoco per scaldarsi e cucinare, ma anche l'insegnamento per apprendere, il farmaco per curarsi, il treno per viaggiare, il telefono per comunicare, sono necessita' di cui non possiamo fare a meno perche' hanno a che fare con la nostra dignita' personale. Per questo sono definiti bisogni fondamentali, automaticamente elevati al rango di diritti, esigenze, cioe', che tutti devono avere la possibilita' di soddisfare indipendentemente se ricchi o poveri, uomini o donne, giovani o vecchi, bianchi o neri.

Proprio perche' spettano a tutti, i diritti non possono appartenere al mercato. Con le migliaia, milioni di imprese di ogni dimensione e settore, dal punto di vista dell'offerta il mercato e' ineguagliabile. Riesce ad offrire di tutto: beni fondamentali e beni di lusso, oggetti comuni e oggetti rari, prodotti leciti e prodotti illegali, mezzi di pace e mezzi di guerra. Ma ovunque ci sono regole e anche il mercato ha le sue. La regola e' che puo' darci di tutto, ma per ottenerlo bisogna pagare. Allora scopriamo che il mercato non e' per tutti. Il mercato e' solo per chi ha soldi. Chi ha denaro da spendere e' il grande accolto, il grande corteggiato, il grande riverito. Chi non ne ha e' il grande rifiutato, il grande escluso, il grande disprezzato.

I diritti non appartengono al mercato, ma alla solidarieta' collettiva. Piu' precisamente appartengono alla comunita' organizzata che fa un patto al suo interno per garantire a tutti i diritti attraverso il contributo di ognuno: chi piu' ha, paga anche per chi non ha, anche perche' le fortune sono spesso costruite sul sudore e le miserie degli altri. Ma il meccanismo fiscale ha il difetto di fare dipendere le risorse a disposizione della collettivita' dall'andamento dell'economia generale. Se l'economia va bene, la comunita' incassa tanto e garantisce molti servizi. Se invece va male, incassa poco ed e' meno presente, proprio quando ci sarebbe piu' bisogno di lei. Non abbiamo bisogno della solidarieta' collettiva quando siamo in salute ed abbiamo un buon lavoro. Ne abbiamo bisogno quando siamo malati e disoccupati. Per questo la recessione ci fa paura e preghiamo a mani giunte che l'economia torni a crescere.

Finche' si poteva crescere non c'erano problemi, ma oggi che siamo dei pachidermi senza margini di crescita quale strategia useremo? La soluzione e' l'autonomia che si raggiunge con lo sganciamento dal denaro, o quantomeno il suo ridimensionamento: l'economia pubblica fatta funzionare non con la tassazione del reddito, ma la tassazione del tempo, tutti chiamati a passare parte del proprio tempo in un servizio pubblico perche' il lavoro e' la risorsa piu' abbondante che abbiamo ed e' la fonte originaria di ogni ricchezza. Il che non significa abolizione totale del sistema fiscale, ma radicale cambiamento di scopo: non piu' fonte di finanziamento dell'economia pubblica, ma strumento per indirizzare la terza casa, quella del mercato: per spingere consumatori e imprese verso scelte di maggior rispetto ambientale e sociale.

