Coi piedi per terra. 756
- Subject: Coi piedi per terra. 756
- From: "nbawac at tin.it" <nbawac at tin.it>
- Date: Sat, 27 Apr 2013 12:14:32 +0200 (CEST)
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COI PIEDI PER TERRA
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 756 del 27 aprile 2013
In questo numero:
1. Alcuni testi del mese di novembre 2000 (parte prima)
2. Una lettera ad alcuni amici
3. Tre tesi su Ernesto "Che" Guevara
1. MATERIALI. ALCUNI TESTI DEL MESE DI NOVEMBRE 2000 (PARTE PRIMA)
Riproponiamo qui alcuni testi apparsi sul nostro foglio nel mese di novembre 2000.
2. UNA LETTERA AD ALCUNI AMICI
[Commetto, in dubbio e in ansia, l'ineleganza di ripubblicare in questo notiziario una lettera personale che avevo inviato ad alcuni amici il 10 ottobre scorso; mi scuso con chi l'ha gia' letta e mi scuso anche e soprattutto con quanti mi hanno scritto al riguardo per non aver saputo rispondere alle loro lettere che mi sono molto care: sappiano che il mio silenzio era conseguenza di angoscia e smarrimento, non di scortesia o sottovalutazione della loro tenera e nobile sollecitudine.
Il digiuno - digiuno, non sciopero della fame - lo ho gia' interrotto, ed esso, ahime', non mi ha portato consiglio. Assisto sgomento a quanto accade in Medio Oriente, e non altro so fare che chiedere a tutti di voler fare quanto ci e' possibile affinche' tacciano le armi, cessino le stragi, siano riconosciuti i diritti del popolo palestinese, si blocchi la spirale della violenza e del razzismo, si operi per la pace e la giustizia con i metodi di lotta della nonviolenza. Tremo per i miei amici israeliani e palestinesi, sono indignato per il cinismo con cui il mondo assiste da decenni a tanto dolore e tanta violenza ma anche per l'ipocrisia di chi occulta parti importanti di verita' necessarie ed essenziali per comprendere cosa accade.
In questi giorni ho riletto ancora e ancora le meditazioni e gli appelli di Primo Levi dopo Sabra e Chatila, ho riletto ancora e ancora le riflessioni e le proposte di Edward Said e quelle di Uri Avnery; ho riletto ancora e ancora i ragionamenti di Johan Galtung; e i libri di Franco Fortini e di Hannah Arendt; e le voci dell'Intifada e le voci dei pacifisti israeliani. Che tutti ascoltino la voce della ragione, che tutti ascoltino la voce dell'umanita': ognuno le reca in se', ognuno ascolti se stesso in cio' che ha di piu' radicale, di piu' essenziale e quindi di piu' comune con ogni altro essere umano: appunto, la ragione, l'umanita'. Cessi la repressione, cessino le violenze, siano riconosciuti i diritti violati del popolo palestinese, si contrasti ogni razzismo, si promuova la nonviolenza. Null'altro di piu' preciso ed efficace e di per me praticabile (dico per me, non faccio prediche ad altri) riesco a pensare in questa angoscia grande: ma vorrei invitare tutti a riflettere con onesta', ad informarsi umilmente, ad essere vicini alle vittime, a sostenere gli operatori di pace, e vorrei aggiungere la mia preghiera a quella di tanti affinche' siano riconosciuti i diritti violati, si promuova la pace e si costruisca su basi giuste e degne quella che Edward Said ha chiamato "la convivenza necessaria"]
Una lettera ad alcuni amici
Un digiuno di contrizione e condivisione del dolore del popolo palestinese
*
Una premessa autobiografica
Poiche' le grandi tragedie ci interpellano in modo viscerale, e' necessario che dica perche' questa mi sconvolge cosi' intensamente.
Tra quelli che sento come i miei maestri piu' grandi, la cui vita ha sia pur per un soffio incrociato e scosso la mia, due ne ho avuti che subirono la deportazione nei Lager nazisti, e che ora non sono piu'.
Non dimentichero' mai il colloquio telefonico con Primo Levi pochi giorni prima che morisse; e non dimentichero' mai quel giorno che chiusomi in una stanza in solitudine piansi dirottamente alla notizia che era scomparso.
Non dimentichero' mai Vittorio Emanuele Giuntella che mi abbraccio' e mi bacio' su una guancia l'ultima volta che lo vidi in vita.
Quando mori' Primo Levi promisi a me stesso che avrei fatto tutto quanto fosse in mio potere per tramandarne la memoria e continuarne la lotta. Rinnovai quella promessa interiore quando scomparve Vittorio Emanuele Giuntella, che nell'ormai lontano 1977 mi aveva fatto scoprire la nonviolenza.
