Telegrammi. 621
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- Date: Tue, 19 Jul 2011 00:12:09 +0200 (CEST)
TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 621 del 19 luglio 2011
Telegrammi della nonviolenza in cammino proposti dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Sommario di questo numero:
1. Peppe Sini: Una insurrezione nonviolenta contro le stragi e le persecuzioni
2. Stefano Ciccone: Forme di lotta efficaci e coerenti con le ragioni di chi vuole opporsi alla logica del potere
3. Giuliano Giuliani: Dieci anni, la verita'
4. Alcuni testi del mese di luglio 2006 (parte terza)
5. Una lettera alle ed ai parlamentari italiani per la formazione delle forze dell'ordine alla nonviolenza
6. Due telegrammi e mezzo nottetempo dal peripato
7. Pat Patfoort
8. Gli gnorri
9. Dell'etica della cura
10. Menzogna e pregiudizio
11. Un profondo dissenso e una preghiera ancora
12. Una postilla
13. L'oppressione, la paura
14. Fermare la guerra
15. Due domande
16. La guerra e' il terrorismo
17. Contando fino a tre
18. Un golpista
19. Segnalazioni librarie
20. La "Carta" del Movimento Nonviolento
21. Per saperne di piu'
1. EDITORIALE. PEPPE SINI: UNA INSURREZIONE NONVIOLENTA CONTRO LE STRAGI E LE PERSECUZIONI
Ogni giorno in Afghanistan e in Libia esseri umani vengono massacrati dalla guerra cui anche l'Italia partecipa in flagrante violazione della sua stessa legge fondamentale, la Costituzione della Repubblica Italiana.
Ogni giorno nel nostro paese e nelle acque che lo circondano esseri umani sono esposti alla morte, alla schiavitu', alla piu' brutale persecuzione razzista per responsabilita' primaria dello stato italiano che di questo orrore nazista si macchia in flagrante violazione della sua stessa legge fondamentale, la Costituzione della Repubblica Italiana.
Esseri umani vengono perseguitati.
Esseri umani vengono uccisi.
Illegalmente, criminalmente.
Da parte dello stato italiano.
Con la complicita' di massa della cittadinanza italiana, che con la sua passivita' permette che questi crimini contro l'umanita' si consumino impunemente.
*
Cessi immediatamente l'illegale partecipazione italiana alle guerre terroriste e stragiste in Afghanistan e in Libia.
Cessi immediatamente la criminale persecuzione razzista di migranti e viaggianti da parte dello stato italiano.
Torni l'Italia al rispetto della legge che salva le vite.
*
Insorga il popolo italiano contro il governo stragista e razzista.
Insorga il popolo italiano in difesa della Costituzione della Repubblica Italiana.
Con la forza della verita', con la scelta della nonviolenza.
Per i diritti umani di tutti gli esseri umani.
2. RIFLESSIONE. STEFANO CICCONE: FORME DI LOTTA EFFICACI E COERENTI CON LE RAGIONI DI CHI VUOLE OPPORSI ALLA LOGICA DEL POTERE
[Ringraziamo Stefano Ciccone (per contatti: ciccone at romascienza.it) per averci messo a disposizione il seguente intervento originariamente pubblicato sul quotidiano "Il Manifesto" del 15 luglio 2011 col titolo "Parliamo di forme di lotta".
Stefano Ciccone, intellettuale e militante della sinistra piu' limpida e rigorosa, e' da sempre impegnato per la pace e i diritti umani, e in una profonda e acuta riflessione individuale e collettiva sull'identita' sessuata e nell'analisi critica e trasformazione nonviolenta dei modelli e delle culture del maschile all'ascolto del pensiero e delle prassi dei movimenti delle donne; e' uno dei promotori dell'esperienza di "Maschileplurale" e dell'appello "La violenza contro le donne ci riguarda"]
Dopo le manifestazioni in Val di Susa la rete si e' popolata di videoracconti di chi ha manifestato pacificamente contro la Tav, carichi di frustrazione e di rabbia per l'arbitrio della polizia e poi per la falsificazione dei media. Chi partecipo' alle manifestazioni di Genova contro il G8 del 2001 conosce bene questo stato d'animo. Quelle giornate furono per molti un passaggio traumatico dopo il quale per molto tempo e' stato impossibile uscire dalla visione ipnotica della violenza, dal claustrofobico senso di impotenza. Ma la politica e' trasformare la rabbia e l'indignazione nella costruzione collettiva di un'idea alternativa di cultura, di vita, di societa'. Tra poco a Genova molte iniziative torneranno a quelle giornate: e' possibile farne occasione di riflessione sul nesso tra politica, conflitto, violenza e radicalita' attualizzando la riflessione su quello che le nuove mobilitazioni ci raccontano senza restare prigionieri della commemorazione?
Sarebbe un errore ridurre una storia ricca e plurale al ricordo della repressione e della sospensione delle garanzie democratiche. La grande sperimentazione dei social forum di Genova 2001 non puo' essere schiacciata sugli scontri. Non solo: in questi dieci anni di mobilitazioni, crescita e crisi del movimento no global, sono nate esperienze che ne hanno raccolto alcune intuizioni e superato i limiti della deriva leaderistica, della semplificazione degli schieramenti, della tendenza a stigmatizzare le differenze interne come "tradimenti". E soprattutto si e' messo a fuoco che questi vizi non sono neutri, ma frutto di culture patriarcali dominanti.
