Nonviolenza. Femminile plurale. 323



 

==============================

NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE

==============================

Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino"

Numero 323 del 14 aprile 2011

 

In questo numero:

1. Si e' svolto a Blera il 13 aprile un incontro di formazione alla comunicazione nonviolenta

2. Anna Bravo: Le donne, la guerra

3. Tzvetan Todorov: Del potere, della liberta', dei limiti

4. Stefano Montefiori intervista Tzvetan Todorov

5. Matteo M. Vecchio: Piera Badoni

6. Matteo M. Vecchio: Daria Menicanti

7. Matteo M. Vecchio: Antonia Pozzi

8. Matteo M. Vecchio: Catherine Pozzi

 

1. INCONTRI. SI E' SVOLTO A BLERA IL 13 APRILE UN INCONTRO DI FORMAZIONE ALLA COMUNICAZIONE NONVIOLENTA

 

Mercoledi' 13 aprile 2011 si e' svolto a Blera (Vt), nell'ambito di uno specifico percorso formativo iniziato da diversi mesi, un incontro di formazione alla comunicazione nonviolenta in ambito comunitario.

Nel corso dell'incontro e' stato espresso un persuaso impegno contro la guerra e contro il razzismo, contro il nucleare, contro la violenza maschilista.

Durante l'incontro e' stata sperimentata anche la modalita' comunicativa dell'improvvisazione poetica fondata sul "rispondere per le rime".

In conclusione dell'incontro e' stato letto e commentato un testo del poeta Lance Henson.

All'incontro ha preso parte il responsabile del "Centro di ricerca per la pace" di Viterbo.

 

2. RIFLESSIONE. ANNA BRAVO: LE DONNE, LA GUERRA

[Ringraziamo Anna Bravo (per contatti: anna.bravo at iol.it) per averci messo a disposizione il seguente articolo apparso sul "Coriere della sera" del 12 aprile 2011 col titolo "Il 'conflitto' interiore delle donne" e il sommario "Sabotatrici, eroine romantiche, ribelli e icone della propaganda".

Anna Bravo, storica e docente universitaria, vive e lavora a Torino, dove ha insegnato Storia sociale. Si occupa di storia delle donne, di deportazione e genocidio, resistenza armata e resistenza civile, cultura dei gruppi non omogenei, storia orale; su questi temi ha anche partecipato a convegni nazionali e internazionali. Ha fatto parte del comitato scientifico che ha diretto la raccolta delle storie di vita promossa dall'Aned (Associazione nazionale ex-deportati) del Piemonte; fa parte della Societa' italiana delle storiche, e dei comitati scientifici dell'Istituto storico della Resistenza in Piemonte, della Fondazione Alexander Langer e di altre istituzioni culturali. Luminosa figura della nonviolenza in cammino, della forza della verita'. Opere di Anna Bravo: (con Daniele Jalla), La vita offesa, Angeli, Milano 1986; Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza, Roma-Bari 1991; (con Daniele Jalla), Una misura onesta. Gli scritti di memoria della deportazione dall'Italia,  Angeli, Milano 1994; (con Anna Maria Bruzzone), In guerra senza armi. Storie di donne 1940-1945, Laterza, Roma-Bari 1995, 2000; (con Lucetta Scaraffia), Donne del novecento, Liberal Libri, 1999; (con Anna Foa e Lucetta Scaraffia), I fili della memoria. Uomini e donne nella storia, Laterza, Roma-Bari 2000; (con Margherita Pelaja, Alessandra Pescarolo, Lucetta Scaraffia), Storia sociale delle donne nell'Italia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2001; Il fotoromanzo, Il Mulino, Bologna 2003; A colpi di cuore, Laterza, Roma-Bari 2008. Si veda anche l'intervista apparsa nei "Telegrammi della nonviolenza in cammino" n. 353]

 

Quando nel 2003, durante la seconda guerra del Golfo, l'americana diciannovenne Jessica Lynch cade prigioniera degli iracheni, per liberarla si organizza uno spettacolare irruzione notturna con telecamere al seguito e gran battage mediatico. Per giorni e giorni, su tutte le tv passano le sequenze dell'azione e le centinaia di nastri gialli, simbolo dei "missing in action", appesi agli alberi di sicomoro, agli steccati, ai semafori di Palestine, il paese di Jessica.

Il Pentagono ha fatto una buona mossa. Quella prigionia inquietava, evocava sofferenze e pericoli aggiuntivi, in primo luogo quello dello stupro. Anche se essere catturati rientra fra le ovvie possibilita' del mestiere di soldato, e' come se in quel momento si riscoprisse l'antico volto predatorio e antifemminile della guerra.

Eppure negli ultimi decenni tutto sembra cambiato. In molti paesi, compresa l'Italia, le forze armate hanno aperto alle donne. Con la fine della guerra fredda, con le nuove armi e i nuovi fondamentalismi, i modelli di conflittualita' si sono moltiplicati. Si e' modificata la concezione del nemico e dei limiti da porsi (o da non porsi). Abbiamo sotto gli occhi in contemporanea ogni tipo di guerra, tecnologica, tradizionale, etnica, religiosa, "umanitaria", asimmetrica, a bassa intensita', e spesso mischiate fra loro. Come nell'Intervento Nato contro la Serbia del marzo-giugno 1999, dove terra e cielo sono stati teatro di due guerre diverse: una tradizionale, fra l'Esercito di liberazione del Kosovo e le truppe di Milosevic, con le donne per lo piu' in veste di preda e di vittima; l'altra tecnologica, di soli bombardamenti Nato e azioni della contraerea serba, con alcune giovani pilote nel ruolo di cambattenti.

Dunque quando si parla di donne e guerra, la prima domanda dovrebbe essere: quale guerra, quali donne.

Ma non vale solo per l'oggi. Gia' decenni fa, alcune studiose - penso a Jean Bethke Elshtain, Francoise Thebaud, Cynthia Enloe e a parecchie italiane - avevano mostrato che il binomio donne/guerra andava scomposto, direi sminuzzato. Nei due conflitti mondiali, per esempio, moltissime hanno lavorato nella produzione bellica, hanno tollerato la violenza per rassegnazione o per convinzione, spesso sotto le insegne della maternita', hanno offerto un retroterra materiale e morale a figli, mariti, fratelli, compagni. Alcune hanno preso le armi.

Non e' solo effetto dell'identificazione con il destino maschile o della propaganda. Il punto e' che, in mezzo a sofferenze e rinunce, dalla guerra nascono anche nuove forme di autoaffermazione: maternita' e lavoro delle donne sono promossi a fulcro dello sforzo nazionale, la femminilita' viene esaltata come contraltare alla violenza. Di piu': nella seconda guerra, una donna puo' trovarsi a guidare un'azione armata, a fare sabotaggi, a salvare, a uccidere; e a potenziare con il proprio esempio le fantasie aggressive o eroico-romantiche di altre, vissute abitualmente per la interposta persona dell'uomo. A dispetto di recenti speranze e di antiche retoriche, nessun dono di nascita e nessuna eredita' storica hanno immunizzato le donne dal piacere di condividere esperienze fondate sulle categorie di virtu' civile, gloria, orgoglio nazionale, da cui nella normalita' sono state escluse.

Ma altre, o le stesse in tempi diversi, hanno dato vita a manifestazioni antibelliciste, tentato di fermare i treni diretti al fronte, nascosto disertori e renitenti. Come le molte italiane che all'indomani dell'8 settembre, quando l'esercito si disfa e decine di migliaia di soldati si sbandano nel paese occupato dai tedeschi, li soccorrono a rischio della propria vita, rivestendoli in borghese per sottrarli alla cattura e mettendoli sulla via di casa.