Sento la Shoah come un evento decisivo, che spezza in due la storia come una folgore e ci interroga e scortica e squassa tutti. E so che il nazismo non e' stato ancora sconfitto, poiche' la sua eredita' maligna ogni giorno, ogni ora ricaccia nuovi tentacoli, e se noi non siamo sempre vigili e disposti alla lotta, se noi non lo contrastiamo sempre ed ovunque, l'hitlerismo trionfa, come sta trionfando in tanta parte del pianeta.
E so anche che la Shoah e' stata resa possibile da secoli di antisemitismo, e che l'antisemitismo continua: lo leggo sui muri della mia stessa citta', dove mani di giovani insipienti e insensati, resi necrofili dall'ideologia dominante, vergano infamie che sono le infamie predicate nelle chiese fino a qualche decennio fa, che sono le infamie che preparano i pogrom, che sono le infamie che portano a realizzare Auschwitz.
A chi mi chiede di cosa mi occupo nella vita rispondo: di non dimenticare le vittime.
Sono da sempre un amico del popolo palestinese. So che esso ha subito un torto grande nel 1948, e da allora subisce un regime di apartheid, una vicenda di sofferenze indicibili. Ho sostenuto per quanto mi e' stato possibile, che e' ben piccola cosa, la resistenza del popolo palestinese, anche sovente criticando esplicitamente i metodi dei settori egemoni del movimento di liberazione di quel popolo. Ho avuto l'onore di ospitare, quando e' capitata l'occasione, militanti dell'OLP (come di altri movimenti di altri paesi e popoli in lotta per la vita e la dignita' umana); ho cercato di ascoltare e di dare una mano.
Mi sento naturalmente amico anche del popolo israeliano, che e' cosa diversa dal suo governo, di cui e' vittima. Ed e' dal movimento pacifista israeliano che ho imparato molte cose, da decenni. E quando fui processato per la mia opposizione alla guerra del Golfo la solidarieta' piu' bella, tra le prime, mi giunse dai pacifisti israeliani, miei maestri, miei fratelli.
Ed e' inutile che aggiunga che ritengo la cultura ebraica una delle grandi fonti che mi hanno rivelato la vita e la dignita' umana.
E sento risuonare sempre dentro di me le parole dell'appello grande di Primo Levi dopo l'orrore di Sabra e Chatila.
Ed e' da un altro dei maestri benevoli piu' grandi che ho avuto, Franco Fortini, che ho ricevuto parole e pensieri luminosi per interpretare cosa accadeva ed accade cola', e dunque anche costi': sono in quel libro tremendo e magnifico che si intitola: I cani del Sinai.
Ed ho avuto la fortuna di leggere e meditare molte volte gli scritti di Edward Said, uno degli intellettuali maggiori del secolo che si conclude, palestinese della diaspora, tra i pensatori dall'animo piu' vasto e lo sguardo piu' acuto. E chi non li ha letti, difficilmente puo' dire qualcosa di ragionevole sugli eventi in corso in questi ultimi anni ed adesso.
*
Dire la verita'
Trovo sconcertante che la comunita' mondiale fingesse di credere che ci fosse cola' un processo di pace.
Trovo sconcertante che si credesse ad una pretesa buona fede del governo di Israele.
Trovo sconcertante che non si cogliesse la spaventosa involuzione dell'ANP.
Trovo sconcertante che si pensasse che potesse avere un ruolo positivo e positivamente propulsivo il governo americano e quell'imbecillone criminale di Bill Clinton.
Trovo sconcertante che non si capisse il significato della crescita del fondamentalismo islamico.
Trovo sconcertante che si rimuova il pensiero della diaspora palestinese nei campi profughi, e della violenza contro i palestinesi da parte anche dei regimi dei paesi vicini.
Forse se invece di citarne soltanto il nome si leggessero anche i libri di Noam Chomsky, ci sarebbe un po' piu' di chiarezza.
Forse se si leggessero i vecchi libri disponibili anche in italiano di Uri Avnery, le cose sarebbero piu' comprensibili.
Se si fosse dedicata attenzione al lavoro del compianto Lelio Basso e della Fondazione a lui intitolata, certi equivoci, certe deleghe, certe disattenzioni non ci sarebbero state.
In Italia vi sono stati rappresentanti palestinesi di una lucidita' straordinaria, se si fosse voluto ascoltarli.
Ancora questa estate a Celleno Ali Rashid ci diceva parole nitide e profonde: che dobbiamo saper ascoltare.
Forse siamo davvero tutti ciechi.
E ancora: se si fosse aiutata l'Intifada (che continuo a considerare un'insurrezione fondamentalmente nonviolenta), non saremmo oggi a questo.
Se si fosse sostenuto Peace Now in Israele, non saremmo oggi a questo.
Se si fosse fatto qualcosa, ma troppo poco si e' fatto, ed e' stato subalterno ed inadeguato.
Non giudico altri, parlo per me.
