Telegrammi. 641
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- Date: Mon, 8 Aug 2011 00:18:05 +0200 (CEST)
TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 641 dell'8 agosto 2011
Telegrammi della nonviolenza in cammino proposti dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Sommario di questo numero:
1. Peppe Sini: Ogni giorno morti e feriti, ogni giorno massacri e devastazioni
2. Appello del papa per la riconciliazione e la pace in Siria e Libia
3. Sette domande ad Antonio Bruno
4. Sette domande a Paola Pisterzi
5. Bruno Segre: Nahum Goldmann, il profeta dimenticato
6. Segnalazioni librarie
7. La "Carta" del Movimento Nonviolento
8. Per saperne di piu'
1. EDITORIALE. PEPPE SINI: OGNI GIORNO MORTI E FERITI, OGNI GIORNO MASSACRI E DEVASTAZIONI
Ogni giorno morti e feriti, ogni giorno massacri e devastazioni.
Cessi immediatamente la partecipazione italiana alle guerre in Afghanistan e in Libia.
Cessi immediatamente la persecuzione razzista dei migranti da parte dell'Italia e dell'Unione Europea.
Vi e' una sola umanita'.
2. VOCI DI PACE. APPELLO DEL PAPA PER LA RICONCILIAZIONE E LA PACE IN SIRIA E LIBIA
[Dal sito dell'autorevole agenzia di stampa "Asia News" (www.asianews.it) riprendiamo la seguente notizia delle ore 12,09 del 7 agosto 2001dal titolo "Papa: Appello per la riconciliazione e la pace in Siria e Libia" e il sommario "Benedetto XVI domanda preghiera dei cattolici e impegno del governo e della popolazione siriani 'perche' si ristabilisca quanto prima la pacifica convivenza e si risponda adeguatamente alle legittime aspirazioni dei cittadini'. In Libia e' importante 'il dialogo costruttivo", dato che "la forza delle armi non ha risolto la situazione'. 'In mezzo a tante preoccupazioni, problemi, difficolta' che agitano il mare della nostra vita, risuoni nel cuore la parola rassicurante di Gesu': Coraggio, sono io, non abbiate paura!, e cresca la nostra fede in Lui'"]
Castel Gandolfo (AsiaNews) - Benedetto XVI ha espresso "viva preoccupazione" per le violenze in Siria e per la Libia "dove la forza delle armi non ha risolto la situazione", lanciando oggi un appello per la riconciliazione fra il popolo e le autorita' di Damasco e perche' la comunita' internazionale si impegni con Tripoli per "un piano di pace per il Paese, attraverso il negoziato ed il dialogo costruttivo".
Parlando davanti ai fedeli radunati nel cortile del Palazzo apostolico di Castel Gandolfo, alla fine della preghiera dell'Angelus, il papa ha detto: "Cari fratelli e sorelle, seguo con viva preoccupazione i drammatici e crescenti episodi di violenza in Siria, che hanno provocato numerose vittime e gravi sofferenze. Invito i fedeli cattolici a pregare, affinche' lo sforzo per la riconciliazione prevalga sulla divisione e sul rancore. Inoltre, rinnovo alle Autorita' ed alla popolazione siriana un pressante appello, perche' si ristabilisca quanto prima la pacifica convivenza e si risponda adeguatamente alle legittime aspirazioni dei cittadini, nel rispetto della loro dignita' e a beneficio della stabilita' regionale. Il mio pensiero va anche alla Libia, dove la forza delle armi non ha risolto la situazione. Esorto gli Organismi internazionali e quanti hanno responsabilita' politiche e militari a rilanciare con convinzione e risolutezza la ricerca di un piano di pace per il Paese, attraverso il negoziato ed il dialogo costruttivo".
Dal mese di marzo, sull'onda della "rivoluzione dei gelsomini" in Tunisia ed Egitto, in Siria si susseguono manifestazioni contro la repressione di Assad e attacchi e assedi dell'esercito, che secondo l'opposizione hanno causato molte centinaia di morti e decine di migliaia di arresti.
I cristiani siriani, pur appoggiando molte richieste di maggiore liberta' e democrazia, temono che la caduta di Assad possa portare a un regime islamico radicale, che vieterebbe a loro e ad altre minoranze una vera liberta' religiosa (v. 3/8/2011, Rivolta in Siria: le violenze non fermano il popolo assetato di liberta' e dignita').
In Libia, dal febbraio scorso e' in atto una guerra civile, in cui i ribelli di Bengasi sono di fatto sostenuti dagli aerei e dalle navi Nato che dovrebbero difendere i civili (di Bengasi), ma che in realta' creano morti fra la popolazione civile di Tripoli. Nonostante decine di attacchi aerei in tutti questi mesi, la situazione e' in fase di stallo, con enormi perdite umane, economiche e di infrastrutture da tutte le parti, anche fra i Paesi Nato.
In precedenza, nel discorso prima dell'Angelus, il papa si e' soffermato a commentare il vangelo della domenica (XIX durante l'Anno A), che presenta il miracolo della tempesta sedata e il salvataggio di Pietro dalle acque (Matteo 14, 22-33). "E' un episodio - ha detto il pontefice - del quale i Padri della Chiesa hanno colto una grande ricchezza di significato. Il mare simboleggia la vita presente e l'instabilita' del mondo visibile; la tempesta indica ogni sorta di tribolazione, di difficolta', che opprime l'uomo. La barca, invece, rappresenta la Chiesa edificata su Cristo e guidata dagli Apostoli. Gesu' vuole educare i discepoli a sopportare con coraggio le avversita' della vita, confidando in Dio, in Colui che si e' rivelato al profeta Elia sull'Oreb nel 'sussurro di una brezza leggera' (1 Re 19, 12)".