Forse una continuita' va cercata sul piano dei simboli. Nell'immaginario e nella propaganda di guerra ha ancora corso la figura della donna in pericolo, da sempre una delle leve piu' potenti per sollecitare la combattivita' maschile e per costruire la maschera barbarica da sovrapporre all'Altro. Una maschera cosi' essenziale - scrive George Mosse a proposito della grande guerra - che i tabu' destinati a frenare l'iconografia della brutalita' vengono abbandonati: all'epoca circolano in quantita' le cartoline che rappresentano il nemico coperto di escrementi e con gli organi sessuali bene in vista, o che illustrano stupri e sodomie.

Le allusioni a una presunta violenza subita da Jessica Lynch hanno una lunga storia. E ha una lunga storia lo stereotipo-base, secondo cui donne e guerra sono reciprocamente incompatibili. Saggio stereotipo, se si decidesse di farne il primo passo verso il riconoscimento che l'inconciliabilita' riguarda ogni essere vivente.

 

3. RIFLESSIONE. TZVETAN TODOROV: DEL POTERE, DELLA LIBERTA', DEI LIMITI

[Riprendiamo il seguente articolo dal quotidiano "La Stampa" del 12 aprile 2011 col titolo "Liberta' della volpe e liberta' delle galline" e il sommario "Dopo il secolo dei totalitarismi, un nuovo mostro tirannico: l'individualismo senza freni che distrugge la societa'".

Tzvetan Todorov, nato a Sofia nel 1939, a Parigi dal 1963. Muovendo da studi linguistici e letterari e' andato sempre piu' lavorando su temi antropologici e di storia della cultura e su decisive questioni morali. Riportiamo anche il seguente brano dalla scheda dedicata a Todorov nell'Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche: "Dopo i primi lavori di critica letteraria dedicati alla poetica dei formalisti russi, l'interesse di Todorov si allarga alla filosofia del linguaggio, disciplina che egli concepisce come parte della semiotica o scienza del segno in generale. In questo contesto Todorov cerca di cogliere la peculiarita' del 'simbolo' che va interpretato facendo ricorso, accanto al senso materiale dell'enunciazione, ad un secondo senso che si colloca nell'atto interpretativo. Ne deriva l'inscindibile unita' di simbolismo ed ermeneutica. Con La conquista dell'America, Todorov ha intrapreso una ricerca sulla categoria dell'"alterita'" e sul rapporto tra individui appartenenti a culture e gruppi sociali diversi. Questo tema, che ha la sua lontana origine psicologica nella situazione di emigrato che Todorov si trova a vivere in Francia, trova la sua compiuta espressione in un ideale umanistico di razionalita', moderazione e tolleranza". Tra le opere di Tzvetan Todorov: (a cura di), I formalisti russi. Teoria della letteratura e del metodo critico, Einaudi, Torino 1968, 1977; (a cura di, con Oswald Ducrot), Dizionario enciclopedico delle scienze del linguaggio, Isedi, Milano 1972; La letteratura fantastica, Garzanti, Milano 1977, 1981; Teorie del simbolo, Garzanti, Milano 1984; La conquista dell'America. Il problema dell'"altro", Einaudi, Torino 1984, 1992; Critica della critica, Einaudi, Torino 1986; Simbolismo e interpretazione, Guida, Napoli 1986; Una fragile felicita'. Saggio su Rousseau, Il Mulino, Bologna 1987, Se, Milano 2002; (con Georges Baudot), Racconti aztechi della conquista, Einaudi, Torino 1988; Poetica della prosa, Theoria, Roma-Napoli 1989, Bompiani, Milano 1995; Michail Bachtin. Il principio dialogico, Einaudi, Torino 1990; La deviazione dei lumi, Tempi moderni, Napoli 1990; Noi e gli altri. La riflessione francese sulla diversita' umana, Einaudi, Torino 1991; Di fronte all'estremo, Garzanti, Milano 1992 (ma cfr. la seconda edizione francese, Seuil,  Paris 1994); I generi del discorso, La Nuova Italia, Scandicci (Firenze) 1993; Una tragedia vissuta. Scene di guerra civile, Garzanti, Milano 1995; Le morali della storia, Einaudi, Torino 1995; Gli abusi della memoria, Ipermedium, Napoli 1996; L'uomo spaesato. I percorsi dell'appartenenza, Donzelli, Roma 1997; La vita comune, Pratiche, Milano 1998; Le jardin imparfait, Grasset, 1998; Elogio del quotidiano. Saggio sulla pittura olandese del Seicento, Apeiron, 2000; Elogio dell'individuo. Saggio sulla pittura fiamminga del Rinascimento, Apeiron, 2001; Memoria del male, tentazione del bene, Garzanti, Milano 2001; Il nuovo disordine mondiale, Garzanti, Milano 2003; Benjamin Constant. La passione democratica, Donzelli, Roma 2003; Lo spirito dell'illuminismo, Garzanti, Milano 2007; La letteratura in pericolo, Garzanti, Milano 2008, 2011; La paura dei barbari, Garzanti, Milano 2009; La bellezza salvera' il mondo, Ganzanti, Milano 2010 (tra esse segnaliamo particolarmente Memoria del male, tentazione del bene, Garzanti, Milano 2001: un'opera che ci sembra fondamentale)]

 

Perche' un potere sia legittimo, non basta sapere com'e' stato conquistato (ad esempio con libere elezioni o un colpo di Stato), occorre ancora vedere in che modo viene esercitato. Fra poco saranno tre secoli dacche' Montesquieu ha formulato una regola per guidare il nostro giudizio: "Ogni potere senza limiti non puo' essere legittimo". Le esperienze totalitarie del XX secolo ci hanno resi particolarmente sensibili ai misfatti di un potere statale illimitato, in grado di controllare ogni atto di ogni cittadino.

In Europa questi regimi appartengono al passato ma, nei Paesi democratici, restiamo sensibili alle interferenze del governo negli affari giudiziari o nella vita dei media, perche' queste hanno come effetto la soppressione di ogni limite posto al suo potere. I ripetuti attacchi del Presidente francese o del premier italiano ai magistrati e ai giornalisti sono una dimostrazione di questo pericolo. Tuttavia lo Stato non e' l'unico a detenere poteri all'interno di una societa'. All'inizio di questo XXI secolo, in Occidente, lo Stato ha perso buona parte del suo prestigio, mentre e' diventato una minaccia l'ampio potere che detengono alcuni individui, o gruppi di individui. Eppure questa minaccia passa inosservata, perche' questo potere si orna di un bel nome, di cui tutti si fanno forti: liberta'. La liberta' individuale e' un valore in crescita, i difensori del bene comune oggi sembrano arcaici.

Come si sia prodotto questo capovolgimento, lo si vede bene nei Paesi ex comunisti dell'Europa dell'Est. L'interesse collettivo oggi e' sospetto: per nascondere le sue turpitudini, il regime precedente l'aveva invocato cosi' spesso che piu' nessuno lo prende sul serio, lo si considera una maschera ipocrita. Se il solo motore del comportamento e' in ogni caso la ricerca del profitto e la sete di potere, se la lotta senza pieta' e la sopravvivenza del piu' adatto sono le dure leggi dell'esistenza, tanto vale smetterla di fingere e accettare apertamente la legge della giungla. Questa rassegnazione spiega perche' gli ex burocrati comunisti abbiano saputo rivestire, con una facilita' sconcertante, gli abiti nuovi dell'ultraliberismo.

A migliaia di chilometri di li', negli Stati Uniti, in un contesto storico completamente diverso, si e' sviluppato da poco il movimento del Tea Party, il cui programma inneggia alla liberta' illimitata degli individui e rifiuta qualunque controllo del governo: esige di ridurre drasticamente le tasse e qualunque altra forma di redistribuzione delle ricchezze. Le sole spese comuni accettate riguardano l'esercito e la polizia, cioe' ancora la sicurezza degli individui. Chiunque si opponga a questa visione del mondo viene trattato da criptocomunista! Il paradosso e' che questa visione si rifa' alla religione cristiana, mentre questa, in accordo con le altre grandi tradizioni spirituali, raccomanda di curarsi dei deboli e dei miserabili.

