Archivi. 20
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- Date: Thu, 20 Jan 2011 08:02:52 +0100 (CET)
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ARCHIVI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" (anno XII)
Numero 20 del 20 gennaio 2011
In questo numero:
Contro la guerra, la nonviolenza (parte prima)
RIFLESSIONE. CONTRO LA GUERRA, LA NONVIOLENZA (PARTE PRIMA)
[Ripubblichiamo ancora una volta ampia parte di un testo gia' diffuso nel 2001 (e gia' ripresentato piu' volte sul nostro notiziario), nato dalla rifusione di materiali precedenti e parzialmente apparso in Fondazione Venezia per la ricerca sulla pace, Annuario della pace, Asterios, Trieste 2001]
"Contro la falsa armonia del mondo ottenuta buttando via le vittime" (Aldo Capitini)
Parte prima. Verso la guerra? Tre tesi
I. Affermare che la guerra sia inevitabile e' aver gia' ceduto alla guerra.
La guerra non e' mai inevitabile.
II. Affermare un rapporto rigidamente deterministico tra modello di sviluppo e guerra consolida quel modello di sviluppo trasformandolo in destino e ricatto.
Ogni paradigma teorico ed ogni assetto pratico della fabrilita' umana puo' essere modificato. La guerra non e' mai necessaria.
III. Il processo della trasformazione sociale puo' assumere forme diverse, chiunque si attardi ancora nella trista ed equivoca metafora della violenza forcipe della storia non e' stato informato di Auschwitz e di Hiroshima.
La guerra e' in quanto tale nemica dell'umanita'.
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Parte seconda. Di dove veniamo? Dal Novecento
Ci venne formulata la domanda: se si guardasse dalla finestra della pace sul Novecento, che cosa si dovrebbe dire?
A questa domanda la prima, istintiva risposta e': un muto agghiacciato moto di orrore.
Il Novecento e' stato il secolo della guerra, dei genocidii, del dispiegamento della violenza con una estensione e profondita' tali come mai si erano dati nella storia dell'uomo e del mondo. Le immense risorse messe a disposizione dagli enormi progressi della scienza, della tecnica e dell'organizzazione sociale sono state usate prevalentemente a fini cosi' abissalmente antiumani, di devastazione ed annichilimento delle persone e della biosfera, che la disperazione e' il primo moto.
E tuttavia questa risposta, la percezione dell'orrore, e' ad un tempo assolutamente necessaria e palesemente insufficiente.
Non solo: in quanto essa si risolvesse in mera contemplazione atterrita dell'orrore, e pertanto pietrificazione dinanzi all'orrore, e dunque nei fatti si convertisse in resa all'orrore, ebbene, allora essa sarebbe una risposta non solo insufficiente, ma indegna ed iniqua, poiche' sfocerebbe in una effettuale complicita' con l'orrore (sia pure per mera omissione, e sia pure come nudo essere schiacciati e sentirsi impotenti).
Vi e' dunque una seconda necessaria risposta, che attiene alla volonta' piu' che alla percezione, che concerne la facolta' del decidersi e dell'agire oltre che la facolta' del conoscere ed interpretare; ed e' la risposta seguente: che al male occorre non arrendersi; che alla violenza occorre resistere; all'ingiustizia negare il consenso.
Tra i nomi che si possono dare a questa seconda risposta vi sono i seguenti: il principio responsabilita', la scelta della nonviolenza.
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Ma cosa e' il punto di vista della pace?
Se e' proprio di ogni essere umano percepirsi come vivente e come valore, come preziosa scintilla senziente e pensante, e quindi rivendicare a se' dei diritti, e quel diritto fondamentale che e' il diritto di esistere senza del quale nessun altro diritto puo' darsi, ebbene, ne consegue che tale diritto a tutti gli esseri umani compete e va dunque riconosciuto: "nessuno sia respinto nel nulla" ha scritto una volta Elias Canetti; "ogni vittima ha il volto di Abele", ha detto una volta Heinrich Boell. Dalla rivendicazione da parte di ognuno del proprio irriducibile diritto di vivere discende l'affermazione di tale diritto per ciascun essere umano; discende il principio fondativo di ogni civile convivere: "tu non uccidere".