E sul salvataggio di Pietro: "Sant'Agostino, immaginando di rivolgersi all'apostolo, commenta: il Signore 'sì e' abbassato e t'ha preso per mano. Con le tue sole forze non puoi alzarti. Stringi la mano di Colui che scende fino a te' (Enarr. in Ps. 95,7: PL 36, 1233). Pietro cammina sulle acque non per la propria forza, ma per la grazia divina, in cui crede, e quando viene sopraffatto dal dubbio, quando non fissa piu' lo sguardo su Gesu', ma ha paura del vento, quando non si fida pienamente della parola del Maestro, vuol dire che si sta allontanando da Lui ed e' allora che rischia di affondare nel mare della vita. Il grande pensatore Romano Guardini scrive che il Signore 'e' sempre vicino, essendo alla radice del nostro essere. Tuttavia, dobbiamo sperimentare il nostro rapporto con Dio tra i poli della lontananza e della vicinanza. Dalla vicinanza siamo fortificati, dalla lontananza messi alla prova' (Accettare se stessi, Brescia 1992, 71)".
"Il Signore - ha concluso Benedetto XVI - prima ancora che lo cerchiamo o lo invochiamo, e' Lui stesso che ci viene incontro, abbassa il cielo per tenderci la mano e portarci alla sua altezza; aspetta solo che ci fidiamo totalmente di Lui. Invochiamo la Vergine Maria, modello di affidamento pieno a Dio, perche', in mezzo a tante preoccupazioni, problemi, difficolta' che agitano il mare della nostra vita, risuoni nel cuore la parola rassicurante di Gesu': Coraggio, sono io, non abbiate paura!, e cresca la nostra fede in Lui".
3. VERSO LA MARCIA PERUGIA-ASSISI. SETTE DOMANDE AD ANTONIO BRUNO
[Ringraziamo Antonio Bruno (per contatti: brunoa01 at aleph.it) per questa intervista.
Antonio Bruno e' da sempre impegnato nei movimenti pacifisti e ambientalisti, pubblico amministratore e promotore di rilevanti iniziative nonviolente a Genova; attualmente e' capogruppo di Sinistra Europea-Prc al Comune di Genova; impegnato nel "Comitato Verita' e Giustizia per Genova" e nelle vertenze territoriali liguri contro le grandi opere e per un diverso modello economico]
- "La nonviolenza e' in cammino": Quale e' stato il significato piu' rilevante della marcia Perugia-Assisi in questi cinquanta anni?
- Antonio Bruno: Saper mettere insieme persone di culture differenti per la pace.
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- "La nonviolenza e' in cammino": E cosa caratterizzera' maggiormente la marcia che si terra' il 25 settembre di quest'anno?
- Antonio Bruno: Cosa dovrebbe caratterizzare... unire per lottare insieme contro il complesso militare-industriale-finanziario.
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- "La nonviolenza e' in cammino": Quale e' lo "stato dell'arte" della nonviolenza oggi in Italia?
- Antonio Bruno: E' piu' praticata che voluta, anche soggetti che non escludono la violenza oggi, di fronte alle rivolte sostanzialmente nonviolente di Egitto e Tunisia, cercano di sperimentare forme di resistenza nonviolenta. Per quanto riguarda la nonviolenza teorica, ideale, spirituale essa deve sporcarsi piu' le mani e saper accettare qualche imperfezione per poter evolvere verso la nonviolenza integrale.
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- "La nonviolenza e' in cammino": Quale ruolo puo' svolgere il Movimento Nonviolento fondato da Aldo Capitini, e gli altri movimenti, associazioni e gruppi nonviolenti presenti in Italia?
- Antonio Bruno: Essere il sale all'interno delle lotte per la pace, contro la Tav, contro il precariato, per diversi stili di vita.
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- "La nonviolenza e' in cammino": Quali i fatti piu' significativi degli ultimi mesi in Italia e nel mondo dal punto di vista della nonviolenza?
- Antonio Bruno: Le rivoluzioni egiziane e tunisine hanno avuto una forte impronta nonviolenta e anche in Italia la lotta in Val di Susa o le manifestazioni per il decennale del luglio 2001 di Genova hanno coinvolto in tecniche nonviolente settori tradizionalmente ostili.
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- "La nonviolenza e' in cammino": Su quali iniziative concentrare maggiormente l'impegno nei prossimi mesi?
- Antonio Bruno: Mettere in rete le lotte e vertenze territoriali per un nuovo modello economico contro le grandi opere e le spese militari.
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- "La nonviolenza e' in cammino": Se una persona del tutto ignara le chiedesse "Cosa e' la nonviolenza, e come accostarsi ad essa?", cosa risponderebbe?
- Antonio Bruno: Cercare di costruire un futuro senza violenza e sopraffazione e questo non lo si puo' fare con strumenti che ti fanno diventare violento e sopraffattore.
4. VERSO LA MARCIA PERUGIA-ASSISI. SETTE DOMANDE A PAOLA PISTERZI
[Ringraziamo Paola Pisterzi (per contatti: paola87 at hotmail.it) per questa intervista.
Paola Pisterzi, laureata in scienze biologiche all'Universita' di Roma "La Sapienza", fa parte della redazione di "Viterbo oltre il muro. Spazio di informazione nonviolenta", un'esperienza nata dagli incontri di formazione nonviolenta che si svolgono settimanalmente a Viterbo]
- "La nonviolenza e' in cammino": Quale e' stato il significato piu' rilevante della marcia Perugia-Assisi in questi cinquanta anni?
- Paola Pisterzi: Non ho mai partecipato attivamente a questa manifestazione, ma credo che l'aspetto piu' rilevante della marcia sia la capacita' di riunire persone tanto diverse tra loro, che pero' percorrono questo piccolo tratto "di vita" insieme per uno scopo comune.