Si passa, in questi casi, da un estremo all'altro, dal tutto-Stato totalitario al tutto-individuo ultraliberale, da un regime liberticida a un altro, di spirito "sociocida", per cosi' dire. Ora il principio democratico vuole che tutti i poteri siano limitati: non solo quelli degli Stati, ma anche quelli degli individui, anche quando rivestono i vecchi abiti della liberta'. La liberta' delle galline di attaccare la volpe e' uno scherzo, perche' non ne hanno la capacita': la liberta' della volpe e' pericolosa perche' e' la piu' forte. Attraverso le leggi e le norme che stabilisce, il popolo sovrano ha tutto il diritto di restringere le liberta'. Questa limitazione non tocca allo stesso modo tutta la popolazione: idealmente, limita coloro che hanno gia' molto potere e protegge chi ne ha molto poco.

Il potere economico e' il primo dei poteri nelle mani degli individui. Lo scopo di un'impresa e' generare profitti, senza i quali e' condannata a sparire. Ma al di fuori dei loro interessi particolari, gli abitanti di un Paese hanno anche interessi comuni, ai quali le imprese non contribuiscono spontaneamente. Tocca allo Stato liberare le risorse necessarie a prendersi cura dell'esercito e della polizia, dell'educazione e della salute, dell'apparato giudiziario e delle infrastrutture. O della protezione della natura: la famosa mano invisibile attribuita ad Adam Smith non serve a molto, in questi casi. Lo si e' visto con la marea nera nel Golfo del Messico, nella primavera 2010: lasciate senza controllo, le compagnie petrolifere cercano i materiali da costruzione poco costosi e dunque poco affidabili. Di fronte allo smisurato potere economico di individui o di gruppi di individui, il potere politico si rivela spesso troppo debole.

La liberta' di espressione a volte viene presentata come il fondamento della democrazia, e per questa ragione non deve conoscere freni. Ma si puo' dire che e' indipendente dal potere di cui dispone? Non basta avere il diritto di esprimersi, occorre anche averne la possibilita'; se non c'e', questa "liberta'" non e' che una parola vuota. Tutte le informazioni, tutte le opinioni non vengono accettate con la stessa facilita' nei grandi media. Ora la libera espressione dei potenti puo' avere conseguenze funeste per i senza-voce: viviamo in uno stesso mondo. Se si ha la liberta' di dire che tutti gli arabi sono degli islamisti non assimilabili, essi non hanno piu' quella di trovare lavoro e neppure di camminare per strada senza essere controllati.

La parola pubblica, un potere tra gli altri, a volte deve essere limitata. Dove trovare il criterio che permetta di distinguere le limitazioni buone da quelle cattive? Soprattutto nel rapporto di potere tra chi parla e colui di cui si parla. Non si ha lo stesso merito se si combattono i potenti del momento o si indica al risentimento popolare un capro espiatorio. Un organo di stampa e' infinitamente piu' debole dello Stato, non c'e' dunque ragione di limitare la sua liberta' di espressione quando lo critica, purche' la metta al servizio della liberta'.

Quando il sito Mediapart rivela una collusione tra poteri economici e responsabili politici, il suo gesto non ha nulla di "fascista", qualunque cosa dicano quelli che sono presi di mira. Le "fughe di notizie" di WikiLeaks nulla hanno di totalitario: i regimi comunisti rendevano trasparente la vita dei deboli, non quella dello Stato. In compenso, un organo di stampa e' piu' potente di un individuo e il "linciaggio mediatico" e' un abuso di potere.

I difensori della liberta' d'espressione illimitata ignorano la distinzione tra potenti e impotenti, il che permette loro di coprirsi da soli di alloro. Il redattore del quotidiano danese "Jyllands-Posten", che nel 2005 aveva pubblicato le caricature di Maometto, cinque anni dopo torna sulla questione e modestamente si paragona agli eretici del Medioevo bruciati sul rogo, a Voltaire nemico della Chiesa onnipotente o ai dissidenti oppressi dalla polizia sovietica. Decisamente la figura della vittima esercita oggi un'attrazione irresistibile! Cio' facendo, il giornalista dimentica che quei coraggiosi praticanti della liberta' di espressione si battevano contro i detentori del potere spirituale e temporale del loro tempo, non contro una minoranza discriminata.

Porre limiti alla liberta' di espressione non significa sostenere la censura, ma fare appello alla responsabilita' dei padroni dei media. La tirannia degli individui e' certamente meno sanguinosa di quella degli Stati; eppure anch'essa e' un ostacolo a una vita comune soddisfacente. Nulla ci obbliga a rinchiuderci nella scelta tra "tutto-Stato" e "tutto-individuo": abbiamo bisogno di difenderli entrambi, e che ciascuno limiti gli abusi dell'altro.

 

4. RIFLESSIONE. STEFANO MONTEFIORI INTERVISTA TZVETAN TODOROV

[Riprendiamo la seguente intervista dal "Corriere della sera" del 12 aprile 2011 col titolo "Temo il messianismo politico. Come Goya" e il sommario "Tzvetan Todorov: l'ambizione di estirpare totalmente il Male e' molto rischiosa".

Stefano Montefiori, giornalista, lavora al "Corriere della sera"]

 

Dalla Spagna del 1808 alla Libia del 2011, molto e' cambiato ma non la voglia di edulcorare la violenza delle armi con nobili motivazioni.

Ecco perche' secondo il filosofo Tzvetan Todorov, nato a Sofia 72 anni fa e parigino di adozione, per capire le guerre, compresa quella condotta dalla Nato in questi giorni tra Tripoli e Bengasi, basta rifarsi a Goya. "Non fu solo un grande pittore, ma un intellettuale che riusci' a riflettere in modo profondo su quel che succedeva intorno a lui - dice Todorov, autore di "Goya a' l'ombre des Lumieres" -. Era molto influenzato dagli illuministi spagnoli di fine Settecento, e assistette all'invasione della Spagna da parte delle truppe napoleoniche che combattevano, almeno in teoria, in nome dei diritti dell'uomo e degli ideali dei Lumi. Lo spettacolo delle atrocita' commesse sia dai francesi sia dai guerriglieri spagnoli lo fece ragionare sulla guerra. Fu cosi' in anticipo sui suoi tempi che possiamo considerarlo un contemporaneo".

Nella raccolta di incisioni "I disastri della guerra" Goya mostra pile di corpi, combattenti delle due parti gettati nelle fosse comuni, fucilazioni sommarie. "I francesi incontrarono una resistenza durissima, fu in quei giorni del resto che venne coniata la parola guerrilla. Gli spagnoli combattevano per patriottismo e per fedelta' ai valori tradizionali della religione, i francesi in nome della ragione e di liberta', fratellanza e uguaglianza. Gli orrori pero' erano gli stessi. Goya scelse di schierarsi non contro una parte o l'altra, ma contro la guerra".

Una posizione che oggi viene ripresa da Tzvetan Todorov a proposito degli interventi in Libia e anche in Costa d'Avorio, giustificati dalla necessita' di difendere i diritti dell'uomo proteggendo le popolazioni civili. "Credo che purtroppo la guerra abbia una sua logica interna, che le impedisce di restare cosi' circoscritta e chirurgica come sostiene chi la propone. Prima del 19 marzo le truppe di Gheddafi stavano per eseguire un massacro a Bengasi, ci ha ripetuto il presidente Sarkozy per convincere l'Occidente a intervenire. Sono stati allora legittimi i primi bombardamenti, quelli che hanno fermato l'avanzata del regime. Ma poi l'intervento pseudo-umanitario si e' trasformato in un'altra cosa".

*

- Stefano Montefiori: L'Occidente viene spesso criticato per la sua inazione, per la tentazione di stare a guardare mentre a pochi chilometri di distanza, in questo caso nella sponda sud del Mediterraneo, i carri armati soffocano il desiderio di liberta'. Lei oggi critica il protagonismo di Sarkozy, ma prima dell'intervento il presidente francese e l'Europa venivano accusati di cinico disinteresse e di appeasement con i dittatori.