Negli ultimi anni le lotte degli studenti, dell'universita', dei precari, le mobilitazioni delle donne e del movimento glbt, i flash mob, le pratiche partecipative diffuse e radicate nei comitati per i beni comuni, hanno costruito forme di mobilitazione innovative. Sono esperienze che preferiscono l'orizzontalita' alla delega e allo schieramento e non riproducono modelli viriloidi nel proprio modo di manifestare. Esperienze capaci di articolare il conflitto oltre lo scenario dell'appuntamento di piazza, nella dimensione quotidiana, territoriale, culturale, diffusa.
Queste esperienze ci dicono che la radicalita' delle proprie ragioni e del proprio desiderio di trasformazione non si misura sulla disponibilita' allo scontro in piazza, sulla sfida con la polizia per attraversare una linea rossa. La radicalita' di un movimento si misura sulla sua capacita' critica, sulla sua proposta innovativa rispetto all'ordine delle cose, sulla sua capacita' di smascherare linguaggi di potere invisibili e forme di dominio diffuse e di riconoscere le forme di complicita' con tutto quello che ci sembra naturale: la gerarchia tra uomini e donne innanzitutto.
E' possibile inventare forme di lotta efficaci e coerenti con le ragioni di chi vuole opporsi alla logica del potere: chi ha occupato i tetti, chi ha manifestato sui monumenti, chi ha tenuto le lezioni in piazza, chi durante il pride ha espresso la propria irriducibilita' ai modelli dominanti di virilita' e femminilita' e' meno radicale o ha meno rabbia di chi sceglie di sfondare i cordoni della polizia?
Tuttavia l'originalita' di una pratica politica deve essere riconosciuta, tematizzata, resa patrimonio comune, non restare implicita. La scelta delle forme di lotta, dei linguaggi, delle forme di organizzazione e di conflitto ha a che fare pienamente con la politica.
In molte mobilitazioni le donne hanno un ruolo decisivo ma senza che questo venga riconosciuto come dato che trasforma quei percorsi. In molte lotte le dinamiche violente, il linguaggio utilizzato per denigrare l'avversario (pensiamo alla Gelmini) fanno ricorso alla volgarita' misogina o omofoba che a stento viene problematizzata.
L'accettazione dello scenario dello scontro regala al governo lo spunto per criminalizzare e liquidare le mobilitazioni e accetta come essenziale la visibilita' mediatica: conta chi, con gli scontri, conquista il servizio del Tg. Questa contraddizione diviene sempre piu' stringente di fronte a un governo che ha risposto ad ogni mobilitazione sociale con la violenza, l'arroganza e la criminalizzazione. L'applauso al blindato che brucia mentre Berlusconi umilia il Parlamento nel dicembre scorso fotografa un esito frustrato e impotente. Per fare questa critica non c'e' nessun bisogno di ricorrere alla cultura del sospetto e allo spionaggio sugli infiltrati. Oggi, come dieci anni fa a Genova questo nodo viene spesso rimosso e questo conflitto anestetizzato con una sorta di "topografia indifferente": pratiche diverse convivono una accanto all'altra senza reciproca interrogazione, quasi riconoscendo una "divisione dei ruoli".
L'apertura di una riflessione libera e limpida e' frenata proprio dalla retorica che ricorre al feticcio dell'unita' e della solidarieta' del movimento. E' invece possibile rifiutare la distinzione in "buoni e cattivi" proposta dai telegiornali e al tempo stesso affermare un'idea di movimento plurale in cui la critica e il confronto siano liberi dall'uso della retorica del tradimento, della fedelta', dello schieramento. La violenza non e', infatti, solo politicamente inutile, e' culturalmente subalterna. Proprio in occasione del G8 di Genova molte donne firmarono il documento "lontane dai militari e da chi li imita" che denunciava la subalternita' culturale della rincorsa alla simmetria simbolica che molti inseguirono.
E' necessario costruire uno sguardo critico non per perbenismo o timidezza, quindi, ma al contrario per l'esigenza di una maggiore radicalita'. Non ci emoziona il gesto atletico del lancio della bottiglia contro i blindati, vogliamo sottrarci alla seduzione della sfida eroica scudi contro scudi, resistiamo a essere intruppati in plotoni ordinati, ci annoia giocare a risiko con le strategie in piazza o in montagna.
Non ci piacciono i corpi militari, i corpi collettivi in cui perdere la nostra singolarita' e ci spaventa la seduzione che esercita, soprattutto su molti maschi, l'emozione di sentirsi parte di un "corpo unico" che si scontra col nemico. Rifiutiamo qualunque pratica che chieda alle persone di omologare la propria irriducibile singolarita'. Vogliamo liberarci da una cultura militarista, dal virilismo, dalla logica che rimuove la liberta' e la differenza di ognuno e ognuna.
A dieci anni dal G8, grazie al gruppo "lo sbarco" si terra' a Genova un'occasione di riflessione su linguaggi e forme di lotta e di partecipazione. Tra gli obiettivi citati nella convocazione quello di "Liberare i conflitti, riconoscere le differenze". Molte esperienze diverse proveranno a riannodare il filo di questa ricerca.
