Ogni vittima ha il volto di Abele. 17



 

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OGNI VITTIMA HA IL VOLTO DI ABELE

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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino"

Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100

Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 17 del 21 ottobre 2011

 

In questo numero:

1. Mao Valpiana: La storia di ogni guerra

2. Un appello del Movimento Nonviolento, di Peacelink e del Centro di ricerca per la pace di Viterbo per il 4 novembre: Ogni vittima ha il volto di Abele

3. Livio Miccoli: Con Emilio Lussu contro la guerra

 

1. EDITORIALE. MAO VALPIANA: LA STORIA DI OGNI GUERRA

[Ringraziamo Mao Valpiana (per contatti: via Spagna 8, 37123 Verona, tel. 0458009803, fax: 0458009212, e-mail: an at nonviolenti.org, sito: www.nonviolenti.org) per questo intervento.

Mao (Massimo) Valpiana e' una delle figure piu' belle e autorevoli della nonviolenza in Italia; e' nato nel 1955 a Verona dove vive e ha lavorato come assistente sociale e giornalista; fin da giovanissimo si e' impegnato nel Movimento Nonviolento (si e' diplomato con una tesi su "La nonviolenza come metodo innovativo di intervento nel sociale"); attualmente e' presidente del Movimento Nonviolento, responsabile della Casa per la nonviolenza di Verona e direttore della rivista mensile "Azione nonviolenta", fondata nel 1964 da Aldo Capitini. Obiettore di coscienza al servizio e alle spese militari ha partecipato tra l'altro nel 1972 alla campagna per il riconoscimento dell'obiezione di coscienza e alla fondazione della Lega obiettori di coscienza (Loc), di cui e' stato segretario nazionale; durante la prima guerra del Golfo ha partecipato ad un'azione diretta nonviolenta per fermare un treno carico di armi (processato per "blocco ferroviario", e' stato assolto); e' inoltre membro del comitato scientifico e di garanzia della Fondazione Alexander Langer Stiftung; fa parte del Comitato per la difesa civile non armata e nonviolenta istituito presso L'Ufficio nazionale del servizio civile; e' socio onorario del Premio nazionale "Cultura della pace e della nonviolenza" della Citta' di Sansepolcro; ha fatto parte del Consiglio della War Resisters International e del Beoc (Ufficio Europeo dell'Obiezione di Coscienza); e' stato anche tra i promotori del "Verona Forum" (comitato di sostegno alle forze ed iniziative di pace nei Balcani) e della marcia per la pace da Trieste a Belgrado nel 1991; nel giugno 2005 ha promosso il digiuno di solidarieta' con Clementina Cantoni, la volontaria italiana rapita in Afghanistan e poi liberata. Con Michele Boato e Maria G. Di Rienzo ha promosso l'appello "Crisi politica. Cosa possiamo fare come donne e uomini ecologisti e amici della nonviolenza?" da cui e' scaturita l'assemblea di Bologna del 2 marzo 2008 e quindi il manifesto "Una rete di donne e uomini per l'ecologia, il femminismo e la nonviolenza". Un suo profilo autobiografico, scritto con grande gentilezza e generosita' su nostra richiesta, e' nel n. 435 del 4 dicembre 2002 de "La nonviolenza e' in cammino"; una sua ampia intervista e' nelle "Notizie minime della nonviolenza in cammino" n. 255 del 27 ottobre 2007; un'altra recente ampia intervista e' in "Coi piedi per terra" n. 295 del 17 luglio 2010]

 

Ecco. Il lupo e' stato preso. Chiuso in trappola e poi sgozzato. Le pecore esultano, ballano sulla sua carcassa. Non sanno ancora che il cacciatore e' l'orso, che si prepara al nuovo banchetto.

E' la storia di ogni guerra. Le vittime di ieri sono i carnefici di oggi.

Sola la nonviolenza trasforma vittime e carnefici in uomini liberi.

 

2. INIZIATIVE. UN APPELLO DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO, DI PEACELINK E DEL CENTRO DI RICERCA PER LA PACE DI VITERBO PER IL 4 NOVEMBRE: OGNI VITTIMA HA IL VOLTO DI ABELE

[Riproponiamo il seguente appello]

 

Intendiamo proporre per il 4 novembre l'iniziativa nonviolenta "Ogni vittima ha il volto di Abele".