Discende che la guerra, il dare la morte, ovvero il negare il soccorso e la vita, confliggono con cio' che di piu' radicale ed inalienabile, perche' appunto costitutivo, vi e' in ogni essere umano.
Ovvero: ne discende che umanita' e pace sono uno stesso concetto, e che ogni volta che contro qualcuno si rompe quel patto di mutuo soccorso che tutti gli uomini stringe, e' all'intera umanita' che si reca offesa, e a se stessi.
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Il secolo di Auschwitz e di Hiroshima
Il Novecento e' il secolo di Auschwitz e di Hiroshima.
Chi si provasse a pensare al ventesimo secolo cercando di abbracciarne con lo sguardo l'intero decorso, cogliendolo nella sua globalita' e nelle sue peculiari emergenze, nel suo completo tracciato vedrebbe io credo come una gigantesca fornace e voragine che lo frattura, vedrebbe un cratere che ancora erutta, vedrebbe l'anticreazione all'opera nel mondo.
E' il secolo che si apre con il trionfo della rapina coloniale e con la carneficina della grande guerra 1914-1918.
Ed e' il secolo che s'inabissa fino al Lager e alla Bomba.
E dopo e nonostante un lungo e contrastato sforzo dell'umanita' per risalire dal baratro della violenza e delle schiavitu' verso una vita piu' degna, e' il secolo che si chiude con un regime di apartheid planetario che condanna i quattro quinti dell'umanita' attuale a una vita di sofferenze e molti alla morte per fame e di stenti; che si chiude con una crescente devastazione di quanto vi e' di vitale e di degno nel mondo, nella natura e nella civilta'; che si chiude - tristo sigillo - con la guerra tornata fin nel cuore dell'Europa (ovvero di una delle aree privilegiate del mondo, nella cittadella del nord ricco, e ricco certo perche' secolare rapinatore e oggi altresi' sfacciato usuraio), con guerre in cui sono riemersi il razzismo genocida e le armi atomiche, mentre negli sterminati sud del mondo le guerre e la fame ed i morti per le strade sono la realta' quotidiana di un "disordine costituito" mondiale che senza infingimenti, ed anzi celebrandosi come culmine della storia, saccheggia interi continenti e sacrifica chi vi vive.
Cosicche' si torna ad Auschwitz, a Hiroshima: cifra ed emblema del secolo che muore, e sinistro presagio, truce eredita'. Io scrivo queste righe e provo orrore.
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Resistenza e apertura nonviolenta
Ma il Novecento e' stato anche altro: donne e uomini vi sono stati che hanno spezzato secolari catene; donne e uomini vi sono stati che si sono opposti alla violenza in nome dell'umanita'; donne e uomini splendenti di dignita', portatori di speranza: nel loro camminare eretti, portatori di concreta utopia, profeti e prefigurazione di un'umanita' di liberi ed eguali.
Il Novecento e' stato il secolo dell'orrore e della resistenza all'orrore; dell'inesorabile disperazione e dell'inesauribile speranza; delle tenebre piu' profonde e delle piu' fulgide luci sorte a contrastarle.
Vi e' stato Auschwitz: ma vi e' stato anche Primo Levi, che Auschwitz ed i suoi autori ha sconfitto per sempre nel cuore e nelle menti di chiunque abbia letto i suoi libri, si sia accostato alla sua testimonianza.
Vi e' stata l'atomica su Hiroshima e Nagasaki: ma vi e' stato anche Guenther Anders che l'eta' atomica ha totalmente smascherato e ci ha dato ragioni e strumenti per lottare contro l'orrore impensabile e concreto che ci supera ed annichilisce e che pure possiamo e dobbiamo contrastare.
Vi e' stata la guerra: ma vi e' stato anche Mohandas Gandhi che ci ha dimostrato che e' possibile lottare contro di essa nel modo piu' limpido ed intransigente, e ci ha proposto la rivoluzione necessaria per cambiare il corso della storia: la nonviolenza, che e' la forza della verita', la forza dell'amore.
L'apartheid trionfa tuttora su scala planetaria: ma Nelson Mandela ci ha dimostrato che se un uomo di volonta' buona sa dire di no, e sceglie nitida la lotta per la dignita' di ognuno e di tutti contro ogni servitu', allora l'umanita' e' invincibile.
