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Nonviolenza. Femminile plurale. 278
- Subject: Nonviolenza. Femminile plurale. 278
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Thu, 1 Oct 2009 09:38:37 +0200
- Importance: Normal
============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" Numero 278 del primo ottobre 2009 In questo numero: 1. Movimento Nonviolento: 2 ottobre 2009, Giornata internazionale della nonviolenza. Iniziativa comune del Movimento Nonviolento in ogni regione d'Italia 2. Anna Bravo: Storie da scoprire, storie da ripensare (parte prima) 1. INIZIATIVE. MOVIMENTO NONVIOLENTO: 2 OTTOBRE 2009, GIORNATA INTERNAZIONALE DELLA NONVIOLENZA. INIZIATIVA COMUNE DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO IN OGNI REGIONE D'ITALIA [Dal Movimento Nonviolento (per contatti: via Spagna 8, 37123 Verona, tel. 0458009803, fax: 0458009212, e-mail: an at nonviolenti.org , sito: www.nonviolenti.org) riceviamo e diffondiamo] L'Assemblea generale dell'Onu ha fissato al 2 ottobre di ogni anno la Giornata internazionale della nonviolenza. La data e' stata scelta in quanto anniversario della nascita di Gandhi, ispiratore dei movimenti per la pace, la giustizia, la liberta' di tutto il mondo. In una risoluzione approvata dai 192 Stati membri dell'Onu, su proposta del governo indiano, l'Assemblea invita tutti i paesi, organizzazioni e individui a "commemorare questo giorno per promuovere una cultura della pace, della tolleranza, della comprensione e della nonviolenza". E' infatti con Gandhi che nasce la nonviolenza moderna. Certo, essa e' sempre esistita, e' "antica come le montagne", ma prima del Mahatma era sempre stata intesa come via personale alla salvezza, come codice individuale, come precetto valido per l'individuo. E' solo con la straordinaria esperienza gandhiana, prima in Sudafrica e poi in India, che la nonviolenza diventa politica, strumento collettivo di liberazione. La nonviolenza e' stata la vera, grande, unica, rivoluzione del XX secolo. Le ideologie del Novecento si sono frantumate alla prova della storia, sono state sepolte nelle tragedie dei campi di sterminio e nei gulag, sono morte nei massacri della prima e della seconda guerra mondiale. Solo la nonviolenza resta ad indicare una nuova via. La nonviolenza e' un mezzo e un fine, e' uno strumento per risolvere i conflitti che la vita ci presenta, a livello individuale e sociale (poverta', discriminazioni, esclusioni, ecc.); la violenza mira a sconfiggere o eliminare l'avversario; la nonviolenza vuole far emergere la verita' e offrire una via d'uscita per tutti; preferisce convincere piuttosto che vincere. Non c'e' un nemico da criminalizzare, ma un avversario da conquistare. Oggi la vita stessa del pianeta e' a rischio. Crisi ecologica e crisi belliche rendono il futuro incerto. Dobbiamo rovesciare il motto "se vuoi la pace prepara la guerra" nel suo giusto verso "se vuoi la pace prepara la pace", a partire dal ripudio della guerra e degli strumenti che la rendono possibile: eserciti e armi. Dobbiamo invertire la rotta, se siamo ancora in tempo. Dobbiamo disarmare, le nostre menti innanzitutto, per "svuotare gli arsenali e riempire i granai". In questa occasione il Movimento Nonviolento (fondato da Aldo Capitini, che ha introdotto in Italia il pensiero ed il metodo di Gandhi), ha promosso una iniziativa comune nazionale. Tutti gli iscritti, i simpatizzanti, i singoli amici della nonviolenza, gruppi e centri del Movimento, hanno organizzato nella propria citta' o nel proprio paese un'iniziativa pubblica: una presenza in piazza, un banchetto, l'esposizione della nostra bandiera, una conferenza, una fiaccolata, la distribuzione di un volantino; un'azione che il 2 ottobre colleghera' idealmente tutte le realta' degli amici della nonviolenza a livello nazionale. Abbiamo voluto coinvolgere soprattutto le scuole (dalle elementari ai licei) affinche' presidi ed insegnanti sensibili, insieme agli studenti, ricordino la figura di Gandhi e affrontino il tema dell'educazione alla pace. E' stata anche realizzata una diffusione straordinaria del numero speciale della rivista "Azione nonviolenta", dedicato all'attualita' del pensiero di Gandhi. Abbiamo notizie di eventi organizzati in ogni regione italiana, e segnaliamo un'iniziativa anche in Svizzera... * Per informazioni e contatti: Movimento Nonviolento: tel. 0458009803, cell. 3482863190, fax: 0458009212, e-mail: an at nonviolenti.org , sito: www.nonviolenti.org 2. MAESTRE. ANNA BRAVO: STORIE DA SCOPRIRE, STORIE