Proponiamo che il 4 novembre si realizzino in tutte le citta' d'Italia commemorazioni nonviolente delle vittime di tutte le guerre, commemorazioni che siano anche solenne impegno contro tutte le guerre e le violenze.

Affinche' il 4 novembre, anniversario della fine dell'"inutile strage" della prima guerra mondiale, cessi di essere il giorno in cui i poteri assassini irridono gli assassinati, e diventi invece il giorno in cui nel ricordo degli esseri umani defunti vittime delle guerre gli esseri umani viventi esprimono, rinnovano, inverano l'impegno affinche' non ci siano mai piu' guerre, mai piu' uccisioni, mai piu' persecuzioni.

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Queste iniziative di commemorazione e di impegno morale e civile devono essere rigorosamente nonviolente. Non devono dar adito ad equivoci o confusioni di sorta; non devono essere in alcun modo ambigue o subalterne; non devono prestare il fianco a fraintendimenti o mistificazioni. Queste iniziative di addolorato omaggio alle vittime della guerra e di azione concreta per promuovere la pace e difendere le vite, devono essere rigorosamente nonviolente.

Occorre quindi che si svolgano in orari distanti e assolutamente distinti dalle ipocrite celebrazioni dei poteri armati, quei poteri che quelle vittime fecero morire.

Ed occorre che si svolgano nel modo piu' austero, severo, solenne: depositando omaggi floreali dinanzi alle lapidi ed ai sacelli delle vittime delle guerre, ed osservando in quel frangente un rigoroso silenzio.

Ovviamente prima e dopo e' possibile ed opportuno effettuare letture e proporre meditazioni adeguate, argomentando ampiamente e rigorosamente perche' le persone amiche della nonviolenza rendono omaggio alle vittime della guerra e perche' convocano ogni persona di retto sentire e di volonta' buona all'impegno contro tutte le guerre, e come questo impegno morale e civile possa concretamente limpidamente darsi. Dimostrando che solo opponendosi a tutte le guerre si onora la memoria delle persone che dalle guerre sono state uccise. Affermando il diritto e il dovere di ogni essere umano e la cogente obbligazione di ogni ordinamento giuridico democratico di adoperarsi per salvare le vite, rispettare la dignita' e difendere i diritti di tutti gli esseri umani.

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A tutte le persone amiche della nonviolenza chiediamo di diffondere questa proposta e contribuire a questa iniziativa.

Contro tutte le guerre, contro tutte le uccisioni, contro tutte le persecuzioni.

Per la vita, la dignita' e i diritti di tutti gli esseri umani.

Ogni vittima ha il volto di Abele.

Solo la nonviolenza puo' salvare l'umanita'.

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Movimento Nonviolento

per contatti: via Spagna 8, 37123 Verona, tel. 0458009803, fax: 0458009212, e-mail: an at nonviolenti.org, sito: www.nonviolenti.org

Peacelink

per contatti: e-mail: info at peacelink.it, sito: www.peacelink.it

Centro di ricerca per la pace di Viterbo

per contatti: e-mail: nbawac at tin.it, web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/

 

3. OGNI VITTIMA HA IL VOLTO DI ABELE. LIVIO MICCOLI: CON EMILIO LUSSU CONTRO LA GUERRA

[Ringraziamo Livio Miccoli (per contatti: comitatoclaudiomiccoli at tin.it) per questo intervento.

"Sono nato e vivo a Napoli, dove insegno storia e filosofia in un Liceo (ma non sono ne' uno storico ne' tantomeno un filosofo della nonviolenza). Ho una moglie meravigliosa e due figli bellissimi, che sono la mia vita. Insieme ad altri amici partecipo al Comitato Claudio Miccoli, costituitosi nel 1998, presieduto da Francesco Ruotolo, che si propone di diffondere la cultura della nonviolenza, per riaffermare, nel nome di Claudio, i valori nei quali credeva e per i quali sacrifico' la sua giovane vita, perche' le sue idee non muoiano con lui. Con Marco Falvella e altri familiari delle vittime della violenza politica degli anni Settanta, sono tra i fondatori dell'Associazione Internazionale Vittime del Terrorismo, che si propone "di alimentare i valori della tolleranza e della nonviolenza, monito operante per prevenire nuovi episodi di sangue". Cfr. anche l'intervista in "Coi piedi per terra" n. 372]

 

Cari amici della nonviolenza,

il prossimo anniversario della "inutile strage" sia anche occasione per riflettere sulla crescente e pericolosa educazione alla guerra attraverso la militarizzazione della scuola, in atto da alcuni anni.