Beni e servizi gratuiti in cambio di lavoro gratuito. Potrebbe sembrare un'utopia, in realta' non e' neanche una formula tanto originale, in certi ambiti e' prassi corrente. Un esempio e' la nettezza urbana. Il servizio non comincia per strada da parte dei netturbini, ma nelle nostre case. Quando decidiamo di selezionare i rifiuti buttando le bottiglie nel vetro, i giornali nella carta, le vaschette nella plastica, stiamo attuando la prima fase della raccolta rifiuti: solo se questa e' svolta correttamente, tutto il resto procede senza intoppi. Pensiamo anche all'assistenza socio-sanitaria. Quando teniamo a casa l'anziano allettato e lo assistiamo su insegnamento del personale infermieristico, in qualche modo stiamo collaborando col servizio sanitario. Quando il servizio sociale ci chiede di accogliere un bimbo in affido ci dichiara che certi problemi si risolvono, anzi si prevengono, solo se la comunita' e' disposta a mettersi in gioco direttamente. Del resto il 15% degli italiani si impegna nel volontariato, chi per imboccare gli ammalati, chi per spegnere gli incendi, chi per ripulire le spiagge, chi per raccogliere feriti, chi per servire la minestra nella mensa dei poveri. E il volontariato cos'e', se non un servizio gratuito messo a disposizione della collettivita'? Nove milioni di italiani ci mandano a dire che non si accontentano piu' di un rapporto con la societa' mediato dal denaro. Vogliono contatto diretto, coinvolgimento, partecipazione, perche' cio' li fa sentire piu' soddisfatti, piu' realizzati. E allora perche' non cominciamo a istituzionalizzare il volontariato introducendo il servizio civile obbligatorio per tutti i ventenni? Di colpo disporremmo in maniera permanente di una quantita' incredibile di personale che ci permetterebbe di risolvere un'enormita' di problemi sociali e ambientali. Per non parlare dell'effetto educativo che un periodo al servizio della comunita' produrrebbe sui giovani: finalmente si ricreerebbe il senso di appartenenza e di coinvolgimento comunitario che e' alla base della convivenza civile.

Oltre che un piacere, la partecipazione diretta sta diventando una necessita'. Per varie ragioni i soldi a disposizione dei comuni stanno diventando sempre piu' scarsi: o si inventano qualcosa o chiudono tutti i servizi. L'unica soluzione possibile e' il coinvolgimento diretto dei cittadini lasciando che la fantasia indichi le formule piu' appropriate. Nel luglio 2004, dopo un ennesimo taglio di fondi, la giunta di Vervio, in Valtellina, decise di dedicarsi essa stessa ai lavori pubblici. Il sindaco e gli assessori si improvvisarono stradini: presero il camioncino municipale, un gruppo elettrogeno, strada per strada ridipinsero le strisce pedonali, gli stop e tutta l'altra segnaletica che rende piu' sicura la circolazione stradale. Il sindaco Giuseppe Saligari, intervistato da "Repubblica", spiego' cosi' la loro decisione: "Anche se siamo un comune di appena 243 abitanti, avremmo bisogno di altri 50.000 euro per le necessita' piu' impellenti. Ma il governo invece di darceli, i soldi ce li leva. Cosi' abbiamo deciso di attivarci da soli". Esempio da seguire in ogni comune d'Italia: la gente potrebbe prendersi cura delle proprie strade, dei propri giardini, del proprio traffico, della propria sicurezza sociale. Per certe funzioni non serve la laurea, solo senso di responsabilita'.

Da quando la microcriminalita' e' stata presentata dai mass-media come il problema principale, in molte citta' si sono costituite le ronde notturne per garantire sicurezza ai quartieri. E' triste che si scopra il senso comunitario solo per difendere la nostra roba o, peggio ancora, per malmenare chi non ci piace, ma di positivo c'e' che dimostriamo di non trovare scandalosa l'idea di coinvolgerci direttamente per il perseguimento di interessi comuni. Il problema e' per quali obiettivi attivarci: certo non per reprimere, ma per includere. Dobbiamo impedire che si formimo ronde di pulizia etnica che vanno a giro per spaccare le teste di gay e immigrati, ma dobbiamo promuovere la costituzione di vedette sociali, membri della comunita' che sorvegliano i quartieri per individuare chi si trova in stato di necessita' e attivare prontamente tutti gli strumenti di solidarieta' collettiva. Non e' pensabile che si possano eliminare le situazioni di emarginazione solo con i servizi e le strutture specializzate, serve una comunita' che tiene gli occhi aperti sul proprio tessuto sociale, che intreccia rapporti, interviene, sostiene. Un tipico esempio riguarda i sofferenti psichici. Come ci ha insegnato Franco Basaglia l'alternativa al manicomio e' un efficiente servizio domiciliare associato a un atteggiamento di accoglienza, sostegno e amicizia da parte del vicinato. La stessa solidarieta' che serve agli anziani. Molti di loro non hanno bisogno di assistenza specialistica, solo di un aiuto domestico che tutti sono in grado di dare. Se le famiglie di ogni condominio si mettessero d'accordo, potrebbero farsi carico delle due o tre coppie di anziani non piu' autosufficienti. Basterebbe che si organizzassero a turno per preparare i pasti, per tenere le loro case in ordine, per fare la spesa, per aiutarli mentre si fanno il bagno. Per contro gli anziani piu' in gamba potrebbero rendersi disponibili per la conduzione di piccoli asili nido autogestiti a livello di quartiere o addirittura di condominio. In Danimarca succede. Del resto, di fronte alla scarsita' di servizi offerti dal pubblico, anche in Italia succede che delle coppie si accordino per accudire a turno i bambini di tutti. La dimostrazione che per risolvere tanti problemi relativi alla cura della persona basterebbe riattivare la politica del buon vicinato in uso nei caseggiati di una volta. Riattivarla e riconoscerla come servizio sociale. Lo stesso riconoscimento che andrebbe dato al lavoro svolto fra le mura di casa. I figli sono il fondamento del domani ed e' interesse di tutti che crescano sani, equilibrati, ben educati.