- Tzvetan Todorov: E' un riflesso intellettuale in voga in Francia, quello di accusare chi si dice contrario alla guerra ricordandogli gli accordi di Monaco del 1938, che permisero a Hitler di guadagnare posizioni nella conquista dell'Europa. Non e' la stessa cosa, e io non dico che tutte le guerre sono ingiuste. Le guerre difensive, come quella degli Alleati nel 1939-1945, sono legittime. E le guerre per impedire un genocidio acclarato. Ma in questi casi l'Occidente non si nuove mai. Fu il Vietnam a fermare la carneficina operata dai Khmer rossi in Cambogia. E sono stati i ruandesi alleati con l'Uganda a porre fine al massacro in Ruanda.

*

- Stefano Montefiori: Eppure il fatto che i diritti dell'uomo siano tornati un vessillo dell'Occidente e' forse positivo.

- Tzvetan Todorov: No, lo trovo invece molto rischioso. Siamo davanti a una nuova fase di messianismo politico. La prima e' appunto quella napoleonica, dipinta da Goya. La seconda ondata messianica e' stata quella del comunismo, che prometteva di portare la liberazione alle masse con l'Armata rossa, a cominciare dai piccoli Paesi europei al confine con la Russia. E ora assistiamo al terzo risveglio del messianismo politico: la prima guerra del Golfo e' stato un rodaggio, l'intervento in Kosovo, senza mandato dell'Onu, la prova generale, ed ecco poi Afghanistan, Iraq, oggi Libia. In fondo, cos'e' la guerra in Afghanistan, se non la riproposizione duecento anni dopo dello scontro tra illuminati e tradizionalisti, napoleonici e conservatori e patrioti spagnoli che oggi chiameremmo talebani?.

*

- Stefano Montefiori: I dipinti di Goya come le foto su Internet di Abu Ghraib. Ma e' possibile un no filosofico, assoluto, alla guerra? - Tzvetan Todorov: No, e non credo sarebbe un bene. L'ambizione di estirpare totalmente il Male sarebbe ancora piu' dannosa: e' la funzione del peccato originale, ricordarci, come diceva Romain Gary, che esiste una "parte inumana dell'umanita'". Dobbiamo pero' cercare di limitare al massimo le guerre non inevitabili. Come quella in Libia, per esempio.

 

5. PROFILI. MATTEO M. VECCHIO: PIERA BADONI

[Dal sito www.enciclopediadelledonne.it

Matteo M. Vecchio, "nato a Milano nel 1982, e' insegnante liceale. Svolge attualmente attivita' di ricerca presso i Dipartimenti di Italianistica delle Universita' di Firenze, Paris IV e Bonn"]

 

Piera Badoni (Lecco 1912 - 1989).

"Sono una donna che si sta formando

come la luna

e quando sara' piena il suo chiarore

si stendera' pacato

sulle facciate bianche delle case.

Dentro tu dormirai senza sapere

quante lacrime ho pianto".

Piera Badoni nasce a Lecco nel 1912, terzogenita di Giuseppe Riccardo, industriale siderurgico, e di Adriana Molteni. L'infanzia e' felice, vissuta, entro la geografia dell'ampio giardino e della dimora paterni, insieme al fratello Antonio e alle sorelle Laura (futura allieva di Giuseppe Antonio Borgese), Sofia (che sara' architetto e redattrice di "Domus") e Rosa. Nel 1918 muore la madre, in seguito a un attacco di influenza spagnola; il padre si risposera' con Emilia Gattini, dalla quale avra' altre sette figlie.

Terminato il liceo non si iscrive all'universita', ma intraprende un personale percorso formativo fatto di importanti letture: tra i suoi autori, Mann, Gide, Quasimodo, Montale, Luzi, Sereni, Antonia Pozzi. Al 1933 risale il soggiorno di nove mesi a Francoforte, dove perfeziona la lingua tedesca; tornata a Lecco, entra, come impiegata, nell'azienda paterna, presso la quale lavorera' per tutta la vita. Alcuni lutti, tra la fine degli anni Trenta e gli anni Quaranta, come la scomparsa del marito della sorella Sofia, l'architetto e scultore Giuseppe Mazzoleni, morto in seguito a un incidente accaduto durante il viaggio di nozze, e del fratello, disperso in guerra nel canale di Sicilia, incidono solchi profondi nella routine familiare avvertibili anche nella poesia di Piera. Durante alcuni soggiorni a Firenze conosce Antonio Delfini, Eugenio Montale, Alessandro Parronchi, Carlo Bo; a Milano frequenta, insieme alla sorella Sofia, Camilla Cederna, Emilio Radius, Giancarlo Vigorelli, Vittorio Sereni. Con molti di essi intrattiene, insieme alla sorella Sofia, legami di amicizia favoriti da costanti scambi epistolari e incontri, a Milano, Firenze (citta'-cardine della geografia poetica di Piera), Forte dei Marmi e Lecco. Camilla Cederna ricorda i vasetti di marmellata che Piera le affidava affinche' li portasse in dono a Montale, a Firenze.

Le prime liriche risalgono alla prolungata permanenza a Bologna del 1938, insieme alla sorella Sofia, durante il ricovero di Giuseppe Mazzoleni presso l'Istituto Ortopedico Rizzoli; la prima e unica raccolta organica compare dieci anni dopo, in edizione privata, presso la Tipografia Sormani di Milano, con il titolo Felicita', che pure esisti. Sara' Luciano Anceschi a citare, nell'articolo del 1951 pubblicato su "aut aut", "Poesia 'in re', poesia 'ante rem'", versi di Piera Badoni, accostandola ad Antonia Pozzi, pur non includendo, l'anno successivo, ne' l'una ne' l'altra nell'antologia Linea lombarda - omissione che sarà notata da Pier Paolo Pasolini.

In seguito alla pubblicazione del volume Piera Badoni continua a dedicarsi privatamente alla poesia e a intrattenere contatti epistolari. Nel 1968 pubblica un corpus di dieci poesie su una rivista lecchese, "Terzo ponte", tra le quali una dedicata alla memoria del fratello disperso. A partire dagli anni Sessanta la vocazione di Piera alla scrittura come esercizio di memoria lentamente si dirada, pur non venendo mai meno ne' estinguendosi.

Muore a Lecco, colta da malore sulla soglia della casa paterna nella quale ha sempre vissuto, la sera del 27 ottobre 1989. Aveva scritto, nel proprio diario, poco prima, "oggi tutto e' andato bene".

"Adesso lascia che ti dica quanto m'incantino i versi di P[iera]. e sopra tutto: "noi non sappiamo se sia / segno d'un vortice appena nato / o d'una tempesta oltre il mare". E' come se uno di noi due avesse parlato del sorriso di B., come se io avessi voluto spiegare il limpido e funesto dell'ultima poesia di Frontiera. Qui dentro c'e' il nostro modo di guardare le cose, superando le impressioni e la facile grazia dell'incanto momentaneo. E quel sorriso e' proprio un sorriso lombardo, con la sua oscura e remotissima origine. Dille - ti prego - quanto io li ammiri. E grazie a te di avermeli fatti conoscere" (Vittorio Sereni a Giancarlo Vigorelli, lettera del 6 marzo 1941, cit. in Dante Isella, Giornale di "Frontiera", Archinto, Milano 1991, p. 50).