Nel 2009 il Ministro dell'Istruzione ha avviato un programma sperimentale triennale ("Tecnici Superiori") con il gruppo Finmeccanica (leader europeo nella produzione di sistemi d'arma e impiantistica militare), che si e' impegnato a prestare attivita' didattica mettendo a disposizione delle scuole laboratori e macchinari. Nel 2010 l'Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia ha confermato il protocollo d'intesa per il corso "Allenati alla vita", tenuto da ex ufficiali delle Forze Armate agli studenti delle Scuole Superiori, in cui si insegnano materie come cultura militare, armi e tiro (tranquilli, le pistole usate saranno ad aria compressa! ha chiarito Ignazio La Russa). Oggi - 2011 - e' in discussione al Senato una proposta di legge "per la promozione e la diffusione della cultura della difesa attraverso la pace e la solidarieta'" (che confusione di belle parole!) da propinare agli alunni delle scuole di ogni ordine e grado da parte del Ministro della Difesa.

A tali scellerate proposte "educative", il 4 novembre e oltre, contrapponiamo la vera Educazione - quella alla Pace - che passa attraverso la testimonianza di chi ha visto da vicino il vero mostruoso volto della guerra. Raccontiamo, nelle piazze e nelle scuole, che cosa e' stata la prima guerra mondiale, leggendo alcune straordinarie, intense pagine di Emilio Lussu, che a quella guerra partecipo', portandone per sempre il ricordo.

*

"Emilio Lussu, nato ad Armungia (Cagliari) il 4 dicembre 1890, deceduto a Roma il 5 marzo 1975, laureato in Legge, tra i fondatori di "Giustizia e liberta'", scrittore. Dopo aver partecipato, valorosamente, alla prima guerra mondiale come ufficiale di complemento, tornato in Sardegna Lussu e' animatore del movimento che nel 1919, a Cagliari, porto' alla nascita del Partito Sardo d'Azione. Eletto deputato nel 1921 e nel 1924, dopo il delitto Matteotti fu tra i piu' fermi accusatori di Mussolini, tanto che il 31 ottobre del 1926 gli squadristi assaltarono in forze la sua casa di Cagliari. Lussu si barrico' e si difese, respingendo l'assalto a colpi di pistola. Un fascista fu ucciso e Lussu, arrestato, resto' in carcere per tredici mesi. Assolto in istruttoria per legittima difesa, per volere di Mussolini fu confinato per 5 anni a Lipari. Ma Lussu, il 27 luglio 1929, riusci' ad evadere dal confino con Carlo Rosselli e Fausto Nitti e a rifugiarsi a Parigi. Qui, con altri rifugiati politici italiani, da' vita a "Giustizia e Liberta'". Dopo un periodo in Svizzera (per curare i postumi delle numerose ferite di guerra e dei disagi del carcere e del confino), Lussu nel 1937 sostituisce Rosselli (assassinato dai fascisti) alla guida di GL. E' alla testa di "Giustizia e Liberta'" anche quando i tedeschi invadono la Francia. Nell'agosto del 1943 riesce a rientrare in Italia e nel mese di settembre e' a Firenze, alla prima riunione nazionale del Partito d'Azione. Dopo l'armistizio e' uno dei capi della Resistenza romana e, finita la guerra, entra a far parte, nel 1945, del governo Parri e del successivo primo governo De Gasperi. Nel 1946 e' deputato all'Assemblea Costituente. Con lo scioglimento del Partito d'Azione aderisce, nel 1947, al Psi per essere poi, nel 1964, tra i fondatori del Partito Socialista di Unita' Proletaria. Deputato, senatore, dirigente nazionale dell'Anpi, di Emilio Lussu, oltre che all'impegno politico e' bene accennare a quello di scrittore, ricordando almeno il suo Teoria dell'insurrezione, edito in Francia nel 1936, il saggio Marcia su Roma e dintorni e quello che e' unanimemente considerato un capolavoro letterario, ma che di fatto rimane il suo manifesto politico: Un anno sull'altipiano. Questo libro sulla prima guerra mondiale e' stato ristampato nel 2008 da "l'Unita'", con un'introduzione che Mario Rigoni Stern aveva scritto nel 2000. Ad Emilio Lussu sono intitolati, oltre che un Centro Studi, scuole, strade, biblioteche e circoli culturali" (dal sito dell'Associazione Nazionale Partigiani d'Italia www.anpi.it)

