Telegrammi. 290
- Subject: Telegrammi. 290
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Sun, 22 Aug 2010 00:45:32 +0200
TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 290 del 22 agosto 2010
Telegrammi della nonviolenza in cammino proposti dal
Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della
nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Sommario di questo numero:
1.
Norberto Bobbio, la filosofia di Aldo Capitini
2. Il cinque per mille al Movimento Nonviolento
3.
"Azione nonviolenta"
4.
Segnalazioni librarie
5. La "Carta" del Movimento
Nonviolento 6. Per saperne di piu'
1.
MAESTRI. NORBERTO BOBBIO: LA FILOSOFIA DI ALDO CAPITINI [Il seguente testo, che nuovamente riproponiamo, e' estratto da Norberto Bobbio, Maestri e compagni, Passigli, Firenze 1984, 1994, pp. 239-260 (precedentemente era apparso negli "Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa" del 1975); noi lo abbiamo ripreso dall'eccellente sito dell'Associazione nazionale Amici di Aldo Capitini (www.aldocapitini.it). Segnaliamo che non abbiamo riportato le note (ben 42, alcune delle quali peraltro aggiungono osservazioni e citazioni di grande interesse che arricchiscono ulteriormente il testo: rinviamo per esse all'edizione a stampa citata), e che abbiamo corretto alcuni minimi refusi. Norberto Bobbio e' nato a Torino nel 1909 ed e' deceduto nel 2004, antifascista, filosofo della politica e del diritto, autore di opere fondamentali sui temi della democrazia, dei diritti umani, della pace, e' stato uno dei piu' prestigiosi intellettuali italiani del XX secolo. Tra le opere di Norberto Bobbio: per la biografia (che si intreccia con decisive vicende e cruciali dibattiti della storia italiana di questo secolo) si vedano il volume di scritti autobiografici De Senectute, Einaudi, Torino 1996; e l'Autobiografia, Laterza, Roma-Bari 1997; tra i suoi libri di testimonianze su amici scomparsi (alcune delle figure piu' alte dell'impegno politico, morale e intellettuale del Novecento) cfr. almeno Italia civile, Maestri e compagni, Italia fedele, La mia Italia, tutti presso l'editore Passigli, Firenze. Per la sua riflessione sulla democrazia cfr. Il futuro della democrazia; Stato, governo e societa'; Eguaglianza e liberta'; tutti presso Einaudi, Torino. Sui diritti umani si veda L'eta' dei diritti, Einaudi, Torino 1990. Sulla pace si veda Il problema della guerra e le vie della pace, Il Mulino, Bologna, varie riedizioni; Il terzo assente, Sonda, Torino 1989; Una guerra giusta?, Marsilio, Venezia 1991; Elogio della mitezza, Linea d'ombra, Milano 1994. A nostro avviso indispensabile e' anche la lettura di Politica e cultura, Einaudi, Torino 1955, 1977; Profilo ideologico del Novecento, Garzanti, Milano 1990; Teoria generale del diritto, Giappichelli, Torino 1993. Tra le opere su Norberto Bobbio: segnaliamo almeno Enrico Lanfranchi, Un filosofo militante, Bollati Boringhieri, Torino 1989; Piero Meaglia, Bobbio e la democrazia: le regole del gioco, Edizioni cultura della pace, S. Domenico di Fiesole 1994; Tommaso Greco, Norberto Bobbio, Donzelli, Roma 2000; AA. VV., Norberto Bobbio tra diritto e politica, Laterza, Roma-Bari 2005; AA. VV., Norberto Bobbio maestro di democrazia e di liberta', Cittadella, Assisi 2005; AA. VV., Lezioni Bobbio, Einaudi, Torino 2006. Per la bibliografia di e su Norberto Bobbio uno strumento di lavoro utilissimo e' il sito del Centro studi Piero Gobetti (www.erasmo.it/gobetti). Aldo
Capitini e' nato a Perugia nel 1899, antifascista e perseguitato, docente
universitario, infaticabile promotore di iniziative per la nonviolenza e la
pace. E' morto a Perugia nel 1968. E' stato il piu' grande pensatore ed
operatore della nonviolenza in Italia. Opere di Aldo Capitini: la miglior
antologia degli scritti e' ancora quella a cura di Giovanni Cacioppo e vari
collaboratori, Il messaggio di Aldo Capitini, Lacaita, Manduria 1977 (che
contiene anche una raccolta di testimonianze ed una pressoche' integrale -
ovviamente allo stato delle conoscenze e delle ricerche dell'epoca -
bibliografia degli scritti di Capitini); ma notevole ed oggi
imprescindibile e' anche la recente antologia degli scritti a cura di Mario
Martini, Le ragioni della nonviolenza, Edizioni Ets, Pisa 2004, 2007; delle
singole opere capitiniane sono state recentemente ripubblicate: Le tecniche
della nonviolenza, Linea d'ombra, Milano 1989, Edizioni dell'asino, Roma 2009;
Elementi di un'esperienza religiosa, Cappelli, Bologna 1990; Colloquio corale, L'ancora del
Mediterraneo, Napoli 2005; L'atto di educare, Armando Editore, Roma 2010; cfr. inoltre
la raccolta di scritti autobiografici Opposizione e liberazione,
Linea d'ombra, Milano 1991, L'ancora del Mediterraneo, Napoli 2003; gli scritti
sul Liberalsocialismo, Edizioni e/o, Roma 1996; La religione dell'educazione, La
Meridiana, Molfetta 2008; segnaliamo anche Nonviolenza dopo la tempesta.
Carteggio con Sara Melauri, Edizioni Associate, Roma 1991. Presso la redazione
di "Azione nonviolenta" (e-mail: azionenonviolenta at sis.it, sito: www.nonviolenti.org) sono disponibili e possono essere
richiesti vari volumi ed opuscoli di Capitini non piu' reperibili in libreria
(tra cui Il potere di tutti, 1969). Negli anni '90 e' iniziata la pubblicazione
di una edizione di opere scelte: sono fin qui apparsi un volume di Scritti sulla
nonviolenza, Protagon, Perugia 1992, e un volume di Scritti filosofici e
religiosi, Perugia 1994, seconda edizione ampliata, Fondazione centro studi Aldo
Capitini, Perugia 1998. Piu' recente e' la pubblicazione di alcuni carteggi
particolarmente rilevanti: Aldo Capitini, Walter Binni, Lettere 1931-1968,
Carocci, Roma 2007; Aldo Capitini, Danilo Dolci, Lettere 1952-1968, Carocci,
Roma 2008; Aldo Capitini, Guido Calogero, Lettere 1936-1968, Carocci, Roma 2009.
