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Nonviolenza. Femminile plurale. 275
- Subject: Nonviolenza. Femminile plurale. 275
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Thu, 17 Sep 2009 09:26:37 +0200
- Importance: Normal
============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" Numero 275 del 17 settembre 2009 In questo numero: Alcuni estratti da "Cecenia. Il disonore russo" di Anna Politkovskaja (parte prima) LIBRI. ALCUNI ESTRATTI DA "CECENIA IL DISONORE RUSSO" DI ANNA POLITKOVSKAJA (PARTE PRIMA) [Dal sito www.tecalibri.it riprendiamo i seguenti estratti dal libro di Anna Politkovskaja, Cecenia. Il disonore russo, Fandango, Roma 2006, 2009] Indice del volume Prefazione di Roberto Saviano: Chi scrive, muore; Prefazione di Andre' Glucksmann: La sindrome del "cardo ceceno"; Introduzione: Noi; 1. La zona di residenza; 2. I paraocchi dell'odio; 3. I combattenti ceceni; 4. La tragedia di Shatoi; 5. I frutti della disperazione; Perché non amo Putin; Post scriptum; Note. * Da pagina 25 Introduzione: Noi Sul tavolo un orologio meccanico scandisce il suo tic-tac. E' carico, conta solo le ore a venire. L'uomo, comprendendo le regole che governano l'orologio, lo carica ogni mattina, in modo che il tempo non si fermi mai. Ma l'uomo e' un essere strano. Si preoccupa molto delle lancette che gli indicano l'ora, ma riflette poco sul tempo. Nel settembre del 1999 Vladimir Putin, dopo aver "ricaricato" un po' l'orologio e aver recitato con la gente la parte dell'antiterrorista, scatena in Russia la seconda guerra cecena. E' cosi' che Putin e' riuscito a mandare indietro il tempo. Ben presto, insieme alla seconda guerra cecena, si e' scatenata in Russia una nuova guerra, questa volta intestina. Oggi le nostre lancette girano solo all'indietro. La nuova guerra civile non e' stata dichiarata contro un unico popolo del territorio russo, ma contro tutti. Ognuno ci mette un po' del suo. La guerra lascia la sua impronta in ogni citta', ogni regione, ogni repubblica. Ha invaso tutto e tutti vi partecipano, neanche l'autrice di questo libro sfugge alla regola. In che epoca viviamo? Cos'e' questa nuova guerra? Quale ritmo imprime alla nostra societa'? Chi siamo noi, cittadini russi dell'inizio del ventunesimo secolo? Noi? Noi siamo pronti a scannarci per ogni parola che non ci piace. Siamo intolleranti e intransigenti. Noi? Noi, molto semplicemente, abbiamo ricominciato a mettere in circolazione concetti gravi come quello di "nemico del popolo", e affibbiamo questa etichetta a tutti quelli che non la pensano come la maggioranza, senza alcuna distinzione. Noi? Noi abbiamo riconosciuto che una pallottola in testa e' il mezzo piu' semplice e piu' naturale per risolvere qualunque conflitto, per minimo che sia. Noi? Noi, inariditi dalla guerra, odiamo piu' spesso di quanto non amiamo. L'odio e' la nostra preghiera. Stringiamo i pugni volentieri, ma abbiamo difficolta' a riaprire le mani. E ancora una volta, invece di respirare l'aria a pieni polmoni, ci nutriamo del sangue dei nostri compatrioti senza battere ciglio. Non e' forse guerra civile, questa? Il testo che segue raccoglie le impressioni dell'autrice sul mondo che la circonda, sulla guerra che divampa in Russia, su quello che sta succedendo alla nostra societa'. * Da pagina 27 La zona di residenza "- Perche' l'hai ucciso? - Non lo so. - Perche' gli hai tagliato le orecchie? - Non lo so. - Perche' gli hai fatto lo scalpo? - Ma e' un ceceno! - Capisco". (Tratto dall'interrogatorio di un soldato di 19 anni della 22ma brigata del ministero dell'Interno russo, di stanza in Cecenia nel corso dell'estate 2001. Interrogatorio eseguito da un ufficiale inquirente del tribunale di Grozny. I loro nomi? Che sprofondino nell'oblio!) * Contrariamente a quanto affermano medici, neurologi e psichiatri sulle nostre infinite possibilita', ogni uomo dispone di una resistenza morale limitata al di la' della quale si apre il suo abisso personale. Non e' necessariamente la morte. Ci possono essere situazioni peggiori, ad esempio la perdita totale della propria umanita', come unica risposta alle innumerevoli nefandezze della vita. Nessuno puo' sapere cio' di cui sarebbe capace in guerra. La Grozny di oggi fornisce all'uomo tutte le buone ragioni per cadere in questo abisso. Qui, e' stato creato un mondo di totale irrazionalita' militare, e anche se la guerra finisse domani, chissa', esso durerebbe ancora a lungo, per forza d'inerzia. Ne sono certa. In che cosa consiste