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Alcuni estratti da Emilio Lussu, Un anno sull'altipiano, Einaudi, Torino 1945, 1981.

 

Un generale della prima guerra mondiale: Ama lei la guerra? (pp. 50-54)

Prese il comando della divisione il tenente generale Leone. L'ordine del giorno del comandante di corpo d'armata ce lo presento' "un soldato di provata fermezza e d'esperimentato ardimento". Io lo incontrai la prima volta a Monte Spil, nei pressi del comando di battaglione. Il suo ufficiale d'ordinanza mi disse che egli era il nuovo comandante la divisione ed io mi presentai.

Sull'attenti, io gli davo le novita' del battaglione.

- Stia comodo, mi disse il generale in tono corretto e autoritario. Dove ha fatto la guerra, finora?

- Sempre con la brigata, sul Carso.

- E' stato mai ferito?

- No, signor generale.

- Come, lei ha fatto tutta la guerra e non e' stato mai ferito? Mai?

- Mai, signor generale. A meno che non si vogliano considerare tali alcune ferite leggere che mi hanno permesso di curarmi al battaglione, senza entrare all'ospedale.

- No, no, io parlo di ferite serie, di ferite gravi.

- Mai, signor generale.

- E' molto strano. Come lei mi spiega codesto fatto?

- La ragione precisa mi sfugge, signor generale, ma e' certo che io non sono stato mai ferito gravemente.

- Ha preso lei parte a tutti i combattimenti della sua brigata?

- A tutti.

- Ai "gatti neri"?

- Ai "gatti neri".

- Ai "gatti rossi"?

- Ai "gatti rossi", signor generale.

- Molto strano. Per caso, sarebbe lei un timido?

Io pensavo: per mettere a posto un uomo simile, ci vorrebbe per lo meno un generale comandante di corpo d'armata. Siccome io non risposi subito, il generale, sempre grave, mi ripete' la domanda.

- Credo di no, risposi.

- Lo crede o ne e' sicuro?

- In guerra, non si e' sicuri di niente, risposi io dolcemente. E soggiunsi, con un abbozzo di sorriso che voleva essere propiziatorio: Neppure di essere sicuri.

Il generale non sorrise. Gia', credo che per lui fosse impossibile sorridere. Aveva l'elmetto d'acciaio con il sottogola allacciato, il che dava al suo volto un'espressione metallica. La bocca era invisibile, e, se non avesse portato dei baffi, si sarebbe detto un uomo senza labbra. Gli occhi erano grigi e duri, sempre aperti come quelli d'un uccello notturno di rapina.

Il generale cambio' argomento.

- Ama lei la guerra?

Io rimasi esitante. Dovevo o no rispondere alla domanda? Attorno v'erano ufficiali e soldati che sentivano. Mi decisi a rispondere.

- Io ero per la guerra, signor generale, e alla mia Universita', rappresentavo il gruppo degli interventisti.

- Questo, disse il generale con tono terribilmente calmo, riguarda il passato. Io le chiedo del presente.

- La guerra e' una cosa seria, troppo seria ed e' difficile dire se... e' difficile... Comunque, io faccio il mio dovere. E poiche' mi fissava insoddisfatto, soggiunsi: Tutto il mio dovere.

- Io non le ho chiesto, mi disse il generale, se lei fa o non fa il suo dovere. In guerra, il dovere lo debbono fare tutti, perche', non facendolo, si corre il rischio di essere fucilati. Lei mi capisce. Io le ho chiesto se lei ama o non ama la guerra.

- Amare la guerra! esclamai io, un po' scoraggiato.