Opere su Aldo Capitini: a) per la bibliografia: Fondazione Centro studi
Aldo Capitini, Bibliografia di scritti su Aldo Capitini, a cura di Laura
Zazzerini, Volumnia Editrice, Perugia 2007; Caterina Foppa Pedretti, Bibliografia primaria e secondaria di Aldo
Capitini, Vita e Pensiero, Milano 2007; segnaliamo anche che la gia'
citata bibliografia essenziale degli scritti di Aldo Capitini
pubblicati dal 1926 al 1973, a cura di Aldo Stella, pubblicata in Il messaggio
di Aldo Capitini, cit., abbiamo recentemente ripubblicato in "Coi piedi per
terra" n. 298 del 20 luglio 2010; b) per la critica e la documentazione:
oltre alle introduzioni alle singole sezioni del sopra citato Il
messaggio di Aldo Capitini, tra le pubblicazioni recenti si veda almeno: Giacomo
Zanga, Aldo Capitini, Bresci, Torino 1988; Clara Cutini (a cura di), Uno
schedato politico: Aldo Capitini, Editoriale Umbra, Perugia 1988; Fabrizio
Truini, Aldo Capitini, Edizioni cultura della pace, S. Domenico di Fiesole (Fi)
1989; Tiziana Pironi, La pedagogia del nuovo di Aldo Capitini. Tra religione ed
etica laica, Clueb, Bologna 1991; Fondazione "Centro studi Aldo Capitini",
Elementi dell'esperienza religiosa contemporanea, La Nuova Italia, Scandicci
(Fi) 1991; Rocco Altieri, La rivoluzione nonviolenta. Per una biografia
intellettuale di Aldo Capitini, Biblioteca Franco Serantini, Pisa 1998, 2003;
AA. VV., Aldo Capitini, persuasione e nonviolenza, volume monografico de "Il
ponte", anno LIV, n. 10, ottobre 1998; Antonio Vigilante, La realta' liberata.
Escatologia e nonviolenza in Capitini, Edizioni del Rosone, Foggia 1999; Mario
Martini (a cura di), Aldo Capitini libero religioso rivoluzionario nonviolento.
Atti del Convegno, Comune di Perugia - Fondazione Aldo Capitini, Perugia 1999;
Pietro Polito, L'eresia di Aldo Capitini, Stylos, Aosta 2001; Gian Biagio
Furiozzi (a cura di), Aldo Capitini tra socialismo e liberalismo, Franco
Angeli, Milano 2001; Federica Curzi, Vivere la nonviolenza. La filosofia di Aldo
Capitini, Cittadella, Assisi 2004; Massimo Pomi, Al servizio dell'impossibile.
Un profilo pedagogico di Aldo Capitini, Rcs - La Nuova Italia, Milano-Firenze
2005; Andrea Tortoreto, La filosofia di Aldo Capitini, Clinamen, Firenze 2005;
Maurizio Cavicchi, Aldo Capitini. Un itinerario di vita e di pensiero, Lacaita,
Manduria 2005; Marco Catarci, Il pensiero disarmato. La pedagogia della
nonviolenza di Aldo Capitini, Ega, Torino 2007; Alarico Mariani Marini, Eligio
Resta, Marciare per la pace. Il mondo nonviolento di Aldo Capitini, Plus, Pisa
2007; Maura Caracciolo, Aldo Capitini e Giorgio La Pira.
Profeti di pace sul sentiero di Isaia, Milella, Lecce 2008; Mario Martini, Franca Bolotti (a cura di), Capitini
incontra i giovani, Morlacchi, Perugia 2009; Giuseppe Moscati (a cura di), Il
pensiero e le opere di Aldo Capitini nella coscienza delle giovani generazioni,
Levante, Bari 2010; cfr. anche il capitolo dedicato a Capitini in Angelo
d'Orsi, Intellettuali nel Novecento italiano, Einaudi, Torino 2001; e Amoreno
Martellini, Fiori nei cannoni. Nonviolenza e antimilitarismo nell'Italia del
Novecento, Donzelli, Roma 2006; c) per una bibliografia della critica cfr.
per un avvio il libro di Pietro Polito citato ed i volumi bibliografici
segnalati sopra; numerosi utilissimi materiali di e su Aldo Capitini sono nel
sito dell'Associazione nazionale amici di Aldo Capitini: www.aldocapitini.it; una assai utile
mostra e un altrettanto utile dvd su Aldo Capitini possono essere richiesti
scrivendo a Luciano Capitini: capitps at libero.it, o anche a Lanfranco Mencaroni: l.mencaroni at libero.it, o anche al
Movimento Nonviolento: tel. 0458009803, fax: 0458009212, e-mail: azionenonviolenta at sis.it o anche
redazione at nonviolenti.org, sito:
www.nonviolenti.org] In un
saggio autobiografico scritto pochi mesi prima della morte Capitini racconto' di
esser passato a poco a poco negli anni pisani dagli studi letterari agli studi
filosofici, specialmente dopo il 1933, allo scopo di "costruire le
giustificazioni dell'opposizione al fascismo e della costruzione
libero-religiosa". Nel 1937
uscira' la prima opera, gli Elementi di un'esperienza religiosa, di cui egli
stesso disse, ristampandola nel 1947, che conteneva oltre a "momenti lirici" e
"tensioni religiose" anche "spunti filosofici". Composta tra il 1937 e il 1944
quella che egli stesso chiamo' la sua "tetralogia antifascista", ossia gli
Elementi citati, Vita religiosa (1942), Atti della presenza aperta (1943), La
realta' di tutti (scritto nel 1944, pubblicato soltanto nel 1948), il primo
libro che diede alle stampe dopo la liberazione fu un'opera schiettamente
filosofica, Saggio sul soggetto della storia (1947). Dei
molti libri che scrisse in seguito non ve n'e' uno che non contenga riferimenti
a filosofi antichi, moderni e contemporanei, analisi di correnti filosofiche del
passato e del presente: nel Fanciullo nella liberazione dell'uomo (1953) alcuni
capitoli sono dedicati alla discussione delle filosofie con cui egli riteneva di
doversi confrontare per far scaturire l'originalita' della propria posizione
(idealismo, storicismo, esistenzialismo). Filosoficamente
orientato e impegnato e' l'ultimo libro apparso, lui vivente, La compresenza dei
morti e dei viventi (1966), che a me pare l'opera sua maggiore, nonche'
conclusiva, per ampiezza di temi e ricchezza di svolgimenti, e larghezza
dell'orizzonte spirituale che essa abbraccia e lascia intravedere (opera
difficile, da ristudiare, o meglio, da studiare, perche' il pensiero di Capitini
non e' stato ancora decifrato). Capitini
non fu e non volle essere un filosofo nel senso scolastico o, peggio,
professionale della parola. Ma non fu soltanto un religioso o un moralista.