*
Eppure
Ma pure cosi' inadeguati, pure cosi' indegni di avere voce in capitolo, oggi alcune cose dobbiamo dire, e le cose che io credo di dover dire sono queste:
primo, che cessi la repressione da parte dell'esercito israeliano;
secondo, che la comunita' internazionale sostenga il diritto del popolo palestinese tuttora calpestato;
terzo, che si assuma come elemento di riflessione l'analisi proposta e la prospettiva avanzata da Edward Said;
quarto, che a tutti si chieda di fare la scelta della nonviolenza.
*
Un digiuno
Null'altro sono riuscito a pensare di poter fare che dire il mio dolore e la mia amicizia a due popoli carissimi al mio cuore, tra i quali ho amici personali per cui trepido.
Vorrei testimoniarlo, e non so come.
Lo faro' con un digiuno.
Che sara' breve, perche' la mia salute non mi consente di piu'.
Che sara' di ascolto, poiche' non ci e' chiesto rumore di fondo ma solidarieta' concreta se ne siamo capaci e ne troviamo le forme, e rispetto per le vittime.
E che vorrebbe essere un piccolo atto di contrizione e condivisione.
Ed un modo di fermarsi a considerare, pensare a cosa occorre, disporsi all'opera, chiedere a tutti aiuto, cercare di far cessare una tragedia che continua da oltre mezzo secolo.
3. TRE TESI SU ERNESTO "CHE" GUEVARA
[Il testo seguente e' quello dell'intervento di saluto svolto, come responsabile del "Centro di ricerca per la pace" di Viterbo, in apertura dell'incontro annuale della "Fondazione Ernesto Che Guevara", tenutosi a Bolsena (VT) il 17 giugno 2000. Esso apparira' anche nel prossimo fascicolo dell'annuario della "Fondazione Che Guevara".
Mi sono deciso a diffonderlo anche attraverso questo notiziario poiche' in esso tematizzo alcune proposte di riflessione sulle quali vorrei che si ragionasse senza ipocrisie, senza "falsa coscienza", senza riflessi condizionati autoritari e dogmatici.
In particolare propongo ancora una volta la tesi della incompatibilita' delle pratiche militari (tra cui la guerriglia rientra pienamente) con la lotta di liberazione ed affermazione della dignita' e dei diritti dei popoli e delle persone, tesi che ovviamente si contrappone ad una tradizione fortemente tabuizzata della quasi totalita' dei movimenti di resistenza e di liberazione degli oppressi (in questo del tutto subalterni, e tanto piu' quanto meno consapevoli di cio', alla cultura dominante, ovvero all'ideologia dei potenti).
E' ovvio che se non vi fossero forme di lotta alternative ed efficaci, in casi estremi gli oppressi avrebbero tutto il diritto di opporsi con la violenza alla violenza degli oppressori; e questo diritto, in quanto assimilabile al principio della legittima difesa che gran parte degli ordinamenti giuridici, dei codici morali e delle tradizioni religiose riconoscono a chiunque, e' incontestabile. Ma esistono alternative: e' possibile lottare contro la violenza senza riprodurla; e' possibile opporsi all'oppressione senza esercitare nuova oppressione; e' possibile costruire liberta' e dignita' nel momento stesso della lotta; e' possibile realizzare uguaglianza e riconoscimento di umanita' fin dal momento della decisione e dell'azione di resistenza e di liberazione; e' possibile riconoscere l'umanita' dell'altro e ad essa fare appello fin nel cuore del conflitto; e' possibile lottare in modo limpido, coerente, efficace, umanizzante: e questa possibilita' e' la nonviolenza.
Altrove ho proposto una articolata interpretazione della nonviolenza nella compresenza delle sue molteplici dimensioni (compresenza senza di cui non si da' nonviolenza in senso proprio, ma qualcosa di altro e di men degno); qui mi limito a sottolineare che la nonviolenza e' lotta: la lotta piu' limpida e intransigente contro la violenza, contro la menzogna, contro l'oppressione comunque essa si eserciti e si travesta. La nonviolenza e' lotta ed insieme appello all'umano, e' conflitto che chiama alla cooperazione, e' rottura della complicita' con l'ingiustizia e principio fondativo di civile convivenza. La scelta nonviolenta e' oggi, credo, il passo decisivo per chiunque voglia impegnarsi per la giustizia e la liberta', per la democrazia e la difesa della biosfera, per la pace e i diritti umani. Come ebbe a dire Aldo Capitini (e molti lo hanno ricordato il 24 settembre scorso ad Assisi) la nonviolenza oggi e' "il varco attuale della storia"]
Tre tesi parziali e provvisorie per proporre una riflessione necessaria
"Cosi' e' stata consumata - nel giro di un giorno - la seconda, vera morte di Che Guevara ed e' questa morte che noi rifiutiamo.