DA RIPENSARE (PARTE PRIMA) [Ringraziamo Anna Bravo (per contatti: anna.bravo at iol.it) per averci messo a disposizione il seguente saggio apparso col titolo "Storie da scoprire, storie da ripensare" nel fascicolo della rivista "Parolechiave", n. 40, 2009, monografico sulla nonviolenza. Anna Bravo, storica e docente universitaria, vive e lavora a Torino, dove ha insegnato Storia sociale. Si occupa di storia delle donne, di deportazione e genocidio, resistenza armata e resistenza civile, cultura dei gruppi non omogenei, storia orale; su questi temi ha anche partecipato a convegni nazionali e internazionali. Ha fatto parte del comitato scientifico che ha diretto la raccolta delle storie di vita promossa dall'Aned (Associazione nazionale ex-deportati) del Piemonte; fa parte della Societa' italiana delle storiche, e dei comitati scientifici dell'Istituto storico della Resistenza in Piemonte, della Fondazione Alexander Langer e di altre istituzioni culturali. Luminosa figura della nonviolenza in cammino, della forza della verita'. Opere di Anna Bravo: (con Daniele Jalla), La vita offesa, Angeli, Milano 1986; Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza, Roma-Bari 1991; (con Daniele Jalla), Una misura onesta. Gli scritti di memoria della deportazione dall'Italia, Angeli, Milano 1994; (con Anna Maria Bruzzone), In guerra senza armi. Storie di donne 1940-1945, Laterza, Roma-Bari 1995, 2000; (con Lucetta Scaraffia), Donne del novecento, Liberal Libri, 1999; (con Anna Foa e Lucetta Scaraffia), I fili della memoria. Uomini e donne nella storia, Laterza, Roma-Bari 2000; (con Margherita Pelaja, Alessandra Pescarolo, Lucetta Scaraffia), Storia sociale delle donne nell'Italia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2001; Il fotoromanzo, Il Mulino, Bologna 2003; A colpi di cuore, Laterza, Roma-Bari 2008] Quale nonviolenza Le guerre del novecento e di questi primi anni duemila hanno a tal punto inverato i timori e gli avvertimenti dei pacifisti che sentirne ventilare di nuove suona incredibile. L'unica a conservare l'immagine del conflitto giusto e necessario e' la seconda guerra mondiale. Guerra annunciata e resa difficilmente evitabile dalla politica di Germania, Italia, Giappone. Guerra a forte componente ideologica, civilta' contro barbarie, democrazie contro totalitarismi - una visione cosi' radicata e funzionale che ancora oggi c'e' chi tende a dimenticare il patto Molotov-Ribbentrop, e ad arruolare implicitamente fra le democrazie l'Urss del '41-'45. Dopo gli esiti dello strumento guerra e il crollo incruento dei regimi all'est, ci si poteva aspettare uno spostamento delle opinioni publiche verso la nonviolenza, e in parte e' avvenuto. Ma interesse non equivale a informazione. La nonviolenza rischia il destino di quei classici che tutti dicono di conoscere senza averli letti, chi di nonviolenza scrive e parla ha spesso l'impressione di dover ogni volta ricominciare da zero. La si scambia con una rinuncia ai conflitti, quando e' una politica per gestirli in modo evoluto; con una pratica per anime belle, capeggiata da esotici visionari, riservata a societa' con tasso minimo di tensioni interne, o a situazioni in cui gli avversari pongono alcuni limiti alla propria distruttivita'. Al contrario, l'India era un paese gremito di contraddizioni, e Gandhi un leader sperimentato, abile nel negoziare e nell'organizzare grandi scene di teatro politico da esporre agli occhi del mondo; quanto alla condotta delle controparti, si da' vita a lotte nonviolente persino nell'Europa sotto dominio nazista. Invece che un umanesimo dalle molte radici, alcuni vedono nella nonviolenza un'emanazione esclusiva delle religioni, e nelle religioni il vecchio oppio dei popoli che Kurt Vonnegut ha reinterpretato cosi': "Come amico sincero degli oppressi, (Marx) voleva dire che era contento che avessero qualcosa con cui alleviare almeno un po' le loro pene" (1). Fra i militanti dei movimenti no global, c'e' chi ha mostrato di considerare la nonviolenza una modalita' transitoria da impiegare in attesa dello scontro "vero", oppure una semplice tattica di piazza, mentre implica una rivoluzione interiore ed esige un apprendistato continuo. Ma quando l'apprendistato c'e', non sempre e' benvisto. Durante le "rivoluzioni di velluto" all'est, su alcuni giornali si "denunciava" la presenza di militanti di Otpor, l'organizzazione serba per la resistenza civile contro Milosevic, che sarebbero andati in giro per l'Europa insegnando le tecniche delle manifestazioni