Rispetto alle due maggiori personalita' religiose presenti e operanti nella
storia della spiritualita' italiana di questo secolo al di fuori della
chiesa-istituzione, cui egli stesso si paragona (e questo paragone e' a mio
avviso giustissimo e illuminante e meriterebbe di essere approfondito), Ernesto
Buonaiuti e Piero Martinetti, egli fu meno filosofo del secondo, ma piu'
filosofo del primo. Gli anni
in cui egli colloca il suo tirocinio filosofico, dal 1933 in poi, sono gli anni
in cui l'idealismo, filosofia dominante da alcuni decenni, giunge estenuato ai
suoi stessi discepoli che credendo di rinnovarlo lo travolgono. Nello stesso
anno in cui appaiono gli Elementi, il piu' fedele degli allievi di Gentile, Ugo
Spirito, scrive un libro (La vita come ricerca, 1937) in cui converte lo
spiritualismo trionfale del suo maestro nel problematicismo, cioe' in una
filosofia della crisi. Sono gli
anni in cui coloro che si danno agli studi filosofici (essendomi laureato in
filosofia nello stesso 1933 parlo piu' da testimone che da storico) cercano
altre strade, la fenomenologia, l'esistenzialismo, il neo-positivismo del
Circolo di Vienna. Ho gia'
detto altrove (sono costretto a ripetermi, ma il discorso su Capitini mi offre
l'occasione di una singolare conferma) che nel decennio tra il 1930 e il 1940,
nonostante il fascismo che culturalmente non conta nulla, fanno la loro
apparizione nel nostro paese le correnti filosofiche che terranno il campo dopo
la Liberazione, ad eccezione del marxismo, rispetto al quale l'ostracismo e'
rigoroso (il primo marxista della nostra generazione, Galvano Della Volpe, anche
lui in cerca d'una via d'uscita, scrive in quegli anni un libro su David
Hume). Da un
lato Geymonat e Colorni, il filone della filosofia scientifica; dall'altro
Abbagnano, Paci, il primo Luporini, il filone dell'esistenzialismo. Come al
tempo della crisi della grande filosofia sistematica di Hegel, quell'hegelismo
minore che fu l'idealismo italiano si rompe in due direzioni opposte, verso la
scienza (il nuovo positivismo) o verso la riscoperta di un'esperienza religiosa,
se pure nella forma di una teologia rovesciata, com'e' l'esistenzialismo di
Heidegger. Non
posso non andare con la mente alle parole di Nietzsche: "Che cosa e' il
filosofo? Al di la' delle scienze: liberazione dalla materia. Al di qua delle
religioni: liberazione dagli dei e dai miti". Ovunque il sistema filosofico,
qualunque esso sia, si dissolve, tornano alla ribalta affrontandosi o alleandosi
l'al di qua delle scienze e l'al di la' della religione, il sistema astratto e
l'anti-sistema, l'intellettualismo e l'irrazionalismo. * La
rottura capitiniana avvenne dalla parte dell'al di la' della filosofia. In una
storia del pensiero per linee molto generali potrebbe essere compresa
nell'orizzonte dell'esistenzialismo, anche se si sia trattato di una convergenza
oggettiva, e, se mai con riguardo all'Italia, di un'anticipazione, non certo di
una consapevole derivazione (i primi libri italiani dichiaratamente
esistenzialistici sono La struttura dell'esistenza di Abbagnano e La filosofia
dell'esistenza e Carlo Jaspers di Pareyson, rispettivamente del 1939 e del
1940). Piu' tardi egli stesso avvicino' la sua "esperienza religiosa" a quella
di Kierkegaard, che peraltro quando scrisse il suo primo libro non aveva letto.
L'unico autore citato negli Elementi che possa essere fatto rientrare nella
letteratura esistenzialistica e' Nicola Berdiaeff, il quale era letto in quegli
anni, anche dallo stesso Capitini, come uno scrittore politico, specie per il
suo libro Cristianesimo e vita sociale, apparso nel 1936. Non si
puo' negare che nel modo con cui Capitini affrontava il problema della crisi
spirituale del proprio tempo, e dell'esigenza di un impegno personale, intimo,
radicale, nella ricerca di una soluzione che non poteva essere soltanto sociale
o politica, e tanto meno soltanto istituzionale, vi fosse una vena del piu'
genuino esistenzialismo. Quando
egli scrive "l'essenza della religione e' la coscienza appassionata della
finitezza", introduce uno dei motivi piu' profondi e piu' esaltati
dell'esistenzialismo (com'egli stesso riconoscera' in tempo di esistenzialismo
trionfante), mettendo pero' l'accento non tanto sul sostantivo "finitezza"
quanto sull'aggettivo "appassionata", per segnare quel che lo distingue, la
tensione verso il superamento del limite, non la sua accettazione, l'andare al
di la' verso il tu di tutti, non il restare dentro la situazione tanto da non
intravedere, come accade appunto all'esistenzialismo, "la realta'
liberata". Se di un
suggerimento esistenzialistico si puo' parlare, bisognera' andarlo a cercare in
colui che fu chiamato un esistenzialista ante litteram, Carlo Michelstaedter,
morto adolescente nel 1910, di cui doveva essere ancora viva la presenza
nell'Universita' di Pisa attraverso l'insegnamento di Vladimiro Arangio-Ruiz,
che ne era stato l'amico e l'editore. Il quale e' subito citato all'inizio degli
Elementi: "Carlo Michelstaedter, alla fine del primo decennio di questo secolo,
dopo aver sentito come forse nessun altro la romantica riduzione di tutto a se'
stesso, si uccise per possedersi, per consistere, per sottrarsi ad ogni dominio
e realizzarsi perfettamente. Egli sconto' cosi' con la sua vita serissima tutta
una civilta'". In un
passo di Il fanciullo nella liberazione dell'uomo, Capitini collega l'autore di
La persuasione e la retorica all'esistenzialismo in questo modo:
"L'esistenzialismo segnala la frattura, l'interruzione del continuare, della
retorica (direbbe Michelstaedter), il pervenire al limite, al fondo, proprio
perche' sia possibile altro". Di contro alla retorica, cioe' al modo, ai vari
modi con cui l'uomo vivendo nell'effimero del tempo s'illude di vivere
nell'eterno, sta la persuasione, cioe' il possesso reale, risoluto, senza
illusioni e inganni, che e' di pochi, del presente: "La via della persuasione
non e' corsa da omnibus, non ha segni, indicazioni che si possano comunicare,
studiare, ripetere; ma ognuno ha in se' il bisogno di trovarla e nel proprio
dolore l'indice, ognuno deve nuovamente aprirsi da se' la via, poiche' ognuno e'
solo e non puo' sperare l'aiuto che da se'. La via della persuasione non ha che
questa indicazione: non adattarti alla sufficienza di cio' che ti e'
dato". Se pure
con parole meno oscure e destinate a ben piu' largo consumo, questa distinzione
fra persuasione e retorica rivivra' nella contrapposizione heideggeriana tra
esistenza autentica ed esistenza inautentica. Chiunque abbia una certa
familiarita' con gli scritti di Capitini sa che uno dei termini-chiave del suo
linguaggio personalissimo e' "persuasione", che sta per "credenza" o per "fede"
(il bel capitolo autobiografico con cui ha inizio il libro Religione aperta e'
intitolato La mia persuasione religiosa), onde "persuaso", parola da lui
usatissima equivale a "credente". Egli stesso ne riconosce la derivazione da
Michelstaedter: "... del quale mettevo in rilievo, anche in una conferenza che
tenni a Firenze, la "persuasione" (un termine che ho assunto, preferendo
"persuaso" a "credente", persuaso nel senso di "autopersuaso", quasi di
"pervaso"), l'antiretorica, quel tipo di esistenzialismo, che poteva divenire
supremo impegno pratico [...]: insomma mi pareva esatto considerarlo come la
premessa di una tensione etico-religiosa". Una
premessa, non una conclusione: nella Compresenza dei morti e dei viventi viene
presentato il tema fondamentale dell'opera di Michelstaedter: "La persuasione e'
il possesso presente della propria vita". Ma poi subito dopo si aggiunge: "Come
si puo' possedere la propria vita se esiste accanto la
morte?". Questa
osservazione e' molto importante, perche' ci mostra entro quali strettissimi
limiti si possa parlare di esistenzialismo a proposito di Capitini.