3. MEMORIA. GIULIANO GIULIANI: DIECI ANNI, LA VERITA'
[Dal quotidiano "L'Unita'" del 18 luglio 2011.
Giuliano Giuliani, storico militante del movimento operaio, e' il padre di Carlo Giuliani, ucciso il 20 luglio 2001 a Genova]
20 luglio 2001. Piazza Alimonda. Ore 17.25. I due defender che precedono in retromarcia la fuga precipitosa di una compagnia di carabinieri si ostacolano a vicenda. Uno si sgancia, l'altro si ferma contro un cassonetto dell'immondizia. Sul retro ci sono quindici o sedici persone, a poca distanza un'intera compagnia di carabinieri che non interviene a difesa della jeep. Tra i manifestanti, uno ha in mano un'asse di legno, tre sono fotografi. Nelle fotografie sembrano tutti vicinissimi, perche' ci sono zoom che riducono distanze di diversi metri a poche decine di centimetri. Un manifestante raccoglie da terra un estintore e lo lancia verso il defender. Non produce danni: una pedata lo spinge via e lo fa rotolare a quattro metri di distanza. Carlo e' giunto fra gli ultimi dalle parti della jeep, e ha visto la pistola impugnata da tempo, caricata, accompagnata da grida minacciose ("vi ammazzo tutti"). Si china a raccogliere l'estintore: chi lo conosce puo' solo dedurre la sua intenzione di difendere gli altri e se stesso dalla minaccia. La Beretta calibro 9 spara due colpi in rapida successione. La mano che la impugna e' piegata, dicono che cosi' si controlla meglio la direzione del colpo. Braccio e canna dell'arma sono orizzontali, paralleli al suolo. Nessun calcinaccio che devia il proiettile, come asserisce l'imbroglio dei consulenti avallato dal pm e dal gip. Carlo rotola verso la jeep che ingrana retromarcia, passa due volte sul suo corpo e si allontana in quattro secondi uscendo di scena. Poi, due minuti dopo, un folto cordone cintura la scena, un carabiniere spacca la fronte di Carlo con una pietrata per cercare di mettere in campo un vergognoso tentativo di depistaggio, inscenato da un vicequestore che insegue un manifestante "reo" soltanto di gridare "assassini" all'indirizzo dei militari (ricordate: "Bastardo, l'hai ucciso tu col tuo sasso"). Ecco. Dieci anni non cancellano la verita'.
L'omicidio di Carlo e' stato archiviato, non importa che fosse l'episodio piu' violento e piu' tragico di quelle giornate. I processi che si sono celebrati hanno invece rivelato le pesanti e gravi responsabilita' delle catene di comando: dalle cariche ingiustificate e violente dei reparti dei carabinieri in via Tolemaide; al falso ideologico, calunnia, arresti illegali, reati compiuti dalle massime autorita' della polizia alla Diaz; alla induzione alla falsa testimonianza commessa dall'allora capo della polizia De Gennaro, come hanno affermato le sentenze di secondo grado. Il terzo grado di giudizio ritarda, oscene manovrette puntano alla prescrizione (cambi di indirizzi degli imputati, mancato ricevimento degli atti). Non hanno fatto ritardo le promozioni. Tutti tranne uno (il vicequestore che parlo', riferendosi alla Diaz, di "macelleria messicana"), ai gradi piu' alti: se la Cassazione confermasse la sospensione dai pubblici uffici per cinque anni, i vertici della polizia sarebbero decapitati. I carabinieri promossi di grado non corrono questo rischio: nessuno dei responsabili di piazza Alimonda e delle cariche ingiustificate in tutte le altre circostanze e' stato mandato sotto processo.
Naturalmente, non si e' voluto indagare sulle responsabilita' politiche. Si e' trattato di una scelta bipartisan: all'epoca del governo Prodi la commissione parlamentare d'inchiesta fu bocciata alla Camera per il voto contrario di due esponenti della maggioranza (Udeur e Idv), l'assenza di altri due (un socialista e un radicale) e l'astensione del presidente della commissione, l'on. Violante. Ed e' altrettanto grave, perche' rafforzare l'impunita' dei responsabili di una condotta violentemente repressiva delle forze dell'ordine significa indebolire le garanzie democratiche. Significa non rispondere alle domande, a volte persino angosciate, di quei poliziotti che non vogliono essere confusi con quelli che indossando la stessa divisa massacrano 93 persone alla Diaz. Per questa ragione, il 20 luglio saremo in Piazza Alimonda anche quest'anno, perche' crediamo che sia innanzitutto il nostro dovere: non solo il ricordo di Carlo, ma un impegno per il rispetto dei diritti e delle regole democratiche.
4. HERI DICEBAMUS. ALCUNI TESTI DEL MESE DI LUGLIO 2006 (PARTE TERZA)
Riproponiamo alcuni ulteriori testi apparsi sul nostro notiziario nel mese di luglio 2006.