nonviolente, ma che dovevano pur avere altri fini! - la nonviolenza da sola non sarebbe valsa la pena. Ancora oggi, in Italia molti scrivono "non violenza" invece della dizione consolidata "nonviolenza" cara a Capitini; e' vero che un termine impreciso e' comunque meglio della disattenzione, e' vero che non necessariamente le parole devono seguire la coscienza, possono anche precederla. Ma il fatto testimonia quantomeno una scarsa familiarita' con il linguaggio nonviolento. Quante somiglianze con il femminismo, che pur essendo sempre piu' citato, non e' certo altrettanto conosciuto. Deve essere il destino dei temi che minacciano di disorganizzare l'orizzonte simbolico dominante, e che in parte hanno gia' contribuito a modificarlo. Il Novecento dei genocidi, dei lager, del gulag, delle persecuzioni "etniche", e' infatti anche il secolo che ha tentato di affermare il primato dei diritti umani contro la pretesa degli stati a colpire i cittadini in nome della propria sovranita'. Gradatamente il principio si e' fatto strada, sul piano giuridico si stanno ponendo faticosamente le basi di un diritto internazionale fondato sul principio di opposizione alla barbarie. Nasce da qui il dilemma fra "mai piu' guerre" e "mai piu' Auschwitz" che ha segnato gli ultimi decenni. E, attraverso un cammino tortuoso, nasce da qui l'ossimoro "guerra umanitaria", con cui si cerca di affrontare il contrasto fra le regole dell'ordinamento mondiale, che bandiscono l'uso della forza contro stati sovrani, e le ripetute Dichiarazioni universali dei diritti, emanate per proteggere gli individui dai loro governanti. E' una complessita' che si e' riverberata in vari modi sulle teorie nonviolente - uso il plurale non solo perche' il concetto ha storie e origini diverse, ma perche' fotografa la realta' di oggi. La nonviolenza e' un mondo variegato, non identificabile tout court con il pacifismo, che ne e' piuttosto un'espressione legata al tempo o alla minaccia di guerra e che, in Italia e non solo, e' piu' vicino alle forze politiche, piu' vistoso, piu' rumoroso. Piuttosto che un pacifista, il nonviolento e' un facitore di pace (2). Quale nonviolenza, pero'? Da molti anni, si e' cristallizzata una controversia fra due componenti che, molto grossolanamente, si possono identificare nei pacifisti "senza se e senza ma" e nei teorici dell'ingerenza umanitaria, favorevoli a operazioni di polizia internazionale contro le violazioni dei diritti umani - e qui spiccano alcuni ex dei movimenti anni Sessanta e Settanta, che secondo Berman (3) avrebbero sostituito all'utopia della rivoluzione quella di un mondo capace di farsi carico dei piu' vulnerabili, al di la' e a dispetto degli stati in cui vivono. A prezzo di contraddizioni radicali. Perche' da un lato quell'utopia si inserisce nella spinta alla delegittimazione della violenza che caratterizza in occidente il passaggio del secolo. Dall'altro e' costretta a scommettere sulla capacita' regolatrice di organismi che hanno gia' dato cattiva prova di se'. Ma anche il pacifismo "senza se e senza ma" sconta la contraddizione fra la solidarieta' alle vittime e il rifiuto di qualsiasi azione militare, a favore della trattativa a oltranza. Qui il secondo lascito della guerra mondiale - il nazismo come spartiacque della storia e della memoria - gioca nei due sensi. Per gli "interventisti" mostra dove puo' portare la linea dell'appeasement, per i pacifisti "senza se e senza ma" e' il termine di paragone rispetto al quale le dittature di oggi sbiadiscono. Ironia: per avvalore questa tesi, l'antiebraismo di sinistra serpeggiante nei movimenti pacifisti e' costretto a appoggiarsi proprio sulla Shoah, mentre i peggiori tiranni possono a loro volta rivendicare di non essere paragonabili a Hitler. Gioca nei due sensi anche il carattere selettivo delle scelte, in cui i principi si intrecciano nel primo caso con la diversa fattibilita' degli interventi (si' in Jugoslavia, no in Russia), nel secondo con una sensibilita' a dir poco variabile da situazione a situazione - nessun corteo di decine di migliaia di persone per il Tibet o il Darfur (4). Nel frattempo, il terrorismo ha creato un quadro nuovo. Il vincolo alle politiche di creazione dell'odio, l'avversione a ogni negoziato eccetto quelli gestiti in prima persona, la clandestinita', la lontananza fisica, minano gli strumenti elettivi della nonviolenza - l'esempio, l'educazione, lo scandalo dell'inermita', la mediazione. Oggi a trovarsi in primissimo piano sono gli ancora esili, semisconosciuti e in