L'esistenzialismo, specie nella sua versione heideggeriana, era una filosofia
della crisi (del decadentismo, come dicevo allora), che rifuggiva dal mondo
perche' non era in grado, nonche' di trasformarlo, neppure di
comprenderlo. Era una
filosofia non politica per eccellenza o del rifiuto della politica degradata a
mondo della "cura" per la sopravvivenza con cui l'uomo condannato ad esistere
cerca di sfuggire all'angoscia di fronte al nulla che lo circonda o al Dio che
e' sempre al di la'. La
filosofia di Capitini era all'opposto una filosofia sociale, o meglio
comunitaria, la cui categoria essenziale non era la "cura" (la Sorge
heideggeriana) ma la tensione (o lo slancio, con altra parola tipica del suo
linguaggio) verso l'altro, verso gli altri, verso il tu di tutti, ove la
finitezza non e' un limite invalicabile, un limite sentito come una colpa oscura
da cui non e' possibile riscattarsi, ma come la condizione per cui non possiamo
fare a meno degli altri, e dobbiamo cercare di vivere, secondo un'espressione
leopardiana che Capitini usa spesso, "confederati". (Nobile natura e' quella che
"tutti fra se' confederati estima gli uomini e tutti abbraccia con vero
amor..."). Ove insomma la finitezza non e' una situazione limite, ma una
situazione aperta, anzi il punto di partenza verso l'apertura infinita al Dio
del mondo, cioe' di quel Dio che vive nella comunita', capitinianamente, nella
"compresenza" dei vivi e dei morti. * Ho
citato di proposito Leopardi, non solo perche' fu uno degli autori di Aldo, ma
perche' Leopardi, molto piu' di Kierkegaard, offre spunti e temi in quegli anni
all'esistenzialismo italiano (sia ricordato per tutti il libro di Cesare
Luporini, allora vicino al gruppo capitiniano, Situazione e liberta'
nell'esistenza umana, del 1942, che contiene alcuni richiami a temi leopardiani
come quello del tedium vitae). Aldo dal
canto suo si defini' un po' paradossalmente, con quel gusto che gli era proprio
di rompere gli schemi canonici della filosofia accademica,
"kantiano-leopardiano" (sul "kantiano" diremo fra poco). Dei principali temi
della sua filosofia riteneva di aver trovato un'espressione poetica nell'autore
della Ginestra: oltre quello della unita' di tutti gli esseri viventi contro la
natura matrigna, quello della compresenza dei morti nei famosi versi a Nerina:
"Ogni giorno sereno, ogni fiorita / piaggia ch'io vedo, ogni goder ch'io sento /
dico: Nerina or piu' non gode; i campi, / l'aria non
mira". Ispirato
a Leopardi e' il capitolo di Vita religiosa intitolato L'orizzonte (e
curiosamente il tema dell'orizzonte e' anche un tema esistenzialista, un tema
strettamente connesso a una filosofia della finitezza, come ben sa chi conosce
la filosofia di Jaspers, e l'importanza che vi ebbe in quegli anni la prima
traduzione di un suo libro, Existenzphilosophie, in cui uno dei temi centrali e'
quello dell'Umgreifend, tradotto in italiano "orizzonte
comprendente"). In una
filosofia del finito l'orizzonte e' una metafora quasi obbligata: esso e'
infatti la rivelazione di cio' che e' finito, perche', per quanto si allarghi,
non cessa mai di avere un limite, ma nello stesso tempo, rinviando continuamente
a quello che e' al di la', e' il segno o la "cifra" attraverso cui si rivela
l'infinito. Quella che per Leopardi era la "... siepe, / che da tanta parte
dell'ultimo orizzonte il guardo esclude", in Capitini sono in quel capitolo "le
finestre da cui si vede una parte dei monti", e, al di la' delle "torri" e delle
"cime" si puo' scorgere "tutta la linea fra la terra e il
cielo". Beninteso,
per la stessa ragione per cui Capitini lambisce l'esistenzialismo ma non e'
esistenzialista, cosi' assume alcuni temi leopardiani ma non e' leopardiano (se
non negativamente): l'infinito di Leopardi e' il mare in cui e' "dolce
naufragare", e' un momento del contemplare; per Capitini l'infinito viene
vissuto nella compresenza, diventa atto pratico, un momento della "prassi"
religiosa. Egli
paragona l'orizzonte della natura a quello della storia da cui contempla e
rivive tutto il passato e rivivendolo non lo sente piu' come passato, e nel fare
(non nel semplice contemplare) l'orizzonte e' gia'
superato. La
conclusione che egli trae dalla contemplazione della linea che separa il cielo
dalla terra (fuor di metafora lo spirito dalla materia) non e' soltanto una
conclusione esistenziale, come quella di Leopardi, ma e' una conclusione
filosofica: "Giove e gli angeli sono svaniti". Certamente,
tanto l'esistenzialismo quanto la filosofia di Capitini, hanno una matrice
religiosa: ma la religiosita' esistenzialistica (da Kierkegaard a Heidegger) e'
di origine protestante ed e' ispirata ad una concezione pessimistica dell'uomo;
la religiosita' di Capitini e', nonostante il suo aggressivo anti-cattolicesimo
istituzionale, di ispirazione cattolica (parlo della spiritualita' cattolica,
che guarda alle opere piu' che alla fede, non alla chiesa come
istituzione). Invero
dal punto di vista della negazione radicale di ogni istituzionalismo, Capitini
fu non meno anti-cattolico che anti-protestante, e non puo' essere compreso se
non inserendolo nella storia delle sette non conformiste che predicano il
ritorno alle origini - di quelle sette in cui Piero Martinetti in quegli stessi
anni, scrivendo Gesu' Cristo e il cristianesimo (1934), vedeva trasmesso e
conservato in ogni epoca storica lo spirito genuino del messaggio cristiano - e
che sole propugnarono come genuinamente cristiano, sempre avversate dalle chiese
che dovevano venire a patti col mondo, il tema capitiniano quant'altri mai della
nonviolenza. Chi
volesse approfondire l'antitesi fra l'antropologia pessimistica
dell'esistenzialismo e quella ottimistica di Capitini dovrebbe fare una rassegna
dei temi esistenziali che si trovano ripetuti nelle sue opere. Sono temi in
genere diametralmente opposti a quelli esistenzialistici, perche' richiamano
l'attenzione sull'aspetto chiaro non su quello oscuro dell'esistenza umana: la
gioia, la festa, la coralita', l'amicizia, la vicinanza, l'aggiunta, l'apertura,
la letizia, il tu dato a tutti, anche ai morti ("Non sai quanto mi ha atterrito
la vista dei morti; mi sono schiarito pensando che potevo dire
'tu'"). Se per
quel che riguarda l'esistenzialismo si e' potuto parlare di convergenza, si deve
parlare invece di appropriazione e superamento rispetto all'idealismo o meglio
allo storicismo, filosofia dominante nella cultura italiana, con la quale la
nostra generazione fu l'ultima a dover fare i conti, con un misto di amore e
odio, di accettazione e ripulsa, che ha marcato (o marchiato) tutta la nostra
vita intellettuale e ci ha segnati come una generazione di mezzo travagliata e