questa irrazionalita' cecena? Un uomo sensato, abituato sin dall'infanzia ai riferimenti della vita normale, non puo' capire l'origine degli eventi che straziano la Cecenia. Non importa che quest'uomo sia ceceno o russo. Che sia un soldato, un militante della resistenza o un semplice cittadino che cerca di rimanere al di fuori di tutto per salvare la pelle... Dopo un certo periodo, in mancanza di risposte ragionevoli, la sua coscienza comincia a disgregarsi come un fungo marcio e la sua mente finisce in un vicolo cieco. Tuttavia non e' follia, e' un fenomeno diverso. E come se tutti i pilastri che hanno sostenuto la tua vita fino a quel momento fossero crollati. Comincia con l'impressione che anche tu potresti permetterti qualcosa in piu' di prima, che la morale non e' altro che una stupidaggine inventata da ignoranti, mentre tu, ormai, sei portatore di una conoscenza particolare. All'inizio pensi ancora a quel "qualcosa in piu'". Poi, poco a poco, il meccanismo che ti trattiene si allenta e sprofondi ogni giorno di piu'. E' raro che qualcuno vi resista. Non sono parole. Io stessa ne ho fatto l'esperienza. Nonostante conosca questa realta' e sia abituata all'irrazionalita' che mi circonda, nonostante abbia, al contrario dei ceceni, la possibilita' di respirare ogni tanto l'aria di Mosca dopo quella di Grozny, eppure... A volte passeggio tra le rovine della capitale cecena. Parlo con i suoi abitanti, li guardo negli occhi, ripenso alle loro storie e mi rendo conto che la mia mente rifiuta di credergli, contesta, respinge i loro racconti. Semplicemente per proteggersi. Ci credo e non ci credo, vorrei non farmi contaminare. Sono realmente qui, ma allo stesso tempo e' come se fossi in un film... Non e' possibile, urla la mia coscienza, che le nostre autorita' si ostinino in modo cosi' imbecille a opprimere quelli che vivono qui! Perche' continuare a perseguitare abitanti che hanno gia' sopportato fardelli disumani per il solo fatto di essere rimasti in questa orribile citta'? Perche' far sentire loro ogni giorno - anzi, ogni minuto - che non sono altro che feccia, neanche feccia umana, feccia animale? E i soldati? Mandano qui ragazzi di diciotto o diciannove anni completamente ignoranti, grazie allo sfacelo totale del sistema scolastico degli anni Novanta. A cosa serviranno queste lezioni impartite nella primavera della loro vita? E gli ufficiali? Come potranno, dopo, tornare alle proprie famiglie e crescere i loro figli? Non ci sono risposte. Come trovarle? Qual e' l'origine "razionale" del caos in atto in Cecenia che sta distruggendo l'intero paese? * Solo per una birra Sultan Khajev, il giovane primario zoppo dell'ospedale n. 9 di Grozny, l'unico che funzioni dall'inizio della guerra, si appoggia pesantemente al bastone per riuscire a muoversi e scostare la coperta dal paziente del letto sotto la finestra, nella stanza n. 1. Li' giace un corpo di donna, creatura divina celebrata da pittori e poeti di tutte le epoche e di tutti i paesi. Ma quel corpo sembra essere stato svuotato come un pollo e poi ricucito. E' una visione insostenibile. I chirurghi hanno aperto questa donna dal petto al pube. Le linee tracciate dal bisturi non sono dritte: si ramificano come un albero genealogico reale. A tratti, i punti di sutura hanno ceduto lasciando emergere piaghe purulente... Al suo fianco sta un'infermiera. E' abituata ai pazienti degli ospedali militari, non prende alcuna precauzione particolare: con l'aiuto di una lunga pinza metallica, spinge compresse di garza nelle piaghe lacerate come fossero cavita' insensibili, come se intervenisse su un pezzo di legno anziche' su un corpo umano. "Devo farlo", borbotta l'infermiera. "E' solo garza imbevuta di medicamento. Ti fara' bene". La donna martoriata si chiama Aisha. Non piange nemmeno quando l'infermiera le spinge la pinza nel corpo. Gli occhi di Aisha sono pieni d'indifferenza per se stessa e per il mondo. "Non sento niente". Muove le labbra grigie cercando di parlare e, allo stesso tempo, tenta di fermare le gocce di sudore che le rigano il volto scivolando giu' dai capelli rosso scuro. Ha enormi difficolta'. I movimenti delle labbra non corrispondono alle parole che vorrebbe pronunciare. L'impressione e' quella di vedere un film straniero doppiato da un'attrice che non rispetta i ritmi del parlato. "Mi hanno sparato", prova a spiegare Aisha con estremo sforzo, dopo aver perso brevemente conoscenza. "A bruciapelo". "Dio mio! Ma perche'?". Ancora una