L'oppressione di genere ancora dimidia e squarcia l'umanita': ma Virginia Woolf ci ha spiegato che chi per secoli ha avuto la lingua tagliata reca in se' saggezza, verita' ed amore sufficienti a rovesciare il mondo rovesciato.
La distruzione della biosfera divora irreversibilmente risorse insostituibili: ma Vandana Shiva ci ha fatto vedere che se una popolazione sa abbracciare gli alberi essa salva gli alberi e se stessa.
E' stato il secolo del totalitarismo, implicito tanto nel primato della tecnica come nelle ideologie del suolo e del sangue come nei miti della redenzione attraverso la denegazione ed il sacrificio del diverso; il totalitarismo ai cui idoli hanno sacrificato signorie illustrissime, e sui cui altari sono state arse seminagioni intere di uomini e donne innocenti. Ma contro il totalitarismo sono insorti avversari coraggiosi, donne e uomini che quando tutto sembrava perduto hanno saputo tutto salvare e sia pure al prezzo della propria stessa vita: gli infiniti martiri di tutte le Resistenze, cui scrivendo queste parole ancora ci inchiniamo memori e grati.
La morte e' stata eretta a dea e padrona (da Heidegger alle SS, il Novecento e' stato un secolo follemente necrofilo), ma e' stata combattuta sul piano teorico e pratico da tanti generosi.
Il mondo e' stato incendiato dalle ideologie dell'esclusione e della sopraffazione: ma vi e' stato anche Ernesto Balducci e la sua proposta dell'uomo planetario; ma vi e' stato anche Emmanuel Levinas e la sua responsabilita' dinanzi al volto muto e sofferente dell'altro.
L'orgia della cultura consumista che tutto divora ed in primo luogo la nostra coscienza: ma di contro anche la riflessione di Hans Jonas ed il suo "principio responsabilità", ed il lavoro concreto ed efficace di esperienze come quella del Centro Nuovo Modello di Sviluppo.
La disumanizzazione: ma vi e' stato anche Franco Basaglia e la sua lotta luminosa per restituire umanita' a coloro cui era stata negata.
Cosi' il Novecento non e' solo il secolo dell'orrore, ma anche il secolo della resistenza all'orrore. Non e' solo il secolo delle guerre, ma anche il secolo della resistenza alle guerre. Non e' solo il secolo della disperazione, ma anche il secolo della speranza e della responsabilita'. E' il secolo di Auschwitz e di Hiroshima, ed e' il secolo della Resistenza e dell'inizio della lotta nonviolenta per un'umanita' di liberi ed eguali.
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Miti, retoriche, ideologie: la complicita' con l'orrore
Ci viene proposta una domanda sul ruolo che nel dispiegarsi della violenza abbiano i miti, le retoriche, le ideologie; di come la dimensione del sacro si leghi a quella della violenza; di come le chiese e le agenzie educative (ma tra le chiese e le agenzie educative possiamo collocare altresi' i movimenti politici, i mass-media, e una serie infinita di "-ismi" e di istituzioni) possano venir arruolate nelle fila degli eserciti e dei torturatori.
Domande che fanno tremare le vene e i polsi. Poiche' invero questo e' accaduto: che i miti delle origini come quelli del progresso abbiano prodotto stragi infinite; che le retoriche dell'identita' e della supremazia abbiano spinto ad uccidere il diverso da se'; che le ideologie abbiano trasformato seguaci di idee in assassini spietati; che sacro e violenza si siano spesso stretti in un nodo scorsoio; che quasi ogni chiesa abbia sacrificato a dei assetati di sangue, e quasi ogni agenzia educativa abbia insegnato quella sola corrotta virtu': l'obbedienza, che tutto travolge, e giustifica ogni abominio. Invero tutto questo e' accaduto. E l'umana ragione troppo fragile schermo e' stata, e l'umana solidarieta' non ha saputo essere difesa efficiente o rimedio adeguato.
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Ma anche: racconto, comunicazione, condivisione
Invero questo e' accaduto ed e' quindi legittimo avere in sospetto i miti, le retoriche, le ideologie, ed il sacro, e le chiese e le scuole. Ma si e' anche dato il contrario.