divisa, piu' ricettiva che creativa, instabile e inquieta perche' in continua
ricerca della propria identita' (che non e' mai riuscita a
trovare). Parlo di
superamento e non di rifiuto, perche' l'altra filosofia, la filosofia data per
morta e quindi rifiutata, era per Aldo la filosofia della trascendenza, che
poneva Dio fuori del mondo, non gia' lo storicismo, filosofia dell'immanenza che
aveva fatto discendere Dio nella storia, l'universale nel
concreto. Rispetto
alla filosofia della trascendenza, lo storicismo segnava, per Aldo, un passo
avanti, che non permetteva ritorni o salti indietro nel tempo. Capitini insomma
accettava la lezione dell'idealismo, ma non se ne accontentava. L'idealismo era
un passaggio obbligato; ma appunto un passaggio, non un punto di
arrivo. La
superiorita' dell'idealismo rispetto alle filosofie tradizionali stava nel fatto
che esso aveva posto o riposto il soggetto, intendi il soggetto concreto umano,
il soggetto finito-infinito, al centro del mondo e della storia, era una
filosofia del soggetto. In
questo modo Capitini accettava pienamente la definizione che l'idealismo dava di
se stesso. Nell'estrema espressione di questa filosofia che era, secondo un
giudizio che egli divideva con tutta la filosofia immediatamente
post-idealistica, l'attualismo gentiliano, il soggetto si risolveva tutto quanto
nell'atto con cui poneva e riproponeva se stesso: una filosofia che usciva dal
tronco dell'idealismo non poteva che essere una filosofia dell'atto. Non solo
dunque idealismo, ma, piu' specificamente, attualismo. Lo stesso Capitini
confessa: "Quanto all'Atto di Gentile io sono tra quelli che hanno sentito il
fascino di quel concentrare tutto qui, per tutto rifare in un totale impegno.
Non la sommersione delle distinzioni o quei logicismi che ricadevano su se
stessi, ma la forza di quell'eticismo (o tensione religiosa, teogonica) ha
operato su molti". Ma quale
atto? Il problema fondamentale di Capitini, dalla prima all'ultima pagina delle
sue opere, fu quello di recuperare il senso escatologico della filosofia della
trascendenza, dopo aver accettato la filosofia dell'immanenza che non riconosce
nessun altro mondo fuori di questo mondo della storia. Il suo
pensiero religioso si puo' riassumere in questa formula: l'escatologia qui e
subito. O il trascendimento del mondo o la perdita del mondo. Ma il
trascendimento non e' rinvio alla trascendenza, non e' attesa della liberazione
dal di fuori o dall'alto, bensi' liberazione in atto attraverso l'apertura
infinita a tutti, morti e viventi, cose e persone. Per aver rifiutato la
trascendenza, l'immanentismo ha finito per accettare il mondo, e invece bisogna
rifiutare la trascendenza ed anche il mondo: "Quello che non puo' fare lo
storicismo, lo fa una posizione etico-religiosa, che taglia l'ottimistico
svolgimento storico e approfondisce. E se io non posso placarmi al morire degli
individui nella storia, io cerco una realta' in cui l'individuo non muoia, sia
presente in eterno". Lo
storicismo si risolve nella concezione panteistica dell'Uno-tutto. Ma una
autentica filosofia del soggetto non puo' realizzarsi se non trasforma
l'Uno-tutto in Uno-tutti, il panteismo o pan-logismo in un pan-personalismo (la
parola e' mia). Per passare dal pan-teismo al pan-personalismo occorre una
tensione religiosa, che l'idealismo nel suo giustificazionismo storico non
conosce. Occorre insomma, con tipica parola capitiniana,
un'aggiunta. Nell'ultima
opera, che, come ho gia' detto, certamente e' l'opera filosoficamente piu'
impegnativa, egli sviluppa il tema del raffronto tra "aggiunta" e "dialettica".
La dialettica e' un movimento che si chiude su se stesso, e' la logica, lo dico
con parole mie, di un sistema che, per quanto dinamico, e' chiuso. In altre
parole, la dialettica spiega tutto ma non trasforma nulla. Per trasformare il
mondo occorre rompere questo movimento che si chiude su se stesso: solo
l'aggiunta religiosa puo' operare questa rottura. "Noi non
diremo che l'essere singolo a cui volgiamo il tu e' morto, perche' cosi' voleva
la dialettica del reale. Ne' che la realta' liberata verra' necessariamente dopo
che il Male si sia sfrenato come in un regno dell'Anticristo; ma che la realta'
liberata si aggiungera' dal di dentro". Piu' che
verso gli idealisti italiani, la critica capitiniana dello storicismo e' diretta
a Hegel, considerato come il filosofo del sistema totale, di una totalita'
organica in cui gli individui scompaiono, che non lascia alcuno spazio alla
realta' di tutti: "Siamo ancora con Hegel nel problema teologico di intendere il
rapporto tra Dio e l'uomo. Siamo ancora, sebbene su terreno laico, in una festa
religiosa in cui si celebra la discesa, la "presenza", mirando, nella luce del
mistero risolto, ad essa; e non ai compresenti". O
ancora: "Per Hegel l'insufficienza dei singoli elementi viene colmata nel nesso
di questi con il Tutto; qui (nella filosofia della compresenza) la constatazione
della insufficienza fa porre le aperture pratiche religiose alla
compresenza". Che
questa critica di Hegel avesse tratti esistenzialistici, o meglio che
l'interpretazione di Hegel che Capitini aveva accolto (ed era del resto favorita
dalla forma che aveva assunto lo hegelismo in Italia) fosse particolarmente
vulnerabile in una prospettiva esistenzialistica, non mi par dubbio. Ma e' da
notare ancora una volta che anche in questa fase egli non si ferma
all'esistenzialismo perche' non ne accetta i tratti
irrazionalistici. * Per
quanto possa sembrare strano in un pensatore religioso come Capitini, la critica
di Hegel non lo conduce affatto a Kierkegaard ma gli fa ritrovare Kant. Non e'
improbabile che ad attrarlo verso l'autore della Religione nei limiti della sola
ragione fosse stata la monografia kantiana di Martinetti, uscita postuma nel
1947, e che egli cita nella Compresenza. All'opposto
degli idealisti che avevano visto in Kant il primo anello dell'idealismo
tedesco, Martinetti aveva inseguito ed esposto in vari scritti una sua
interpretazione metafisica e religiosa dell'etica kantiana. L'interpretazione
capitiniana di Kant si svolge nella stessa direzione, e se mai con maggiore
insistenza sulla dimensione religiosa, tanto da costituire uno dei momenti
culminanti e anche piu' originali del dialogo che Capitini tesse e ritesse
instancabilmente coi grandi filosofi. Mentre
Hegel fa discendere l'universale nel mondo e ve lo rinchiude, Kant ha sempre lo
sguardo volto all'altro mondo, al mondo noumenico, che e' rivelato all'uomo dal
dovere morale. Certo con Hegel "Dio scendeva a toccare la terra e a trasformare
gli eventi". Ma: "pareva piu' religioso il Kant, il quale, pur con l'astrattezza
e la lontananza e la chiusura adialettica e ontologica del suo Dio, poteva (...)