volta, cerco di capire. Di nuovo, l'irrazionale prende il sopravvento. "Per una birra!". Due settimane prima, un giovane soldato russo originario di un villaggio della regione di Riazan, Oleg Kuzmin, in servizio da nove mesi, aveva fatto sedere davanti a se', sul letto, una donna di Grozny di sessantadue anni, Aisha Suleimanov, e le aveva sparato a bruciapelo cinque pallottole calibro 5.45, vietate da tutte le convenzioni internazionali. Si tratta di pallottole dal baricentro decentrato, assolutamente disumane: attraversano il corpo con traiettorie bizzarre facendo esplodere gli organi al loro passaggio. Ecco cos'e' successo ad Aisha, a casa sua, in un sobborgo di Grozny chiamato Michurin. Suo figlio, adulto, le sta accanto all'ospedale. Non si e' rasato da alcuni giorni. Significa che recentemente c'e' stato un funerale in famiglia. Mi guarda freddamente, come da una grande distanza. Mi odia e non lo nasconde. Di quando in quando sembra che abbia voglia di parlare. Ma, con una smorfia di disgusto, si ferma alla prima mezza parola: "Non tocca a voi avere pieta' di noi... Non a voi!". Un urlo muto e disperato che sembra inghiottire tutta la stanza in una specie di vortice: "Non a voi! Non a voi!". Noi siamo noi, i russi. Il figlio di Aisha stringe cosi' forte la sbarra di ferro opaco del letto d'ospedale che le ossa sporgenti delle sue falangi diventano bianche. "Non a voi!". "E a chi, allora?". Non sente la mia domanda muta... Non vuole? Piuttosto, non puo'. La guerra mette alla prova le persone senza chiedere loro il permesso: affina l'udito degli uni e rende sordi gli altri. Ma, grazie a Dio, Aisha ha voglia di parlare: ha bisogno di condividere la sua sofferenza, e cosi' facendo di alleggerirla un po', questa sofferenza immeritata, incomprensibile e quindi ancora piu' pesante da sopportare. "Eravamo gia' coricati... A un tratto, alle due del mattino, credo, bussano alla porta. Qualcuno che bussa alla porta, a quell'ora, con il coprifuoco, non significa niente di buono. Ma siamo costretti ad aprire, senno' si rischia grosso. Percio' mio marito e io abbiamo aperto. Sulla porta ci sono due soldati. Dicono: 'Dateci una birra!'. Gli rispondo: 'Non vendiamo birra'. Insistono: 'Vai, portaci un po' di birra!'. Allora dico: 'Da noi non c'e' birra, le nostre leggi lo proibiscono'. Rispondono: 'Bene, nonna', e se ne vanno. Noi siamo tornati a letto". Aisha si sente male. Le sue labbra non sono piu' grigie ma blu, rigate di nero. Si tormenta il collo, come se avesse una crisi di asma. Ma e' un'ondata di lacrime che la sommerge. Dietro di me risuona la voce del dottor Khajev: "Non sarebbe meglio smettere? Andiamo nella stanza accanto". "Per favore, no...", Aisha alza la testa dal cuscino e ci chiede di rimanere; Ha bisogno di parlare e spiega perche': "I russi non vengono mai qui e io voglio che sappiano... Che abbiano pieta' di noi. Perche' ci fanno questo? Perche'?". Aisha ha sessantadue anni. Ha vissuto quasi tutta la sua vita in Unione Sovietica e, nonostante la deportazione sotto Stalin e gli anni duri che erano seguiti, si considerava ormai una cittadina di quello stesso stato che ha scatenato una guerra contro di lei e i suoi cari. Cerca senza riuscirci, come tanti altri anziani ceceni, di capire perche' un soldato del suo stesso paese abbia tentato di uccidere lei e la sua famiglia. "Perche'?", ripete trattenendo i singhiozzi. Le ferite infette le fanno troppo male. Aisha afferra la spalla di suo figlio per appoggiarsi e prosegue: "Poi siamo tornati a letto... Piu' o meno un'ora dopo, mi sono svegliata con quei due soldati che andavano da una stanza all'altra. Frugavano ovunque. Perquisivano. Ci hanno detto: 'Stavolta siamo venuti per una zaciska'. Ho subito capito che ci volevano punire perche' avevamo rifiutato di dar loro la birra e mi sono pentita di non aver loro proposto dei soldi in cambio. I soldati hanno frugato la piccola farmacia - mio marito era asmatico - pensando forse di trovarvi qualche droga. Invano... Poi uno di loro e' andato nella stanza dove dormivano i nostri nipotini: quattro mesi, un anno e mezzo e cinque anni. Ho avuto paura che violentassero mia nuora davanti ai bambini, perche' li ho sentiti urlare. L'altro soldato ha ordinato a mio marito di seguirlo in cucina. Abas aveva ottantasei anni. Sento che gli propone dei soldi perche' se ne vadano tutti e due. E poi, a un tratto, un urlo. Il soldato aveva ammazzato mio marito con una coltellata. Uscito dalla cucina, mi ha portato in camera, ero pietrificata. Capisco tutto ma non riesco a opporre resistenza. Con un tono dolce e indicandomi il letto con la mano, mi dice: 'Siediti li', nonnina, chiacchieriamo un po''. E si e' seduto di fronte a me. 