5. HERI DICEBAMUS. UNA LETTERA ALLE ED AI PARLAMENTARI ITALIANI PER LA FORMAZIONE DELLE FORZE DELL'ORDINE ALLA NONVIOLENZA
Oggetto: Una legge per la formazione delle forze dell'ordine alla conoscenza e all'uso della nonviolenza
Gentili parlamentari,
alcuni anni fa parlamentari di vare forze politiche promossero un disegno di legge che proponeva la formazione delle forze dell'ordine alla conoscenza e all'uso della nonviolenza.
Vi saremmo grati se quella iniziativa voleste riprendere ed impegnarvi affinche' diventi finalmente legge dello stato che tutti gli appartenti alle forze dell'ordine nel proprio percorso formativo e di aggiornamento incontrino la nonviolenza, e nella loro attivita' possano quindi adeguatamente avvalersi delle straordinarie risorse che la nonviolenza mette a disposizione.
A questa breve lettera alleghiamo una documentazione essenziale.
Distinti saluti,
il Centro di ricerca per la pace di Viterbo
Viterbo, 10 luglio 2006
6. HERI DICEBAMUS. DUE TELEGRAMMI E MEZZO NOTTETEMPO DAL PERIPATO
Un governo di un paese civile che delibera la messa a morte di esseri umani non e' piu' un governo: e' una ciurma di assassini.
*
L'etica della responsabilita', il metodo del consenso, la riduzione del danno: ne hanno di fantasia i ministri della morte. O forse non e' fantasia, forse e' solo una lauta parcella a dei buoni pubblicitari, che usano le parole come i sicari la lama.
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Proposta al Presidente: nominare Tartufo senatore a vita.
7. HERI DICEBAMUS. PAT PATFOORT
Pat Patfoort e' oggi una delle piu' note e apprezzate formatrici alla nonviolenza.
Il suo approccio, particolarmente semplificato, ha il vantaggio di essere immediatamente comprensibile ed agevolmente applicabile in varie situazioni di conflitto in cui gli attori, lo scenario e i moventi siano riducibili a posizioni chiaramente configurabili e a un numero relativamente ristretto di elementi, ed in cui un intervento di mediazione nonviolenta puo' essere di grande efficacia.
In situazioni complesse, e di solito i conflitti politici, sociali e culturali sono complessi ed un ruolo decisivo in essi lo ha "l'ordine del discorso" (ovvero la catena ermeneutica attraverso cui i vari soggetti coinvolti interpretano gli eventi e le relazioni), non sempre e' facile o accettabile - e talvolta e' anzi decisamente impossibile - l'operazione riduzionista alla base dello schema e quindi conseguentemente del metodo proposto dalla studiosa e attivista belga. Qualora esso venisse adottato ed applicato in modo astratto e dogmatico vi e' anzi il rischio che certe improprie semplificazioni ed abusive banalizzazioni invece di chiarire confondano, e si rivelino astratte e subalterne, e interne a un'ideologia che per il fatto di presumersi non-ideologica non e' meno ma piu' ideologica, alienata e inadeguata.
E si danno altresi' situazioni in cui il risalire a quelli che Pat Patfoort definisce "fondamenti" (intendendo le ragioni fondanti, in contrapposizione a cio' che chiama "argomenti", intendendo con tale parola le ragioni o pseudoragioni superficiali) non da' luogo al rinvenimento di motivi condivisibili, bensi' di motivi realmente ed assolutamente inaccettabili: sono situazioni come quella su cui si diede un appassionato dibattito tra Gandhi, Buber ed altri illustri amici della nonviolenza impegnati contro il nazismo. E' infatti ovviamente illusorio ritenere che sempre - o spesso - si possano raggiungere conciliazioni senza passare attraverso la lotta che sconfigge la violenza dispiegata e contrasta quanto le fa da retroterra.
E' un equivoco frequente quello secondo cui la nonviolenza sia prevalentemente riconciliazione raggiungibile attraverso un'opportuna mediazione: essa e' invece fondamentalmente e decisivamente lotta: solo attraverso la lotta - la lotta nonviolenta - si raggiunge la conciliazione interumana nel caso di conflitti che abbiano alla base opposizioni reali in rapporti di effettuale dominio e oppressione (e non rapporti dialettici che possano dar luogo ad un superamento sulla base dello schema triadico di hegeliana memoria).
Ma detto tutto questo, il lavoro di Pat Patfoort resta - nei limiti e con le avvertenze che abbiamo sommariamente indicato - indubbiamente di grande interesse ed utilita', ed in molti casi una sua meditata, esplicita e condivisa proposizione e applicazione in forma di persuasa e persuasiva mediazione apporta un contributo cospicuo alla interpretazione, gestione, trasformazione e fin risoluzione nonviolenta dei conflitti in una prospettiva costruttiva di coscientizzazione, di reciproco riconoscimento, di responsabilizzazione condivisa e di autentica riconciliazione.
8. HERI DICEBAMUS. GLI GNORRI
I propagandisti della prosecuzione della partecipazione italiana alla guerra continuano a propalare una bugia che va smascherata.
L'alternativa non e', come essi vogliono dar a bere, tra restare li' in armi o andarsene con la coda tra le gambe.
L'alternativa e' tra continuare a partecipare alla guerra o cessare di partecipare alla guerra e contribuire invece a costruire la pace recando aiuto alle vittime, con interventi umanitari, con una presenza civile disarmata, con il sostegno alla lotta delle donne per i diritti di tutti, con un'azione nonviolenta di soccorso, interposizione, testimonianza, mediazione e riconciliazione.