conservare il dramma della realizzazione dell'assoluto come dovere, come valore,
come aspirazione, tensione". Oppure:
"Il Kant, col suo non risolversi interamente nella storia, finiva per
intravedere una storia ulteriore, quando la destinazione umana (...) sia attuata
sulla terra; cioe' intravedeva un concreto modo di essere del reale migliore del
modo di realizzarsi che appare attualmente". E
ancora: "Malgrado tanto hegelismo nell'aria, e nel nostro sangue, nelle
strutture e nella storia d'oggi, noi ci collochiamo in una situazione che e'
piu' simile a quella del Kant: il Kant aveva davanti l'empirismo, e non si
stancava di aggiungere elementi formali, universali, intelligibili: noi,
raggruppando le posizioni che troviamo secondo la comune origine di posizione
della "vita", di chi e' vivente, ci troviamo ad aggiungere la compresenza. Il
risultato e' che, mentre lo Hegel, con il movimento dell'Idea giustificava
l'evento, anche la morte, noi, con l'aggiunta della prassi della compresenza
(che e' incondizionata), tendiamo a trasformare l'evento, e quindi a vincere la
morte". Lo
colpi' una frase della Religione nei limiti della sola ragione che suona cosi':
"Noi possiamo aver fiducia che, se noi fossimo o diventassimo un giorno
perfettamente cio' che dobbiamo essere e potremmo diventare (con una continua
approssimazione), la natura dovrebbe obbedire ai nostri desideri i quali pero',
allora, non sarebbero, mai, insensati". Vi
vedeva quasi come un'anticipazione dell'idea che gli fu cara, della
trasformazione della realta' attraverso la libera "aggiunta". Spiegava: "Non e'
l'accettazione del mondo com'e' (naturalismo), ma l'esigenza che il mondo sia
piegato, prima o poi, da noi o dall'opera altrui o insieme, ai nostri desideri
puri; noi diremmo: alla compresenza, che essendo realta' di tutti e produzione
del valore ci da' la garanzia di desideri puri, sani". Malgrado
questa interpretazione, che mette l'accento piu' sull'aspetto etico-religioso
che non su quello gnoseologico (preferito dagli idealisti) del pensiero
kantiano, restano tra Capitini e il "suo" Kant alcune differenze fondamentali (e
per questo il dovere di Kant e' soltanto un'anticipazione dell'aggiunta): il
regno kantiano dei fini e' pur sempre il regno degli esseri razionali, non di
tutti gli esseri viventi, compresi gli esseri non razionali; viene rinviato ad
un futuro puramente ideale e immaginario, mentre il persuaso agisce sin d'ora,
perche' la natura in cui egli opera non e' chiusa all'influenza del valore, non
esiste per lui un dualismo insuperabile tra mondo fenomenico e mondo noumenico,
che riproduce il vecchio dualismo teologico; infine Kant accetta ancora del
vecchio mondo teologico l'idea del giudizio ultimo dei buoni e dei cattivi
(cioe' l'idea di un Dio di giustizia). Non c'e' nulla che Capitini respinga con
maggiore forza di questa idea del giudizio. La compresenza dei morti e dei
viventi e' la negazione del giudizio, e quindi del Dio di giustizia: "La
connessione a priori del destino dei vivi e dei morti nella compresenza
(creazione corale dei valori) fuga la tentazione di descrivere il trascendente e
di ristabilire i due piani al modo platonico, e sopprime la tentazione di
stabilire un giudizio, un merito distinto, secondo il modo di vedere
l'individuo, che e' stato il punto di partenza greco-umanistico: l'ammettere una
infinita cooperazione con i morti fa saltar via il giudizio, e porta
l'escatologia qui veramente nella coralita' del valore e nella possibilita'
della trasformazione della natura. Se si vuole, si puo' dire, con tutte le
riserve fatte, che questo e' il motivo hegeliano di discesa dell'elemento ideale
nel mondo, che viene realizzato con la compresenza, ma non naturalisticamente,
accettando l'evento della morte, bensi' escatologicamente, con indirizzo alla
liberazione, alla trasformazione della natura". * Kant ed
Hegel stanno sullo sfondo. Ma il colloquio quotidiano e' con Croce. Se Gentile
era, a Pisa, di casa, Croce era presente in ogni angolo della cultura italiana.
Non si poteva fare un passo senza incontrarlo. Erano gli anni in cui Croce,
ripiegato su se stesso, ci incitava a credere, con l'opera e con l'esempio,
nelle "forze morali" che muovono la storia. Ancora oggi non posso ripetere
queste parole "le forze morali", che a un giovane possono sembrare retoriche,
senza provare un'emozione profonda. Dal modo con cui Capitini discute e
ridiscute in quasi tutte le sue opere i grandi temi della filosofia crociana, le
famose quattro categorie dello Spirito, il concetto di vitalita', la distinzione
fra giudizio storico e giudizio morale, la riduzione dell'individuo all'opera,
la catarsi del dramma umano nella poesia o nella storia, si capisce benissimo
che Croce era l'interlocutore privilegiato, il maestro
vivente. A
cominciare da un saggio del 1941, dove, avendo contrapposto Croce (la dialettica
dei distinti) a Gentile (la dialettica degli opposti), si pone decisamente dalla
parte del primo e pur non esita a mettere in evidenza i limiti pratico-politici
(nell'ora che chiama alla responsabilita' di un'azione concreta) della posizione
crociana di fronte alla storia. Spiega
che la conoscenza storica si chiude nell'Uno-Tutto che e' "volonta' di Dio,
forza delle cose, integrale corso storico, reale egemonia delle cose, unita'
cosmica, corso del mondo" e che a una esigenza religiosa non basta una
concezione dialettica, perche' "se la storia considera l'opera operata, la vita
religiosa, soprastoria e sottostoria che sia, volge un divino tu alla persona,
per una libera aggiunta, per un'iniziativa di piu', che si alimenta anche della
continua e disciplinatrice esperienza dei valori". E conclude: "E allora la mia
apertura d'animo ad una vecchia povera, dalla faccia magra e che oramai ha
appena il fiato per respirare, il mio interiorizzamento della sua esistenza, che
par da poco, puo' importarmi piu' che non lo stabilire la positivita' dell'opera
dei Gesuiti". Anche
l'opera di Capitini dunque, come quella di Gramsci, e' un anti-Croce, ma appunto
in quanto tale non sarebbe stata quella che e' stata senza l'antagonista. Le
ultime parole dell'ultima opera, la Compresenza, terminano con questa
contrapposizione: "Il Croce in un mondo greco-europeo ha affermato sopra gli
schemi della filosofia della storia, la perennita' delle quattro categorie o
valori dello Spirito (...); questo libro, sopra gli schemi della filosofia della
storia presenta la compresenza dei morti e dei viventi, realizzanti insieme
valori e trasformanti la realta' attuale". Croce,
da un lato; "questo libro" dall'altro: Croce e anti-Croce. Cio' che affascina
Capitini e', se non m'inganno, il senso meraviglioso che Croce ha della grande