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- "La nonviolenza e' in cammino": E cosa caratterizzera' maggiormente la marcia che si terra' il 25 settembre di quest'anno?
- Paola Pisterzi: La marcia di quest'anno "per la pace e la fratellanza tra i popoli" vuole, ancora una volta, trasmettere un messaggio di solidarieta' e di pace, che non puo' esistere senza l'educazione alla condivisione e la tutela dei diritti di tutti gli esseri umani.
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- "La nonviolenza e' in cammino": Quale e' lo "stato dell'arte" della nonviolenza oggi in Italia?
- Paola Pisterzi: La sensazione e' quella che la nonviolenza abbia un ruolo marginale se non inesistente nelle decisioni della politica italiana, nonostante il forte e costante impegno dei numerosi movimenti nonviolenti.
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- "La nonviolenza e' in cammino": Quale ruolo puo' svolgere il Movimento Nonviolento fondato da Aldo Capitini, e gli altri movimenti, associazioni e gruppi nonviolenti presenti in Italia?
- Paola Pisterzi: Il ruolo dei diversi movimenti puo' essere quello di far conoscere gli strumenti della nonviolenza, di essere guida per chi voglia accostarsi ad essa, di trovare i mezzi per coinvolgere piu' giovani ed infine di coordinare le possibili iniziative per riuscire ad avere maggiore incisivita'.
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- "La nonviolenza e' in cammino": Quali i fatti piu' significativi degli ultimi mesi in Italia e nel mondo dal punto di vista della nonviolenza?
- Paola Pisterzi: Uno dei fatti piu' significativi in Italia e' stato sicuramente la partecipazione ai referendum per l'acqua pubblica, per fermare il nucleare e per la giustizia.
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- "La nonviolenza e' in cammino": Su quali iniziative concentrare maggiormente l'impegno nei prossimi mesi?
- Paola Pisterzi: Sicuramente urgente dimostrare la nostra opposizione alle guerre ed essere capaci di accogliere ed assistere i migranti, che non devono piu' essere considerati come invasori da respingere.
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- "La nonviolenza e' in cammino": Se una persona del tutto ignara le chiedesse "Cosa e' la nonviolenza, e come accostarsi ad essa?", cosa risponderebbe?
- Paola Pisterzi: La nonviolenza e' uno stile di vita. Essere nonviolento o meglio "amico della nonviolenza" non vuol dire essere un perdente o un "non combattente", come molti credono, ma scegliere una forma di lotta che sia rispettosa dell'altro, che voglia affermarsi con la forza delle idee e non delle armi e della violenza in ogni sua forma. Vuol dire apertura verso l'altro, rispetto, tolleranza. Credo che ci si possa accostare ad essa prima di tutto cercandola in noi, nella voglia di cambiare il mondo che ci circonda, non dimenticando mai che ogni piccolo traguardo e' sempre graduale.
5. MAESTRI. BRUNO SEGRE: NAHUM GOLDMANN, IL PROFETA DIMENTICATO
[Dal sito della bella rivista "Keshet" (www.keshet.it) riprendiamo questo profilo pubblicato nel fascicolo di novembre-dicembre 2002.
Bruno Segre, storico e saggista, e' nato a Lucerna nel 1930, ha studiato filosofia alla scuola di Antonio Banfi; si e' occupato di sociologia della cooperazione e di educazione degli adulti nell'ambito del movimento Comunita' fondato da Adriano Olivetti; ha insegnato in Svizzera dal 1964 al 1969; per oltre dieci anni ha fatto parte del Consiglio del "Centro di documentazione ebraica contemporanea" di Milano; per molti anni ha presieduto l'associazione italiana "Amici di Neve Shalom Wahat as-Salam"; nel quadro di un'intensa attivita' pubblicistica, ha dedicato contributi a vari aspetti e momenti della cultura e della storia degli ebrei; dirige la prestigiosa rivista di vita e cultura ebraica "Keshet" (sito: www.keshet.it). Tra le opere di Bruno Segre: Gli ebrei in Italia, Giuntina, Firenze 2001; Shoah, Il Saggiatore, Milano 1998, 2003]
"Delle varie dozzine di re che gli ebrei ebbero nell'antichita', gli unici di cui si conserva il ricordo sono Davide e Salomone, perche' hanno scritto l'uno i Salmi e l'altro il Cantico dei cantici. Quelli che il popolo ebraico ha tenuto nella propria memoria non sono i re, ma i profeti"
(Nahum Goldmann)
Giusto vent'anni fa, il 4 settembre 1982, "Le Nouvel Observateur" dedicava l'editoriale a Nahum Goldmann, morto il 30 agosto all'eta' di 87 anni. L'articolo, siglato dal direttore Jean Daniel, iniziava con queste parole: "Un vecchio lottatore, un grande leader sionista, una impressionante personalita' di ebreo e' scomparsa, e con lui, una lunga vita di energia piena di brio, di lucidita' ostinata e soprattutto di vera, di magnifica liberta'. Il suo amore per la Germania ad onta della Shoah; la sua considerazione per la Russia malgrado il totalitarismo; la distanza da lui presa da uno Stato ebraico che egli aveva contribuito a fondare - quantunque restasse ai suoi occhi il rifugio dei suoi fratelli -; la sua apertura verso i popoli arabi e in particolare verso i palestinesi; tutto sottolineava che Nahum Goldmann si era elevato a quel grado di liberta' che, svincolato dai condizionamenti nonche' da ogni legame con le radici, e' accessibile soltanto ai veri grandi".