La partecipazione alla guerra significa infatti continuare a partecipare all'uccisione di esseri umani, poiche' la guerra di questo consiste.
Contribuire alla pace significa invece recare soccorso alle vittime, impegnarsi perche' la guerra cessi, contrastare tutte le violenze, sostenere quante e quanti in Afghanistan lottano per il riconoscimento di tutti i diritti umani a tutti gli esseri umani.
*
Detto altrimenti: l'alternativa e' tra uccidere o salvare le vite.
Uccidere, come fanno gli eserciti in guerra, e li' c'e' una guerra in corso ormai da decenni.
Salvare le vite, come fanno gli esseri umani quando si ricordano di esserlo.
*
Detto ancora altrimenti: l'alternativa e' tra militarismo e nonviolenza.
Il militarismo, che finanche in tempo di pace prepara la guerra, addestra ad uccidere, e quando la guerra deflagra trova la sua ora, cupa, tragica ora delle stragi e della barbarie.
La nonviolenza, che alla guerra si oppone sempre, che a tutte le stragi si oppone, che si oppone a tutte le uccisioni, che si oppone a tutte le oppressioni, che della vita, i diritti, la dignita' di ogni essere umano si prende cura, si sente responsabile.
*
E quindi questa e' l'alternativa: o l'esercito che provoca morti o i corpi civili di pace che salvano vite; o sopprimere le persone o salvarle; o recare morte o recare aiuto.
Questa e' la scelta da compiere, e non dovrebbe essere difficile capire quale dei due corni del dilemma e' buono, e quale e' un crimine.
E se qualcuno fosse ancora incerto o disorientato, lo aiuta la Costituzione della Repubblica Italiana che all'articolo 11 testualmente afferma: "L'Italia ripudia la guerra".
*
Qui e' Rodi, qui salta.
E la si faccia finita di fare gli gnorri.
9. HERI DICEBAMUS. DELL'ETICA DELLA CURA
Scrive Luisella Battaglia (nel saggio "La 'voce femminile' in bioetica. Pensiero della differenza ed etica della cura", in Stefano Rodota' (a cura di), Questioni di bioetica, Laterza, Roma-Bari 1993, 1997) che "nell'etica della cura si accentua l'idea fondamentale che il contenuto di cio' che e' bene o male sotto l'aspetto morale non puo' trovare la sua reale definizione in norme generali astratte, valide senza distinzione per tutti gli uomini e per tutte le situazioni. Viceversa, la definizione del contenuto morale puo' rinvenirsi solo nella situazione concreta con la quale la persona si confronta in un rapporto esistenziale" (ivi, p. 272).
Si potrebbe discutere se tale principio sia cosi' cogente, poiche' vi e' come noto una ricca casistica in relazione a cui il principio delle "norme generali astratte" sembra avere solide ragioni, ma non e' in questo ginepraio che qui vogliamo inoltrarci.
Quel che qui e adesso ci preme e' proporre di prender sul serio il concetto di etica della cura (che a nostro modesto avviso e' strettamente imparentato con quello che Hans Jonas chiama "principio responsabilita'" - e che e' cosa decisamente distinta dalla comune accezione dell'"etica della responsabilita'" di weberiana memoria), e di valorizzarne la potenza ermeneutica al fine di confutare una falsa alternativa che costituisce la botola in cui troppe persone - non solo ipocrite o sprovvedute - in questi giorni sembrano propense a tuffarsi in relazione alla discussione sulla partecipazione italiana alla guerra afgana; intendiamo la falsa alternativa tra una astratta e quindi stravolta "etica delle intenzioni (o dei principii)" ed un'altrettanto astratta e quindi altrettanto stravolta "etica della responsabilita'" (nel senso, qui si', weberiano).
Dal nostro modesto punto di vista di rustici insipienti il problema nella sua realta' e concretezza e' semplice, e si pone in termini rispetto a cui tanto l'etica delle intenzioni (o dei principii), se rettamente intesa ed applicata, quanto l'etica della responsabilita', se intesa ed applicata altrettanto rettamente, non possono non convergere: concretamente, l'oggetto della decisione da prendere, come l'etica della cura chiarisce perfettamente, e' il seguente: la morte o la vita delle persone che in Afghanistan subiscono una guerra che perdura da decenni. Partecipando alla guerra si decide per la loro morte. Cessando di partecipare alla guerra ed intervenendo in forme nonviolente in aiuto alle vittime si decide per la loro vita.
Muovendo dall'etica della cura non dovrebbe esservi dubbio su quale sia la decisione che il Parlamento italiano dovrebbe prendere.
*
E non dovrebbe essere necessario aggiungere che la scelta contro la guerra e per la nonviolenza e' la sola consentita dalla Costituzione della Repubblica Italiana, dalla cui vigenza governo e parlamento ricevono effettualmente la loro autorita' (senza Costituzione, le stesse elezioni politiche perdono di significato e di fondamento, e non bastano da sole a dar luogo a un ordinamento giuridico in forma di stato di diritto, in forma di democrazia parlamentare). A maggior ragione non dovrebbe esserci bisogno di aggiungere che una volta che la Costituzione "ripudia la guerra" e' insensato e criminale il solo dibattere l'ipotesi di proseguire la partecipazione a una guerra, partecipazione in re ipsa illegale oltre che immorale.