senso proprio eroici gruppi nonviolenti all'opera in Medio Oriente, Africa, Asia - e quanti lavorano per sostenerli. * Oblio e incompetenza Parlando di eventi e microeventi degli anni '68, Philippe Artieres (5) ha riaffermato l'urgenza di una storia dell'oblio e delle procedure che l'hanno costruito - meccanismi, interessi, inclinazioni non necessariamente razionali e consapevoli. Ma la parola oblio si addice solo in parte alla nonviolenza. Si dimentica quel che si e' conosciuto, come Gandhi e i movimenti per i diritti civili degli afroamericani. Per lotte e idee ignorate e travisate all'origine, meglio parlare di una percezione mancata o distorta, di uno sguardo incompetente. E' una storia ancora in buona parte da fare. Ne conosciamo le matrici di lungo e lunghissimo periodo: l'associazione fra maschile e violenza/guerra (e fra donne e pace), cosi' antica e pervasiva che le forme in cui si incarna non sembrano construzioni simboliche, ma espressioni di un dato di natura. L'ideologia secondo cui il vero cittadino e il vero uomo ha il diritto/dovere di portare le armi - e' il prototipo trasmesso alla modernita' dalla rivoluzione francese (6), che si e' via via dispiegato in una costellazione di idee e figure non sempre coerenti fra loro e non sempre riducibili a una posizione politica: dall'appoggio comunista alle guerre di liberazione all'immagine del ribelle quarantottesco, dall'ardito dannunziano al combattente di Spagna, dal proletario armato al guerrigliero, dal militante avanguardia della classe al morituro che vanta il suo speciale diritto sul mondo - in una scritta murale trovata in un acquartieramento tedesco a Pisa nel 1943 si leggeva: "Gli uomini che devono combattere/ Debbono avere cio' che vogliono/ Lasciateli bere, lasciateli baciare/ Chissa' quanto presto dovranno morire" (7). Sono modelli, certo, semplificazioni, che hanno avuto (hanno?) un punto di forza straordinario nell'ideologia leninista della violenza levatrice della storia e della maturazione individuale. Non e' il pensiero di Marx in cui, l'ha precisato Hannah Arendt, a costruire la storia e a formare l'uomo e' invece il lavoro (8). Ma molti credono o hanno creduto che lo fosse. Di queste genealogie della violenza abbiamo analisi irrinunciabili, mentre scarseggiano le ricerche sui modi in cui soggetti, comunita', culture l'hanno interpretata in date circostanze - penso ancora una volta alla seconda guerra mondiale, che ha catalizzato fraintendimenti vecchi e nuovi. * Il paese sdraiato Durante la guerra, era stata coniata l'espressione "sdraiarsi come un danese". Perche' la Danimarca, consapevole della sproporzione di forze, non si era opposta con le armi all'occupazione nazista, e il governo socialdemocratico, pur protestando contro la violazione della neutralita', era rimasto in carica, aveva consentito alla messa fuorilegge dei comunisti, si lasciava usare come "vetrina democratica" del III Reich, collaborava mantenendo relazioni economiche con la Germania. Dunque la Danimarca si era "sdraiata", allo stesso modo di una donna che si sottometta all'assalto maschile - i discorsi politici ricorrono spesso a metafore sessuali. Strana collaborazione, pero', lontanissima dallo zelo di Vichy. Visto che la Germania ha sottoscritto un memorandum in cui si impegna a non intromettersirsi negli affari interni danesi, il governo sceglie di prenderlo alla lettera, sfruttando le esitazioni di Hitler a infierire su un popolo "tipicamente ariano" e muovendosi sul filo del rasoio con la tattica del "come se": come se la Germania intendesse davvero rispettare i patti, come se la minuscola Danimarca potesse negoziare da pari a pari. Spesso ci riesce. Cosi', quando nell'ottobre 1942 i plenipotenziari nazisti premono per far introdurre leggi antiebraiche, il governo minaccia di dimettersi, denunciando un'ingerenza che il memorandum aveva escluso, e resta fermo su questa linea: qualsiasi attacco agli ebrei danesi equivale a un attacco alla Costituzione, che garantisce l'uguaglianza di tutti i cittadini. A ottobre 1943, la vicenda piu' ammirevole. Appena si viene a sapere che gli occupanti stanno preparando arresti di massa con deportazione immediata, ecco che la popolazione - si puo' davvero dire "la popolazione" - si organizza. Il rabbino della sinagoga di Copenaghen comunica ai fedeli la minaccia; la resistenza, i partiti, le Chiese, la diffondono con i loro canali. I cittadini attivano il loro tessuto associativo, nascondono i ricercati, raccolgono denaro per affittare un numero di