Che il corpo morto che ci e' stato mostrato sia quello di Che Guevara o no, ha un'importanza solo affettiva. Resta il fatto che di questo corpo morto nella rivoluzione, si vuole fare una merce di consumo, facendolo diventare il corpo morto della rivoluzione, che non fa piu' paura e puo' essere riassoribito nella produzione. Si tenta di integrare il suo corpo morto nel sistema che Che Guevara - morto o vivo - continua a negare, e noi non vogliamo essere i muti testimoni di questo secondo assassinio"
(Franco Basaglia e Franca Ongaro Basaglia, Il corpo di Che Guevara, 1967)
Per illustrare ed argomentare le tre tesi che in questo intervento vorrei proporre alla discussione avrei bisogno di troppo piu' tempo di quanto sia disponibile oggi, pertanto mi limitero' qui ad enunciarle e chiedero' a chi ascolta la benevolenza di volerle ragionare e discutere mettendoci per cosi' dire del proprio, nella propria memoria recuperando e nella propria riflessione svolgendo sia quell'articolazione di ragionamento, sia quell'apparato di riferimenti di cui le avrei munite e su cui le avrei verificate se invece di parlare per pochi minuti avessi dovuto farlo per delle ore, ma che qui giocoforza tralascio, ovviamente avvertendo che la secchezza di taluni enunciati (che certo non rende giustizia alla complessita' delle questioni proposte al dibattito) dipende dal fatto che si procede di scorcio e per sommi capi.
*
1. Una prima tesi: inutilizzabilita' della teoria-prassi di Guevara per un impegno di pace
E poiche' mi e' stato chiesto di intervenire anche per portare a questo incontro di riflessione il saluto del "Centro di ricerca per la pace" di Viterbo, la prima tesi che vorrei proporvi e' la seguente:
dal punto di vista dell'impegno per la pace la pratica e la riflessione peculiari e caratterizzanti di Guevara come proposta di metodo e di azione non costituiscono un contributo utilizzabile.
Ma insieme va detto anche: che dal punto di vista della riflessione di chi e' impegnato per la pace l'esperienza e la testimonianza, la proposta teorica e l'appello di Guevara costituiscono una sfida ineludibile (ed e' ovvio che molte sue specifiche analisi, denunce, intuizioni, rotture, rappresentano strumenti e materiali cui non si puo' rinunciare).
Sostengo con decisione questa tesi, della inutilizzabilita' della teoria-prassi guevariana (e dico guevariana e non guevarista perche' penso che si debba tener distinto Guevara da quei guevarismi che di quell'esperienza di azione e pensiero sono l'irrigidimento dogmatico e travisante talvolta fino alla caricatura e alla nefandezza) dal punto di vista dell'impegno e della cultura della pace, essenzialmente per i seguenti motivi.
- Primo: perche' Guevara e' stato eminentemente un capo militare, e il teorico di una via militare: di un certo tipo di attivita' militare, la guerriglia rivoluzionaria, ma sempre di attivita' militare si tratta; e l'attivita' militare e' sempre e totalmente incompatibile con l'impegno di pace.
Del resto lo stesso Guevara ne era pienamente consapevole e lo enunciava con chiarezza: laddove evidenziava essere la guerriglia una sorta di terribile extrema ratio dinanzi ad una catastrofica violenza scatenata o cristallizzata e nella certificata impossibilita' di adire altre e piu' umane vie di azione.
E d'altro canto anche Gandhi, della violenza oppositore il piu' nitido e intransigente, e' stato costantemente esplicito nell'esortare a resistere comunque all'ingiustizia, anche con la violenza se non si ha la forza di farlo con la nonviolenza, poiche' dinanzi al sopruso pur sempre essendo la violenza un male, cosa ancora peggiore e' la vilta': "Credo che nel caso in cui l'unica scelta possibile fosse quella tra la codardia e la violenza, io consiglierei la violenza" (11 agosto 1920); "Sebbene la violenza non sia lecita, quando viene usata per autodifesa o protezione degli indifesi essa e' un atto di coraggio, di gran lunga migliore della codarda sottomissione" (27 ottobre 1946); Gandhi, come e' noto, aveva una concezione articolata e dialettica del rapporto tra violenza e nonviolenza.
- Secondo: perche' il progetto rivoluzionario di liberazione fondato sulla pratica della guerriglia, come tutti quelli fondati sull'uso della violenza da se stesso si condanna ad esiti inaccettabili, come ha argomentato ad esempio Giuliano Pontara in una sua analisi che altre volte ho ripreso.
"Cito da Giuliano Pontara, voce Nonviolenza, in AA.VV., Dizionario di politica, Tea, Torino 1992:
1. il primo argomento "mette in risalto il processo di escalation storica della violenza. Secondo questo argomento, l'uso della violenza (...) ha sempre portato a nuove e piu' vaste forme di violenza in una spirale che ha condotto alle due ultime guerre mondiali e che rischia oggi di finire nella distruzione dell'intero genere umano";
2. il secondo argomento "mette in risalto le tendenze disumanizzanti e brutalizzanti connesse con la violenza" per cui chi ne fa uso diventa progressivamente sempre piu' insensibile alle sofferenze ed al sacrificio di vite che provoca;
3. il terzo argomento "concerne il depauperamento del fine cui l'impiego di essa puo' condurre (...). I mezzi violenti corrompono il fine, anche quello piu' buono";
4. il quarto argomento "sottolinea come la violenza organizzata favorisca l'emergere e l'insediamento in posti sempre piu' importanti della societa', di individui e gruppi autoritari (...). L'impiego della violenza organizzata conduce prima o poi sempre al militarismo";
5. il quinto argomento "mette in evidenza il processo per cui le istituzioni necessariamente chiuse, gerarchiche, autoritarie, connesse con l'uso organizzato della violenza, tendono a diventare componenti stabili e integrali del movimento o della societa' che ricorre ad essa (...). "La scienza della guerra porta alla dittatura" (Gandhi)".