*
Il solo fatto che siamo ancora costretti a ripetere queste cosi' banali cose, mentre il governo ha gia' decretato di perseverare nell'illegale e criminale partecipazione militare italiana alla guerra, e una golpista maggioranza parlamentare (praticamente tutte le forze politiche che siedono in parlamento, con pochissime individuali obiezioni di coscienza) si appresta ad avallare tale infamia, rivela ad abundantiam come la guerra porti il fascismo. Mentre in Afghanistan continua la carneficina, in Italia coloro che a quella carneficina hanno deliberato in passato di cooperare e deliberano oggi di continuare a cooperare distruggono la Costituzione, e con essa il diritto, la democrazia, le nostre comuni liberta'.
10. HERI DICEBAMUS. MENZOGNA E PREGIUDIZIO
Come si fa a non vedere che il mondo e' in fiamme?
Che la guerra - e il terrorismo, che e' la guerra di coloro che per uccidere non dispongono di eserciti regolari e (per ora) di armi di sterminio di massa - sta gia' devastando vaste aree del pianeta?
Come si fa a non capire che e' in gioco l'esistenza stessa della civilta' umana?
*
Ma la guerra inebria, rende ciechi, e porta il fascismo.
Un sintomo di cio' e' che in Italia si sta decidendo la prosecuzione della partecipazione militare del nostro paese alla guerra afgana.
Il governo ha gia' decretato la prosecuzione della guerra, in perfetta continuita' con il governo golpista che lo ha preceduto.
Il parlamento si appresta a farlo con un consenso totalitario alla guerra che coinvolge tutte le forze politiche.
Il governo ha gia' decretato la violazione dell'articolo 11 della Costituzione della Repubblica Italiana che riipudia la guerra.
Il parlamento si appresta a farlo.
E mentre questa scellerata follia avviene, tante persone ragionevoli discettano con sussiego e compunzione quale sia il giusto prezzo in termini di afgani assassinati per un ministero, per un gabinetto: mille morti? diecimila? E - di grazia, ci dicano - il prezzo varia se a morire invece che poveri civili afgani sono soldati italiani? Novecento afgani e un italiano? A questo siamo.
La guerra porta il fascismo.
*
Questo foglio, e il Centro di ricerca per la pace di Viterbo che lo pubblica, dubitano di molte cose, ma di tre cose no, e sono le seguenti:
I. La guerra consiste di uccisioni di esseri umani: chi sostiene la guerra si fa corresponsabile dell'uccisione di esseri umani.
II. La Costituzione della Repubblica italiana proibisce la partecipazione italiana alla guerra afgana: chi sostiene la partecipazione italiana alla guerra afgana viola la Costituzione e si mette fuori della legge che fonda il nostro ordinamento giuridico.
III. Tutte le chiacchiere di questo mondo non valgono una vita umana.
*
Le persone che si esprimono a favore della guerra non dicano che lo fanno perche' vogliono la pace: e' una menzogna.
E vien da pensare, poveretti loro, che abbiano introiettato a tal punto la neolingua e il bispensiero di orwelliana memoria da credere davvero che "La guerra e' pace. La liberta' e' schiavitu'. L'ignoranza e' forza".
*
Le persone che pensano che pur di governare loro e i loro amici si possono anche scannare un po' di poveri cristi in Afghanistan rivelano il loro pregiudizio: non solo razzista, ma del tutto antiumano.
E vien da pensare, poveretti loro, che abbiano fatto proprio il capovolgimento di ogni valore proclamato dalle streghe di Macbeth.
11. HERI DICEBAMUS. UN PROFONDO DISSENSO E UNA PREGHIERA ANCORA
L'appello che presentiamo sopra e' sottoscritto anche da persone cui ci lega un'antica e profonda amicizia. Amicizia che non e' in discussione.
Cio' che obiettiamo ai firmatari e' che, se il testo che ci e' pervenuto e' corretto e se interpretiamo bene le loro parole, essi infine "prend[ono] atto delle decisioni che ora la coalizione e' in grado di assumere" con cio' intendendo la prosecuzione della partecipazione italiana alla guerra in Afghanistan.
Cosicche', pur persuasi che la guerra sia un male e che la pace sia un bene, non solo subiscono la prosecuzione della partecipazione italiana alla guerra afgana, ma la avallano di fatto poiche' ad essa non dichiarano - almeno finora - che intendono opporsi esplicitamente nel modo in cui nelle assemblee democratiche con potere deliberativo ci si esprime: con il voto.
*
Crediamo che cio' significhi commettere due errori, anzi tre.
Il primo: farsi sostenitori de facto della guerra e recarne la corresponsabilita' qualora si voti a favore del decreto del governo che la prosecuzione della partecipazione militare italiana alla guerra afgana stabilisce.