Si e' dato il raccontare che istituisce fraternita' ed umanita' effonde e riscatta: si pensi al raccontare e alla riflessione sul raccontare di Primo Levi; si pensi alla trasmissione del sapere attraverso le generazioni nel racconto orale che ci scalda intorno al fuoco e piu' del fuoco nel freddo e nel buio della notte.
E le retoriche possono anche essere coscienza che comunicare e' difficile e richiede consapevolezza, concentrazione, responsabilita'; e che nell'interazione sociale invece di vincere si puo' convincere (vincere insieme); ed essere dunque coscienza del dubbio, arte di prudenza, atteggiamento di ascolto, e base, canale, strumento di democrazia, di civile convivere e condursi.
E le ideologie oltre che falsa coscienza ed alienazione (l'analisi insuperata di Marx) possono essere anche una richiesta e uno sforzo di rendersi conto e di dare ragione, una ricerca comune (la "religio", come legame, collegamento, discorso comune tra gli uomini).
E le chiese, le comunita', le "ecclesie" (includendo quindi tra esse ogni forma di comunita' tenuta insieme da valori, interessi, bisogni comuni e profondi) possono anche essere convivenza solidale, condivisione del pane, una legge che non opprime ma sostiene e libera, e si fondino pure su sogni e illusioni: non sono forse sogni e illusioni tanta parte della stoffa di cui consistiamo?
E le agenzie educative (dalla scuola al partito politico, dal lavoro alla comunita' scientifica, dalle infinite sedi della socializzazione al movimento di rivendicazione) possono anche trasmettere esperienze e saggezza, essere ricerca comune ed educazione reciproca: coscientizzazione (Paulo Freire).
In breve: e' la volonta' degli uomini che decide; il male non e' mai necessario: ed a tutti e' dato, sempre, di contrastarlo.
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Gli uomini ora sanno
E comunque noi oggi sappiamo: sappiamo, ce lo ha spiegato Primo Levi, che la strada dell'ossequio e del consenso e' senza ritorno, e porta ai campi di sterminio. Sappiamo, lo ha ripetuto tante volte Mohandas Gandhi, che il potere oppressivo si regge anche sul consenso delle vittime e sull'indifferenza di chi sta a guardare. Sappiamo, lo scrisse memorabilmente Lorenzo Milani, che l'obbedienza non e' piu' una virtu', ma la più subdola delle tentazioni, e che ognuno deve sentirsi l'unico responsabile di tutto. Gli uomini ora sanno. Ognuno deve sentirsi responsabile di tutto.
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Le tre verita' di Hiroshima
Nel 1981 aprendo un celebre convegno di "Testimonianze" sul tema Se vuoi la pace, prepara la pace, Ernesto Balducci (uno dei piu' lucidi e limpidi costruttori di pace di questo secolo) pronuncio' un forte discorso. In esso enuncio' quelle che chiamo' "le tre verita' di Hiroshima". Rileggiamo le sue parole.
"La prima verita' contenuta in quel messaggio e' che il genere umano ha un destino unico di vita o di morte. Sul momento fu una verita' intuitiva, di natura etica, ma poi, crollata l'immagine eurocentrica della storia, essa si e' dispiegata in evidenze di tipo induttivo la cui esposizione piu' recente e piu' organica e' quella del Rapporto Brandt. L'unita' del genere umano e' ormai una verita' economica. Le interdipendenze che stringono il Nord e il Sud del pianeta, attentamente esaminate, svelano che non e' il Sud a dipendere dal Nord ma e' il Nord che dipende dal Sud. Innanzitutto per il fatto che la sua economia dello spreco e' resa possibile dalla metodica rapina a cui il Sud e' sottoposto e poi, piu' specificamente, perche' esiste un nesso causale tra la politica degli armamenti e il persistere, anzi l'aggravarsi, della spaventosa piaga della fame. Pesano ancora nella nostra memoria i 50 milioni di morti dell'ultima guerra, ma cominciano anche a pesarci i morti che la fame sta facendo: 50 milioni, per l'appunto, nel solo anno 1979. E piu' comincia a pesare il fatto, sempre meglio conosciuto, che la morte per fame non e' un prodotto fatale dell'avarizia della natura o dell'ignavia degli uomini, ma il prodotto della struttura economica internazionale che riversa un'immensa quota dei profitti nell'industria delle armi: 450 miliardi di dollari nel suddetto anno 1979 e cioe' 10 volte di piu' del necessario per eliminare la fame nel mondo. Questo ora si sa. Adamo ed Eva ora sanno di essere nudi. Gli uomini e le donne che, fosse pure soltanto come elettori, tengono in piedi questa struttura di violenza, non hanno piu' la coscienza tranquilla.