Bibliografia: Piera Badoni, Felicita', che pure esisti, Milano, Sormani, 1948; Dieci liriche inedite di Piera Badoni, in "Terzo Ponte. Bimestrale di cultura e vita locale", Lecco, IV, 1-2, gennaio-aprile 1968, pp. 32-33; Piera Badoni, Felicita', che pure esisti, a cura di Alba Caprile, Periplo, Lecco, 1998 (II edizione accresciuta); Piera Badoni, Antonio Delfini. Carteggio inedito (1942-1945), in stampa per la cura di Matteo M. Vecchio su "Paragone Letteratura"; l'edizione critica dell'intero corpus poetico di Piera Badoni, a cura di Matteo M. Vecchio, e' in preparazione. Luciano Anceschi, "Poesia 'in re', poesia 'ante rem'", in "aut aut", I, 6, novembre 1951, pp. 475-491, poi confluito in Id., Di una possibile poetica lombarda. Prefazione a Id., Linea lombarda. Sei poeti, Varese, Magenta Editrice, 1952; Pier Paolo Pasolini, Implicazioni di una "linea lombarda", 1954, in Id., Passione e ideologia (1948-1958), ora in Id., Saggi sulla letteratura e sull'arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, Milano, I Meridiani, Mondadori 1999; Camilla Cederna, Il galateo di monsignor Eusebio, in "L'Espresso", 2 giugno 1968, p. 11; Carlo Bo, Piera Badoni: la poetessa che piaceva a Montale, in "Gente", 13 marzo 1999, p. 100; Folco Portinari, Donne e poesia, in "L'immaginazione", 156, aprile 1999, pp. 29-30 (recensione a Piera Badoni, Felicita', che pure esisti, Lecco, Periplo, 1998, e a Antonia Pozzi, Parole, Milano, Garzanti 1998)

 

6. PROFILI. MATTEO M. VECCHIO: DARIA MENICANTI

[Dal sito www.enciclopediadelledonne.it

Daria Menicanti, insegnante, traduttrice, saggista, e' stata una fine poetessa]

 

Daria Menicanti (Piacenza 1914 - Mozzate (Como) 1995).

"Mai ti perdoneranno il tuo non fare

comunella con gli altri, il tuo non essergli

uguale.

E questo soprattutto: amare

piu' che gli uomini la verita'".

(Daria Menicanti, Epigramma per un filosofo [aprile 1965, a G. P.], in Ead., Un nero d'ombra , Milano, Mondadori, 1969, p. 110).

Daria Menicanti nasce, ultima di quattro figli, nel 1914 a Piacenza da padre toscano e madre fiumana. Trasferitasi la famiglia a Milano, Daria frequenta il Liceo Ginnasio Berchet, dove sostiene l'esame di maturita' nel luglio 1932. Si iscrive alla Facolta' di Lettere e Filosofia, e ha come docenti Antonio Banfi, Adelchi Baratono, Luigi Castiglioni, Mario Hazon e come compagni di corso Enzo Paci, Vittorio Sereni, Antonia Pozzi, Luciano Anceschi. Con Banfi, che Daria ritiene, insieme a Baratono, fondamentale per la propria formazione, si laurea nel luglio 1937 discutendo una tesi dedicata all'analisi della poetica e della poesia di John Keats. Allo stesso anno, oltre all'abilitazione all'insegnamento medio (Daria sara' per tutta la vita insegnante), conseguita nell'autunno, risale il matrimonio con Giulio Preti (1911-1972), dal quale si separa negli anni Cinquanta, pur mantenendo un fortissimo e tenace legame di affetto, di stima e di amicizia: piu' o meno esplicito dedicatario e oggetto di molte intense poesie; e conteranno nella sua vita gli amici Vittorio Sereni ed Enzo Paci, cui si aggiungeranno, negli anni successivi, Lalla Romano (con la quale condivide la pratica della pittura, che in Daria si accosta sempre di piu' a quella della poesia), Manlio Cancogni, Marco Marchi, Silvio Raffo, Lulli Paci (che di Daria, insieme a Maria Teresa "Pigot" Sereni, e' allieva privata di greco), Fabio Minazzi.

Agli anni Trenta, gli anni della formazione universitaria, risalgono le prime prove poetiche, poi ripudiate, inclini ai modi dell'ermetismo; Daria, sulla scia della mediazione banfiana, li definira' asfittici. Nonostante il ripudio di queste prime prove inadeguate a esprimere la propria indole toscana "ridente e piangente" (della quale, in una intervista del 1993 pubblicata nel numero di febbraio 1995 di "Poesia", rivendica la diversita' rispetto a quella, per esempio, dell'amico Sereni), continua a scrivere in segreto. Soltanto nel 1964, presso Mondadori, esce la sua prima raccolta poetica, Citta' come (premio Carducci 1965), alla quale seguiranno, sempre per Mondadori, Un nero d'ombra (1969) e Poesie per un passante (1978); per Forum/Quinta generazione (Forli'), esce nel 1986 Altri amici; per Lunarionuovo (Acireale), Ferragosto, nel 1986; per Scheiwiller, nel 1990, Ultimo quarto, con una nota di Lalla Romano.

Intensa e' anche l'attivita' di traduzione dall'inglese (e, secondo la testimonianza di Francesca Romana Lulli Paci, figlia di Enzo, Daria e' anche ottima grecista e latinista, in grado di comporre esametri latini): a partire dalla fine degli anni Trenta traduce John Henry Muirhead, Filosofi inglesi contemporanei (introduzione di Antonio Banfi, Milano, Bompiani, 1939); di Paul Nizan, Aden Arabia (Milano, Mondadori, 1961) e La cospirazione (ivi, 1980); di Noel Coward, Amore e protocollo (Milano, Club degli Editori, 1962); di Jean Paris, James Joyce (Milano, Il Saggiatore, 1966); di Betty Smith, Al mattino viene la gioia (Milano, Mondadori, 1967); di Paul Geraldy, Toi et moi (ivi, 1978); di Sylvia Plath, La campana di vetro (ivi, 1979). Sue poesie sono inoltre presenti in molte antologie, tra cui Donne in poesia, curata da Biancamaria Frabotta per Savelli nel 1976.

L'impronta dell'innovativa cultura dalla cifra europea ricevuta negli anni Trenta presso l'Universita' di Milano emerge dalla poliedrica attivita' di Daria Menicanti: e' poetessa secondo modi inclini e alla riflessione filosofica; traduttrice, aderendo a una tensione generazionale (si pensi al Vittorio Sereni di Frontiera), rivolge la propria attenzione verso le contemporanee letterature straniere. Soprattutto, a connotare la sua scrittura e a distanziarla da altre esperienze coeve, e' la lucidita', che si rivela anche a livello tecnico, della riflessione e della scrittura che la sostiene. Poesia che, pur apparentemente distante rispetto alla temperie storica e politica, intende dare ascolto a tutta la realta', animali e piante compresi, presenze peraltro insostituibili nella vita di Daria.

Muore, per un tumore alla gola, in una casa di cura di Mozzate, tra Varese e Como, il 4 gennaio 1995. Lalla Romano le dedica un appassionato contributo che appare sul "Corriere della Sera" del 20 gennaio, sostenendo che gia' a partire dalla sua prima raccolta: "Daria aveva maturato una voce nuova, moderna e classica, per niente alla moda, ma libera e anche audace".

Bibliografia: Daria Menicanti, Citta' come, Milano, Mondadori, 1964; Daria Menicanti, Un nero d'ombra, Milano, Mondadori, 1969; Daria Menicanti, Poesie per un passante, Milano, Mondadori, 1978; Daria Menicanti, Altri amici, Forli', Forum/Quinta Generazione, 1986; Daria Menicanti, Ferragosto, Acireale, Lunarionuovo, 1986; Daria Menicanti, Ultimo quarto, con una nota di Lalla Romano, Milano, Scheiwiller, 1990; Matteo M. Vecchio (a cura di), con una nota di Silvio Raffo, "Due racconti inediti di Daria Menicanti: 'Il nonno', 'Marta'", in "Studi Italiani", a. XXI, n. 42, fasc. 2, luglio-dicembre 2009, pp. 81-91.