'Non siamo degli scellerati, siamo Omon, e' il nostro lavoro', e i bambini continuavano a piangere dall'altra parte del muro... Gli ho detto: 'Non fare paura ai bambini'. 'Non si preoccupi', mi ha risposto con voce soave. E con queste parole, senza alzarsi dalla sedia, mi spara addosso. Mia nuora mi ha raccontato che, dopo, hanno chiuso la porta piano piano e sono andati via". * Da pagina 40 Ma torniamo alla storia di Malika, vittima dell'orgia sanguinaria organizzata da quei banditi a Grozny. Malika giace immobile sul letto, al pronto soccorso dell'ospedale n. 9. L'oltraggio alle donne del palazzo era durato fino alle cinque del mattino; a Grozny, chiunque sa che i predatori lasciano il luogo del delitto all'alba, appena prima della fine del coprifuoco, per non incontrare testimoni. "Guardi le cifre", dicono i medici, "e capira' qual e' il livello di delinquenza a Grozny. Le basti questo! In quattro mesi, abbiamo ricevuto in ospedale 267 persone ferite da spari ed esplosioni, di cui la maggior parte vittime della delinquenza notturna". Una visita in questo ospedale permette di capire e di sapere quello che succede a Grozny. E' qui che finiscono tutti i drammi della capitale cecena. Mentre le autorita' parlano di "costruire la pace" in Cecenia (cosa che permette loro di riempirsi le tasche), militari associati a banditi continuano ad ammazzare e a martirizzare la popolazione. Ma cerchiamo di essere concreti. Chi e' che terrorizza i cittadini con la copertura del coprifuoco? Giunta al suo terzo anno, la guerra ha partorito un'idra mostruosa: le brigate criminali russo-cecene. Queste brigate riuniscono militari, o ex militari russi, e ceceni, ex della resistenza o altro, quasi a dimostrare che il conflitto non ha alcun fondamento morale. Queste bande, che saccheggiano e uccidono, violentano e torturano, se ne fregano altamente delle controversie ideologiche, religiose e nazionali tra Russia e Cecenia di cui, invece, si nutrono politici e politologi di Mosca. In questo "ambiente" davvero internazionale (che non ha niente a che vedere con il presunto terrorismo internazionale), conta solo il saccheggio e la razzia. Questo "ambiente" e' molto piu' potente degli stati maggiori dell'esercito o della milizia, incapaci di fermare il sanguinario rullo compressore. E' chiaro che gli appetiti di queste formazioni di delinquenti di nuovo genere non si limitano alla popolazione esangue, sarebbe ridicolo per gente cosi' "seria". Altre attivita' sono molto piu' fruttuose. Queste brigate garantiscono la "sicurezza" dei distributori illegali di petrolio, fanno la guardia ai derricks e ai punti in cui gli oleodotti sono stati perforati per rubare l'oro nero, eseguono omicidi su commissione, azioni di intimidazione, infine controllano il racket dei mercati laddove quello esercitato dai militari non sia abbastanza efficace, sempre che non se ne occupino insieme. Anche il controllo delle piazze sul mercato petrolifero illegale, vicino al centro del distretto Kurchaloi (che esisteva gia' prima dell'inizio di questa guerra), e' una fonte di guadagno particolarmente curata. Naturalmente queste bande ne controllano solo una parte, l'altra e' in mano ai militari di stanza nella zona. Tutte le persone coinvolte in questo business militar-criminale ceceno si intendono a meraviglia: ognuno vi trova il proprio tornaconto: Anche se il conflitto si concludesse (cosi' come annunciato da Mosca per motivi di opportunita'), queste brigate non metterebbero fine alla loro guerra "commerciale" e troverebbero il modo di dimostrare la necessita' che le "azioni militari" proseguano. Del resto, perche' dovrebbero cercare altri modi di guadagnare soldi quando gli affari stanno andando cosi' bene? I membri russi di queste brigate non sono reclutati solo tra coloro che hanno gia' finito il servizio militare in Cecenia e sono ormai riservisti. Tra loro ho personalmente incontrato soldati e ufficiali delle forze federali di stanza in Cecenia, doppiolavoristi e sono contemporaneamente (o di volta in volta) guardiani dell'ordine costituito e saccheggiatori. Gente che non smette di voler dimostrare che la situazione in Cecenia e' instabile e che e' indispensabile proseguire con l'"operazione antiterrorismo". * Da pagina 48 Una nazione di