La seconda verita' di Hiroshima e' che ormai l'imperativo morale della pace, ritenuta da sempre come un ideale necessario anche se irrealizzabile, e' arrivato a coincidere con l'istinto di conservazione, il medesimo istinto che veniva indicato come radice inestirpabile dell'aggressivita' distruttiva. Fino ad oggi e' stato un punto fermo che la sfera della morale e quella dell'istinto erano tra loro separate, conciliabili solo mediante un'ardua disciplina e solo entro certi limiti: fuori di quei limiti accadeva la guerra, che la coscienza morale si limitava a deprecare come un malum necessarium. Ma le prospettive attuali della guerra tecnologica sono tali che la voce dell'istinto di conservazione (di cui la paura e' un sintomo non ignobile) e la voce della coscienza sono diventate una sola voce. Non era mai capitato. Anche per questi nuovi rapporti fra etica e biologia, la storia sta cambiando di qualita'.
La terza verita' di Hiroshima e' che la guerra e' uscita per sempre dalla sfera della razionalita'. Non che la guerra sia mai stata considerata, salvo in rari casi di sadismo culturale, un fatto secondo ragione, ma sempre le culture dominanti l'hanno ritenuta quanto meno come una extrema ratio, e cioe' come uno strumento limite della ragione. E difatti, nelle nostre ricostruzioni storiografiche, il progresso dei popoli si avvera attraverso le guerre. Per una specie di eterogenesi dei fini - per usare il linguaggio di Benedetto Croce - l'"accadimento" funesto generava l'"avvenimento" fausto. Ma ora, nell'ipotesi atomica, l'accadimento non genererebbe nessun avvenimento. O meglio, l'avvenimento morirebbe per olocausto nel grembo materno dell'accadimento'.
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Un messaggio da Assisi: sei impegni per la pace
Il 24 settembre 2000 si e' svolta, promossa dai movimenti nonviolenti, una marcia da Perugia ad Assisi contro tutti gli eserciti e le guerre. Ai partecipanti si chiedeva l'adesione e l'impegno personale sui sei punti del "Manifesto 2000 per una cultura della pace e della nonviolenza" lanciato dai Premi Nobel per la Pace; e' un programma che ci pare opportuno proporre alla lettura e alla riflessione.
"1. Rispettare ogni vita. Rispettare la vita e la dignita' di ogni essere umano senza alcuna discriminazione ne' pregiudizio;
2. Rifiutare la violenza. Praticare la nonviolenza attiva, rifiutando la violenza in tutte le sue forme: fisica, sessuale, psicologica, economica e sociale, in particolare nei confronti dei piu' deboli e vulnerabili, come i bambini e gli adolescenti;
3. Condividere con gli altri. Condividere il mio tempo e le risorse materiali coltivando la generosita', allo scopo di porre fine all'esclusione, all'ingiustizia e all'oppressione politica ed economica;
4. Ascoltare per capire. Difendere la liberta' di espressione e la diversita' culturale, privilegiando sempre l'ascolto e il dialogo senza cedere al fanatismo, alla maldicenza e al rifiuto degli altri;
5. Preservare il pianeta. Promuovere un consumo responsabile e un modo di sviluppo che tengano conto dell'importanza di tutte le forme di vita e preservino l'equilibrio delle risorse naturali del pianeta;
6. Riscoprire la solidarieta'. Contribuire allo sviluppo della mia comunita', con la piena partecipazione delle donne e nel rispetto dei principi democratici, al fine di creare, insieme, nuove forme di solidarieta'".
Se una lezione e un programma di lavoro dall'esperienza del secolo che si e' concluso possiamo trarre, ci pare che nelle parole di Balducci e nell'appello dei Premi Nobel per la Pace se ne possa trovare una traccia. E dunque al lavoro.