 

7. PROFILI. MATTEO M. VECCHIO: ANTONIA POZZI

[Dal sito www.enciclopediadelledonne.it

Antonia Pozzi nacque a Milano nel 1912, poetessa di straordinaria cultura e sensibilita', si tolse la vita nel 1938. Dalla Wikipedia, edizione italiana, anni fa abbiamo ripreso per stralci la seguente notizia biografica: "Antonia Pozzi (Milano, 13 febbraio 1912 - Milano, 3 dicembre 1938) e' stata una poetessa italiana. Figlia di Roberto, importante avvocato milanese, e della contessa Lina Cavagna Sangiuliani, nipote di Tommaso Grossi, scrive le prime poesie ancora adolescente. Studia nel liceo classico 'Manzoni' di Milano, dove inizia con il suo professore di latino e greco, Antonio Maria Cervi, una relazione che, a causa dei pesanti ostacoli frapposti dalla famiglia Pozzi, verra' interrotta dal Cervi nel 1933, procurandole la depressione - 'e tu sei entrata / nella strada del morire', scrive di se' in quell'anno - che contribuira' a condurla al suicidio. Nel 1930 si iscrive alla facolta' di filologia dell'Universita' statale di Milano, frequentando coetanei quali Vittorio Sereni, suo amico fraterno, Enzo Paci, Luciano Anceschi, Remo Cantoni, le lezioni del germanista Vincenzo Errante e del docente di estetica Antonio Banfi, forse il piu' aperto e moderno docente universitario italiano del tempo, col quale si laurea nel 1935 discutendo una tesi su Gustave Flaubert. Tiene un diario e scrive lettere che manifestano i suoi tanti interessi culturali, coltiva la fotografia, ama le lunghe escursioni in bicicletta, progetta un romanzo storico sulla Lombardia, conosce il tedesco, il francese e l'inglese, viaggia, pur brevemente, oltre che in Italia, in Francia, Austria, Germania e Inghilterra, ma il suo luogo prediletto e' la settecentesca villa di famiglia, a Pasturo, ai piedi delle Grigne, dove e' la sua biblioteca e dove studia, scrive e cerca un sollievo nel contatto con la natura solitaria e severa della montagna. Di questi luoghi si trovano descrizioni, sfondi ed echi espliciti nelle sue poesie; mai invece degli eleganti ambienti milanesi, che pure conosceva bene. La grande italianista Maria Corti, che la conobbe all'Universita', disse che 'il suo spirito faceva pensare a quelle piante di montagna che possono espandersi solo ai margini dei crepacci, sull'orlo degli abissi. Era un'ipersensibile, dalla dolce angoscia creativa, ma insieme una donna dal carattere forte e con una bella intelligenza filosofica; fu forse preda innocente di una paranoica censura paterna su vita e poesie. Senza dubbio fu in crisi con il chiuso ambiente religioso familiare. La terra lombarda amatissima, la natura di piante e fiumi la consolava certo piu' dei suoi simili'. Avverte certamente il cupo clima politico italiano ed europeo: le leggi razziali del 1938 colpiscono alcuni dei suoi amici piu' cari; "forse l'eta' delle parole e' finita per sempre", scrive quell'anno a Sereni. Nel suo biglietto di addio ai genitori scrive di disperazione mortale e si uccide con i barbiturici. La famiglia neghera' la circostanza 'scandalosa' del suicidio, attribuendo la morte a polmonite; il suo testamento fu pero' distrutto dal padre, che manipolo' anche le sue poesie, scritte su quaderni e allora ancora tutte inedite; la storia d'amore con il Cervi sara' falsamente descritta come una relazione platonica. E' sepolta nel piccolo cimitero di Pasturo, il momumento, un bellissimo Cristo in bronzo, e' opera dello scultore Giannino Castiglioni. Parte dal crepuscolarismo di Sergio Corazzini: 'Appoggiami la testa sulla spalla / che ti carezzi con un gesto lento [...] Lascia ch'io sola pianga, se qualcuno / suona, in un canto, qualche nenia triste' per poi viverlo interiorizzato: 'vivo della poesia come le vene vivono del sangue', scrive, e infatti cerca di esprimere nelle parole l'autenticita' dell'esistenza, non trovando verita' nella propria e, come riservata e rigorosa fu la sua breve vita, cosi' le sue parole, secondo la lezione ermetica, 'sono asciutte e dure come i sassi' o 'vestite di veli bianchi strappati', ridotte al 'minimo di peso', come scrisse Montale, e trasferiscono peso e sostanza alle immagini, per liberarne l'animo oppresso ed effondere il sentimento nelle cose trasfigurate in simbolo. Dall'espressionismo tedesco trae atmosfere desolate e inquietanti: 'le corolle dei dolci fiori/ insabbiate./ Forse nella notte/ qualche ponte verra'/ sommerso./ Solitudine e pianto -/ solitudine e pianto/ dei larici', oppure 'All'alba pallidi vedemmo le rondini/ sui fili fradici immote/ spiare cenni arcani di partenza', o anche 'Petali viola/ mi raccoglievi in grembo/ a sera:/ quando batte' il cancello/ e fu oscura/ la via del ritorno'. La crisi di un'epoca s'incontra con la sua tragedia personale e se, come scrisse in una lettera, 'la poesia ha questo compito sublime: di prendere tutto il dolore che ci spumeggia e ci rimbalza nell'anima e di placarlo, di trasfigurarlo nella suprema calma dell'arte, cosi' come sfociano i fiumi nella celeste vastita' del mare', quel dolore non si placa nella sua poesia ma, come un fiume carsico, ora vi circola sotterraneo e ora emerge e tracima, sommergendo l'espressione poetica nel modo stesso in cui travolse la sua vita. Opere: Tutte le sue opere sono state pubblicate postume. Nelle edizioni piu' recenti e' stata ricostruita la genesi delle sue poesie. Parole, Mondadori, 1939, I ed., 91 poesie; 1943, II ed., 157 poesie; 1948, III ed., 159 poesie; 1964, IV ed., 176 poesie, con prefazione di Eugenio Montale; Flaubert. La formazione letteraria (1830-1865), tesi di laurea, con prefazione di Antonio Banfi, Garzanti, 1940; La vita sognata ed altre poesie inedite, Scheiwiller, a cura di Alessandra Cenni e Onorina Dino, 1986; Diari, introduzione di Alessadra Cenni, a cura di A. Cenni e O. Dino, Scheiwiller, 1988; L'eta' delle parole e' finita, con prefazione di A. Cenni, Lettere (1925-1938), Archinto, 1989; Parole, Garzanti, 1989 e 2001, con prefazione di Alessandra Cenni, a cura di A. Cenni e O. Dino; Pozzi e Sereni. La giovinezza che non trova scampo, a cura di Alessandra Cenni, Scheiwiller, 1988; Mentre tu dormi le stagioni passano..., a cura di Alessandra Cenni e Onorina Dino, Viennepierre, 1998; Poesia, mi confesso con te. Ultime poesie inedite (1929-1933), a cura di Onorina Dino, Viennepierre, 2004; Per troppa vita che ho nel sangue, di Graziella Bernabo', Viennepierre, 2004. Bibliografia critica: A. Cenni, In riva alla vita. Storia di Antonia Pozzi poetessa, Rizzoli, 2002; G. Bernabo', Per troppa vita che ho nel sangue. Antonia Pozzi e la sua poesia, Viennepierre, 2004. Un sito utile: www.antoniapozzi.it"]

 

Antonia Pozzi (Milano 1912 - 1938).

Antonia Pozzi nasce a Milano da Roberto, avvocato, e da Lina Cavagna Sangiuliani, di nobile famiglia lombarda e pronipote di Tommaso Grossi. Risiede a Milano, nei pressi di corso Magenta; sara' pero' Pasturo, in Valsassina (Lecco), dove la famiglia acquista nel 1917 una casa settecentesca, a rappresentare il luogo cardine, per usare le parole di Luciano Anceschi in Linea Lombarda, della sua "geografia lirica".