Il generale mi guardava fisso, inesorabile. Le pupille gli si erano fatte piu' grandi. Io ebbi l'impressione che gli girassero nell'orbita.

- Non puo' rispondere? incalzava il generale.

- Ebbene, io ritengo... certo... mi pare di poter dire... di dover ritenere...

Io cercavo una risposta possibile.

- Che cosa ritiene lei, insomma?

- Ritengo, personalmente, voglio dire io, per conto mio, in linea generale, non potrei affermare di prediligere, in modo particolare, la guerra.

- Si metta sull'attenti!

Io ero gia' sull'attenti.

- Ah, lei e' per la pace?

Ora, nella voce del generale, v'erano sorpresa e sdegno.

- Per la pace! Come una donnetta qualsiasi, consacrata alla casa, alla cucina, all'alcova, ai fiori, ai suoi fiori, ai suoi fiorellini! cosi', signor tenente?

- No, signor generale.

- E quale pace desidera mai, lei?

- Una pace...

E l'ispirazione mi venne in aiuto.

- Una pace vittoriosa.

Il generale parve rassicurarsi. Mi rivolse ancora qualche domanda di servizio e mi prego' di accompagnarlo in linea.

Quando fummo in trincea, nel punto piu' elevato e piu' vicino alle linee nemiche, in faccia a Monte Fior, mi chiese:

- Quale distanza corre qui, fra le nostre trincee e quelle austriache?

- Duecentocinquanta metri circa, risposi.

Il generale guardo' a lungo e disse:

- Qui, ci sono duecentotrenta metri.

- E' probabile.

- Non e' probabile. E' certo.

Noi avevamo costruito una trincea solida, con sassi e grandi zolle. I soldati la potevano percorrere, in piedi, senza esser visti. Le vedette osservavano e sparavano dalle feritoie, al coperto. Il generale guardo' alle feritoie, ma non fu soddisfatto. Fece raccogliere un mucchio di sassi ai piedi del parapetto, e vi monto' sopra, il binocolo agli occhi. Cosi' dritto, egli restava scoperto dal petto alla testa.

- Signor generale, dissi io, gli austriaci hanno degli ottimi tiratori ed e' pericoloso scoprirsi cosi'.

Il generale non mi rispose. Dritto, continuava a guardare con il binocolo. Dalle linee nemiche partirono due colpi di fucile. Le pallottole fischiarono attorno al generale. Egli rimase impassibile. Due altri colpi seguirono ai primi, e una palla sfioro' la trincea. Solo allora, composto e lento, egli discese. Io lo guardavo da vicino. Egli dimostrava un'indifferenza arrogante. Solo i suoi occhi giravano vertiginosamente. Sembravano le ruote di un'automobile in corsa.

La vedetta, che era di servizio a qualche passo da lui, continuava a guardare alla feritoia, e non si occupava del generale. Ma dei soldati e un caporale della 12ma compagnia che era in linea, attratti dall'eccezionale spettacolo, s'erano fermati in crocchio, nella trincea, a fianco del generale, e guardavano, piu' diffidenti che ammirati. Essi certamente trovavano in quell'atteggiamento troppo intrepido del comandante di divisione, ragioni sufficienti per considerare, con una certa quale apprensione, la loro stessa sorte. Il generale contemplo' i suoi spettatori con soddisfazione.

- Se non hai paura, disse rivolto al caporale, fa' quello che ha fatto il tuo generale.

- Signor si', rispose il caporale. E, appoggiato il fucile alla trincea, monto' sul mucchio di sassi.

Istintivamente, io presi il caporale per il braccio e l'obbligai a ridiscendere.

- Gli austriaci, ora, sono avvertiti, dissi io, e non sbaglieranno certo il tiro.

Il generale, con uno sguardo terribile, mi ricordo' la distanza gerarchica che mi separava da lui. Io abbandonai il braccio del caporale e non dissi piu' una parola.

- Ma non e' niente, disse il caporale, e risali' sul mucchio.

Si era appena affacciato che fu accolto da una salva di fucileria. Gli austriaci, richiamati dalla precedente apparizione, attendevano coi fucili puntati. Il caporale rimase incolume. Impassibile, le braccia appoggiate sul parapetto, il petto scoperto, continuava a guardare di fronte.