A questi argomenti da parte nostra ne vorremmo aggiungere altri due:
6. un argomento, per cosi' dire, di tipo epistemologico: siamo contro la violenza perche' siamo fallibili, possiamo sbagliarci nei nostri giudizi e nelle nostre decisioni, e quindi e' preferibile non esercitare violenza per imporre fini che potremmo successivamente scoprire essere sbagliati;
7. soprattutto siamo contro la violenza perche' il male fatto e' irreversibile (al riguardo Primo Levi ha scritto pagine indimenticabili soprattutto nel suo ultimo libro I sommersi e i salvati).
Agli argomenti contro la violenza Pontara aggiunge opportunamente un ultimo decisivo ragionamento:
"I fautori della dottrina nonviolenta sono coscienti che ogni condanna della violenza come strumento di lotta politica rischia di diventare un esercizio di sterile moralismo se non e' accompagnata da una seria proposta di istituzioni e mezzi di lotta alternativi. Di qui la loro proposta dell'alternativa satyagraha o della lotta nonviolenta positiva, in base alla duplice tesi a) della sua praticabilita' anche a livello di massa e in situazioni conflittuali acute, e b) della sua efficacia come strumento di lotta" per la realizzazione di una societa' fondata sulla dignita' della persona, il benessere di tutti, la salvaguardia dell'ambiente".
- Terzo: infine, e per dirla tutta e senza infingimenti, perche' al fondo di quella che si denomina ipocritamente"la questione della violenza" c'e' la tragica scelta morale di uccidere, di troncare vite umane. E la mia personale opinione e' che chi lotta affinche' gli uomini possano essere se non liberi e felici almeno un po' meno oppressi e un po' meno infelici, e questa lotta conduce da una prospettiva egualitaria ovvero che riconosce dignita' e diritto a vivere a tutti gli esseri umani, ebbene, deve precludersi la scelta di uccidere, deve ripudiare il dare la morte.
Poiche' chi condivide il punto di vista e l'impegno di lottare per la liberazione dell'umanita' o almeno per contrastare i poteri (politici, economici, tecnologici, militari, ideologici e mediali) che la dignita' umana denegano (e che oggi la stessa civilta' umana e la stessa biosfera minacciano di distruzione), ebbene, deve sapere che in ogni sua azione e quindi nella stessa scelta della metodologia di lotta e dei rapporti che nella lotta si instaurano deve affermare la dignita' di tutti; sempre deve considerare gli altri esseri umani come fini e non come meri mezzi, e non come semplici strumenti (per dirla kantianamente: si tratta di costantemente considerare l'umanita', e quindi tutti gli uomini, come regno dei fini); deve agire in modo che la sua azione sia, nel suo stesso farsi e nei suoi esiti immediati, per cosi' dire concrezione e vettore di una norma valida come fondatrice di socialita', di una socialita' che realizzi le tre parole d'ordine della grande rivoluzione del 1789: liberta', uguaglianza, fraternita'. Uccidere non fonda una societa', cancella vite umane; uccidere non libera, sopprime e basta.
Eppure anche io che sono una persona che da oltre vent'anni ho cercato e cerco, nel mio personale impegno di lotta contro l'ingiustizia e la menzogna, di coniugare una metodologia di analisi della storia e della societa' che sbrigativamente definiro' marxista, una weltanschauung materialista (che altrettanto sbrigativamente definiro' leopardiana), e la scelta morale, assiologica e strategica della nonviolenza di tipo satyagraha (connessa al "principio responsabilita'" - Hans Jonas, per intenderci, ma anche un richiamo ad Emmanuel Levinas -), e solo cosi' mi pare, almeno per quel che mi riguarda, che si possa essere un rivoluzionario egualitario coerente per quanto e' possibile, ebbene, io non posso cessare di misurarmi e riflettere sulle scelte e le aporie di Guevara, sulle sue intuizioni e contraddizioni, su cio' che di lui, della sua esperienza e della sua riflessione mi turba e cio' che mi persuade, cio' che mi commuove e cio' che mi addolora e fin ripugna, poiche' di ogni uomo, per quanto lucido e generoso egli sia vi sono aspetti che suscitano la nostra adesione ed aspetti che ci muovono alla critica o finanche alla delusione ed all'opposizione.