fiumana della storia in cui sembra che nulla vada perduto. Ma sopravvive
soltanto l'opera. Non sopravvivono gli uomini, gl'individui singoli, piccole
particelle di un Tutto che li travolge. "Il Croce - Aldo ripete spesso - dira'
che la storia non puo' morire, ma i morti sono ben morti". A volte
la sua mente si volge per contrapposizione a Kant, come in questo passo:
"Quell'elemento profondo e, si direbbe, materno per cui il tu e' per l'individuo
compresente, indipendentemente dalle sue qualita' e dalle sue azioni, viene a
mancare nella concezione dello storicismo immanentistico e nella concezione
della trascendenza cattolica. E per questo una vera e propria attenzione
all'individuo manca in entrambi, perche' nella prima l'attenzione e' per i
prodotti storici, nella seconda per le decisioni autoritarie di Dio. Che
l'individuo sia nella compresenza non e' percepibile nell'esperienza, direbbe il
Kant (...) Il Kant direbbe: col tuo atto morale tu costituisci la persona, tua e
altrui, come razionalita'; che percio' non e' percepibile sensibilmente, non e'
cosa che si veda con gli occhi o si tocchi con le mani". Altre
volte, a Leopardi: "La protesta per il passo della morte e' piu' religiosa che
la sua accettazione, e il Leopardi e' piu' religioso del Croce (...). Il Croce
e' greco-europeo, perche' la civilta' europea porta al suo sommo l'affermazione
dei valori. Il Leopardi comprende questi (le virtu'), ma cerca gl'individui, e
li vede morire, non li trova piu', sono i morti". In un
passo autobiografico estremamente pregnante, che, esaminato coi criteri
tradizionali della storiografia filosofica, potrebbe sembrare stravagante, si
definisce un kantiano-leopardiano: "Ero da molti anni un libero religioso,
implicitamente un kantiano con una prevalente attenzione alla "finitezza"
dell'uomo, al suo dolore, alla incapacita' in cui egli si trova talvolta, in
mezzo ad una civilta' attivistica, di operare e di essere al livello degli
altri, a causa della insufficienza fisica, della sua malattia. Ero un
kantiano-leopardiano, umanitario e socialisteggiante (e' noto che non sono stato
mai nel fascismo, pur avendolo visto nascere), prima di conoscere il
Kant". * Nulla
meglio di questo continuo trapasso dal concetto di un filosofo ad un'intuizione
di un poeta ci permette di capire che il passaggio dagli studi letterari
(Leopardi) agli studi filosofici (Kant) era avvenuto, come abbiamo letto nella
frase citata all'inizio, unicamente perche' egli aveva sentito l'esigenza di
trovare una giustificazione teorica alla pratica di
libero-religioso. Capitini
non e' un filosofo (e neppure un letterato): per usare la suo autodefinizione,
e' un "persuaso". E un persuaso e' prima di tutto un uomo in cui l'impegno
pratico prevale sull'impegno contemplativo. Il filosofo e' pur sempre un
contemplante e lascia il mondo com'e'; il persuaso e' tutto teso nell'azione,
nella "prassi" (influenza di Marx?) che trasforma, o "tramuta" il mondo:
"L'apertura alla realta' liberata e' soprattutto pratica (...) Intendere che
cosa e' Dio non si puo' se non attraverso impegni pratici". Di fronte
all'inadeguatezza della realta', filosofo e' colui che ricorrendo a Dio, o alla
Storia, cerca di giustificarla e, se non puo' giustificarla, l'accetta. Il
persuaso opera per mutarla: "Davanti ad un semplice essere vivente, per esempio
una piccola pianta, se pensiamo all'Essere, sentiamo la sua inadeguatezza, la
sua "limitatezza metafisica", e non possiamo fare altro; se tendiamo alla
Prassi, abbiamo la fiducia che nella realta' di tutti sia fondata anche la
pianta, che essa sia recuperata, abbia una sua destinazione, perche'
nell'apertura pratica pura c'e' anch'essa, e la Prassi non rischia il nulla
perche' la compresenza connette vivi e morti". Il tema
della prassi ci conduce al Capitini religioso, anzi religioso-politico, su cui
ho richiamato l'attenzione altra volta. Ancora un'osservazione se mai, volendo
restare nel tema che mi e' stato assegnato, sul rapporto di Capitini col
marxismo (intendo il marxismo come filosofia, come visione del
mondo). Non si
puo' dire che Capitini sia stato uno studioso di Marx, anche se Marx viene
spesso citato nelle sue opere (quantunque meno di Hegel o di Kant o di Croce);
ma anche lui, come tutti coloro che hanno partecipato al rinnovamento culturale
italiano dopo la liberazione, non ha potuto fare a meno di prendere posizione di
fronte al marxismo. Questa
posizione non e' molto diversa da quella che egli assunse di fronte alla
filosofia dell'immanenza in genere, e di fronte all'hegelismo in ispecie, di cui
il marxismo e' sempre stato considerato nella tradizione filosofica
dell'idealismo italiano una discendenza. Anche il
marxismo ha il merito di far discendere Dio nel mondo; anzi, con il particolare
rilievo dato ai bisogni materiali dell'uomo (a quello che per Croce era il
valore economico o della vitalita'), ha condotto piu' a fondo di tutte le altre
filosofie immanentistiche il processo dell'immanenza: "Nel marxismo l'umanesimo
laico fa un poderoso sforzo ulteriore, vista l'insufficienza della soluzione
dello storicismo idealistico". Il marxismo, in quanto materialismo, e'
immanentismo radicale. E, solo in quanto immanentismo radicale, riesce a porre
le premesse, attraverso l'eliminazione della proprieta' privata, perpetua
generatrice del dominio e dell'oppressione dei pochi sui molti, per far fare
"uno scatto in avanti" al processo di liberazione
dell'uomo. Pero',
anche il marxismo e' pur sempre soltanto un umanesimo. Manca ad esso, come a
tutti gli umanesimi precedenti, da Hegel a Croce, la tensione religiosa. Solo
cosi' si spiega che possa riporre la speranza di salvezza in una classe
economica, che, per quanto costituisca la grande maggioranza degli uomini, non
rappresenta tutta intera l'umanita'. Per il persuaso religioso "oppresso e' un
salariato, ma oppresso, in questa realta' di fatti, e' anche il condannato alla
pena capitale, il nato cieco, il morto". Come umanesimo, il marxismo resta nei
limiti della storicismo, e dell'hegelismo: e' un hegelismo condotto alle sue
estreme conseguenze, ma e' pur sempre hegelismo. "I
proletari prenderanno il potere tenuto dai borghesi; ma lo eserciteranno come lo
esercitavano i borghesi, con gli stessi modi di governo? Questo e' cio' che
unisce hegeliani e marxisti, malgrado le polemiche interne. Lo Hegel doveva
aspettarsi questa utilizzazione estremamente realistica del suo "spirito"; ma
poteva anche esser certo che uno stato sorto su questa utilizzazione realistica
non si sarebbe molto diversificato dallo stato sorto sul suo modo d'intendere lo
Spirito". Anche