Con la scomparsa di Goldmann usciva di scena una personalita' indubbiamente gigantesca, che mediante il pensiero e l'azione aveva offerto alla rinascita del popolo ebraico - prima, durante, ma soprattutto dopo il genocidio messo in atto dai nazifascisti in Europa - una serie di contributi inestimabili. La sua salma fu inumata sul monte Herzl, a Gerusalemme, accanto alle tombe dei capi storici del movimento sionista e della famiglia di Theodor Herzl. Narrano le cronache che le esequie si svolsero in forma relativamente dimessa e in un clima non privo di contrasti e di polemiche: vi presenzio' Yitzhak Navon, presidente dello Stato d'Israele, ma Menahem Begin, il primo ministro, scelse addirittura di disertare la cerimonia.
Mai, nel corso della sua lunga esistenza, Nahum Goldmann aveva mostrato di piegarsi alla cinica idolatria di una presunta ineluttabilita' della storia. Gli ultimi suoi tempi ebbero a coincidere con una fase particolarmente convulsa del conflitto vicino-orientale: quella dell'invasione israeliana del Libano. E poco meno di tre mesi prima della morte, in quello che certamente dovette essere l'ultimo atto politico della sua vita, il "vecchio lottatore" si ritrovo' nella circostanza paradossale di proporre a un alto esponente dell'Olp - che gli si era rivolto per chiedergli consigli circa la linea politica da seguire - un piano in cinque punti (devo quest'informazione a un testimone di prim'ordine: David Susskind, fondatore e geniale animatore della comunita' ebraica laica di Bruxelles): 1. abbandonare Beirut; 2. porre un termine alla pratica del terrorismo; 3. installarsi a Tunisi, unica localita' in cui la leadership palestinese avrebbe goduto di un'autentica liberta' politica; 4. costituire un governo provvisorio; 5. riconoscere Israele.
A suggello di questa singolare "consulenza", Goldmann aveva chiarito all'interlocutore palestinese che il governo provvisorio, non appena fosse costituito, avrebbe immediatamente ottenuto il riconoscimento da parte di almeno 150 Paesi, e in tal modo avrebbe posto le basi per la creazione di uno Stato palestinese accanto allo Stato d'Israele.
Autentico uomo di Stato senza Stato, Goldmann era soprattutto uno spirito indipendente, alieno da qualsiasi conformismo. Autore, fra molte pubblicazioni, di Le paradoxe juif, un libro che pubblico' a Parigi nel 1976, egli apprezzava i paradossi, a fronte dei quali non provava alcun timore. Con ciascuno, anzi, dei molti paradossi che segnarono tragicamente la vicenda degli ebrei lungo l'intero arco del secolo scorso, egli amo' misurarsi con crudo realismo conservando sempre, nonostante tutto, una visione di fondo sostanzialmente ottimistica.
Nato nel 1895 a Visznevo, una cittadina lituana della Russia zarista, emigro' all'eta' di cinque anni con i genitori - ebrei praticanti - dapprima a Koenigsberg e poi, di li', a Francoforte sul Meno: in quella Germania imperiale che alla fine dell'Ottocento esercitava un fascino sottile sugli ebrei dell'Europa orientale, sfiduciati e stremati dall'antisemitismo feroce che caratterizzava la vecchia Russia feudale. Compiuti gli studi liceali in una scuola molto avanzata e aperta di Francoforte, incomincio' giovanissimo a svolgere un'attiva propaganda sionista, non tardando a trovarsi al centro di tutte le piu' importanti vicende internazionali in cui gli ebrei ebbero un ruolo. Nel 1913 visse per vari mesi in Palestina, che era a quel tempo una provincia dell'impero ottomano, raccogliendo e pubblicando le sue impressioni in Eretz Israel, Reisebriefe aus Palaestina, un volume edito a Francoforte nel 1914. Durante il primo conflitto mondiale entro' a far parte, presso il ministero degli Esteri tedesco, del dipartimento ebraico, adoperandosi per trovare nella Germania guglielmina appoggi alla causa sionista in concorrenza con quell'ala "inglese" del movimento che doveva trovare la sua affermazione nella storica dichiarazione del ministro degli Esteri britannico Balfour (1917).
All'inizio degli anni Venti Goldmann diede vita, insieme con Jacob Klatzkin, a un'impresa culturale monumentale: l'edizione dell'Encyclopedia Judaica (per i tipi della casa Eshkol, fondata dai due amici nel 1925), della quale pote' pubblicare - innanzi che Hitler prendesse il potere - i primi dieci volumi in lingua tedesca e due volumi in ebraico. Brutalmente interrotta, quest'iniziativa vedra' il suo compimento soltanto alla fine degli anni Sessanta, allorche' in Israele saranno pubblicati (in lingua inglese per i tipi della casa editrice Keter) i sedici volumi della nuova Encyclopedia Judaica.
Fra le due guerre, Goldmann prese parte in termini sempre piu' dinamici e in chiave personalissima al movimento sionista. Nel 1933 riusci' a sfuggire per caso all'arresto a opera della Gestapo, grazie alla circostanza di trovarsi in Palestina per assistere ai funerali del padre. Alla fine di quell'anno ricevette dall'Agenzia ebraica (Goldmann era un membro senza diritto di voto del suo esecutivo) l'incarico di dirigerne la delegazione presso la Societa' delle Nazioni a Ginevra, con lo specifico compito di sensibilizzare la comunita' internazionale agli orrori delle persecuzioni naziste in Germania e poi, via via, nei vari Paesi europei caduti sotto l'influenza o occupati militarmente dai tedeschi. Privato della nazionalita' germanica nel 1935, divenne cittadino dell'Honduras grazie all'intervento del ministro francese Barthou.