barche suffficiente a caricare in varie riprese migliaia di persone, li accompagnano nottetempo ai luoghi di imbarco, mentre lungo strade e sentieri di campagna vigilano i membri della resistenza; infine li traghettano nella sicura Svezia (9). Hanno collaborato almeno quaranta associazioni di vario tipo, organi amministrativi, la polizia, la guardia costiera - per questo alcuni poliziotti finiranno in Lager. Grazie al popolo "sdraiato", piu' del 90% dei 7.695 ebrei danesi (e tedeschi rifugiati in Danimarca prima della guerra) passa dalla parte dei salvati. Esempio unico, e unico caso di uno Stato insignito come tale del titolo di "Giusto tra le nazioni". * Un nuovo punto di vista Pratiche antinaziste inermi si sviluppano in tutta Europa prima ancora che nasca la lotta armata: si va dalla noncooperazione agli scioperi, dalle proteste pubbliche per la penuria di viveri alla protezione dei piu' vulnerabili, alla resistenza alle razzie di lavoratori da gettare nelle fabbriche del III Reich. In Polonia si crea una rete di scuole clandestine contro il disegno nazista di ridurre quel popolo alla condizione servile. In Belgio e nei paesi del nord, insegnanti, magistrati, medici, sportivi, spesso appoggiati dalle Chiese, rifiutano di iscriversi ad associazioni di mestiere nazificate; in Norvegia non ci sara' piu' alcuna gara fino alla conclusione della guerra - il che contribuisce ad aprire gli occhi a molti giovani. Ovunque durissimo, il braccio di ferro porta ad arresti e deportazioni, ma le istituzioni collaborazioniste sono completamente svuotate, la parvenza di normalizzazione cui aspirano gli occupanti resta un miraggio. Pochissime, almeno fino agli anni Novanta, le ricerche che mettono a tema il carattere disarmato di queste lotte, e dovute quasi in esclusiva a studiosi dell'area nonviolenta. Fra loro, lo storico francese Jacques Semelin, che alla fine del decennio Ottanta mette a punto il concetto di resistenza civile (10). E' una svolta. Semelin da' a quelle pratiche eterogenee un solido statuto teorico e ne chiarisce la specificita': assenza delle armi e metodi in genere nonviolenti, protagonisti i cittadini in quanto tali, autonomia degli obiettivi, diretti a contrastare il dominio nazista sulla societa'. Altra cosa, e piu' complessa, del ruolo di appoggio ai partigiani. Semelin argomenta con grande equilibrio. Previene gli equivoci fissando alcuni punti chiave: la resistenza civile non e' in competizione con la lotta armata, non ricomprende qualsiasi atteggiamento conflittuale ma solo quelli dotati di un'intenzione o di una funzione antinazista, non equivale automaticamente ad azione nonviolenta, e quest'ultima non e' un dogma da seguire in qualsiasi contesto (11). Ma e' altrettanto fermo nel confutare le interpretazione che riducono le pratiche inermi ad appendici del movimento partigiano, nel rappresentare la societa' come il luogo di un antagonismo non interamente rappresentabile dalla lotta armata, ne' integrabile nelle categorie usate fino allora. E' un punto di vista nuovo, interessante, senza alcun cedimento all'iconoclastia. Eppure viene accolto con una certa diffidenza, a volte tacciato di revisionismo, piu' spesso semi-ignorato. Come se la falsa percezione delle pratiche nonviolente si fosse estesa alla loro narrazione. E' cosi' in tutta Europa. Aveva ragione Lidia Menapace, quando nel '97 diceva di temere che in nome dell'autodifesa si perdesse la capacita' di avviare un discorso che non fosse "ne' una celebrazione continua ne' una svalutazione in blocco" (12). Quando, grazie alla disponibilita' degli Istituti Cervi e Gramsci, Semelin partecipa nel '95 a Roma a un convegno sulla Resistenza, dira' che e' la prima volta che viene invitato a un incontro di tipo accademico. Cosa hanno da perdere i partigiani e i loro storici? Da un lato niente, anzi. La partita e' fra la minoranza dei resistenti senza armi e la maggioranza che ha evitato di prendere posizione, e potrebbe far vacillare un'infinita' di autoassoluzioni: se la lotta armata chiede corpi giovani e sani, capaci di reggere grandi fatiche, quella senza armi e' praticabile in molti piu' luoghi e forme, accessibile a molti piu' soggetti, dalla madre di famiglia al prete a chi ha un'eta' anziana. "Fai come me" e' un invito che il resistente civile puo' estendere ben al di la' di quanto possa fare il partigiano, e che aiuta a ripensare il tema della responsabilita' personale esaltando l'aspetto della scelta caro agli antifascisti. D'altro lato, a rischiare di venire sovvertiti