- Bravo! grido' il generale. Ora, puoi scendere.

Dalla trincea nemica parti' un colpo isolato. Il caporale si rovescio' indietro e cadde su di noi. Io mi curvai su di lui. La palla lo aveva colpito alla sommita' del petto, sotto la clavicola, traversandolo da parte a parte. Il sangue gli usciva dalla bocca. Gli occhi socchiusi, il respiro affannoso, mormorava:

- Non e' niente, signor tenente.

Anche il generale si curvo'. I soldati Io guardavano, con odio.

- Un eroe, commento' il generale. Un vero eroe.

Quando egli si drizzo', i suoi occhi, nuovamente, si incontrarono con i miei. Fu un attimo. In quell'istante, mi ricordai d'aver visto quegli stessi occhi, freddi e roteanti, al manicomio della mia citta', durante una visita che ci aveva fatto fare il nostro professore di medicina legale.

*

Suicidio prima dell'assalto (pp. 104-105)

Il cannone aveva ottenuto, per solo risultato, la ferita del puntatore e del tenente. I guastatori erano caduti tutti. Ma l'assalto doveva aver luogo egualmente. Il generale era sempre la', come un inquisitore, deciso ad assistere, fino alla fine, al supplizio dei condannati. Mancavano pochi minuti alle 9.

Il battaglione era pronto, le baionette innestate. La nona compagnia era tutta ammassata attorno alla breccia dei guastatori. La decima veniva subito dopo. Le altre compagnie erano serrate, nella trincea e nei camminamenti e dietro i roccioni che avevamo alle spalle. Non si sentiva un bisbiglio. Si vedevano muoversi le borracce di cognac. Dalla cintura alla bocca, dalla bocca alla cintura, dalla cintura alla bocca. Senza arresto, come le spolette d'un grande telaio, messo in movimento.

Il capitano Bravini aveva l'orologio in mano, e seguiva, fissamente, il corso inesorabile dei minuti. Senza levare gli occhi dall'orologio grido':

- Pronti per l'assalto!

Poi riprese ancora:

- Pronti per l'assalto! Signori ufficiali, in testa ai reparti!

Il sergente dei guastatori, ferito, continuava a gridare:

- Avan...

Gli occhi dei soldati, spalancati, cercavano i nostri occhi. Il capitano era sempre chino sull'orologio e i soldati trovarono solo i miei occhi. Io mi sforzai di sorridere e dissi qualche parola a fior di labbra; ma quegli occhi, pieni di interrogazione e di angoscia, mi sgomentarono.

- Pronti per l'assalto! ripete' ancora il capitano.

Di tutti i momenti della guerra, quello precedente l'assalto era il piu' terribile.

L'assalto! Dove si andava? Si abbandonavano i ripari e si usciva. Dove? Le mitragliatrici, tutte, sdraiate sul ventre imbottito di cartucce, ci aspettavano. Chi non ha conosciuto quegli istanti, non ha conosciuto la guerra.

Le parole del capitano caddero come un colpo di scure. La nona compagnia era in piedi, ma io non la vedevo tutta, talmente era addossata ai parapetti della trincea. La decima stava di fronte, lungo la trincea, e ne distinguevo tutti i soldati. Due soldati si mossero ed io li vidi, uno a fianco dell'altro, aggiustarsi il fucile sotto il mento. Uno si curvo', fece partire il colpo e s'accovaccio' su se stesso. L'altro l'imito' e stramazzo' accanto al primo. Era codardia, coraggio, pazzia? Il primo era un veterano del Carso.

- Savoia! grido' il capitano Bravini.

- Savoia! ripeterono i reparti.

E fu un grido urlato come un lamento ed un'invocazione disperata. La nona, tenente Avellini in testa, supero' la breccia e si slancio' all'assalto. Il generale e il colonnello erano alle feritoie.