Nel 1938 fondo' il Congresso ebraico mondiale, del quale fu per molti anni l'animatore (insieme con il rabbino riformato Stephen S. Wise, presidente dell'American Jewish Congress), accreditando l'idea dell'esistenza nel mondo di un unico popolo ebraico: una nozione che a quel tempo ebrei e non ebrei avevano abbandonato. In tal modo, egli sollecito' le grandi organizzazioni ebraiche dei vari Paesi e i loro dirigenti a integrarsi in una struttura unitaria, posta al di sopra dei conflitti d'influenza tra le varie tendenze.
Lasciata Ginevra nel 1940 per gli Stati Uniti, Goldmann emerse negli anni successivi come uno dei massimi leader del tumultuoso giudaismo americano; e in tale veste riusci' a riunire i sionisti con coloro che, al contrario, ritenevano di restare ai margini del movimento nazionale ebraico. Contemporaneo di David Ben Gurion e di Chaim Weizmann, insieme con loro fu - dopo la Shoah - uno degli artefici della creazione d'Israele, svolgendo talvolta funzioni decisive e prendendo parte attivissima nel 1947-48 ai negoziati per la fondazione del nuovo Stato. Rifiuto' tuttavia di entrare nella compagine governativa del Paese, cosi' come non entro' mai nel dibattito di routine fra i diversi partiti sionisti.
Eletto presidente del Congresso ebraico mondiale dopo la scomparsa (1949) del rabbino Wise, rimase in carica sino al novembre del 1977, cumulando questa funzione (dal 1956 al 1968) con quella di presidente della Organizzazione sionistica mondiale. E sempre ebbe cura di mantenersi al di sopra delle posizioni settarie, onde preservare la piu' ampia liberta' d'azione e confermarsi quale personalita' in grado di rappresentare tutt'intiero il popolo ebraico.
Proprio grazie a tale immagine seppe convincere il cancelliere Konrad Adenauer a dichiarare nel settembre 1951, davanti al parlamento di Bonn, che in ragione dei terribili crimini commessi in altri tempi in nome del popolo tedesco, il governo della Repubblica federale era pronto a discutere con i rappresentanti di Israele e della comunita' ebraica mondiale la questione di una "riparazione materiale". E alla testa della Conference on Jewish Material Claims against Germany - la "Conferenza delle rivendicazioni materiali degli ebrei nei confronti della Germania", in cui era rappresentata una ventina di organizzazioni ebraiche - Goldmann condusse con i tedeschi (cosi' come piu' tardi fara' con gli austriaci) i famosi negoziati concernenti l'indennizzo alle vittime del nazismo e le "riparazioni" allo Stato d'Israele, quale compensazione postuma agli eredi ideali del giudaismo europeo sterminato dai nazisti. Poi, per dare corpo agli obiettivi di fondo della Claims Conference creo' nel 1965 la Memorial Foundation for Jewish Culture, destinata a restituire vigore alla vita culturale e al tessuto sociale di quelle comunita', soprattutto, che durante la seconda guerra mondiale avevano subito le ingiurie piu' gravi.
Negli ultimi anni di vita, Goldmann seppe trarre partito anche dai suoi ottimi rapporti personali con Andrej Gromyko e con altri esponenti della diplomazia sovietica per ottenere in varie occasioni un ammorbidimento della posizione di Mosca in ordine allo scottante problema degli ebrei desiderosi di lasciare l'Urss per trasferirsi in Israele.
Animato costantemente da una visione amplissima della storia e della politica, Goldmann fu generoso nell'offrire al "popolo" e a vari leader ebraici, della diaspora e d'Israele, segnali ricchi di preziosi suggerimenti. Continuo' a occuparsi con lucidita' fino all'ultimo della questione del Vicino Oriente, avendo cura di individuare soluzioni che non alimentassero il circuito della violenza: soluzioni razionali, dunque, potenzialmente condivisibili fra tutte le parti in conflitto. Percio' propugno' con ostinazione la necessita' di un dialogo continuo con gli arabi (ivi compresa l'Olp), non peritandosi d'incontrare personalmente a piu' riprese capi di Stato ed esponenti politici del mondo arabo, e sostenendo l'opportunita' di un ritiro delle truppe di Israele dai territori occupati nella guerra del 1967.
Nel proporre strategie per uscire dall'immensa tragedia che gli israeliani, i palestinesi e gli altri popoli della regione stavano vivendo, Goldmann riusci' sempre a riservarsi una larghissima liberta' di espressione e anche di azione politico-diplomatica. In virtu', infatti, degli aspetti straordinari della sua stessa vicenda personale, e delle funzioni pubbliche delicatissime che via via gli accadde di svolgere, egli trovo' il modo d'assicurarsi occasioni di iniziativa e spazi di movimento che, per ragioni diverse, sembravano preclusi sia ai vari leader succedutisi nel governo d'Israele, sia alla maggior parte degli esponenti delle comunita' ebraiche della diaspora.
Per l'intero arco della sua lunga vita, Goldmann - che di frequente era intervenuto in appoggio a coloro che nel mondo politico israeliano si impegnavano ad aprire varchi nello spesso muro del "rifiuto arabo" - vide frustrate molte delle sue speranze. Nel 1982, ossia nell'anno della sua morte, l'unico evento di rilievo che aveva fatto breccia nel pluridecennale niet di parte araba era stato il raggiungimento a Camp David, nel marzo 1979, della pace tra Israele ed Egitto grazie alla mediazione del presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter. Per il resto, il conflitto israelo-palestinese sembrava destinato a uno stallo senza limiti. E cio' a cagione, in larga misura, di una serie di macroscopici errori commessi dalla dirigenza palestinese nel corso degli anni: errori dei quali Goldmann era perfettamente consapevole, e che comprendevano l'essersi i palestinesi fatti strumento, o pretesto, per le fantasie ideologiche e geopolitiche di Nasser, o di Gheddafi, o di Khomeini; l'essersi arresi alla diplomazia dell'Arabia Saudita, il cui unico scopo era quello di preservare se stessa; e poi, ancora, l'essersi ridotti a fungere - quanto all'Unione Sovietica - da utile magazzino per armi obsolete in cambio di una presunta associazione tra il Cremino e Allah; ma soprattutto, l'essersi allineati supinamente agli esiti della conferenza di Khartoum, celebrata tre mesi dopo la guerra dei sei giorni, nell'agosto-settembre 1967, nel corso della quale gli Stati arabi avevano deciso di non riconoscere Israele, di non negoziare con Israele e di non fare pace con Israele (i famosi "tre no" di Khartoum).