rispetto al marxismo dunque l'atteggiamento di Capitini e', come nei riguardi di
tutte le altre filosofie immanentistiche, un atteggiamento di accettazione e di
rifiuto insieme. Anche il marxismo ha bisogno dell'"aggiunta" religiosa: "La
religione aperta si aggiunge all'umanesimo rivoluzionario da una posizione
post-umanistica, ma proprio ne rende possibile la
realizzazione". * Un'ultima
considerazione: se per filosofia s'intende non soltanto il sistema (che Capitini
non ebbe e non si sforzo' di avere) ma una visione del mondo, ritengo che per
capire la visione del mondo capitiniana non basti risalire alle sue fonti
filosofiche, rileggere i suoi autori, ma occorra entrare dentro la sua
esperienza, cogliere le fonti vitali, non libresche, del suo pensiero. Egli
stesso disse: "Se la cultura mi giovo' (...), sono certo che anche senza cultura
sarei arrivato ai punti essenziali della mia persuasione religiosa (...) sapere
della guerra, conoscere direttamente il dolore e insistentemente, soffrire
l'esaurimento, l'insonnia, la fragilita' fisica, sperimentare il male morale,
non accettare la violenza, interessarsi ai singoli, vivere in poverta', tendere
ad associarsi per lottare politicamente, sono cose che possono essere anche in
una persona senza speciale cultura, e loro mi hanno condotto ad una vita
religiosa". Le
filosofie gli offrirono strumenti concettuali per esporre le proprie idee per
entro una societa' che accetta le idee soltanto se sono presentate in una certa
forma, con un certo linguaggio. Ma per capire i contenuti di quelle forme, e'
forse piu' utile cogliere da alcuni cenni autobiografici, dalle opere poetiche,
il suo modo fondamentale di porsi di fronte al mondo, che era quello di stare
dalla parte dei "dannati della terra", di coloro che chiamava di volta in volta,
con fantasia linguistica inesauribile, gli "sfiniti", i "sofferenti", gli
"stanchi", gli "stroncati", i "languenti", gli "annullati", i "dimezzati", i
"lontani", gli "ultimi", i "torturati", gli "scomparsi", i "colpiti dal mondo".
Io stesso ho capito meglio che cosa significasse "compresenza" allorche' mi
imbattei in questo passo: "... quando si e' in un cimitero non si vorrebbe
restare custode di una tomba soltanto, anche se di persona stata a noi
carissima; perche' vorremmo essere custodi di tutte, leggere le altre epigrafi,
mandare un sorriso ad ogni giacente; e ogni osso tratto su dalla terra e dalle
casse disfatte, ci e' caro, un oggetto lasciato, che si direbbe anonimo, ma fu
di essere umano singolo e con un nome". Ho
creduto di capire che la compresenza era per Capitini qualche cosa come la
resurrezione dei morti, non rinviata a un tempo metastorico, ma vissuta, attuata
nel presente: intesa la resurrezione dei morti come trasformazione non solo
della societa' ma anche della natura. Nell'ultima
lettera che mi scrisse (del 28 settembre 1966) in risposta ad alcune mie
osservazioni sulla Compresenza, allora uscita, diceva: "Si tratta di non
concepire il realizzarsi della natura cosi' com'e', compresa la morte, come una
categoria immodificabile, cosi' come il Marx ha detto che il mondo economico del
profitto non e' immodificabile". In un
altro punto precisava: "La prassi non e' essa sola la distinzione tra
compresenza e storicismo, ma oltre la prassi c'e' un diverso concetto di essere.
E' il punto che sto studiando da mesi. Mi pare di essere sulla via di
chiarirlo". Dalla
lettura dell'ultima opera e dagli accenni di questa lettera trassi l'impressione
che Aldo avrebbe voluto continuare ad approfondire filosoficamente il suo
pensiero. Anzi forse di li' sarebbe cominciata la sua migliore stagione
filosofica. Ma la morte la interruppe. Qui ho cercato soltanto di mettere insieme frammenti di un disegno rimasto incompiuto e di collocarli nel quadro piu' ampio della cultura filosofica di quegli anni: un modo di rivivere insieme con noi la sua esperienza, o almeno una parte della sua esperienza, e attuare cosi' in concreto, anche solo per un momento, la "compresenza".
2. APPELLI.
IL CINQUE PER MILLE AL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Anche con la prossima dichiarazione dei redditi si puo' destinare il cinque per mille al Movimento Nonviolento. Non si tratta di versare denaro in piu', ma solo di utilizzare diversamente soldi gia' destinati allo Stato. Destinare il cinque per mille delle proprie tasse al Movimento Nonviolento e' facile: basta apporre la propria firma nell'apposito spazio e scrivere il numero di codice fiscale del Movimento Nonviolento, che e': 93100500235. * Per ulteriori informazioni: tel. 0458009803 (da lunedi' a venerdi': ore 9-13 e 15-19), fax: 0458009212, e-mail: an at nonviolenti.org, sito: www.nonviolenti.org 3.
STRUMENTI. "AZIONE NONVIOLENTA"
"Azione nonviolenta" e' la rivista del Movimento Nonviolento, fondata
da Aldo Capitini nel 1964, mensile di formazione, informazione e dibattito sulle
tematiche della nonviolenza in Italia e nel mondo.
Redazione, direzione, amministrazione: via Spagna 8, 37123 Verona, tel.
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Per abbonarsi ad "Azione nonviolenta" inviare 30 euro sul ccp n. 10250363 intestato ad Azione nonviolenta, via Spagna 8, 37123 Verona. E' possibile chiedere una copia omaggio, inviando una e-mail all'indirizzo
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"copia di 'Azione nonviolenta'".
4. SEGNALAZIONI LIBRARIE
Letture
- Shirin Ebadi, La gabbia d'oro, Rizzoli - Rcs Libri, Milano 2008, 2009,
pp. VIII + 264, euro 8,60.
- Pema Chodron, Senza perdere tempo. Leggere oggi "La via del Bodhisattva",
Mondadori, Milano 2008, pp. 308, euro 10,40.
- Vandana Shiva, Campi di battaglia, Edizioni Ambiente, Milano 2009, pp.
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- Simone Weil, Il racconto di Antigone e Elettra, Il Melangolo, Genova
2009, pp. 64, euro 8.
5. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e
internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento
dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della
creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo
di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 6. PER SAPERNE DI PIU'
Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it
Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004
possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/
TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 290 del 22 agosto 2010
Telegrammi della nonviolenza in cammino proposti dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it, sito: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/ Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su:
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