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Parte terza. Ci sono alternative? La nonviolenza
Guardiamoci intorno
I quattro quinti dell'umanita' vivono una vita di enormi sofferenze; le guerre, la fame, lo sfruttamento, l'oppressione e l'ingiustizia strutturale tengono in condizioni disumane la maggior parte dell'umanita'; la biosfera (ovvero quella sottile pellicola del nostro pianeta in cui soltanto esiste vita vegetale, animale ed umana) e' messa a rischio da un modello di sviluppo criminale; ingenti risorse che potrebbero offrire benessere a molti, vengono invece rapinate, sperperate, distrutte da pochi; e' crescente l'inquinamento dell'ambiente e la distruzione di risorse non rinnovabili; le nuove tecnologie (particolarmente quelle informatiche e quelle biologiche) contengono grandi potenzialita' ma implicano enormi rischi e richiedono per la loro gestione un di piu' di democrazia, di razionalita', di responsabilita'; si pone il problema di quale pianeta stiamo predisponendo per le generazioni future; pace, democrazia e diritti umani mai come oggi costituiscono una triade di esigenze irrefutabili e irrinviabili.
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Dieci ferite della contemporaneita'
Un recente volume che analizza alcune figure e correnti della riflessione morale contemporanea (AA. VV., Etiche della mondialita', Cittadella, Assisi 1996) propone questa descrizione schematica della situazione presente:
"Le ferite piu' laceranti della contemporaneita' possono essere ricapitolate nel quadro seguente, articolato in dieci punti:
1) l'invadenza e gli effetti sconvolgenti di un ordine economico mondiale che, per assicurare l'opulenza ad una minoranza dell'umanita', produce per tutti gli altri la fame, il sottosviluppo, la disoccupazione, la degradazione del lavoro;
2) la crisi ecologica, con intollerabili danni alla biosfera ed alle condizioni per la sopravvivenza delle diverse forme di vita sulla terra;
3) la crisi demografica, con la crescente sproporzione tra popolazione e risorse disponibili;
4) l'acuirsi delle tensioni etniche e religiose, delle discriminazioni di casta e di sesso, nonche' la traduzione irresponsabile del principio dell'autodeterminazione dei popoli;
5) la crisi delle relazioni interumane di solidarieta' e l'esclusione di intere fasce della societa';
6) il ricorso alla guerra come risoluzione delle controversie internazionali;
7) l'esistenza di regimi dittatoriali ed il ripetersi della violazione dei diritti umani in molti stati;
8) l'espandersi delle organizzazioni criminali transnazionali e del mercato mondiale delle droghe;
9) il monopolio occidentale del sistema informativo-comunicativo e l'omologazione delle culture sotto il liberismo assoluto dell'Occidente;
10) la difficolta' di indirizzare al bene comune dell'umanita' le dinamiche e gli esiti della ricerca scientifica e della tecnologia".
Si potrebbe dire diversamente, di alcune cose si potrebbe discutere, ma il quadro complessivo e' all'incirca questo.
Vari studiosi e vari rappresentanti di movimenti che lottano per la dignita' umana, concordano nel denunciare la situazione presente come intollerabile; cfr. ad esempio le analisi proposte dalla prestigiosa rivista "Le Monde diplomatique", o le analisi del Marcos portavoce dell'esperienza zapatista in Chiapas, o le riflessioni della Rete di Lilliput. Come si puo' accettare questa situazione?
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Che fare?
Si pone il problema di opporsi a tanta violenza, a tanto dolore, a tanta ingiustizia, a tanta follia.
Ed occorre quindi elaborare e praticare delle adeguate etiche planetarie; dei comportamenti concreti capaci di contrastare la catastrofica deriva presente; una azione politica coerente ed efficace; progetti, dinamiche, istituzioni all'altezza delle necessita'. Come fare?
Noi crediamo che per la lotta che occorre condurre alcuni strumenti operativi importanti li offra la teoria-prassi della nonviolenza.
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La proposta della nonviolenza come teoria-pratica di liberazione
La nonviolenza e' una possibile risposta a questo urgente problema: alla violenza crescente si puo', si deve, opporre la nonviolenza.