Ma nel perseguire con ottimismo indefettibile ogni possibile tentativo di superamento dello status quo nella prospettiva di un'indispensabile riconciliazione israelo-araba, Goldmann preferi' agire da pungolo sulla leadership israeliana, movendo i suoi rilievi critici ed eventualmente giocando la sue costruttive pedine politiche sul terreno che gli era piu' vicino e famigliare: quello della politica del governo di Israele. Molto spesso le sue prese di posizione e le sue iniziative lo misero in rotta di collisione con chi esercitava il potere a Gerusalemme, anche perche' in varie occasioni, da autentico profeta, egli ebbe il grande merito, e l'imperdonabile torto, di avere ragione "anzitempo".
Gia' all'indomani della dichiarazione Balfour, Goldmann si era dato da fare per sottrarre il giovane movimento sionista ai rischi dell'isolamento. In questa chiave, scrivendo alla fine del 1917 un articolo destinato a un giornale ebraico tedesco, vi sostenne che, per quanto fosse giusto attribuire rilievo storico alla dichiarazione emanata dal ministro degli Esteri di Londra, ben piu' importante sarebbe stato un analogo documento qualora a stilarlo e a renderlo pubblico fossero stati gli arabi. Il suo articolo sollevo' un polverone di critiche: come aveva mai potuto riconoscere a dei "beduini" - che non disponevano all'epoca neppure di uno Stato indipendente - piu' peso che alla formidabile e rispettatissima potenza imperiale della Gran Bretagna?
Sul lungo periodo, pensava Goldmann, ben difficilmente l'impresa dei sionisti avrebbe potuto avere successo qualora avesse ceduto alla tentazione di ergersi come un'"isola aliena" entro uno sconfinato oceano di arabi ostili. Percio' egli non si stanco' mai di denunziare i rischi insiti in tale tentazione, attribuendone l'insorgenza principalmente alla politica, e talvolta all'assenza di politica, da parte del movimento sionista prima del 1948, e da parte dei governi d'Israele nei decenni successivi. "Qualsiasi uomo normale, ragionevole, e' in grado di capire che uno Stato ebraico nel quale vivono alcuni milioni di abitanti non puo' esistere alla lunga, ne' sopravvivere, se piu' di cento milioni di arabi continuano a rimanergli attorno nella condizione di nemici" ("Le bon sens ou la guerre", "Le Monde", 17 gennaio 1981).
Nel 1947-48, quando il mandato britannico stava ormai per terminare e dopo che l'assemblea generale delle Nazioni Unite aveva adottato il piano che prevedeva la nascita in Palestina di due Stati, uno per gli ebrei e l'altro per gli arabi, Goldmann chiese a Ben Gurion di non eseguire tempestivamente una proclamazione unilaterale dello Stato d'Israele, ma di rinviarla di qualche tempo onde tentare d'arrivare a un'intesa con gli arabi (anche perche' taluni segnali lasciavano intendere che gli egiziani, propensi a un compromesso, sarebbero stati disposti - al di la' del "rifiuto arabo" - ad avviare discretamente un negoziato con Moshe' Sharett, capo del dipartimento politico dell'Agenzia ebraica, e con lo stesso Goldmann). Ma Ben Gurion, seguito dalla maggioranza dell'esecutivo sionista, rifiuto' di dilazionare la proclamazione dello Stato affermando che l'entusiasmo della popolazione ebraica in Palestina era tale da costringerlo a rompere ogni indugio.
Nei decenni successivi, notava Goldmann in una lunga intervista concessa a Eric Rouleau all'inizio del 1975 ("Le Monde", 9 gennaio 1975), il governo di Gerusalemme non seppe cogliere con sufficiente energia diverse occasioni che, forse, avrebbero consentito di pervenire a una riconciliazione con gli arabi. "In ordine di data, l'ultima di queste occasioni fu quella che si presento' dopo la guerra dei sei giorni. [...] Se dopo la sua schiacciante vittoria Israele avesse offerto agli arabi l'evacuazione dei territori occupati - a eccezione di Gerusalemme e in cambio della loro smilitarizzazione, con garanzie giuridiche da parte delle grandi potenze, il riconoscimento formale di Israele da parte degli Stati arabi e la firma di un trattato di pace -, una simile offerta avrebbe avuto, secondo l'opinione mia e quella di numerosi esperti, un'opportunita' di successo. In ogni caso, si trattava di un tentativo che si sarebbe dovuto compiere. Qualora gli arabi avessero rifiutato, l'opinione pubblica mondiale li avrebbe condannati. L'atteggiamento israeliano si fondava sulla convinzione - da me mai condivisa, e alla quale mi sono dichiarato contrario nel corso di numerosi dibattiti sostenuti pubblicamente con Ben Gurion - che il tempo lavori a favore d'Israele, che lo status quo sia da preferirsi giacche' gli arabi e il mondo intero finirebbero per rassegnarsi a tutti i fatti compiuti. La guerra del Kippur e la crisi petrolifera hanno dimostrato che era vero il contrario, che gli arabi stavano guadagnando terreno a un ritmo ben piu' rapido di quanto io stesso non avessi previsto. [...] Se gli israeliani persistessero nel credere che gli arabi non accetteranno mai l'esistenza di uno Stato ebraico, lo stesso ideale sionista andrebbe in frantumi. In effetti, tale ideale si fonda sulla convinzione che ebrei e arabi possano non soltanto coesistere, ma anche cooperare, nel loro comune interesse".