paria Saluto Khajev, il medico zoppo. Hanno gia' trasportato Malika in sala operatoria e Khajev mi accompagna verso l'uscita. Mi sento vuota e triste. Anche il dottore sembra vuoto e triste. In Cecenia ci si abitua alla depressione che regna sovrana, raramente si sente qualcuno ridere e si e' persa, ormai, l'abitudine di ridere di se stessi. "Siamo una nazione di paria. E anche chi ci appoggia diventa un paria". Il medico dice ad alta voce quello che sto pensando. Sembra volersi giustificare, anche questo e' un comportamento nuovo. I ceceni si sentono in dovere di giustificarsi per qualsiasi cosa. "Non si preoccupi, non e' niente. C'e' di peggio", aggiunge saggiamente Khajev. "Certo. Ma ho dimenticato di chiederle: cosa le e' successo? Come mai zoppica? Una vecchia ferita?". "No", sorride il dottore. "E' per lo stesso motivo che le ho accennato prima. Perche' sono un paria". Mi racconta che a mezzogiorno del 12 giugno 2001, giorno di festa nazionale, la sua macchina e' stata investita da un blindato russo assegnato al comando militare del distretto "Lenin" di Grozny. "Intralciava la circolazione? Si era rifiutato di lasciare passare il blindato?". "Niente affatto. E' il blindato che ha attraversato l'incrocio a tutta velocita'... Forse dovevo stare piu' attento... Ma in realta', non ho neanche avuto il tempo di vederlo. La mia piccola Jiguli e' stata ridotta in polvere, non e' rimasto altro che la targa posteriore e il cofano del portabagagli. E' un miracolo che io sia vivo. Sono stato operato qui, dai nostri medici". "Conosce il numero di targa di quel blindato? E' stata aperta un'inchiesta?". "Si', conosco il numero e l'inchiesta e' stata aperta. Ma e' solo una formalita'. Nessuno ha intenzione di denunciare l'autista". "Perche'?". "Perche' sono ceceno. E la Cecenia e' una zona in cui alcuni hanno tutti i diritti e gli altri si devono rassegnare". Ecco la risposta alla domanda piu' importante: quali sono gli obiettivi della Russia in Cecenia? E cosa si aspetta dai ceceni e dagi altri abitanti della Cecenia? La Russia neosovietica plasmata dalla macchina statale putiniana ha deciso di creare sul proprio territorio un'enclave di assenza di diritti civili. Possiamo anche chiamarla zona di residenza, o ghetto per ceceni. E' fondamentale capire questo punto. Il paese, che ha vissuto settant'anni sotto il socialismo e ballato il valzer democratico per una decina d'anni, e' pronto a ritornare, per una nuova tappa della sua storia, alla brutta tradizione dell'epoca zarista. * Da pagina 52 In realta' l'Occidente non si prende la briga di riflettere sul prezzo del "fenomeno Putin": sui diritti dell'uomo in Cecenia, che fanno parte di questo prezzo, sulla giustizia sommaria diventata la norma, sulla possibilita' dell'esistenza di un ghetto nell'Europa del ventunesimo secolo. Perche'? Non lo so davvero. Per decenni il mondo occidentale si e' proclamato difensore dei diritti umani. A un tratto, dalla fine del ventesimo secolo, l'Occidente ha adottato un doppio standard: esistono i diritti dell'uomo canonici e inalienabili per un utilizzo interno, occidentale, e altri diritti piu' labili, quasi inesistenti, per gli ex sovietici, ivi compresi i ceceni oppressi dal pesante arbitrio dei militari. Come faccio a dirlo? E' semplice. Non vedo ancora tra i leader del G7 un presidente o un primo ministro che cerchi di cambiare la situazione! Non vedo nessuno uscire dai ranghi e dire: "Diamo un ultimatum a Putin: o mette ordine in Cecenia e riprende il controllo del suo esercito, o non possiamo piu' essere amici!". Non lo fa nessuno. E cio' va benissimo al capo di stato russo, lo aiuta a preservare il suo potere personale. Ma attenzione, non bisogna confondere quel potere con tutta la Russia. Mentre l'America, l'Europa e il nostro presidente sono cosi' contenti gli uni degli altri, la Russia bella, intellettuale, potente, paga anch'essa il prezzo del "fenomeno Putin". Ognuno ha il diritto di pensare cio' che vuole della globalizzazione, dove gli interessi generali trionfano sugli interessi privati. E' in questi termini che vedo l'amore tra Europa, Stati Uniti e Putin. Ma mi si drizzano i capelli sulla testa quando penso che questo "amore" non ha un controvalore. Perche' io ricordo le facce di persone che ho conosciuto e che sono morte da martiri in Cecenia. Morti in nome di quest'intesa globale fondata sul sangue degli altri. Ricordo Aisha crivellata di pallottole vietate, le ciocche di capelli strappati dalla testa di