sono alcuni caposaldi della storia della guerra. Aver raggiunto certi risultati senza usare le armi puo' suggerire l'idea che si sarebbe potuto agire allo stesso modo in molte situazioni in cui si dava per scontato che non ci fosse altra via. Chi le ha usate puo' sentire minacciata la propria egemonia nell'immagine nazionale - con l'eccezione della Germania, tutti gli stati europei hanno preso a simbolo della rinascita postbellica la figura minoritaria del giovane maschio combattente. Dare valore alla resistenza civile porterebbe in luce, accanto e a volte al posto della virtu' eroica del combattimento, la virtu' quotidiana che Todorov identifica nella cura (13). Rimetterebbe in discussione quel che si intende per contributo di un gruppo, di una categoria, di un paese, alla lotta antinazista. Oggi si continua a valutarlo in termini di morti in combattimento; sarebbe sensato misurarlo anche sulla quantita' di energie, di beni e soprattutto di vite strappate al III Reich. Ne uscirebbe capovolta la gerarchia delle nazioni, con la Danimarca che dall'ultimo posto salirebbe al primo, Russia e Stati Uniti che scivolerebbero in basso - gli eserciti, e spesso i movimenti di resistenza, vedono la salvezza degli ebrei piu' come un risultato della guerra vittoriosa che non come un obiettivo; certo non la mettono al primo posto. Ha scritto Hannah Arendt che l'esempio danese dovrebbe essere proposto agli studenti di scienze politiche, perche' capiscano a quali risultati puo' arrivare una lotta nonviolenta, sorretta da un buon livello della coesione sociale e del riconoscimento popolare nelle istituzioni (14). Ma la vicenda non e' entrata nella mitologia della guerra, il salvataggio e' stato visto per lo piu' come un affare tra la Danimarca e gli ebrei, il paese come una singolare piccola comunita' dal senso civico ipertrofico, con un governo amichevole che ha concesso agli hippies di creare il quartiere di Christiania e di viverci tranquilli. Un'olegrafia, e per di piu' ormai menzognera. * Le italiane, fantasmi meritevoli La resistenza civile italiana ha la particolarita' di sembrare piu' discontinua, meno strutturata, meno "politica" di quanto non sia in Francia, Danimarca, Olanda; ma, in forme quasi opposte a quelle danesi, anche l'Italia ha avuto il suo momento unico. Sono i giorni del dopo 8 settembre, quando la notizia dell'armistizio con gli alleati getta gli alti comandi nel caos, l'esercito si dissolve e centinaia di migliaia di militari sono allo sbando, braccati da tedeschi e fascisti. Per chi li protegge sono previste deportazione e pena di morte. Eppure scatta una mobilitazione soprattutto femminile per nasconderli, rivestirli in borghese, metterli sulla via di casa. "Pareva - scrive Luigi Meneghello, uno dei pochissimi a capire il senso del fenomeno - che volessero coprirci con le sottane", e aggiunge che sulle strade d'Italia si vedevano "file praticamente continue di gente, tutti abbastanza giovani, dai venti ai trentacinque, molti in divisa fuori ordinanza, molti in borghese, con capi spaiati, bluse da donna, sandali, scarpe da calcio (...) Pareva che tutta la gioventu' italiana di sesso maschile si fosse messa in strada" (15). Dietro quei capi sottratti ad armadi gia' sguarniti, indossati in case cautamente ospitali o in luoghi appartati, si nasconde la piu' grande operazione di salvataggio della nostra storia (16). Tutto avviene grazie a iniziative individuali e di microgruppi, in assenza di direttive politiche, di appelli di figure eminenti. E si capisce perche'. L'8 settembre l'Italia esce da vent'anni di un regime che ha frantumato l'opposizione, infiltrato le strutture sociali e avviato la "nazionalizzazione" delle masse; i sentimenti civici, gia' storicamente deboli, sono sbriciolati, le risorse miserrime; le vecchie istituzioni statali hanno perduto ogni credibilita', mentre i partiti e le nuove organizzazioni di massa mancano di radicamento, quadri, mezzi, conoscenze, una condizione che di per se' circoscrive il loro ruolo nella mobilitazione popolare. Fra le protagoniste di quei giorni, scoperte lungo una ricerca su donne e guerra (17), svetta Rosa S., torinese di mezza eta', di famiglia operaia, nata e cresciuta nel semiproletario Borgo san Paolo. Rosa S. si rende subito conto delle dimensioni di massa del pericolo e del bisogno, e immersa com'e' nelle reti di parentela, di fabbrica, di quartiere, di vicinato, di parrocchia, comincia a fare incetta di indumenti borghesi un po' dovunque, da familiari e conoscenti fino alle suore