Goldmann, che aborriva il sionismo di un Begin, considerandolo "aggressivo e utopistico", soleva rifarsi all'orientamento di Chaim Weizmann, primo presidente dello Stato d'Israele, secondo il quale la politica dei governanti israeliani avrebbe dovuto seguire linee che comportassero il minimo possibile di ingiustizia per i palestinesi. In politica, sosteneva Goldmann, occorre saper scegliere il male minore e rinunziare a perseguire obiettivi chimerici. "Comprendo in pieno il vincolo sentimentale che lega gli ebrei a localita' tanto strettamente associate alla loro storia, quali Betlemme o Hebron, in Cisgiordania. Ma sostengo che il protrarsi dello status quo condurra' a nuove guerre, a nuove disfatte degli arabi, all'intensificazione dell'odio contro Israele. A piu' lunga scadenza, pavento esiti disastrosi per lo Stato d'Israele" ("Israel et la paix. Les termes possibles d'un reglement", "Le Monde", 31 maggio - primo giugno 1970).
In un'intervista rilasciata a Francoise Roth ("L'Arche", n. 224, gennaio 1975), Goldmann affermo' di ritenere possibile una "pace totale" a condizione che il governo d'Israele superasse i timori che ne frenavano le iniziative, e aggiunse: "Ho una grande stima di Yitzhak Rabin, e' molto piu' flessibile di Golda Meir, che ha grandemente danneggiato la posizione d'Israele nel mondo". Nel corso della medesima intervista, a un certo punto la Roth domando' a Goldmann se ritenesse che il giudaismo mondiale (ossia la diaspora ebraica) avesse il diritto di pesare sulle decisioni di Israele. Dopo avere premesso che "si tratta di una grande questione", Goldmann fece rilevare che "Israele e' uno Stato sovrano e il giudaismo mondiale non ha alcun diritto ne' potere per intervenire ufficialmente. Le comunita' ebraiche, per parte loro, non desiderano avere con Israele vincoli ufficiali, a causa del classico problema della doppia lealta'. E' un problema unico: quale altro popolo si ritrova a essere per il 20 per cento nel proprio Stato e per l'80 per cento in una condizione di dispersione? E allo stesso tempo, questo popolo deve conservare la propria unita'. Percio' occorre individuare un quadro entro il quale il giudaismo mondiale si astenga dall'intervenire ufficialmente ma venga consultato, un quadro che consenta alla diaspora di esprimere i suoi desideri, i suoi consigli, le sue reazioni. Ben Gurion non voleva sentirne parlare, ma come egli non soleva chiedere il parere di Israele, cosi' m'immagino che non intendesse tenere in alcun conto un qualsiasi parere espresso dalla diaspora".
Educato da genitori tradizionalisti nell'osservanza della religione ancestrale, Nahum Goldmann si considerava personalmente lontanissimo da qualsiasi forma di adesione alla fede religiosa. In un'intervista concessa negli ultimi mesi di vita a Victor Malka ("L'Arche", n. 306-307, settembre-ottobre 1982), dopo avere dichiarato di non essere entrato per oltre vent'anni in una sinagoga, ammise tranquillamente che, se tutti gli ebrei fossero stati come lui, l'ebraismo sarebbe finito; e aggiunse: "e' un autentico paradosso che uomini come Sharett, Ben Gurion, Weizmann, Jabotinski non abbiano mai avuto la fede religiosa. In questo periodo decisivo della sua esistenza, il popolo ebraico e' stato diretto da persone che ignoravano il fondamento stesso dell'esistenza ebraica. E cio' sarebbe stato impossibile prima del sionismo moderno, nel quale convergono l'assimilazione e la tradizione. Nella storia ebraica lo Stato non ha alcuna funzione. La terra si', ma tu non troverai mai nella storia degli ebrei la formula 'Medinat Israel' (Stato d'Israele). Herzl era assimilato al cento per cento. Voleva che la lingua del Paese fosse il tedesco. Il suo modello era lo Stato democratico del XIX secolo".
Cosi' Goldmann, negli anni dell'accesso al potere del Likud (con la formazione del primo governo guidato da Menahem Begin), che furono anche gli ultimi suoi anni di vita, paleso' gravi timori che Israele avesse smarrito se stesso. Soprattutto lo preoccupavano gli sviluppi che la leadership israeliana andava imprimendo alla vita del giovane Stato, forzandolo a investire le risorse umane ed economiche piu' preziose principalmente nella difesa, nell'organizzazione dell'esercito e nell'acquisto di armi moderne. Cio' lo spinse a impegnare la sua inesauribile capacita' d'immaginazione politica nell'elaborare uno scenario entro il quale gli israeliani potessero recuperare le loro enormi energie creative, per concentrarle nuovamente sui temi culturali, sociali, spirituali e religiosi che animarono e diedero valore alle iniziative della popolazione ebraica in Palestina prima della nascita dello Stato.