Tutto questo e' possibile all'interno di una nuova organizzazione sociale che adotta un altro concetto di capitale. Capitale e' un aggettivo che significa importante, fondamentale. Come tutti gli aggettivi dovrebbe accompagnarsi sempre a un nome. In effetti quando diciamo capitale, intendiamo dire la ricchezza capitale ossia la ricchezza principale. Nel sistema odierno, la ricchezza massima, quella che conta di piu', e' il denaro. Cosi' capitale e denaro sono diventate parole interscambiabili. Ma questa e' la visione dei mercanti. Nell'ottica dell'economia al servizio della gente, il capitale, la ricchezza massima, e' la coesione sociale. E' la classica unione che fa la forza. E' la comunita'. E' la condivisione del lavoro e del sapere per il sostegno reciproco. Questa verita' e' cosi' banale che pare superfluo doverla affermare. Eppure per molti e' una novita' perche' la comunita' non appartiene al loro orizzonte culturale. Oltre alla famiglia e al gruppo degli amici, per molti di noi non esistono altre forme di aggregazione sociale. Viviamo in condomini popolati da centinaia di persone, ma appena varchiamo la soglia di casa ci sentiamo in terra straniera. Non conosciamo le famiglie degli appartamenti accanto, abbiamo rapporti con quella di sopra solo per chiedere che facciano meno rumore.

Un po' tutto ha contribuito a separarci gli uni dagli altri: la cultura individualista, le citta' troppo grandi, la mancanza di spazi comuni nei condomini, l'eccesso di soldi nelle nostre tasche che ci ha fatto credere di potere risolvere tutto da soli. Paradossalmente anche lo Stato sociale, fiore all'occhiello delle socialdemocrazie, ha lavorato in questa direzione perche' ha sostituito la comunita' con le istituzioni. Eppure se riuscissimo a ricostituire le relazioni di vicinato ci guadagneremmo in soldi, risorse, benvivere. Ogni volta che un'automobile si muove col solo guidatore a bordo e' un sacrilegio contro l'efficienza energetica. Non a caso, oltre a car-sharing, il quale consiste nell'acquisto dell'auto in comune, l'altra parola d'ordine e' car-pooling che consiste nel non muoversi mai di casa senza aver chiesto al vicino se deve andare nella stessa direzione. Dove le famiglie riescono a stringere rapporti, si prestano oggetti, si fanno piaceri a vicenda, si aiutano nel momento del bisogno, si invitano a cena, condividono beni e servizi. Oltre all'auto si puo' possedere in comune l'aspirapolvere, la lavatrice, il trapano, la videocamera, attrezzi che si usano saltuariamente. Le famiglie che scelgono di vivere nei condomini semicomunitari, in co-housing per dirla all'inglese, dispongono di spazi comuni per servizi condivisi: lavanderia, sala giochi, biblioteca, piccola officina; un vero salto di qualita' rispetto a chi vive rintanato nei condomini concepiti come gabbie per conigli.