Il secondo: violare la Costituzione, che all'art. 11 e' esplicita ed ineludibile: a una guerra come quella in corso in Afghanistan l'Italia non puo' partecipare, chi delibera in senso opposto agisce contro la Costituzione; il fatto che altri lo abbiano gia' fatto prima non autorizza a farlo di nuovo, cosi' come il fatto che nel corso della storia tanti omicidi siano stati commessi non legittima l'omicidio. Qualora si voti a favore del decreto che la prosecuzione della partecipazione militare italiana alla guerra afgana stabilisce, la violazione della Costituzione e' flagrante.
Il terzo: almeno una delle persone che hanno sottoscritto il testo che precede e' da sempre figura di riferimento dell'impegno di pace. Un suo voto a favore della guerra sarebbe una palese contraddizione.
In questo momento di terribile confusione in cui alcuni pretendono di chiamare missione di pace quella che e' partecipazione alla guerra, e molti stanno cedendo alla guerra facendosi scudo del fatto che anche alcune persone buone stanno parimenti cedendo, noi ancora una volta preghiamo coloro che in passato alla guerra seppero opporsi di non cedere ad essa ora.
*
E per dirla tutta: per chi scrive queste accorate righe non e' in discussione la stima e l'affetto per Lidia Menapace, come non era in discussione la stima e l'affetto per Norberto Bobbio, e la stima e l'affetto per Alex Langer, in vicende passate che con la presente hanno qualche analogia di fondo: ma che gli sciagurati guerrafondai possano abusivamente farsi scudo del nome di Norberto Bobbio, o di Alex Langer, o di Lidia Menapace, questo ci indigna e ci addolora.
Il parlamento italiano sara' chiamato al voto tra pochi giorni. Il parlamento che anche noi abbiamo eletto. E poiche' l'Italia e' una democrazia parlamentare, il potere di fare le leggi e' del parlamento; ed e' il parlamento quindi che decidera' la guerra o la pace. Sappiamo bene che pressoche' la totalita' delle forze politiche presenti in parlamento e' per la guerra. Ma almeno le persone che alla guerra sono state sempre contrarie non si dimentichino di se stesse, e per quanto e' in loro potere difendano, con la pace, la Costituzione, la dignita' del popolo italiano e delle istituzioni democratiche, le vite di coloro che la guerra invece uccide.
12. HERI DICEBAMUS. UNA POSTILLA
Non c'e' bisogno di dire che non condivido affatto quanto scrive Enrico Peyretti. Chi legge abitualmente questo foglio sa perche'.
Queste poche righe scrivo solo per rivolgere due sole puntuali obiezioni alle quarta e alla quinta delle domande da lui poste, che mi sembra possano dar luogo a gravi fraintendimenti.
1. Alla Camera dei Deputati vi sono non pochi parlamentari che hanno gia' variamente espresso la loro contrarieta' alla prosecuzione della partecipazione italiana alla guerra afgana, ma e' solo al Senato che i rapporti di forza tra i due schieramenti di centrosinistra e di centrodestra sono tali che pochi voti fanno la differenza, ecco perche' ovviamente l'attenzione si e' polarizzata li'.
2. E' bizzarro e irricevibile che si voglia sindacare sulla limpidezza delle motivazioni di chi si oppone alla guerra oggi come in passato ed oggi come in passato dichiara che votera' per la pace e secondo il dettato costituzionale, quando sarebbe da chiedersi piuttosto perche' persone che fino a ieri ruggivano slogan persino imbarazzanti e totalitari come "no alla guerra senza se e senza ma" oggi si apprestino a votare per la guerra e in flagrante, scandalosa, criminale violazione della Costituzione della Repubblica Italiana. Ma credo che sia io che Enrico conosciamo gia' la risposta.
13. HERI DICEBAMUS. L'OPPRESSIONE, LA PAURA
Il popolo palestinese oppresso dall'occupazione israeliana, nella solitudine e nella disperazione.
Il popolo israeliano circondato quasi solo da regimi fascisti che non fanno mistero di intenzioni genocide, e segnato dalla bimillenaria persecuzione e dal genocidio subito da parte dei regimi fascisti europei una generazione fa.
I popoli arabi e musulmani del Medio Oriente oppressi da regimi fascisti, dall'imperialismo americano, dal colonialismo e neocolonialismo europeo.
L'Europa ricca che sa di quanto sangue e quanto orrore grondi il suo passato (qui sono nati gli imperialismi e i totalitarismi, dall'impero romano a quelli del XX secolo; qui sono state incubate e sono poi divampate le prime due guerre mondiali - le prime due -), che sa che il suo benessere attuale si regge sulla secolare e mai cessata rapina delle risorse altrui, sulla secolare e mai cessata schiavitu' altrui.
Gli Stati Uniti che hanno una folle paura della vendetta delle vittime del loro sanguinario dominio imperiale.
E tutte le diaspore, e tutti i sud del mondo, derubati di ogni bene e ogni diritto, vessati con sistematica, scientifica ferocia, scarificati fino all'osso nudo, nude vittime e nudi testimoni dell'orrore dell'ora presente che l'umanita' intera attanaglia.
Oppressione, terrore, paura. E la guerra - la guerra terrorista, il terrorismo assassino - che distrugge tutto.
*
Solo la nonviolenza puo' salvare l'umanita'.
14. HERI DICEBAMUS. FERMARE LA GUERRA
Per fermare la guerra occorre opporsi alla guerra.