di un istituto di carita'. La sua casa diventa cosi' un centro di raccolta dei militari, il suo dopo 8 settembre un exploit imprenditoriale. Riveste i primi sbandati, la voce corre, ne arrivano sempre di nuovi. Lei li fa dormire nelle cantine dell'edificio, li sveste, li riveste. Comprese le scarpe, perche' quelle dell'esercito li tradirebbero; allora ne da' un paio di "civili" a uno, gli toglie le sue, le tinge, e appena asciutte le passa a un altro - modello catena di montaggio -, in piu' l'amore del lavoro ben fatto che puo' salvare una vita. "La mia mamma era tremenda, ha raccontato la figlia Chiara, aveva uno spirito d'iniziativa... alla fine li accompagnava alla stazione, li baciava, li abbracciava, cosi' e cosa', mio parente, e li metteva sui carri bestiame, perche' allora non c'era altro" (18). Di notte bruciava nel cortile le divise abbandonate e buttava le armi nei tombini. E' una storia di slancio, generosita', inventiva, coraggio, gli aspetti che un'altra torinese, Lisa Foa (19), ricorda di aver incontrato tante volte durante la Resistenza. E non e' affatto una storia privata: cambiare status a un individuo, da militare trasformarlo in civile, attiene al giuridico allo stesso modo del suo precedente inverso, che ha trasformato il civile in militare. E' anche la testimonianza che fra popolazione e nazisti/fascisti si e' aperto un contenzioso su aspetti cruciali dell'esistenza collettiva e del sistema di legittimita', come i criteri di innocenza e colpevolezza. E' politica, che altro? Ma nelle interpretazioni di allora, la politica si identifica con l'azione delle avanguardie organizzate, non con la transeunte iniziativa popolare; le lotte inermi e "spontanee" sono giudicate una forma minore dell'antifascismo, una componente utile ma secondaria. Tanto piu' quando si tratta di donne (e donne odiosamente definite "comuni" o "umili"), che sono ritenute incompatibili con la sfera pubblica e che operano, come Rosa S., attraverso reti informali, inattingibili dalle categorie della poltica. Ci si trova di fronte a casi lampanti di autoorganizzione, e non si vede altro che un ampliamento del ruolo materno fuori dalla famiglia oppure una espressione di pietas - e' vero, e' straordinario, ma non e' tutto. Donne, meritevoli fantasmi. Italiani, osservatori incompetenti. Senza armi, senza tessere o contatti di partito, la manager del salvataggio e esperta di pubbliche relazioni Rosa S. non e' prevista nelle mitografie e storiografie resistenziali, a cominciare da quella azionista delle due Italie, la prima incarnata dai "pochi pazzi" disposti a sacrificarsi per l'onore comune, la seconda dai "troppi savi" votati in esclusiva a proteggere se stessi. Rosa S. sta fuori, a lato, in un altro intreccio narrativo. Anche nei mesi successivi, ai circuiti politici si affiancano, a volte si mischiano, concertazioni di piccolo raggio e exploit individuali - il che non aiuta la comprensione. Le due centrali egemoniche di allora, la comunista e la cattolica, sono lontanissime dal valorizzare la categoria di cittadino, colpevole di scavalcare le distinzioni di classe e insieme la legge di dio (20). E bollano l'affermazione dell'individualita' come egoismo -quando, a ben vedere, l'individualista e' il solo che puo' dare una solidarieta' gratuita all'altro da se'; chi si identifica in una comunita' - familiare, politica, religiosa, culturale - agisce sempre anche a proprio favore. Da molti punti di vista, l'Italia rappresenta un picco di frantendimenti e di oblio. Beninteso, non c'e' alcun complotto per tenere lontane dalla storia le donne (e gli inermi); bastano la routine storiografica e la convinzione di molti partigiani, e in genere dei combattenti, di non dover condividere con nessuno il merito di aver lottato per riscattare la patria. C'e' se mai candore: quella dell'eroismo e' una partita fra maschi, cosi' come il riconoscimento del valore militare del nemico, o della sua buona fede. Del resto, neppure il concetto di resistenza civile puo' rendere davvero giustizia alle donne. Anzi, sgombrato il campo dalla gerarchia armati/inermi, diventano persino piu' evidenti altri fattori di esclusione. Anche nella resistenza civile ha corso lo stereotipo dell'estraneita' femminile alla politica, e sono all'opera meccanismi che possono tenere le donne ai margini, per esempio il difetto di democrazia interna imposto dalla clandestinita' e il vizio della cooptazione. E' un paradosso: si inaugurano pratiche inermi associate al femminile, si conservano stili politici