Al momento l'idea di fare funzionare la macchina pubblica attraverso il lavoro diretto dei cittadini e' solo una suggestione, i dettagli tecnici non possono essere definiti a priori: dipendono dalle tecnologie utilizzate, dalla quantita' di servizi da coprire, dalla flessibilita' che si intende adottare. Potrebbero essere due giorni la settimana, una settimana al mese, qualche mese all'anno trascorso in un servizio pubblico o in una fabbrica pubblica. Ognuno dove preferisce di piu', nella mansione che gli e' piu' congeniale. Chi a fare l'autista, chi l'infermiere, chi l'impiegato, chi il poliziotto, chi il pompiere, chi il meccanico, chi il programmatore, chi il muratore. Al limite quelle scartate da tutti potrebbero essere svolte a rotazione. In ogni caso le mansioni sono tante, ognuno troverebbe la sua collocazione. Magari un po' in un servizio, un po' in un altro, con periodi di riqualificazione per poter cambiare lavoro. Le formule organizzative potrebbero essere varie, l'esperienza aiuterebbe a trovare quella migliore per garantire al tempo stesso un buon servizio e una buona qualita' della vita. Di sicuro riusciremmo a garantire a tutti un posto di lavoro part-time.

Ogni persona potrebbe cominciare ad assumersi gradatamente le proprie responsabilita', lentamente, a partire dall'adolescenza, fino ad assumere la forma piena in eta' adulta per poi affievolirsi di nuovo in vecchiaia. In concreto ogni adulto potrebbe mettere a disposizione della comunita' qualche giorno al mese, in cambio la comunita' garantisce a ogni persona, dalla culla alla tomba, il diritto ad accedere gratis a tutti i servizi pubblici. Non piu' ticket sulla sanita'. Non piu' tasse di iscrizione a scuola. Non piu' biglietti per i trasporti locali. Servizi gratuiti, ma anche beni gratuiti. Per cominciare acqua, luce, gas, forniti direttamente a domicilio. Tariffe zero per i consumi di base, poi prezzi crescenti per evitare gli sprechi. Per cibo, vestiario ed altri beni di prima necessita' le formule possono essere varie. Un'ipotesi potrebbe essere l'assegnazione ad ognuno di una scheda elettromagnetica, a ricarica mensile, da utilizzare per il ritiro gratuito di un ammontare predeterminato di beni presso gli spacci pubblici. Una sorta di reddito d'esistenza garantito a tutti. Non un obbligo, ma un'opportunita' che ognuno puo' cogliere o rifiutare. L'importante e' creare le condizioni affinche' il minimo vitale non venga a mancare a nessuno.

Volendo ricapitolare, possiamo dire che i settori di cui la struttura pubblica deve occuparsi sono una decina suddivisibili in due grandi capitoli: esigenze vitali e diritti sociali. Al primo appartengono l'acqua, il cibo, il vestiario, l'alloggio, l'energia, l'igiene pubblica e la tutela ambientale. Al secondo la sanita', l'istruzione, le comunicazioni, i trasporti, la ricerca. La grande novita' e' che dobbiamo garantirli attraverso il lavoro di tutti. Ma non solo. Per garantire al pubblico piena autonomia dobbiamo tornare a garantirgli un retroterra produttivo. Dopo anni di privatizzazioni, l'apparato pubblico non ha piu' una fabbrica, e' costretto a comprare sul mercato tutto cio' che gli serve: dalla carta alle scope, dai computer alle locomotive. Eppure in certi settori lo Stato e' il cliente principale, se non esclusivo. Un caso di scuola e' quello farmaceutico, il servizio sanitario nazionale assorbe da solo il 70% della spesa complessiva per farmaci. Per alcuni di essi le casse pubbliche sborsano centinaia di euro a confezione e non tanto per costi di produzione, quanto per diritti di brevetto e profitti. Qualcuno dovrebbe spiegarci perche' dobbiamo dissanguarci per arricchire gli azionisti delle multinazionali farmaceutiche.