Per fermare una guerra occore opporsi a tutte le guerre.
Il pacifismo generico e astratto non basta.
Occorre la nonviolenza che inveri solidarieta', realizzi giustizia e promuova riconciliazione.
Occorre la nonviolenza che e' la lotta la piu' nitida e la piu' intransigente contro tutte le oppressioni.
Occorre la nonviolenza che e' la convivenza tra gli esseri umani che si riconoscono come esseri umani.
Solo la nonviolenza puo' salvare l'umanita'.
15. HERI DICEBAMUS. DUE DOMANDE
La prima: la Costituzione della Repubblica Italiana va rispettata come legge fondamentale del nostro ordinamento giuridico (tale che se una legge confligge con essa decade in quanto incostituzionale), si' o no?
E l'articolo 11 della Costituzione della Repubblica Italiana recita testualmente che "L'italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla liberta' di altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali", si' o no?
E la guerra in corso in Afghanistan e' una guerra, si' o no?
E la partecipazione militare italiana alla guerra afgana confligge con il dettato costituzionale, si' o no?
E i ministri della Repubblica hanno dovuto giurare fedelta' alla Costituzione all'atto dell'assunzione del loro incarico, si' o no?
E la violazione della Costituzione e' un atto criminale, si' o no?
E la criminale violazione della Costituzione da parte del governo e' un atto eversivo, si' o no?
E noi dovremmo favoreggiare il crimine di un governo golpista che in totale continuita' col governo golpista precedente viola la Costituzione?
*
La seconda: la guerra - vietata dalla Costituzione - consiste nella commissione di omicidi di massa, si' o no?
E coloro che in parlamento voteranno per la guerra - vietata dalla Costituzione - voteranno per la commissione di omcidi di massa, si' o no?
E commettere omicidi di massa e' un crimine, si' o no?
E noi dovremmo consentire la commissione di omicidi di massa?
*
Chi elude queste domande e' un triste e un tristo sofista.
16. HERI DICEBAMUS. LA GUERRA E' IL TERRORISMO
Non puo' darsi una "guerra contro il terrorismo". La guerra e' il terrorismo.
17. HERI DICEBAMUS. CONTANDO FINO A TRE
Uno: la Costituzione della Repubblica Italiana esplicitamente proiibisce al Parlamento italiano di deliberare la prosecuzione della partecipazione militare italiana alla guerra afgana, in quanto tale partecipazione e' del tutto illegale e criminale.
Che la maggioranza parlamentare della precedente legislatura abbia deliberato in violazione della Costituzione e si sia macchiata di un infame crimine non giustifica che in quell'infame crimine e in quella violazione golpista si perseveri, la pregressa commissione di un delitto non autorizza la sua reiterazione.
*
Due: in Afghanistan e' in corso da decenni una guerra atroce che ha gia' provocato un numero enorme di vittime. Partecipare alla guerra, proseguire la guerra, significa aggiungere altre vittime, significa far morire altre persone ancora.
Un parlamento che deliberasse la prosecuzione della partecipazione italiana alla guerra afgana con cio' stesso commetterebbe il reato di omicidio plurimo. Ed il fatto che la maggioranza parlamentare della precedente legislatura proprio questo abbia ripetutamente fatto in violazione della Costituzione dovrebbe avere come effetto non il persistere nel crimine, ma la sanzione penale per i responsabili: per le leggi italiane l'omicidio e' un reato.
*
Tre: ma non basta far cessare la partecipazione militare italiana alla guerra afgana: occorre intervenire positivamente per la pace, per il disarmo di tutte le parti, per assistere tutte le vittime, per aiutare la popolazione di quel paese a ricostruire cio' che la guerra ha devastato, e a costruire una civile convivenza fondata sul riconoscimento di tutti i diritti umani a tutti gli esseri umani e un'economia non dipendente dai poteri criminali; occorre promuovere educazione, assistenza, salute per tutti, sostenendo in primo luogo le inizative delle donne. Questo intervento di pace deve avvenire con mezzi di pace, deve essere caratterizzato dalla scelta nitida e intransigente della nonviolenza.
18. HERI DICEBAMUS. UN GOLPISTA
Il presidente della repubblica (lo stesso signore cofirmatario della legge che nel '98 ha riaperto i campi di concentramento in Italia) che fa pressione sui parlamentari affinche' votino a favore della guerra e in violazione della Costituzione.
Anche a questo ci e' toccato assistere in questi giorni di criminale follia.
19. SEGNALAZIONI LIBRARIE
Riletture
- Fernando Pessoa, Imminenza dell'ignoto, Edizioni Accademia, Milano 1972, pp. 338.
- Fernando Pessoa, Una sola moltitudine. I, Adelphi, Milano 1979, pp. 448.
- Fernando Pessoa, Una sola moltitudine. II, Adelphi, Milano 1984, pp. 264
- Jose' Luis Garcia Martin, Fernando Pessoa, Ediciones Jucar, Madrid-Gijon 1983, pp. 376 (con ampia antologia).
20. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli.
21. PER SAPERNE DI PIU'
Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it
Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/
TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 621 del 19 luglio 2011
Telegrammi della nonviolenza in cammino proposti dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it, sito: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/
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