e modelli organizzativi largamente maschili. Fortunatamente il buon confronto con gli studi delle donne ha dato frutti. All'inizio, Semelin privilegiava le mobilitazioni istituzionali e le iniziative tendenzialmente di massa e politicamente organizzate, riservando a quelle individuali e di piccoli gruppi lo statuto piu' debole di disubbidienza o dissenso; oggi tende a ricomprenderle a pieno titolo nella categoria di resistenza civile. Ma quello fra nonviolenza e donne (e femminismo) e' un rapporto aperto - per intuirne la complessita' basta pensare all'adozione da parte di Gandhi di valori e pratiche tradizionalmente femminili. E, almeno in Italia, la situazione e' un po' sbilanciata: grande interesse da parte di molti nonviolenti, decisamente meno, salvo preziose eccezioni (21), da parte delle femministe. * Note 1. Kurt Vonnegut, Ricordando l'apocalisse, Feltrinelli, Milano 2008, p. 26. 2. L'espressione e' di Alex Langer, Minima personalia, Fondazione Langer, Bolzano 2004, p. 6. 3. P. Berman, Il Sessantotto. La generazione delle due utopie, Einaudi, Torino 2006. 4. Per un'informazione sulle attivita' e sul dibattito nel mondo della nonviolenza segnalo, senza alcuna pretesa di esaustivita', i notiziari dell'Accademia apuana della pace e del torinese Centro studi Sereno Regis e specialmente la rivista "La nonviolenza e' in cammino" (tutti e tre on line), "Testimonianze", "Azione nonviolenta" e i relativi Quaderni. 5. P. Artieres, Reves d'histoire, Les Prairies ordinaires, Paris 2006, pp. 122-23. 6. Mi limito a citare l'ormai classico J.B. Elshtain, Donne e guerra, Il Mulino, Bologna 1991, e il tuttora utile G. Bonacchi, A. Gruppi (a cura di), Il dilemma della cittadinanza. Diritti e doveri delle donne, Laterza, Roma-Bari 1993. 7. I versi sono citati da F. Battistelli, Guerrieri ingiusti. Inconscio maschile, organizzazione militare e societa' nelle violenze in guerra, in M. Flores (a cura di), Stupri di guerra, di prossima pubblicazione. 8. H. Arendt, Du mensonge a' la violence, Calmann-Levy, Paris 2006 (I ed. 1969), pp. 114-116. 9. H. Arendt, La banalita' del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 1993, pp. 177-182 (ed. or. 1964). Vedi anche J. Bennet, La Resistenza contro l'occupazione tedesca in Danimarca, Edizioni del Movimento Nonviolento, Perugia 1979. 10. J. Semelin, Senz'armi di fronte a Hitler. La resistenza civile in Europa (1939-1943), Sonda, Torino 1993, da cui traggo le notizie precedenti. 11. Negli ultimi anni, fa notare Sergio Luzzatto (La crisi dell'antifascismo, Einaudi, Torino 2004, pp. 26-27), si e' invece diffusa una sensibilita' che ha trasformato in luogo comune (a volte rinnegato nei fatti) la tesi secondo cui non c'e' progetto, non c'e' ideale personale o collettivo che giustifichi lo spargimento di sangue: assolutizzazione pericolosa, che puo' approfondire il solco fra le diverse forme di resistenza. 12. L. Menapace, Occhio sul mondo, "Il paese delle donne", 37/38, 1997. 13. Per la distinzione tra virtu' "eroiche" e "quotidiane" T. Todorov, Di fronte all'estremo, Garzanti, Milano 1992. 14. Arendt, La banalita' del male cit., pp. 177-182. 15. L. Meneghello, I piccoli maestri, Mondadori, Milano 1986, p. 27. 16. E. Galli della Loggia, Una guerra "femminile"?, in A. Bravo (a cura di), Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza, Roma-Bari 2008. 17. La ricerca, svolta fra l'88 e il '94, comprende 120 interviste biografiche a donne quasi tutte residenti in Piemonte e parecchie videointerviste a cura di Anna Gasco. 18. Il racconto e' in A. Bravo, A. M. Bruzzone, In guerra senza armi. Storie di donne 1943-1945, Laterza, Roma-Bari 2000, al capitolo Madri. 19. Lisa Foa, Momenti magici, "Una citta'", 31, 1994. 20. Ma anche in Francia, dove quel concetto e' parte fondativa dell'autoimmagine nazionale, la situazione non e' cosi' diversa. 21. Sui limiti di genere, cfr. A Dogliotti, Uno sguardo pedagogico alla cultura della nonviolenza. Donne ed educazione alla pace, "Notizie minime della nonviolenza", n. 110, 4 giugno 2007. Nell'impossibilita' di dare conto di tutti i contributi, mi limito a citare il recente G. Providenti, La nonviolenza delle donne, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 2007. Moltissimo spazio e' dedicato alla questione in "La nonviolenza e' in cammino". (Parte prima - segue) ============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 278 del primo ottobre 2009 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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