*

Uccidere un uomo (pp. 134-138)

Addossati al cespuglio, il caporale ed io rimanemmo in agguato tutta la notte, senza riuscire a distinguere segni di vita nella trincea nemica. Ma l'alba ci compenso' dell'attesa. Prima, fu un muoversi confuso di qualche ombra nei camminamenti, indi, in trincea, apparvero dei soldati con delle marmitte. Era certo la corvee del caffe'. I soldati passavano, per uno o per due, senza curvarsi, sicuri com'erano di non essere visti, che' le trincee e i traversoni li proteggevano dall'osservazione e dai tiri d'infilata della nostra linea. Mai avevo visto uno spettacolo uguale. Ora erano la', gli austriaci: vicini, quasi a contatto, tranquilli, come i passanti su un marciapiede di citta'. Ne provai una sensazione strana. Stringevo forte il braccio del caporale che avevo alla mia destra, per comunicargli, senza voler parlare, la mia meraviglia. Anch'egli era attento e sorpreso, e io ne sentivo il tremito che gli dava il respiro lungamente trattenuto. Una vita sconosciuta si mostrava improvvisamente ai nostri occhi. Quelle trincee, che pure noi avevamo attaccato tante volte inutilmente, cosi' viva ne era stata la resistenza, avevano poi finito con l'apparirci inanimate, come cose lugubri, inabitate da viventi, rifugio di fantasmi misteriosi e terribili. Ora si mostravano a noi, nella loro vera vita. Il nemico, il nemico, gli austriaci, gli austriaci!... Ecco il nemico ed ecco gli austriaci. Uomini e soldati come noi, fatti come noi, in uniforme come noi, che ora si muovevano, parlavano e prendevano il caffe', proprio come stavano facendo, dietro di noi, in quell'ora stessa, i nostri stessi compagni. Strana cosa. Un'idea simile non mi era mai venuta alla mente. Ora prendevano il caffe'. Curioso! E perche' non avrebbero dovuto prendere il caffe'? Perche' mai mi appariva straordinario che prendessero il caffe'? E, verso le 10 o le 11, avrebbero anche consumato il rancio, esattamente come noi. Forse che il nemico puo' vivere senza bere e senza mangiare? Certamente no. E allora, quale la ragione del mio stupore?

Ci erano tanto vicini e noi li potevamo contare, uno per uno. Nella trincea, fra due traversoni, v'era un piccolo spazio tondo, dove qualcuno, di tanto in tanto, si fermava. Si capiva che parlavano, ma la voce non arrivava fino a noi. Quello spazio doveva trovarsi di fronte a un ricovero piu' grande degli altri, perche' v'era attorno maggior movimento. Il movimento cesso' all'arrivo di un ufficiale. Dal modo con cui era vestito, si capiva ch'era un ufficiale. Aveva scarpe e gambali di cuoio giallo e l'uniforme appariva nuovissima. Probabilmente, era un ufficiale arrivato in quei giorni, forse uscito appena da una scuola militare. Era giovanissimo e il biondo dei capelli lo faceva apparire ancora piu' giovane. Al suo arrivo, i soldati si scartarono e, nello spazio tondo, non rimase che lui. La distribuzione del caffe' doveva incominciare in quel momento. Io non vedevo che l'ufficiale.

Io facevo la guerra fin dall'inizio. Far la guerra, per anni, significa acquistare abitudini e mentalita' di guerra. Questa caccia grossa fra uomini non era molto dissimile dall'altra caccia grossa. Io non vedevo un uomo. Vedevo solamente il nemico. Dopo tante attese, tante pattuglie, tanto sonno perduto, egli passava al varco. La caccia era ben riuscita. Macchinalmente, senza un pensiero, senza una volonta' precisa, ma cosi', solo per istinto, afferrai il fucile del caporale. Egli me lo abbandono' ed io me ne impadronii. Se fossimo stati per terra, come altre notti, stesi dietro il cespuglio, e' probabile che avrei tirato immediatamente, senza perdere un secondo di tempo. Ma ero in ginocchio, nel fosso scavato, ed il cespuglio mi stava di fronte come una difesa di tiro a segno. Ero come in un poligono e mi potevo prendere tutte le comodita' per puntare. Poggiai bene i gomiti a terra, e cominciai a puntare.

L'ufficiale austriaco accese una sigaretta. Ora egli fumava. Quella sigaretta creo' un rapporto improvviso fra lui e me. Appena ne vidi il fumo, anch'io sentii il bisogno di fumare. Questo mio desiderio mi fece pensare che anch'io avevo delle sigarette. Fu un attimo. Il mio atto del puntare, ch'era automatico, divenne ragionato. Dovetti pensare che puntavo, e che puntavo contro qualcuno. L'indice che toccava il grilletto allento' la pressione. Pensavo. Ero obbligato a pensare.