Quest'uomo dall'animo grande, intransigente fino al sacrificio di se' (e con se' dei suoi compagni piu' cari: e quale ferita questo dovette recare nell'animo suo), ed insieme tenero e sensibile come una ballerina (e guascone perche' anche lui pensava - idea che tanta sciagura ha recato al movimento degli oppressi - che un capo rivoluzionario deve mascherare l'angoscia e lo smarrimento e il pianto);
quest'uomo che da medico si fece guerrigliero (e quindi in ultima analisi anche uccisore - non dobbiamo aver paura di usare le parole che designano precisamente l'atto di uccidere: e' l'atto che deve farci orrore -) non essendo riuscito a trovare (ma Gandhi disse: c'e' sempre un'altra strada), nelle concrete condizioni e costrizioni storiche ed esistenziali in cui si trovo' e secondo la percezione e la coscienza che di esse ebbe, un piu' efficace modo di affermare la dignita' umana, di cercar di lenire l'umano dolore provocato dalla violenza storicamente prodotta dall'oppressione dell'uomo sull'uomo, di contrastare chi calpesta altrui, di tentare la costruzione di una societa' meno barbara, di riscattare le vittime dell'offesa in un percorso comune di conquista per tutti della dignita';
quest'uomo ci interroga, ci convoca, ci costringe a vedere, a prendere posizione, ad agire.
*
2. Una seconda tesi: in Guevara, che ne ebbe acuta coscienza, si incarnano contraddizioni, dicotomie ed esiti aporetici delle esperienze storiche e della tradizione teorico-pratica dei movimenti di resistenza e di liberazione, e particolarmente del marxismo rivoluzionario
E questo introduce la seconda tesi che intendo proporvi:
nella figura, nella prassi, nella riflessione, nella testimonianza e nello scacco di Guevara si condensano e per cosi' dire si incarnano con straordinaria potenza ermeneutica le contraddizioni e le aporie piu' incandescenti e piu' tragiche non solo della tradizione storica e teorica della sinistra rivoluzionaria, della corrente calda del marxismo, ma di tutti i movimenti e fin delle persone di volonta' buona che si ribellano alla feroce barbarie del tuttora presente tragico e assurdo momento dell'umanita'.
Guevara ne ebbe acuta coscienza: e mi sembra colga nel vero chi interpreta il suo percorso e le sue scelte nella fase finale della vita anche sotto il segno della consapevolezza che occorreva affrontare questi grovigli immani.
Mi limito a una mera elencazione:
- la contraddizione tra la morale eroica, l'etica del sacrificio da un lato, e la leva (e l'obiettivo, e la promessa) del benessere materiale dall'altro;
- il rischio di una progressiva dicotomia e fin schizofrenia tra militante e popolazione;
- la contraddizione tra la denuncia della violenza degli sfruttatori e degli oppressori, e la sua riproduzione nella lotta e nell'organizzazione di chi ad essa si oppone;
- il patologico coniugarsi di attivismo (fin irrazionalista) e positivismo (opportunista, giustificazionista);
- il patologico coniugarsi di pretesa scientifica (dogmatica) e atteggiamento profetico (sacrale e sacrificale);
- il confliggente sovrapporsi ad un progetto politico di liberazione fondato su una visione del mondo razionale, su una ipotesi antropologica qualificata dalla consapevolezza, dalla moderazione e dalla benevolenza, ed orientato alla proposta di una condivisa sobria felicita', di motivazioni fortemente condizionate da mozioni, di matrice tra religiosa e misterica, al sacrificio catartico, alla sofferenza come espiazione, a prospettive escatologiche e soteriologiche;
- la prevalenza del modello gerarchico su quello consiliare;
- la sottovalutazione della sfera (e dell'autonomia, e della rilevanza) del diritto, e finanche di quella dell'amministrazione, rispetto alla pretesa sussunzione alla politica ed all'economia (che diventano cosi' una sorta di categorie onnivore e quindi radici di ideologie e pratiche totalitarie);
- il dramma dei rivoluzionari che giunti al potere non sanno essere legislatori ed amministratori, e non riescono ad aprirsi ad una piu' ampia pratica democratica ed egualitaria, e la conseguente involuzione burocratica ed autoritaria;
- la riproduzione di rapporti di potere, di oppressione, di sfruttamento, di esclusione, di denegazione.
Aver indicato, sia pure per mera elencazione, queste contraddizioni, e queste aporie, beninteso non implica un atteggiamento di resa, ma di ricerca e di impegno, di maggior profondita' nel riflettere, nell'assumere responsabilita', nel continuare la lotta contro i carnefici; e continuarla anche contro quella parte di noi stessi che potrebbe anch'essa divenire carnefice, o specchio o complice dei carnefici: se ubriacata dalla falsa coscienza dell'ideologia e dalla vilta', dalla logica dell'obbedienza che edifica lager o dalla pretesa di purezza che erige roghi; se cioe' la coscienza non fosse costantemente vigile.