Malika e la tomba di Vakha che aveva provato a proteggere gli abitanti del suo villaggio di Tovzeni. E mi sento come un animale braccato. * Da pagina 151 Consigli di sopravvivenza Poco a poco, verso meta' novembre, ritrovai la capacita' di percepire la realta'. In quel periodo incontrai un "vecchio" amico dei miei figli, Il'ja Lyssak, musicista nell'orchestra del Nord-Ost che era stato uno degli ostaggi. Avevamo deciso di incontrarci per una conversazione in tutta franchezza. A dire il vero, quando il 25 ottobre 2002 avevo accettato di entrare nel teatro occupato dai terroristi, avevo pensato soprattutto a Lyssak, che conoscevo fin da piccolo. Speravo che avrei potuto essergli d'aiuto. Ma alla luce di quanto succedeva in quel posto, mi ero rapidamente resa conto che era impossibile salvare qualcuno per amicizia, privando magari gli altri di una possibilita'. Riporto il nostro dialogo: - In seguito a questa azione terroristica, la Duma ha votato una legge che limita le possibilita' della societa' civile di influenzare i terroristi durante un sequestro. E' impossibile, ormai, condurre una trattativa con i terroristi. E' vietato scambiare gli ostaggi. E naturalmente e' vietato riottenerli pagando un riscatto. Che ne pensi tu che hai vissuto gli ultimi avvenimenti; quelli dal 23 al 26 ottobre, non su una poltrona da deputato della Duma ma nel ruolo di ostaggio? - Non avere contatti con gli ostaggi, non poter parlare loro, e' una pessima soluzione. I momenti piu' duri per noi erano quelli in cui eravamo tagliati fuori dal mondo esterno. Invece avevamo un bisogno folle di sentire della solidarieta'. Credo che le autorita' abbiano scelto la via facile. Hanno dimostrato che erano incapaci di condurre trattative, e ora dimostrano che non vogliono neanche imparare. Fabbricano i terroristi della Cecenia con le loro stesse mani, la Duma non vota per protestare contro questo stato di cose e nello stesso tempo il potere non ha voglia di imparare a padroneggiare situazioni di sequestro. Un gioco magnifico, dove l'unico bersaglio e' la popolazione civile! - Forse è meglio che impariamo a sbrogliarcela da soli. Che lezione hai tratto tu personalmente da questa tragedia? Come ci si deve comportare se si viene presi in ostaggio? - La cosa essenziale e' controllare tutti i movimenti e mantenere la calma. Io cercavo di analizzare tutte le varianti possibili. Seduto al mio posto, studiavo le varie eventualita': quanto tempo ci vuole per correre fino alla porta, qual e' il posto piu' sicuro in caso di attacco. Dovevo tenere presente le possibili reazioni di quelli seduti vicino a me. Con un mio vicino, analizzavamo la psicologia dei terroristi: quello si sarebbe fatto esplodere subito, quell'altro era un po' piu' lento, e la terrorista che ci controllava avrebbe potuto avere una reazione sconsiderata. Per me personalmente l'importante era controllarmi, vista la mia indole rissosa. Certe volte i boieviki si distraevano, e teoricamente avremmo potuto dar loro una botta in testa e impadronirci delle armi. Ma le conseguenze avrebbero potuto essere drammatiche, cosi' tenevo a bada i miei impulsi. - Quanto tempo avreste sopportato ancora di rimanere seduti in quel teatro ad aspettare non si sa che? - Credo un paio di giorni al massimo. Poi la gente avrebbe detto: "Sparateci e andate al diavolo!", e avrebbe cominciato ad alzarsi senza osservare piu' nessuna precauzione. Io avrei certamente cercato di approfittare della situazione per impadronirmi di un'arma e tentare una sortita... - E' bene che gli ostaggi parlino ai terroristi, o assolutamente no? - E' meglio parlargli. Quando ti rivolgi alla persona che ha intenzione di nuocerti, hai una chance di cambiare qualcosa. Nella nostra zona di sala avevamo parlato con i ceceni. Avevo l'impressione che, almeno durante la conversazione, arrivassimo a calmare la loro aggressivita'. Mi chiedevo se queste persone cosi' risolute a commettere un crimine fossero altrettanto capaci di fare marcia indietro. Del resto ci sono stati casi in cui i terroristi, dopo lunghe e difficili trattative, si sono arresi... Succede. Non bisogna assolutamente impedire i contatti, in nessun caso! - Pero' hanno sparato alla prima vittima, una giovane donna, proprio perche' lei si era rivolta ai terroristi! Era un'esecuzione dimostrativa, per dare un esempio agli altri ostaggi? - No, l'hanno semplicemente portata fuori e fucilata. Le porte erano tutte chiuse tranne una, vicino a dove ero seduto io. Ho visto tutto