Compie studi classici presso il Liceo Manzoni, ha una cospicua preparazione musicale, segue lezioni private di disegno e scultura; a partire dalla fine degli anni Venti si dedica alla fotografia e a molti sport: scia, nuota, cavalca, pratica tennis e alpinismo; la circonda una colta cerchia di amici fra i quali Paolo e Piero Treves.

Datano alla fine degli anni Venti l'incontro e il legame con Antonio M. Cervi, docente di latino e greco della Pozzi tra il 1927 e il 1928, e la lettura dell'opera poetica di Annunzio Cervi, fratello di Antonio e poeta, morto in guerra nel 1918. Il rapporto con Antonio Cervi si consolida, ma incontra l'opposizione della famiglia Pozzi, che lo contrasta con decisione, fino alla rottura definitiva, avvenuta nel 1933.

Al 1929 risalgono le prime prove poetiche tradite. Sono anche gli anni in cui stringe significative amicizie, come Elvira Gandini e Lucia Bozzi, le sue migliori amiche. Nel 1930 si iscrive alla facolta' di Lettere e Filosofia dell'ateneo milanese. L'universita' sembra assorbire le sue energie piu' significative e incanalarle entro un alveo di rinnovate, benche' problematiche, sicurezze: esperienze decisive sono per lei la frequentazione dei corsi di Antonio Banfi e la vicinanza dei suoi allievi piu' importanti (Enzo Paci, Remo Cantoni, Alberto Mondadori, Alba Binda; altri compagni e conoscenti sono Luciano Anceschi, Mario Monicelli, Giulio De Padova, Maria Corti, Daria Menicanti); in questi anni le sono inoltre molto vicini Vittorio Sereni, "quell'essere di sesso diverso, cosi' vicino che pare abbia nelle vene lo stesso tuo sangue, che puoi guardare negli occhi senza turbamento, che non ti e' ne' di sopra ne' di fronte, ma a lato, e cammina con te per la stessa pianura" (1), e, a partire dal 1935, Dino Formaggio, anch'essi legati a Banfi.

Nel 1933, in vacanza a San Martino di Castrozza, conosce il poeta trentino Tullio Gadenz. A Gadenz scrive lettere in cui definisce il valore vitale e il significato che la poesia assume per lei. In questi anni esplodono le sue vocazioni: poesia, fotografia, montagna. Benche' abbia una congenita debolezza alle articolazioni, frequenta guide come Oliviero Gasperi, Emilio Comici (che l'affascina per la sua audacia), con i quali compie difficili escursioni; e' lettrice di Guido Rey, che conosce personalmente.

Nel novembre 1935 si laurea discutendo una tesi sulla formazione letteraria di Flaubert. Tra il 1934 e il 1935 si innamora di Remo Cantoni che, convalescente dopo un attacco di tubercolosi, viene ospitato a Pasturo. Si tratta pero' di un rapporto a senso unico, dacche' non si concretizzera' mai in una duratura relazione affettiva. E viaggia: in Inghilterra, nel 1931; in Austria, nell'estate 1936; nel febbraio 1937 a Berlino, Dresda, Praga.

A partire dall'autunno 1937 insegna materie letterarie presso l'Istituto Schiaparelli di Milano, cosa che rappresenta per lei un tentativo di ri-costruzione di se' e di emancipazione dai genitori. Pratica anche, insieme a Lucia Bozzi e a Dino Formaggio, molto volontariato (altro momento formativo) presso la Casa degli Sfrattati di via dei Cinquecento. Durante l'estate del 1938, a Pasturo, oltre a tradurre parzialmente Lampioon di Manfred Hausmann, sperimenta la scrittura in prosa: dopo il tentativo abbozzato nel 1935, intende progettare un romanzo che, ispirato alla vicenda della sua famiglia, sia "la storia della nostra pianura lombarda, e della vita lombarda dal 1870 in poi", ponendovi al centro la nonna Maria Gramignola (chiamata affettuosamente "Nena"). Si tratta, negli intenti almeno, di una storia di luoghi piu' che di persone: la ricostruzione, trasfigurata, della discendenza matrilineare che da Tommaso Grossi porta a Elisa Grossi, a Maria Gramignola, a Lina Cavagna e finalmente a lei. Antonia e' entusiasta: "soltanto da un anno, posso dire, ho cominciato sul serio a vivere. E tu non puoi credere, in questi giorni freschi, dolcissimi, di recupero e di rinnovamento fisico, sotto le foglie delle mie amate piante, quanti pensieri lieti e fattivi mi passano cosi', tra l'ombra e il sole..." (2). All'amica Alba Binda parla anche di Dino Formaggio: "e' cosi' immensa la gioia di aver incontrato un'anima che mi capisce, mi valuta e mi vuol bene proprio unicamente per quella parte di me che io ritengo la migliore e la piu' vera... Credo che il carattere energico e ottimistico di Dino... abbia influito non poco sul mio stato d'animo di ora!" (3). Tuttavia l'estate, trascorsa tra Pasturo e Misurina, sta inesorabilmente scivolando verso l'autunno delle leggi razziali.

Nell'autunno, la promulgazione delle leggi razziali la fa precipitare in una cupa angoscia che dissolve e lacera tutti gli argini difficilmente costruiti. Gli amici o sono costretti a espatriare, come i fratelli Treves, o sono lontani: Elvira, ormai sposata, si e' trasferita in Valtellina e aspetta una bambina; Lucia insegna a Brescia e presto scegliera' la vita claustrale; Sereni, costretto a frequentare un corso ufficiali, e', tra luglio e ottobre, a Fano; Paolo e Piero Treves, dopo la promulgazione delle leggi razziali, emigrano in Inghilterra. La sera del primo dicembre assiste a un concerto della Societa' del Quartetto; ci sono anche Elvira e Lucia. Durante l'intervallo incontra Banfi, che le domanda del lavoro di rielaborazione del Flaubert in vista della sua pubblicazione; Antonia risponde: "Ci vorra' tempo ancora... molto e' da rifare, e mi sto rifacendo anch'io" (4). Incontra anche Dino Formaggio, cui rivolge presumibilmente la disperata richiesta di una relazione piu' profonda. Dino le fa capire quanto sia per lui importante il loro rapporto d'affetto, che tuttavia non sarebbe mai diventato d'amore.

La mattina del 2 dicembre 1938 va regolarmente a scuola; i ragazzi la scorgono pero' piangere sommessamente. Verso le 11 accusa un "malore"; saluta i suoi allievi sollecitandoli a "essere buoni" e si dirige a Chiaravalle, nella periferia milanese, meta di comuni gite in bicicletta e di pomeriggi di studio. Si sdraia in un prato, e, assunta una dose massiccia di barbiturici, si lascia morire. Un contadino la scorge e da' l'allarme; viene portata al Policlinico ma, ormai agonizzante, e' ricondotta a casa la sera del 3 dicembre. Muore quella stessa sera. Lascia tre messaggi: uno, brevissimo, per Sereni, scritto su un foglio dove aveva precedentemente trascritto una poesia dell'amico, "Diana"; un altro per Formaggio; un altro ancora per i genitori: "cio' che mi e' mancato e' stato un affetto fermo, costante, fedele, che diventasse lo scopo e riempisse tutta la mia vita... Fa parte di questa disperazione mortale anche la crudele oppressione che si esercita sulle nostre giovinezze sfiorite... Direte alla Nena che e' stato un male improvviso, e che l'aspetto. Desidero di essere sepolta a Pasturo, sotto un masso della Grigna, fra cespi di rododendro. Mi ritroverete in tutti i fossi che ho tanto amato. E non piangete, perche' ora io sono in pace. La vostra Antonia". I funerali si svolgono il giorno 5 a Milano e il giorno 6 a Pasturo, dove e' sepolta. Per i prati spazzati da un forte vento di tramontana si snoda un interminabile corteo di persone, conoscenti e amici, ad accompagnarla "all'altra riva, ai prati / del sole", come lei stessa aveva scritto, il 3 dicembre 1934, in "Funerale senza tristezza".