A me sembra che Guevara visse ed avverti' acutamente queste contraddizioni, questa aporie, ed almeno ad alcuni livelli e sulla base delle sue esperienze e riflessioni, e degli strumenti conoscitivi di cui disponeva e delle circostanze in cui la sua azione poteva collocarsi, tento' in qualche modo di agire per fronteggiarle.
Non vi e' dubbio che Guevara colse non la mera involuzione burocratica ma quel che di piu' e di peggio era accaduto nel "campo socialista"; colse non solo il portato, ma le radici e il senso della frattura tra Urss e Cina; colse la solitudine del Vietnam; colse la necessita' di far riferimento alle potenzialita' dell'Africa e che quello era un momento decisivo; colse la dimensione internazionale e globale dello scontro non per meccanica applicazione della teoria dei due campi e dei catechismi marxisti-leninisti, bensi' per nitida percezione e concreta coscienza delle forme specifiche in cui la dominazione imperialista nella fase coesistenziale riorganizzava il suo potere e la sua egemonia attraverso i meccanismi strutturali e ideologici del neocolonialismo, dell'omologazione, dell'inclusione subalterna, del primato produttivista.
Colse la catastrofe morale e fin antropologica prodotta cosi' dall'economicismo come dalla ragion di stato (e di partito), e si sforzo' di contrapporvi il primato della persona, dell'uomo concreto e dei suoi concreti bisogni e diritti nelle dimensioni del corpo, dell'intelletto, dei sentimenti, dell'incontro con l'altro, del riconoscimento.
Colse la pervasivita' dell'alienazione nelle sue dimensioni sociologiche e psicologiche, nella sfera della produzione e della riproduzione sociale, della cultura, della vita quotidiana, dell'interiorita'; ed alla colonizzazione mentale, all'introiezione da parte degli oppressi dei valori dell'ideologia dominante che doppiamente li dimidia e assoggetta, cerco' di contrapporre lo sforzo di una dolorosa (perche' cosciente) ed inquieta (perche' incerta) ricerca di autenticita': nella condivisione della fatica e della sofferenza, nell'azione rivoluzionaria, nell'attivita' fabrile, considerate sempre anche come pratiche educative: nella scelta teorica e pratica, epistemologica e terapeutica, della solidarieta' con gli oppressi, dell'assunzione del punto di vista degli oppressi, della condivisione della condizione degli oppressi (cosi' simile in questo ad alcune delle cogitazioni, e delle scelte, ad un tempo sublimi e sconcertanti di Simone Weil).
Colse anche la gravita' e il pericolo che l'autoritarismo, il dogmatismo, la menzogna rappresentavano per la rivoluzione. Colse il riprodursi di rapporti di potere, di sfruttamento e di mistificazione anche nel campo degli oppressi.
Non seppe o non pote' individuare soluzioni adeguate; ed alcuni suoi estremi tentativi possono anche apparirci enigmatici, opachi, fagocitanti ed autolesionisti, ingiusti e spaventosi: ma non vi e' dubbio che quest'uomo avverti' acutamente i problemi, non eluse i conflitti, senti' e sostenne con strazio e con fierezza le contraddizioni che lo laceravano.
Mi pare che delle dicotomie ed aporie di cui sopra si e' fatta una frettolosa, caotica e certo carente elencazione, sia assai consapevole ad esempio l'esperienza neozapatista in Chiapas, che nella sua elaborazione, che ha enormi meriti ed espliciti limiti, unisce ad una acuta e fin suggestiva pars destruens, una enorme difficolta' a proporre una pars construens: quando dall'analisi critica, dalla fondazione logica e ontologica della resistenza, si passa alla proposta, li' Marcos si ferma e si rifugia in formule generiche e quasi meramente moralistiche.
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3. Una terza ed ultima tesi: Guevara senza guevarismi
Una terza ed ultima tesi per concludere: cosi' come Marx affermava infastidito di non essere marxista, e non meno infastidito affermava di non voler scrivere i menu per i ristoranti dell'avvenire, sottraendosi cosi' sia ad un ruolo pontificale e dogmatico, sia ad un ruolo profetico e quasi taumaturgico (se ne fossero ricordati i suoi eredi, e non solo gli abusivi e usurpatori con la vocazione al sacerdozio e alle fucilazioni, quante catastrofi si sarebbero evitate), e cosi' come giustamente uno studioso scrisse che occorreva leggere Kafka "senza kafkismi", credo che anche per Guevara dovremmo essere espliciti e solleciti (lo accennavo anche sopra) nel considerarne la figura e l'opera teorica e pratica liberandolo dal "guevarismo", contrastando i consumi che ne vengono fatti volta a volta come di un'icona liturgica o pop, di una eterna tentazione militarista, di una paradossale cristologia, ed anche, se posso permettermi, di una sorta di figura da hegeliana Fenomenologia dello spirito.