cio' che il resto della sala non ha visto. La ragazza aveva un comportamento impossibile, cercava la morte, l'hanno visto tutti. Era totalmente ubriaca e umiliava i terroristi: "Cos'e' questa pagliacciata? Cosa vai farneticando tu? Pensi di farmi paura con quel fucile e quella maschera?". Allora uno di loro ha detto: "Fucilatela". L'ho sentito. Lei ha detto: "Avanti, portami fuori. Forza!". La gente intorno supplicava: "No, vi prego...", ma loro l'hanno spinta avanti, le hanno fatto superare la porta e le hanno sparato con un kalashnikov. Era la prima esecuzione che vedevo in vita mia. Ovviamente, a partire da quel momento abbiamo capito con chi avevamo a che fare. Prima di questo episodio pensavamo che ci potesse essere una via d'uscita pacifica. - Era possibile scappare, in quella situazione? - Non credo che sarebbe stato giusto farlo. Due ragazze sono riuscite a scappare dalla toilette, ma la cosa ha causato agli altri parecchi problemi. Sasa, il nostro tecnico, ha avuto piu' volte l'occasione di fuggire, ma ha evitato di farlo perche' sapeva le ripercussioni che la sua fuga avrebbe avuto sugli altri. - Come mai ha avuto queste possibilita' di fuga? - I terroristi non riuscivano assolutamente a orientarsi all'interno del teatro. E' un errore credere che la loro azione fosse stata preparata con cura: non avevano neanche la pianta dell'edificio! Non sapevano, per esempio, dove si trovassero i pannelli di controllo dell'illuminazione e come azionarli. Hanno preso Sasa perche' li accompagnasse. Li ha condotti in certi punti dove gli sarebbe bastato fare due passi nell'oscurita' per riacquistare la liberta', ma la gente rimasta in sala ne avrebbe potuto soffrire. - Vuoi dire che la salvezza individuale e' egoista, che bisogna fare gioco di squadra? - Bisogna sopravvivere insieme. La cosa piu' orribile in questa situazione e' restare soli. La prima mattina un uomo ha tirato fuori un panino da un tovagliolino e l'ha mangiato, e una terrorista ha detto ad alta voce: "Guardate, si e' mangiato il panino senza spartirlo...". Allora un'altra donna ha tirato fuori dalla borsa una tavoletta di cioccolato e l'ha divisa in pezzetti per i suoi vicini, avevano tutti fame. Se le persone si trovano in una stessa situazione, devono condividerla. - C'e' qualcuno che ha cercato di mettersi d'accordo con i terroristi a titolo individuale? - Si'. Posso parlare solo di quelli che si trovavano nel mio campo visivo. Non potevamo guardare la sala; non potevamo girare la testa. Un uzbeko si e' avvicinato a un terrorista e gli ha detto: "Siamo musulmani tutti e due, siamo fratelli". Il terrorista gli ha puntato l'arma contro e gli ha detto: "Siediti al tuo posto, fratello". Si e' avvicinato un altro: "Lasciami andare via. Sono musulmano, ho una famiglia, dei bambini". E il terrorista gli ha risposto: "Se sei musulmano, recita una preghiera". Ora, questo tipo viveva a Mosca e non conosceva nessuna preghiera. Quindi respinto anche lui. In seguito l'ho rincontrato in ospedale e mi ha detto: "Se l'avessi saputo, avrei imparato due o tre preghiere". C'era anche un uomo, molto chic, catena d'oro e anelli alle dita. Propose loro del denaro, e una terrorista gli disse: "Accanto a te c'e' una donna, e non ha denaro. Perche' dovrei rilasciare te e non lei?". E non e' stato liberato. - E le donne? Non hanno chiesto di lasciarle andare via? - Le donne piangevano e supplicavano di lasciar andare via i bambini, ma non hanno chiesto niente per loro stesse. - Qual e' stato il momento piu' difficile? - All'inizio. Poi ho cominciato ad adattarmi e a osservare chi era chi, ad analizzare il comportamento dei boieviki. - Gli altri facevano lo stesso? - Non tutti. Ero seduto vicino a uno dei nostri tecnici: ha dormito quasi tutto il tempo durante questi tre giorni. Era la sua reazione. E' lo stesso tipo a cui i ceceni hanno reso mille dollari. L'hanno arrestato in un piccolo locale al di sopra delle scene, da dove controllava l'illuminazione. Prima gli hanno levato soldi e telefonino, poi glieli hanno resi. - Perche' rendere tutto se avevano l'intenzione di morire? - Non lo so. E perche' portare le maschere per tre giorni di seguito, se avevano l'intenzione di morire? Una terrorista ci ha detto che a casa aveva lasciato un bambino di un anno e che non era venuta qui per morire, ma per ottenere "la liberazione della sua terra". Molte cose sono poco chiare... Guardando la sala, la gente elegante, la scena, quella donna ha detto: "Vi divertite, qui. Da