Ma detto questo e' stato detto ancora ben poco: cosa e' la nonviolenza?
In prima approssimazione potremmo dire che la nonviolenza e' una teoria-pratica di liberazione, ovvero una proposta di azione finalizzata all'affermazione concreta e immediata della dignita' umana; una proposta pratica, ma che implica dei giudizi di valore, e quindi una teoria: un punto di vista che concerne questioni morali, politiche, gnoseologiche (cioe' relative alla teoria della conoscenza), antropologiche (ovvero una visione dell'uomo e della cultura). Ma essenzialmente a nostro avviso la nonviolenza e' lotta contro la violenza, lotta contro l'ingiustizia, lotta che afferma la responsabilita' di ognuno per il bene di tutti, lotta che nel suo stesso farsi istituisce democrazia, diritti umani, difesa della biosfera.
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La nonviolenza come cosa complessa
La nonviolenza e' una teoria-prassi sperimentale ed in continuo sviluppo creativo, dalle molteplici dimensioni ed interpretazioni, quindi da studiare rigorosamente.
La nonviolenza non e' una cosa semplice. Lo stesso termine si presta a diverse interpretazioni; i suoi ambiti applicativi sono molto diversificati, coloro che alla nonviolenza si sono accostati o che di strumenti, tecniche, riflessioni di essa hanno fatto uso, ne hanno dato interpretazioni molto diverse.
Lo stesso Gandhi, che ne e' il vero e proprio fondatore, ne ha dato definizioni diverse ed ha elaborato un concetto di essa sperimentale, contestuale, dinamico, critico. Sperimentale perche' la nonviolenza non e' un dogma ma un concreto operare in quanto tale constantemente ri-discutibile; contestuale, perche' e' solo nel vivo del conflitto, solo nella concretezza della lotta contro l'ingiustizia, che la nonviolenza in quanto prassi si da', si misura e si definisce; dinamico, perche' appunto la nonviolenza non e' un che di statico, di ipostatizzato, di prefissato, di preconfezionato, ma si realizza nel processo della lotta, nel vivo del conflitto, nel cuore della storia e della societa', ed agisce come parte in causa, come elemento contraddittorio e propulsivo, come rottura del disordine costituito e come progetto di trasformazione; critico, perche' la nonviolenza non e' uno stato di quiete, di appagamento, la fine di alcunche', ma un costante rovello, un'incessante verifica, una lotta interminabile, e quindi anche una serrata critica ed autocritica.
La nonviolenza non e' una ideologia o una filosofia politica e sociale in piu'; ma non e' neppure un mero repertorio di strumenti e di tecniche; essa si propone come una teoria-prassi compatibile con altre teorie morali e politiche, ma ha una sua autonomia e coerenza che ne fa una cosa complessa, inconclusa, in sviluppo, ma insieme una cosa non confondibile, non sussumibile, non addomesticabile.
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Dimensioni ed interpretazioni della nonviolenza
Dimensioni: vedremo che la nonviolenza ha diverse dimensioni, una di esse e' quella della scelta etico-politica, e quindi della condotta personale e collettiva nella vita quotidiana come nei conflitti politici, sociali e culturali; una seconda dimensione e' quella delle tecniche di lotta e delle forme di gestione delle relazioni e dei conflitti; una terza dimensione e' quella della nonviolenza come strategia di lotta contro le ingiustizie; una quarta dimensione e' quella del progetto politico, economico e sociale che la scelta nonviolenta implica se le sue premesse vengono svolte fino alle ultime conseguenze.
Intepretazioni: si potrebbe dire che vi sono tante interpretazioni della nonviolenza quanti sono coloro che la hanno adottata e che su di essa hanno riflettuto.
Per quanto ci concerne, noi qui proponiamo un approccio non dogmatico, ma sperimentale ed aperto, concreto e contestuale; pertanto questo stesso scritto non e' un formulario tuttologico, o un ricettario onnivalente, ma la proposta e la descrizione - certo intenzionata, certo non neutrale - di una serie di tesi su cui comunque la discussione e la riflessione restano aperte.
(Parte prima - Segue)
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ARCHIVI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" (anno XII)
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Numero 20 del 20 gennaio 2011
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