Guevara non e' l'uomo del XXI secolo che una macchina del tempo ha portato nel XX; non e' l'"uomo nuovo", fantasma cui egli stesso sovente allude (e che tra le tante sue formule e intuizioni di grande efficacia, suggestione e fecondita', mi sembra anche una delle piu' ambigue e potenzialmente anche pericolose, a cavallo tra l'ultrauomo di Nietzsche, il superomismo socialista di Jack London, un persistente residuo di misticismo e millenarismo cristiano, e l'"ingegneria delle anime" di stalinista memoria).
La sua riflessione politica, economica, sociologica ed etica non e' particolarmente rilevante se confrontata a quella di vari altri pensatori e testimoni, ed e' in molti dei suoi aspetti centrali (ma non tutti, beninteso) inadeguata ai problemi nuovi e terribili dell'oggi e dell'immediato futuro; la sua fin leggendaria franchezza e coerenza non e' solo una virtu' ma talvolta anche un alibi (e in taluni suoi pretesi epigoni degenera talvolta da strumento euristico quasi a cinico corto circuito logico preventivamente autoassolutorio).
E se posso soffermarmi anche su questo: anch'io ritengo importante la coerenza tra cio' che si pensa, cio' che si dice e cio' che si fa: ma non basta: occorre altresi' valutare i motivi, il senso e gli effetti di questi pensieri, queste parole, queste azioni. E tra quanti ammirano il "Che" per la sua coerenza molti vi sono che in verita' alla sua e alla nostra lotta sono nemici i piu' radicali.
Guevara, come chiunque, da Marx a Gandhi, da Socrate a Diderot, da Dante a Rosa Luxemburg, va contestualizzato storicamente e culturalmente, e va letto nel suo stesso divenire, nella storia dei suoi esperimenti con la verita' (per parafrasare il titolo che Gandhi diede alla sua autobiografia). E' un uomo e non un oracolo. Un pensatore, un militante, un testimone, il cui valore pienamente si apprezza appunto quanto piu' si e' capaci di coglierlo precisamente nel gorgo storico, culturale, esistenziale in cui concretamente visse, opero', penso'.
Ma detto tutto questo, e ricondotto Guevara fuori dall'alone del mito, fuori dalla leggenda e dall'ideologia, fuori dalla sfera del sacro (sfera che sappiamo bene essere cosi' terribilmente ed intrinsecamente connessa alla violenza), resta un uomo grande: la cui vicenda, le cui scelte e riflessioni, il cui appello ancora ci chiamano e ci feriscono come un pungolo, uno sperone conficcato nelle nostre stesse carni, nel nostro stesso animo.
E' l'uomo che ha scritto nella lettera di congedo ai figli: "Soprattutto, siate sempre capaci di sentire nel piu' profondo qualsiasi ingiustizia commessa contro chiunque, in qualsiasi parte del mondo".
E' l'uomo che ha scritto: "La solidarieta' del mondo progressista verso il popolo del Vietnam assomiglia all'amara ironia che l'incitamento della plebe rappresentava per i gladiatori del circo romano. Non si tratta di augurare vittoria a chi e' stato aggredito, ma di condividere la sua sorte, di accompagnarlo nella morte o nella vittoria. Quando analizziamo la solitudine vietnamita, ci assale l'angoscia per questo momento irrazionale dell'umanita'".
E' l'uomo su cui Franco Basaglia scrisse, all'indomani della sua morte, alcune delle parole piu' nitide e persuasive (e non ho voluto concludere questo intervento senza almeno ricordare quel grande umanista, terapeuta e rivoluzionario che e' stato Basaglia, e quel suo scritto su Guevara di cui sono tra i pochi a serbare memoria e che propongo all'attenzione degli studiosi).
L'uomo Guevara ancora ci convoca a un impegno di umanizzazione, a non eludere le contraddizioni, a dire la verita', ad agire affinche' cessi l'orrore e l'uomo finalmente un aiuto sia all'uomo, anziche' un lupo; a costruire la giustizia e la solidarieta' a cominciare da noi, adesso.
E lo sentono fratello e compagno gli oppressi tutti e soprattutto i popoli del sud del mondo in lotta contro l'imperialismo che li stermina con le armi e con la fame, con il prezzo del rame e con il turismo sessuale, con la gestione sussunta al profitto delle risorse, della biosfera, della stessa vita umana ridotta a merce di scarso prezzo, che i vampiri dei mercati finanziari e i lupi delle reti televisive sbranano incessantemente.
Anche chi come me ritiene del tutto peculiari le sue scelte, anche chi come me non condivide ed anzi si oppone a elementi sostanziali e decisivi della sua azione e della sua meditazione, pure molto ne ha appreso, di parti non meno fondamentali della sua elaborazione e testimonianza si e' nutrito e si nutre, e reca grata memoria di Guevara, della sua tragica e nobile figura di combattente per la buona causa, la causa dell'umanita'.
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COI PIEDI PER TERRA
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Numero 756 del 27 aprile 2013
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