Nel complesso non e' azzardato stimare che il 10% della spesa pubblica per acquisto di materiali e' destinata a profitti, un regalo assurdo che facciamo alla parte piu' ricca della societa', non solo quella nazionale, ma addirittura mondiale. Ecco un'altra buona ragione per sganciare l'economia pubblica dal mercato garantendole un apparato produttivo che le fornisca, se non tutti, almeno i mezzi principali utili allo svolgimento delle proprie funzioni. Non ha senso che lo stato gestisca fabbriche di cioccolatini, ma e' altrettanto insensato che non possegga terreni, stalle, manifatture, stabilimenti farmaceutici, cartiere, utili a produrre cereali e latticini, farmaci e suppellettili, locomotive e computer, carta e lenzuola per le proprie attivita'. Questa scelta, attuata in passato, oggi e' osteggiata in tutti i modi possibili perche' il mercato non vuole rinunciare a un affare che vale 127 miliardi di euro, il 25% del gettito tributario, tanto ha speso lo Stato italiano, nel 2007, per acquisto di materiali. Un affare attorno al quale ruota anche tanta corruzione.

Da Roma a Washington, passando per Bruxelles, istituzioni e governi si vantano di essere guardiani dell'interesse comune. I fatti dicono che sono piuttosto guardie carcerarie armate di pistole pronte a far fuoco contro lo Stato se si azzarda a compiere scelte sgradite al mercato. Dei ventisette membri che formano la Commissione Europa quattro si occupano di commercio, mercato, concorrenza e imprese; neanche uno del bene comune. Il buon senso ci dice che la collettivita' ci guadagnerebbe se lo Stato tornasse ad autoprodurre i propri strumenti e i propri beni di consumo. Spenderebbe meno e potrebbe incassare anche per via commerciale. Se tornasse ad essere il gestore esclusivo di acqua, gas e reti elettriche, disporrebbe di tre prodotti chiave che potrebbe vendere alle imprese a prezzi redditizi. Finalmente si potrebbe realizzare il famoso allentamento fiscale per le classi piu' povere, un riduzione invocata da tutti, in realta' voluta da pochi.

Il passaggio da un'economia pubblica basata sul sistema fiscale, a un'economia pubblica funzionante col lavoro di tutti, lascia aperti molti interrogativi che richiedono sperimentazione. Fra questi ci sono i livelli organizzativi: quali funzioni organizzare a livello nazionale e quali a livello locale? sono da privilegiare grandi impianti produttivi accentrati o piccoli impianti produttivi disseminati sul territorio? attraverso quali organi di governo gestire i servizi locali e nazionali? Le risposte dipenderanno da considerazioni tecnologiche, di efficienza energetica, di impatto ambientale, ma anche da ragioni di carattere umano, sociale, politico. Ad esempio andranno privilegiate formule organizzative che favoriscono la partecipazione e il senso di responsabilita', perche' senza il coinvolgimento personale non si va da nessuna parte. Un obiettivo che si raggiunge ricostituendo il senso comunitario, avvertendo la dimensione pubblica non come una realta' lontana e oppressiva, ma come una comunita' di cui siamo parte. Di qui l'importanza della dimensione locale perche' solo nel piccolo si puo' ricostituire il senso di comunita', a partire dalla solidarieta' di condominio, dai legami sociali a livello di quartiere, dalla riappropriazione delle strade, dei giardini, degli asili, delle scuole, dei centri di cura. E' arrivato il tempo di sostituire il denaro con la coesione sociale.