In un lungo saggio pubblicato un paio d'anni prima della scomparsa ("Pourquoi j'ai peur pour Israel", "Le Nouvel Observateur", 19 luglio 1980), Goldmann scriveva: "Mi sembra che per coronare la storia ebraica e offrire una soluzione al problema ebraico, la creazione di un piccolo Stato ebraico aggressivo e sempre piu' impopolare sia una banalizzazione dello straordinario destino degli ebrei, una profanazione del carattere eroico e tragico della storia ebraica. [...] Il potere piu' irresistibile e' quello degli oppressi, dei perseguitati, che non possono sopravvivere se non opponendo ai persecutori un'ostinazione illimitata. Gli ebrei che hanno fondato Israele e che lo governano ancor oggi hanno ereditato dalle numerose generazioni che li hanno preceduti questo sentimento del potere che e' proprio degli impotenti. La caparbieta' di Begin, il suo rifiuto di fare concessioni, il suo comportamento provocatorio verso il mondo intiero sarebbero comprensibili se fosse il presidente della comunita' ebraica di Brest-Litovsk, d'onde egli proviene. [...] L'avvenire d'Israele dipende dalla sua facolta' di dare ai dirigenti di questo Paese il sentimento di un potere statuale, che solo permettera' loro di operare compromessi, di fare concessioni, di comprendere l'avversario e trattarlo da eguale, di essere tolleranti verso le minoranze".
Sulla base di queste premesse, Goldmann immagino' che la sola vera strada da imboccare potesse essere quella della "conversione" di Israele in una forma di Stato diversa: cioe' nella forma di "uno Stato totalmente neutro, costretto formalmente da varie potenze mondiali - innanzitutto, anche dagli arabi - ad astenersi da ingerenze nella politica mondiale, eccezion fatta per il caso in cui occorresse mettere in salvo una minoranza ebraica in pericolo. [...] Il fatto che esista uno Stato ebraico indipendente nel mezzo del mondo arabo costituisce un ostacolo insormontabile per tutti quei politici arabi che auspicano la creazione di un blocco esteso dal Marocco al Pakistan. Uno Stato d'Israele neutro potrebbe essere accettato molto piu' facilmente. Per le grandi potenze il garantire l'esistenza di uno Stato d'Israele neutro, anche se per anni dovessero mantenere truppe lungo le sue frontiere, sarebbe di gran lunga preferibile al rischio di una nuova guerra nel Vicino Oriente, catastrofica per l'approvvigionamento del petrolio, oppure anche di una nuova guerra mondiale. Per il mondo ebraico, uno Stato d'Israele neutro sarebbe una benedizione. [...] La neutralita' permetterebbe a Israele di concentrarsi sulla sua autentica missione, non soltanto in termini finanziari ma in termini spirituali e in una maniera creativa: quella d'essere il centro d'ispirazione per la diaspora ebraica e di esercitare la funzione che, lungo l'arco dei secoli, fu svolta dalla religione. Cio' consentirebbe a Israele di continuare ad apportare il suo contributo secolare alla cultura universale e di garantirsi, in tal guisa, un avvenire conforme al carattere eccezionale del suo passato".
Edgar Bronfman, che presiedeva il Congresso ebraico mondiale allorche' Goldmann mori', ebbe a dichiarare che il grande scomparso era "un uomo universale nella migliore tradizione ebraica. Egli incarnava le contraddizioni dinamiche che caratterizzano la complessa personalita' degli ebrei." Certamente, quella di Goldmann fu la figura di un ebreo cosmopolita nel senso piu' pieno e positivo del termine: un personaggio singolare e seducente, formatosi attraverso l'incontro e lo scontro fra diverse grandi culture. Nel gia' citato articolo "Le bon sens ou la guerre" ("Le Monde", 17 gennaio 1981), Goldmann rilevava che "essendo gli ebrei dispersi in piu' di quaranta Paesi, non e' possibile comprendere i loro problemi, ne' tentare di risolverli, senza tenere conto della politica internazionale e della situazione nei diversi Paesi. Percio' ho mantenuto rapporti con diplomatici e con uomini di Stato di tutto il mondo". E dopo avere ricordato il suo intenso impegno nel campo della politica ebraica, durato per ben sessantacinque anni, confessava: "Sono arrivato al punto in cui non comprendo piu' il mondo nel quale viviamo: un mondo che, per armarsi, spende ogni minuto un milione di dollari allorche' sia l'Unione Sovietica sia gli Stati Uniti possiedono bombe sufficienti per annientarsi reciprocamente varie volte; un mondo nel quale le superpotenze e gli Stati europei destinano molti miliardi supplementari alle armi nel timore di vedersi sopravanzati dal nemico potenziale; un mondo nel quale, l'anno scorso, cinque milioni di bambini sono morti di fame. Le generazioni future, se sopravvivranno a una guerra nucleare, scriveranno - per spiegarla e per comprenderla - ampi e profondi trattati su questo nonsenso collettivo della nostra generazione".
La storia destino' Goldmann a operare per un solo piccolo gruppo umano, mentre il suo spirito lo avrebbe agevolmente condotto a impegnarsi sul piu' ampio fronte del diritto delle genti, come dimostro' egli stesso facendosi animatore del Comitato per i diritti delle minoranze in seno alla Societa' delle Nazioni. Dopo il 1968, presa la cittadinanza elvetica passo' il suo tempo tra New York, Parigi, Gerusalemme e la Germania, il Paese in cui ricordava di avere trascorso le stagioni felici della giovinezza.
6. SEGNALAZIONI LIBRARIE
Riedizioni
- Natalia Ginzburg, La strada che va in citta', Einaudi, Torino 1942, 2007, Il sole 24 ore, Milano 2011, pp. 80, euro 2 (in supplemento al quotidiano "Il sole 24 ore").
- Costantino Porcu (a cura di), Durer, Skira'-Rcs, Milano 2003, 2011, pp. 192, euro 6,90 (in supplemento al "Corriere della sera").
- William H. Prescott, La conquista del Messico, Einaudi, Torino 1958, 1992, Mondadori, Milano 2011, pp. XLVIII + 882, euro 12,90 (in supplemento a vari periodici Mondadori).
7. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli.
8. PER SAPERNE DI PIU'
Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it
Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/
TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 641 dell'8 agosto 2011
Telegrammi della nonviolenza in cammino proposti dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
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