Certo, facevo coscientemente la guerra e la giustificavo moralmente e politicamente. La mia coscienza di uomo e di cittadino non erano in conflitto con i miei doveri militari. La guerra era, per me, una dura necessita', terribile certo, ma alla quale ubbidivo, come ad una delle tante necessita', ingrate ma inevitabili, della vita. Pertanto facevo la guerra e avevo il comando di soldati. La facevo dunque, moralmente, due volte. Avevo gia' preso parte a tanti combattimenti. Che io tirassi contro un ufficiale nemico era quindi un fatto logico. Anzi, esigevo che i miei soldati fossero attenti nel loro servizio di vedetta e tirassero bene, se il nemico si scopriva. Perche' non avrei, ora, tirato io su quell'ufficiale? Avevo il dovere di tirare. Sentivo che ne avevo il dovere. Se non lo avessi sentito che quello era un dovere, sarebbe stato mostruoso che io continuassi a fare la guerra e a farla fare agli altri. No, non v'era dubbio, io avevo il dovere di tirare.

E intanto non tiravo. Il mio pensiero si sviluppava con calma. Non ero affatto nervoso. La sera precedente, prima di uscire dalla trincea, avevo dormito quattro o cinque ore: mi sentivo benissimo; dietro il cespuglio, nel fosso, non ero minacciato da pericolo alcuno. Non avrei potuto essere piu' calmo, in una camera di casa mia, nella mia citta'.

Forse, era quella calma completa che allontanava il mio spirito dalla guerra. Avevo di fronte un ufficiale, giovane, inconscio del pericolo che gli sovrastava. Non lo potevo sbagliare. Avrei potuto sparare mille colpi a quella distanza, senza sbagliarne uno. Bastava che premessi il grilletto: egli sarebbe stramazzato al suolo. Questa certezza che la sua vita dipendesse dalla mia volonta', mi rese esitante. Avevo di fronte un uomo. Un uomo!

Un uomo!

Ne distinguevo gli occhi e i tratti del viso. La luce dell'alba si faceva piu' chiara ed il sole si annunziava dietro la cima dei monti. Tirare cosi', a pochi passi, su un uomo... come su un cinghiale!

Cominciai a pensare che, forse, non avrei tirato. Pensavo. Condurre all'assalto cento uomini, o mille, contro cento altri o altri mille e' una cosa. Prendere un uomo, staccarlo dal resto degli uomini e poi dire: "Ecco, sta' fermo, io ti sparo, io t'uccido" e' un'altra. E' assolutamente un'altra cosa. Fare la guerra e' una cosa, uccidere un uomo e' un'altra cosa. Uccidere un uomo, cosi', e' assassinare un uomo.

Non so fino a che punto il mio pensiero procedesse logico. Certo e' che avevo abbassato il fucile e non sparavo. In me s'erano formate due coscienze, due individualita', una ostile all'altra. Dicevo a me stesso: "Eh! Non sarai tu che ucciderai un uomo, cosi'!".

Io stesso che ho vissuto quegli istanti, non sarei ora in grado di rifare l'esame di quel processo psicologico. V'e' un salto che io, oggi, non vedo piu' chiaramente. E mi chiedo ancora come, arrivato a quella conclusione, io pensassi di fare eseguire da un altro quello che io stesso non mi sentivo la coscienza di compiere. Avevo il fucile poggiato per terra, infilato nel cespuglio. Il caporale si stringeva al mio fianco. Gli porsi il calcio del fucile e gli dissi, a fior di labbra: Sai... cosi'... un uomo solo... io non sparo. Tu, vuoi?

Il caporale prese il calcio del fucile e mi rispose: Neppure io.

Rientrammo, carponi, in trincea. Il caffe' era gia' distribuito e lo prendemmo anche noi.

La sera, dopo l'imbrunire, il battaglione di rincalzo ci dette il cambio.

 

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OGNI VITTIMA HA IL VOLTO DI ABELE

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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"

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Numero 17 del 21 ottobre 2011

 

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