*

Note

1. Antonia Pozzi, lettera a Vittorio Sereni, Pasturo 20 giugno 1935, in Ead., L'eta' delle parole e' finita. Lettere, a cura di Alessandra Cenni e Onorina Dino, Archinto, Milano 20022, p. 193.

2. Ead., lettera ad Alba Binda, Pasturo 7 luglio 1938, ibidem, p. 252.

3. Ibidem, p. 254.

4. Cit. Antonio Banfi, premessa a Antonia Pozzi, Flaubert. La formazione letteraria, Garzanti, Milano 1940.

*

Sito dedicato ad Antonia Pozzi con ampia bibliografia delle edizioni delle sue poesie: www.antoniapozzi.it

 

8. PROFILI. MATTEO M. VECCHIO: CATHERINE POZZI

[Dal sito www.enciclopediadelledonne.it]

 

Catherine Pozzi (Parigi 1882 - 1934).

Scrittrice "notturna" (vicina tuttavia alla "notte oscura" dei mistici), intellettuale poliedrica (coltivo' anche interessi scientifici), poliglotta e traduttrice, Catherine Pozzi ha il privilegio di appartenere a una agiata famiglia della borghesia francese. Prima di tre figli, nasce a Parigi, che si stava gia' allora avviando a diventare la capitale europea delle avanguardie artistiche, nel 1882.

Suo padre, Samuel Pozzi, e' uno stimato docente di ginecologia; la madre, Therese Loth-Cazalis, e' un'ereditiera; il loro salotto e' frequentato, tra gli altri, da Marcel Proust. Accanto a una precoce vocazione alla lettura e alla poesia europea, Catherine inizia a studiare pianoforte con Marie Jaelle, allieva di Liszt: a lei, che si rivelera' per la formazione di Catherine figura di primo piano, la poetessa dedica nel 1914 un articolo apparso su "Les Cahiers Alsaciens": "Le probleme de la beaute' musicale et la science du mouvement intelligent. L'oeuvre de Marie Jaelle". In questi stessi anni - formativi dal punto di vista umano e intellettuale - inizia a scrivere in inglese e tedesco e legge l'opera di Taine e di Nietzsche, abbandonando la pratica religiosa cattolica. Dopo alcuni viaggi in Italia e in Inghilterra, sposa nel 1909 il drammaturgo Edouard Bourdet, da cui nascera' il figlio Claude. Si tratta pero' di un rapporto destinato a incrinarsi presto, dacche' Catherine instaura una profonda relazione intellettuale con lo scrittore Andre' Fernet, che sarebbe morto in guerra nel 1916, mentre si presentano in lei i primi sintomi della tubercolosi. L'esistenza della Pozzi, in seguito alla morte di Fernet e alla separazione dal marito, si rivela una teoria di lutti e di sofferenze (tra cui la morte del padre, ucciso da un malato psichico), non esente tuttavia da momenti di pur fugace felicita'. Innamoratasi nel 1920 di Paul Valery, ha un grave sbocco di sangue provocato dal tracollo nervoso indotto dalla relazione; nel 1924 subisce una dolorosa operazione al braccio, mentre l'acuirsi dei sintomi della tubercolosi le rende difficoltoso il movimento degli arti. Inizia a scrivere "Agnes", racconto di chiaro stampo autobiografico; nel 1926 compone "Vale", mentre inizia a studiare biologia, avendo peraltro sempre coltivato spiccati interessi scientifici. Instaura, sempre negli anni Venti, una relazione epistolare con Rainer Maria Rilke e inizia, su invito di Jean Paulhan - figura di spicco della "Nouvelle Revue Francaise" - a tradurre Stefan George e alcuni frammenti orfici. Nel 1928 si consuma l'allontanamento da Valery, ma si amplia la rosa delle amicizie: incontra e conosce, nel 1930, i coniugi Maritain. Sempre attorno al 1930 inizia a comporre "Nova" e, in seguito all'aggravarsi della tubercolosi, "Scopolamina".

La profonda inquietudine che ha accompagnato la Pozzi durante tutta la vita si traduce, negli ultimi anni, in un ritorno alla fede cattolica. Nel 1934, l'anno della morte, sopraggiunta a Parigi il 3 dicembre (come la sua quasi omonima Antonia Pozzi, che sarebbe morta il 3 dicembre di quattro anni dopo), scrive "Nyx", dedicata a Louise Labe', poetessa cara a Rilke.

Gran parte dell'opera di Catherine Pozzi e' stata pubblicata - come, ancora una volta, nel caso di Antonia Pozzi - postuma.

"O muto coro dei vivi fuori dalla vita,

Sorda musica sulla soglia chiusa del presente,

Persi, Perfetti, dolore, desiderio, letargia,

Il male di Dio e' un fuoco gelido nella notte.

 

La debole invocazione urlata verso di Voi, Moltitudine,

Folla immobile, oscillante verso l'eterno,

Ha raggiunto il cielo della Solitudine?

Ha ferito il vostro incalcolabile Sonno?

Verso il vostro orrore, Sete senza speranza se n'e' andata,

O fratelli gravi, leggeri nell'oscurita' sconosciuta.

Figli dello Spirito, di cui l'intera forza e' passata,

Dalle profondita' accogliete lo spirito perduto".

(Catherine Pozzi, De profundis, in Il mio inferno. Poesie, traduzione e cura di Marco Dotti, con una nota di Michel de Certeau, Milano, Edizioni Medusa 2006, p. 47).

Bibliografia: Catherine Pozzi, Tres haut amour. Poemes et autres textes, Paris, Gallimard 2002; Catherine Pozzi, Agnes, Paris, Edition de la Difference, 2002; Catherine Pozzi, Journal 1913-1934, a cura di Claire Paulhan, Paris, Ramsay, 1987; Lawrence A. Joseph, Catherine Pozzi. Une robe couleur du temps, Paris, Edition de la Difference, 1988; Alessandro Pizzorusso, Il diario di Catherine Pozzi: l'unita' e la scissione, in "Belfagor", 3, 1994, pp. 277-289; Alessandro Pizzorusso, Il diario di Catherine Pozzi: attrazioni e rappresentazioni, in "Strumenti critici", 76, 1994, pp. 347-361 (contributi raccolti, in Alessandro Pizzorusso, Figure del soggetto, Pisa, Pacini, 1996); Marco Dotti, I silenzi della "jeune fille", in Catherine Pozzi, Il mio inferno. Poesie, traduzione e cura di Marco Dotti, con una nota di Michel de Certeau, Milano, Edizioni Medusa, 2006, pp. 73-101; Incontro di studio, tenutosi da Claude Cazalis Berard (Universite' Paris X-Nanterre, Departement d'Italien) il 10 febbraio 2010, Le langage de l'autre, l'autre du langage. Paroles de femmes: mystique, folie, genie, poesie. Catherine Pozzi (1882-1934), Antonia Pozzi (1912-1938), presso l'Universite' Paris Ouest Nanterre-La Defense, nell'ambito degli Studi di Genere, Dipartimento di studi filologici, linguistici e letterari, Universita' degli Studi di Roma La Sapienza.

 

==============================

NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE

==============================

Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino"

Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100

Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 323 del 14 aprile 2011

 

Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su:

nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe

 

Per non riceverlo piu':

nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe

 

In alternativa e' possibile andare sulla pagina web

http://web.peacelink.it/mailing_admin.html

quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione).

 

L'informativa ai sensi del Decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 ("Codice in materia di protezione dei dati personali") relativa alla mailing list che diffonde questo notiziario e' disponibile nella rete telematica alla pagina web:

http://italy.peacelink.org/peacelink/indices/index_2074.html

 

Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/

 

L'unico indirizzo di posta elettronica utilizzabile per contattare la redazione e': nbawac at tin.it