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Capitolo 12. La casa del mercato regolato

Il mercato, come forma di scambio, e' una formula antica. Invece il mercato capitalista, come forma di arricchimento attraverso la vendita di beni e servizi ottenuti con il lavoro salariato, e' piuttosto recente. I pensatori socialisti non riconoscono diritto di cittadinanza al mercato capitalista, ma l'opinione pubblica moderna non sembra pensarla alla stessa maniera. Cio' nonostante tutti convengono che bisogna fissarne regole e limiti. Nell'ottica del benvivere, il mercato si occupa dei desideri, tutti quegli optional che non intaccano la dignita' personale. Da cio' ne derivano quattro principi. Primo: in caso di risorse scarse, il mercato ha un ruolo subalterno all'economia pubblica perche' i desideri sono di livello inferiore ai diritti. Secondo: l'interesse privato non puo' mai entrare in rotta di collisione con l'interesse generale, il mercato deve sottostare alle regole e agli indirizzi definiti dalle autorita' pubbliche a tutela dell'interesse collettivo. Terzo: l'attivita' privata deve essere condotta nel rispetto dei diritti dei lavoratori, dei consumatori, dei risparmiatori, dei fornitori. Quarto: la produzione e il commercio devono essere organizzati in modo da ridurre quanto piu' possibile il consumo di energia, l'utilizzo di materie e la produzione di rifiuti. Soprattutto quest'ultimo punto esige novita' di rilievo. Ad esempio richiede di privilegiare il locale rispetto al globale introducendo la circolazione di monete locali parallele all'euro, introducendo una tassa sui chilometri percorsi dalle merci, adottando marchi di origine locale. Richiede di scoraggiare l'uso di risorse scarse (pesci, legname, minerali, petrolio) tramite l'introduzione di tasse specifiche, e di incoraggiare l'uso di energia rinnovabile tramite appositi incentivi. Richiede di scoraggiare la produzione di involucri e rifiuti tramite tasse sugli imballaggi e tasse sulla pubblicita'.

Questa crisi ci dice che anche le attivita' finanziarie devono essere riformate in profondita'. Le banche, la borsa, le assicurazioni debbono tornare ai loro ruoli tradizionali, non piu' botteghini delle scommesse, non piu' collettori di denaro al servizio dei truffatori di turno, non piu' giocatori d'azzardo. Le banche debbono tornare ad essere strutture che raccolgono risparmio per il finanziamento di investimenti produttivi e sociali. Le borse, luoghi che raccolgono capitali per il funzionamento delle imprese. Le assicurazioni, strutture che danno copertura di un rischio in cambio di un premio. Il tutto sotto stretto controllo pubblico e in piena trasparenza. Chiarezza delle operazioni e chiarezza degli impegni assunti rispetto al dare, l'avere e i rischi. E' un vero crimine che si permetta alle strutture finanziarie di giocare d'azzardo con i soldi degli altri, facendo intascare ai gestori i guadagni e scaricando sui risparmiatori le perdite.

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Capitolo 13. quanti bei lavori

Il benvivere esige una corretta miscela di fai da te, economia pubblica e di mercato, ogni individuo inserito contemporaneamente nei tre comparti perche' ognuno per una funzione diversa. Dunque non una sola occupazione, ma tre, non un unico tempo pieno, ma vari part-time, non la flessibilita' al servizio delle imprese, ma al servizio dei lavoratori affinche' possano scegliere quante ore lavorare in fabbrica o in ufficio in base ai propri traguardi di reddito, esigenze familiari, modelli di vita. La domanda non sarebbe piu' che lavoro fai, ma quali lavori fai. Alla base delle tre forme d'impegno, il fai da te per i bisogni personali e domestici, una sorta di tela di fondo attraversata da pennellate di tempo di vario colore, quello dell'economia pubblica per i bisogni fondamentali, quello dell'economia di mercato per gli optional. Ogni tela, una composizione a se': infinite variabili personali e di sistema rendono ogni quadro l'uno diverso dall'altro. Tempi del fai da te e del lavoro salariato diversificati da individuo a individuo in base alle proprie abitudini ed esigenze, tempo dedicato all'economia pubblica uguale per tutti in base a quanto stabilito dalla collettivita'. L'unica cosa certa, i protagonisti: al centro del fai da te individui e famiglie, al centro dell'economia pubblica la comunita', al centro dell'economia di mercato le imprese.

(segue)

 

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Numero 783 del 4 giugno 2014

 

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