noi e' otto anni che non abbiamo cose del genere". Il secondo giorno, il capo e' andato in balconata e vi ha trovato un generale del Mvd. Si e' messo a gridare, allora, facendosi sentire da tutta la sala: "Guardate un po' chi c'e'! Un generale di stato maggiore! Ho sognato tutta la vita di catturare un generale". Era euforico, era una gioia enorme per lui. I ceceni hanno messo il generale e la sua famiglia da un'altra parte, sotto sorveglianza speciale. - E' sopravvissuto, questo generale? - Si'. E anche sua moglie e suo figlio, mentre la figlia e' morta. Erano in quattro a vedere lo spettacolo. Uno dei miei amici si e' ritrovato con il generale all'ospedale n. 13. Della nostra orchestra e' morta una persona su tre. Due clarinettiste, una violinista, un trombettista, due violoncellisti, un flautista e un tamburo. Tutti morti a causa del gas. Erano tutti bravi musicisti. E' talmente difficile formare un bravo musicista... Bisogna vivere in un ambiente che ti sostiene, e poi studiare molto e lavorare enormemente, fin dall'infanzia. - Erano tutti giovani? - No. Fedor Ivanovic, il trombettista, aveva una certa eta'. E uno dei clarinettisti, Sergej Pavlovic, anche. Il trombone, Misa, e' uscito dall'ospedale e il giorno dopo ha avuto un attacco cardiaco. - Lo capisci perche' questa gente e' stata sacrificata? - No. Li ha uccisi il gas. Non sono morti in sala, ma dopo. Non avevano alcun rapporto con la guerra in Cecenia, non hanno mai avuto armi tra le mani. Io, per esempio, detesto qualsiasi arma, da fuoco o meno. Le armi non sono una soluzione. Chissa' se uno diventa musicista perche' e' incapace di fare la guerra... * Da pagina 162 Che vergogna! Sono tutti una manica di ipocriti. L'idea secondo cui al processo l'avvocato Trunov non dovrebbe difendere gli interessi dei suoi clienti ma quelli delle autorita', obbedendo alla loro volonta', viene evocata pubblicamente. La societa' commette di nuovo un errore tragico e totalmente immorale rifiutando, una volta di piu', di riflettere. Ha gia' fatto lo stesso errore in Cecenia, ignorando la situazione reale che vi regna dall'inizio della seconda guerra. La maggior parte degli abitanti della Cecenia si sente in un vicolo cieco. Quando dei figli, dei padri, dei fratelli vengono portati verso una destinazione sconosciuta senza che si sappia perche', le autorita' militari e civili dicono alle loro famiglie: "Basta. Smettetela. Non li cercate piu'. Sono in gioco gli interessi supremi della lotta antiterrorista". E questi funzionari e militari scoppiano di rabbia quando le madri affrante esigono di sapere perche' i loro figli sono stati uccisi. Ma la nostra societa' e' stata zitta. La schiacciante maggioranza guardava con indifferenza alla Cecenia, fino a che non e' successo il fatto del Nord-Ost. Il potere ha applicato la stessa logica alle vittime dell'azione terrorista e alle loro famiglie. E' come se avessero detto loro: "Smettetela. Dimenticate. Bisognava farlo. Gli interessi superiori hanno la precedenza sulle vostre vite individuali". Con le vittime del Nord-Ost, le autorita' si sono comportale alla stessa maniera che nei confronti della popolazione cecena durante questi tre anni e mezzo di guerra, anche se qui, alla fine, hanno dovuto pagare delle indennita' seppur irrisorie, dai cinquantamila ai centomila rubli. In Cecenia, ovviamente, di indennizzi non se ne parla. E la societa'? E il popolo? In linea generale non ci sono slanci di compassione ne' proteste sociali che le autorita' si sentano in dovere di prendere in considerazione. Al contrario, la societa' perversa reclama ancora una volta benessere e tranquillita' al prezzo della vita altrui. Ed elude la tragedia del Nord-Ost preferendo credere al lavaggio del cervello di stato anziche' alla parola di un vicino che e' stato tenuto in ostaggio. "Abbiamo paura. Ci hanno gia' fatto capire che puo' succederci di tutto, se insistiamo troppo. Abbiamo paura... Non per noi, per i nostri figli minori", mi dice Tatjana salutandomi. Tutta la verita' sta qua. E' un condensato della nostra storia contemporanea. Eccola la nostra "democrazia", dove e' vietato richiedere trenta milioni di rubli per la scomparsa di un essere umano. Ancora una volta nella storia russa, la nostra vita non vale niente. (Parte prima - segue) ============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 275 del 17 settembre 2009 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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